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Videogioco e memoria europea: casi studio con lo sguardo rivolto a est

Videogioco e memoria europea: casi studio con lo sguardo rivolto a est
Abstract

L’articolo intende riflettere su come il videogioco sia oggi tanto una via di espressione del discorso pubblico storico quanto un elemento capace di offrire prospettive nuove e originali, a volte in contrasto con esso. Questo avviene anche in riferimento alle politiche della memoria. L’analisi dello scenario dell’est Europa, e in particolare di Polonia e soprattutto Repubblica Ceca, intende contribuire ad aprire una finestra su questa particolare realtà, spesso poco conosciuta in Italia eppure interessante palcoscenico di produzione e sperimentazione. Per fare ciò verranno più o meno brevemente presi in esame alcuni casi studio: The Witcher 3, This war of mine, Kingdom come: deliverance, Last train home, Attentat 1942 e Svoboda 1945.

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The article intends to reflect on how the video game can today be as much an avenue of expression of historical public discourse as an element capable of offering new and original perspectives, sometimes at odds with it. This is also the case in reference to the politics of memory. The analysis of the Eastern European scenario, and in particular Poland and especially the Czech Republic, is intended to help open a window on this particular reality, often little known in Italy yet an interesting stage for production and experimentation. To do so, some case studies will be more or less briefly examined: The Witcher 3, This war of mine, Kingdom come: deliverance, Last train home, Attentat 1942 and Svoboda 1945.

double blind peer review double blind peer review Questo articolo è stato sottoposto a revisione in doppio cieco (double blind peer review)

Il Videogioco come Strumento di Soft Power

Il concetto di soft power, introdotto dal politologo Joseph Nye,[1] si riferisce alla capacità di influenzare altri stati o culture attraverso strumenti non coercitivi, come la cultura, i media e la diplomazia pubblica. I videogiochi, come medium globale, sono diventati uno dei più potenti strumenti di soft power, in grado di plasmare percezioni, diffondere valori e rafforzare l’influenza di determinate nazioni.

Giochi come Final Fantasy e The Legend of Zelda, ad esempio, hanno enormemente contribuito alla diffusione della cultura e dell’estetica nipponica nel mondo.[2] Il Giappone d’altro canto è uno dei maggiori paesi produttori e anche uno dei principali mercati di consumo dell’industria dei videogames.

E tuttavia, il caso più evidente ed emblematico di soft power in ambito videoludico (e non solo) è con tutta evidenza quello statunitense. Questo è particolarmente evidente quando si approcciano le simulazioni belliche, autentico volano di cultura militarista e strumento imprescindibile della normalizzazione del conflitto come strumento di risoluzione delle crisi internazionali. Non è per altro un mistero né un segreto la lunga tradizione di collaborazione e strategie comuni tra industria videoludica e vertici militari a stelle e strisce nel costruire prodotti che in qualche modo anestetizzano l’uso della violenza e la legittimano se perpetrata nei confronti di alcuni soggetti, percepiti come “altri” in una prospettiva prettamente occidetale e molto spesso esclusivamente made in USA.[3] Titoli come Call of Duty e Battlefield presentano sempre più spesso prospettive occidentali sui conflitti globali, influenzando il modo in cui il pubblico percepisce la geopolitica.

In questi giochi il passato non è soltanto un’ambientazione asettica in cui far sviluppare l’esperienza ludica, bensì un attore influente del messaggio che si vuole trasmettere.[4] Usando il passato si possono inserire nemici più “facili” da combattere (uccidere un nazista è una scelta moralmente più accettabile, quasi giusta, agli occhi di chi gioca) o costruire scenari più lontani nel tempo e quindi scevri di implicazioni politiche.[5] Giocare un evento o un periodo storico trasmette inoltre l’impressione di intervenire in qualcosa di autentico, fornendo quindi una prospettiva più allettante per i videogiocatori e le videogiocatrici. Il concetto stesso di soft power viene qui superato e si entra in un vero e proprio meccanismo di propaganda, più o meno esplicita.

Il videogioco in Europa

Mentre gli Stati Uniti investivano nei videogames come strumento di soft power, l’Europa rimaneva sostanzialmente un soggetto passivo, per altro a lungo diviso in due sfere di influenza politica, che erano anche sfere di influenza economica e culturale. A ovest della cortina di ferro il vecchio continente è stato fino agli anni Novanta soprattutto un mercato di consumo, che ha per lo più introiettato impulsi provenienti da oltreoceano.

Quello che accadeva a est è invece rimasto a lungo un mistero. Nell’immaginario occidentale domina tuttora un’idea di chiusura, ferreo controllo e generalizzata arretratezza industriale e culturale. L’unico rilievo in ambito videoludico pare essere stata la vicenda di Tetris, che per altro rappresenta (o è rappresentata come) uno stereotipo consolidato del divario tra capitalismo e comunismo, in cui non manca neppure il tipico spionaggio industriale da Guerra Fredda.[6]

Studi più o meno recenti hanno mostrato invece una realtà molto più complessa. Di certo nei Paesi del blocco sovietico è mancata la pulsione alla commercializzazione dei prodotti videoludici, ma come ha evidenziato Jaroslav Svelch:

Czechoslovakia – similar to neighboring socialist countries […] – was thus a home to an intriguing kind of industrialized consumerist society with a very narrow selection of things to consume but a strong to-do yourself movement. At the same time, the country‘s authorities had long touted technological progress and invested into research and technical education, creating thousands of potential microcomputer enthusiasts.[7] 

[La Cecoslovacchia – simile ai paesi socialisti vicini […] – era quindi sede di un tipo interessante di società consumistica industrializzata, con una selezione molto ristretta di beni da consumare, ma con un forte movimento fai-da-te. Allo stesso tempo, le autorità del paese avevano a lungo promosso il progresso tecnologico e investito nella ricerca e nell’istruzione tecnica, creando migliaia di potenziali appassionati di microcomputer.]

E ancora:

Western may think that the Communist party of Czechoslovakia had a plan for games – either that they were banned, ora that they were used as tools of ideological propaganda. But, in fact, the party was not interested. Communist technocrats saw computer as industrial machines and overlooked their potential impact on culture and entertainment.[8]

[Gli occidentali potrebbero pensare che il Partito Comunista della Cecoslovacchia avesse un piano per i videogiochi, immaginando che fossero vietati o utilizzati come strumenti di propaganda ideologica. In realtà, il partito non era interessato. I tecnocrati comunisti vedevano i computer come macchine industriali e ne sottovalutavano l’impatto potenziale sulla cultura e sull’intrattenimento.]

Le considerazioni di questo sguardo “interno” alla realtà cecoslovacca possono essere applicate a tutto ciò che stava a est della cortina di ferro, pure se con gradienti differenti. E sottolineano due elementi cardine: la diffusione di una buona media literacy in ambito tecnologico e la mancanza di un controllo centralizzato da parte del governo sulla produzione videoludica, per lo più amatoriale. D’altro canto all’epoca le potenzialità culturali e di intrattenimento del videogioco erano largamente sottostimate anche nell’Europa occidentale.

La situazione è radicalmente mutata negli ultimi decenni. Come certificato dal recente rapporto dell’European Audiovisual Observatory,[9] il vecchio continente si è trasformato sempre più in un ambiente creativamente vivace, in un caleidoscopio di produzioni piccole o grandi, indipendenti o mainstream. I videogiochi europei sono oggi capaci di offrire a ogni livello prospettive originali e plurali. Ciascun paese è portatore di una prospettiva unica, capace di arricchire il panorama globale e molto spesso di sfuggire a stereotipi e canoni in voga nel passato. Francia (con Ubisoft e i finanziamenti governativi), Regno Unito e Svezia (con la Paradox interactive) sono ormai leader nel settore, ma in questo scenario il ruolo dei Paesi dell’est – per le ragioni poc’anzi descritte – è stato ed è determinante, tanto da non potersi più definire “soggetti emergenti”.

Due sono i casi più significativi: Polonia e Repubblica ceca. E sono anche due casi in cui è interessante esaminare come il linguaggio videoludico possa introiettare e rilanciare, più o meno organicamente, il discorso pubblico storico (inclusi gli usi e abusi), le politiche della memoria governative, financo le pulsioni nazionaliste. Il rischio a tal proposito è piuttosto elevato, come scrive Zulkarnain (riprendendo Michael Billig):[10]

Commonplace expressions of national identity mediated by popular media technologies such as video games serve as the basis for the success (or the failure) of nationalistic political movements. Daily exposure to reproduction of nationhood leads members of a national community to share certain political sentiments and prepare themselves for extreme action on the basis of these sentiments.[11]

[Le espressioni comuni dell’identità nazionale, mediate da tecnologie dei media popolari come i videogiochi, costituiscono la base del successo (o del fallimento) dei movimenti politici nazionalisti. L’esposizione quotidiana alla riproduzione della nazione porta i membri di una comunità nazionale a condividere determinati sentimenti politici e a prepararsi ad azioni estreme sulla base di questi sentimenti.]

La memoria in Europa

Prima di entrare nel dettaglio degli scenari videoludici polacco e ceco, occorre forse dare qualche coordinata sull’evoluzione della memoria in Europa, perché essa ha un grande impatto soprattutto sulla sua porzione orientale.

Dopo il 1989, i sistemi politici dell’Europa centrale e orientale sono tornati alla democrazia e a sistemi pluripartitici. Ogni paese ha affrontato il passato in modi diversi. Alcuni hanno adottato leggi per la de-comunistizzazione (come la Polonia e l’Ucraina), mentre altri hanno avuto un percorso più graduale o persino nostalgico verso certi aspetti del passato sovietico, fino a sviluppare fenomeni come l’”Ostalgie” in Germania Est o il “Yugo-nostalgia” nei Balcani, che sono veri e propri sentimenti di rimpianto. Questo è avvenuto soprattutto per le generazioni più anziane, che hanno vissuto sotto il comunismo e che spesso hanno una visione più sfumata rispetto ai giovani, che crescono in democrazie più vicine all’Occidente.

Ciò che però accomuna tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico, pur sé con diversi gradienti, è la revisione delle narrazioni storiche. Secondo lo storico Tony Judt,[12] la memoria collettiva precedente si basava su due pilastri: l’enfatizzazione della resistenza antinazista e la criminalizzazione della Germania.[13]

Con la caduta del muro di Berlino si affermano progressivamente due nuovi paradigmi. Da un lato, la Shoah acquisisce centralità come memoria transnazionale, indipendente dall’antifascismo. Dall’altro, emerge il «cosiddetto paradigma antitotalitario, incentrato sull’equiparazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo»[14], promosso dai paesi ex comunisti (Polonia, Ungheria, Paesi baltici). Questi Paesi, in cui rimane forte la sensazione di essere stati “assimilati” dall’Europa occidentale piuttosto che riconosciuti nella loro specificità storica, chiedono il riconoscimento della loro esperienza sotto il comunismo, sostenendo che i due totalitarismi abbiano generato crimini simili e siano quindi “totalitarismi gemelli”.[15] In questo contesto l’esperienza comunista è raccontata quasi sempre come

un fenomeno estraneo alla storia nazionale, importato e imposto dall’esterno, installatosi e mantenutosi al potere esclusivamente con la forza […] , una specie di catastrofe naturale, una tragedia provocata da forze oscure di cui la società non è responsabile [bensì] vittima innocente e […] protagonista di un’ostinata resistenza.[16]

Questa fase ha coinciso anche con una sorta di “riscoperta” del fatto che nella Seconda guerra mondiale «le perdite militari furono inferiori al numero di vittime civili provocate da persecuzioni, deportazioni, genocidi, bombardamenti, violenze».[17]  È andata quindi sgretolandosi un po’ ovunque la mitologia costruita intorno alla figura dell’antinazista, tendenzialmente combattente (partigiano o soldato che sia), a vantaggio del paradigma vittimario, in base al quale la memoria pubblica europea si concentra sulle vittime, siano esse della Germania e dei suoi alleati o dell’Unione sovietica e dei suoi governi satellite.

Gli effetti di questa evoluzione sono rintracciabili ovunque, dalle date del calendario civile alla produzione cinematografica, financo – per l’appunto – nei videogiochi.[18] Chiusa questa parentesi, dunque, è possibile esaminare con occhio più attento quel che avviene in Polonia e Repubblica ceca.

Lo scenario videoludico polacco

La Polonia si è consolidata nel recente passato come un centro nevralgico per lo sviluppo di videogiochi. Secondo polskigamedev.pl,[19] gli sviluppatori polacchi lanciano oltre 400 videogiochi all’anno, grazie all’eccezionale alfabetizzazione informatica del paese e alla presenza di numerosi corsi di programmazione, arte e design. Circa metà della popolazione polacca è appassionata di videogiochi, e il governo ha ufficialmente riconosciuto l’industria videoludica come un orgoglio nazionale.[20]

Il Paese deve oggettivamente molto al successo della saga fantasy di The Witcher, attraverso la quale esso ha rafforzato la propria immagine culturale all’estero. Il gioco (e poi la serie TV) basato sui romanzi di Andrzej Sapkowski[21] ha reso la mitologia e la storia polacca riconoscibili a livello globale,[22] con il governo polacco che lo ha persino usato come simbolo di soft power nelle sue iniziative diplomatiche.

Il caso di The Witcher, e in particolare del terzo capitolo della saga,[23] travalica persino il semplice recupero delle tradizioni. Il gioco è ambientato in una sorta di Medioevo fantasy e alternativo, con il protagonista che si muove in una zona devastata dalla guerra tra due “superpotenze”: una guidata da un despota razzista che perseguita tutti i non umani (elfi, nani, ma anche maghi e streghe), l’altra completamente obnubilata dal culto quasi fideistico del leader. Nel mezzo, un gruppo di sperduti partigiani locali che cercano (e possono, se il giocatore effettua determinate scelte) riconquistare la loro indipendenza. L’analisi qui accennata meriterebbe ben altro approfondimento,[24] e tuttavia anche questi pochi riferimenti sono sufficienti per far intuire come la vicenda rievochi esplicitamente quella della Polonia durante la Seconda guerra mondiale, contesa e divisa tra Germania nazista e Unione sovietica. L’idea di una Nazione vittima – più di ogni altra – dei due opposti totalitarismi è per altro uno dei principali capisaldi della narrazione memoriale polacca fin dagli ultimi frangenti del conflitto e ha trovato ulteriore linfa negli ultimi decenni in cui, come si è accennato in precedenza, si è cercata una radice memoriale e ideologica comune europea che potesse valere sia per i paesi occidentali che per quelli dell’ex blocco sovietico e che si è tradotta da un lato nel paradigma antitotalitario e dall’altro nel paradigma vittimario.

Il secondo dei due è per altro il fulcro dell’altro esempio celebre del panorama videoludico polacco, ovvero This war of mine.[25] Malgrado non sia precisamente situato storicamente, a detta dello stesso creatore Wojciech Setlak il gioco attinge a diversi avvenimenti del passato europeo[26] e ha particolare assonanza con l’assedio di Sarajevo e la guerra dei Balcani degli anni Novanta. Usi pubblici e narrazioni nazionali non sembrano però qui trovare spazio. A tutti gli effetti, This war of mine è uno dei più efficaci e immersivi esempi di antimilitarismo, di critica alla guerra e alla violenza in tutte le sue forme, tanto da meritarsi l’inclusione nel MoMA di New York.[27]

Più in generale, malgrado Il governo della Polonia promuova il gaming come un elemento dell’identità culturale nazionale, i prodotti videoludici polacchi sembrano rivendicare una certa indipendenza e originalità rispetto al potere politico e una certa distanza dalle sue scelte o dalle idee nazionaliste da esso propugnate, benché non si possa comunque parlare di vera e aperta contrapposizione.

Lo scenario videoludico della Repubblica Ceca

La Repubblica Ceca ha contribuito all’arricchimento dello scenario videoludico europeo con prodotti di rilievo e pluripremiati a livello internazionale, come la serie Euro Truck Simulator[28] e Kingdom Come: Deliverance.[29]

Proprio Kingdom Come: Deliverance mostra una delle specificità maggiori sia dello scenario videoludico che della narrazione memoriale della Repubblica ceca. Il gioco è ambientato nella Boemia del XIV secolo e inizia con la morte di re Carlo IV, imperatore del Sacro romano impero. La descrizione del suo regno che troviamo nei titoli di testa, recita: «il territorio su cui regnava da Praga si espanse e i suoi sudditi vissero in pace e prosperità».

Filmato introduttivo del gioco Kingdom Come: Deliverance (War Horse Studios, 2018).

In questa narrazione, dunque, Praga è il centro dell’Impero e il governo di Carlo IV è descritto come un idillio, una sorta di età dell’oro che in effetti rispecchia l’opinione comunque popolare sul sovrano.

Questa fascinazione rispetto ai secoli in cui le terre ceche erano incluse nei dominii imperiali si ritrova persino nel Museo del comunismo di Praga,[30] per quanto riferita a qualche secolo dopo: per l’esattezza al governo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, anch’essa – tra le altre cose – sovrana di Boemia.

Uno dei primi pannelli del Museo del Comunismo di Praga.

È perlomeno curioso che in un centro espositivo legato a un’esperienza del tutto novecentesca si faccia menzione e si celebri qualcosa che è avvenuto due secoli prima, come se le radici di un orgoglio e di una identità nazionale, anche in questo caso, risiedano più nel periodo del Sacro romano impero, quando uno stato ceco neppure esisteva, che nel primo o secondo dopoguerra del Novecento.

Non c’è qui lo spazio necessario per affrontare la complessa questione dell’identità nazionale ceca, del difficile connubio tra quella boemia e quella morava, per lunga parte del Novecento unite a una terza identità, quella slovacca.[31] E tuttavia, tanto il periodo del Regno di Boemia quanto la dominazione asburgica rappresentano due capisaldi imprescindibili di tale identità, unitamente a un terzo elemento, ovvero l’indipendenza del 1918, che per altro può apparire contraddittorio, considerando che l’indipendenza è stata ottenuta proprio dal dominio asburgico.

Di questo particolare momento parla – o per meglio dire, dovrebbe parlare – un altro prodotto videoludico recente, ovvero Last Train Home,[32]  pubblicato dagli austriaci di THQ Nordic ma creato dagli sviluppatori cechi di Ashborne Games. Il gioco ripercorre le vicende della Legione di soldati cechi e slovacchi formata da emigrati e prigionieri di guerra in Russia nel 1914 che partecipa alla Prima guerra mondiale a fianco proprio dell’impero zarista. Il gioco inizia dopo Rivoluzione d’ottobre (1917) e gli accordi di Brest-Litovsk (marzo 1918) che impongono alla legione il ritorno in patria imbarcandosi a Vladivostok, attraversando quindi in treno la Russia sconvolta dalla guerra civile tra “rossi” e “bianchi”. Pur se ambientato durante la Grande guerra, il gioco è quasi totalmente privo di aspetti afferenti alla collective memory o popular memory del primo conflitto mondiale:[33] non si parla di trincee, gas o no man’s land, solo inizialmente si percepisce una velata critica nei confronti degli ufficiali che hanno mandato al martirio giovani soldati innocenti. Last Train Home in effetti è proiettato in un tempo divergente dal tempo di ambientazione, in un dopoguerra più somigliante al secondo che al primo. Il potenziale conflitto tra contrapposti riferimenti identitari – dominio asburgico e indipendenza dallo stesso – di fatto non sussiste, perché il gioco celebra e rivendica la ribellione contro i sovietici. A differenza di quanto si è visto per la Polonia, l’est Europa non è una terra contesa tra i due totalitarismi e, anzi, gli stereotipi generalmente applicati ai nazisti nell’universo videoludico[34] (spietatezza e sadismo fuori dall’umano) sono qui cuciti perfettamente addosso ai bolscevichi. Con un surplus non indifferente: un giudizio impietosamente negativo sull’intelligenza e le capacità di questi ultimi.

In uno dei primi momenti del gioco, quando ancora si sta cercando di prendere le misure al gameplay, il giocatore si trova di fronte a un mulino incendiato.

Una schermata di gioco di Last Train Home (Ashborne Games – THQ Nordic, 2023).

Il commento del maggiore Gadzik è impietoso: «la guerra è finita, quale persona sana di mente potrebbe bruciare un mulino?» A farlo sono stati evidentemente i bolscevichi, che quindi – per sillogismo – non sono persone molto dotate intellettualmente.

In questo, come nel resto del gioco, traspare la medesima visione che permea – ancora una volta – il Museo del Comunismo a Praga. L’esposizione dedica infatti tutta la corposissima parte centrale a quello che viene definito “l’incubo”, ovvero la repressione del regime. Traspare un appiattimento deciso sulla narrazione est europea del comunismo come male assoluto, dove «terrore e violenza sono presentati come elementi essenziali e permanenti […] mentre vengono ignorati gli aspetti che potrebbero figurare all’attivo»[35] dei sistemi comunisti. In questo caso, per altro, v’è davvero scarsa considerazione della specificità ceca: si accenna appena alla Primavera di Praga, alla figura di Jan Palach e alle istanze pressanti di cambiamento provenienti dai movimenti di opposizione interna.[36] Per contro, tutta la prima porzione prova a ricostruire vita e costumi durante il governo comunista, sottolineandone però costantemente l’incompetenza, i limiti organizzativi e i deficit intellettuali, con un tono a volte ironico, quando non schiettamente denigratorio.

Ancora una volta la simmetria tra museo e prodotto videoludico risulta piuttosto evidente.

Museo del Comunismo di Praga: didascalia della cabina telefonica in uso nei villaggi in cui la linea non giungeva all’interno delle abitazioni durante il regime comunista. Il fatto è giudicato, senza troppi giri di parole, come tipico dell’arretratezza sovietica, benché persino in Italia, negli anni Ottanta, vi erano luoghi in cui la linea telefonica non arrivata all’interno delle singole abitazioni.

La Charles Games e la Charles University

Un ultimo caso significativo e degno di menzione riguarda il dittico composto da Attentat 1942[37] e Svoboda 1945,[38] creati dalla Charles Games, costola della Charles University di Praga.

Entrambi i giochi si sviluppano soprattutto tramite interviste a testimoni, interpretati da attori e attrici che seguono tuttavia un canovaccio ricavato da testimonianze autentiche. Durante il loro racconto vi sono filmati d’epoca, immagini e anche minigiochi – realizzati con lo stile della graphic novel – che consentono di sperimentare molto efficacemente le dinamiche storiche rispettivamente dell’occupazione nazista (e delle conseguenze dell’assassinio di Reinhard Heydrich) e dell’immediato secondo dopoguerra.

La ricchezza di fonti documentali usate in ambedue i prodotti è impressionante e conferma come

In both games, maintaining historical accuracy and authenticity was crucial to the development team […] avoiding schematizations common to video game treatment of historical events, especially in war-themed mainstream first-person shooters[39]

[In entrambi i giochi, mantenere l’accuratezza storica e l’autenticità è stato fondamentale per il team di sviluppo […] evitando le schematizzazioni comuni nel trattamento videoludico degli eventi storici, specialmente nei tradizionali sparatutto in prima persona a tema bellico.]

E tuttavia, malgrado questa grande attenzione, è piuttosto facile percepire quali rielaborazioni storiche e memoriali siano tanto l’origine quanto il risultato sia di Attentat 1942 che di Svoboda 1945.

La popolazione ceca è per lo più (vedremo poi l’eccezione) una vittima dei due totalitarismi che dal 1938 in avanti hanno strangolato il Paese. Se in Svoboda 1945 può apparire comprensibile, visto che le vicende rievocate appartengono alla fine del secondo conflitto mondiale, è decisamente meno coerente che ciò avvenga anche in Attentat 1942, che racconta soprattutto della morte di Heydrich e della deportazione degli ebrei. Certo contribuisce il fatto che nell’esperienza ludica le interviste abbiano luogo ai giorni nostri, ma rimane comunque peculiare riscontrare elementi critici riferiti al periodo comunista in un gioco che dovrebbe far rivivere soprattutto i traumi e i drammi dell’occupazione tedesca.

Vi è poi un altro elemento interessante e, se possibile, ancora più significativo in Attentat 1942. Quasi ogni volta che viene menzionata l’uccisione di Heydrich per mano dei partigiani cechi, il giudizio è impietoso e non si fa altro che sottolineare come quell’azione abbia scatenato feroci rappresaglie ai danni dei civili. La tesi di fondo, esplicitata anche da uno dei personaggi, è che sarebbe stato meglio non fare nulla, non ribellarsi, in qualche modo rimanere “vittime”. Simili rielaborazioni non sono rare, anzi: anche in Italia diverse comunità locali hanno per lungo tempo addossato la colpa delle stragi nazifasciste al movimento di liberazione[40] e la campagna contro chi ha posizionato l’ordigno in via Rasella ha una tradizione molto lunga e sempreverde. La specificità del caso ceco, e come si è accennato più in generale dell’est Europa, riguarda però il sovvertimento valoriale frutto della caduta del muro di Berlino. Per decenni infatti la retorica pubblica sovietica ha celebrato coloro che avevano combattuto contro il nazismo (partigiani o soldati) come eroi senza macchia e senza paura, costruendo monumenti e organizzando celebrazioni in loro onore.[41] Crollato quel sistema politico, di conseguenza è franato anche il sistema valoriale di cui era propugnatore. Non si intende qui, come già si è accennato in precedenza, approfondire il tema, di per sé denso, dell’ormai conclamato dominio del paradigma vittimario nella costruzione memoriale, condivisa oppure no.[42] Si vuole invece sottolineare ancora una volta come le istanze del discorso pubblico storico, memoriale e politico si rispecchino all’interno di prodotti videoludici.

Per contro, sia Attentat 1942 che Svoboda 1945 hanno il grande merito di non fermarsi a una narrazione più superficiale. Innanzitutto entrambi i giochi permettono di esplorare la complessità e la frammentarietà delle fonti orali, della memoria e dei ricordi personali, generando tensioni produttive che rendono il racconto più coinvolgente e sfaccettato. Attraverso i loro dialoghi, inoltre, essi si sforzano di aprire nuovi fronti di riflessione su finestre meno conosciute o solitamente (e volutamente?) trascurate della storia nazionale ceca: il collaborazionsimo con il governo nazista; l’espulsione forzata di intere famiglie di Sudeti dalla Cecoslovacchia dopo la Seconda guerra mondiale; le esperienze di discriminazione e abusi subiti dalla comunità rom nel periodo nazista, comunista e nell’era postsocialista; il Porrajmos.[43] Da questo sono scaturiti, in particolare nel caso di Svoboda 1945, vivaci dibattiti pubblici (non senza polemiche)[44] che hanno in qualche modo costretto la popolazione ceca a riflettere e rinegoziare il proprio rapporto con il passato.

Conclusioni

Come evidenziato dunque, i videogiochi sono diventati una delle forme di diffusione e divulgazione della storia più diffuse e di maggior successo. Questo li rende potenzialmente molto influenti nei contesti informali[45] e fondamentali nella costruzione della memoria storica collettiva.[46] Essi non si limitano a rappresentare il passato, ma lo rendono esperienziale attraverso le loro meccaniche interattive. Pur non condividendo la definizione (a mio avviso di difficile applicazione) di historical game,[47] si può certamente parlare di historical play o di videogiocare storicamente,[48] sottolineando come attraverso l’esperienza ludica (digitale ma non solo) i giocatori non solo osservino la storia, ma vi partecipino attivamente, influenzando la loro percezione della realtà storica. Certo un’esperienza videoludica è fatta anche di rappresentazioni, di immagini o video, ma «il modo in cui interagiamo col sistema di gioco è parte integrante della sua narrazione, soprattutto se storica: è proprio attraverso le procedure che spesso il gioco svela il suo orientamento ideologico».[49]

Schema che raffigura l’intreccio tra rappresentazione, interpretazione e discorso nei giochi storici e nelle simulazioni. Figura tratta dal saggio: H. Pötzsch, V. Šisler, Playing Cultural Memory: Framing History in Call of Duty: Black Ops and Czechoslovakia 38-89: Assassination, in “Games and Culture”, n. 14(1), 3-25.

Per queste ragioni, in un’ottica sia didattica che di public history, diventa importante saper leggere il medium videoludico come un’espressione nient’affatto neutra delle intenzionalità di chi lo ha creato, promosso o finanziato, magari con l’intento più o meno esplicito e consapevole di intercettare, amplificare o contrastare il discorso storico pubblico, ivi incluse anche le politiche della memoria. L’est Europa, come si è visto, è un osservatorio particolarmente stimolante e interessante, sia per la vivacità delle industrie creative e del mercato, sia per lo scenario in cui esse si muovono, ancora fortemente influenzato dalla cesura e dalla successiva rielaborazione del loro passato comunista.

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  • T. Z. Majkowski, Geralt of Poland: The Witcher 3 between Epistemic Disobedience and Imperial Nostalgia, in “Open Library of Humanities”, n. 4 (1): 1–35, 2018, doi:10.16995/olh.216.
  • P. Mantello, Playing discreet war in the US: Negotiating subjecthood and sovereignty through Special Forces video games, in “Source: Media, War & Conflict”, Sage Publications, Ltd, December 2012, Vol. 5, No. 3 (December 2012), pp. 269-283, Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26001066.
  • J. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics. PublicAffairs, 2004.
  • I. Pizzirusso, Da Wolfenstein a Wolfenstein: nazisti-zombie e il concetto di “male assoluto” nell’universo videoludico, in E. Salvatori (a cura di), AIPH 2020 – Book of Abstract, AIPH, 2021, ISBN: 9788894410839, pp. 386-390, url: http://www.labcd.unipi.it/wp-content/uploads/2022/03/BoA_AIPH2020_v_1_3-2.pdf.
  • I. Pizzirusso, Il videogioco in Italia. Riflessioni e sollecitazioni tra studi interdisciplinari e Public History, in “Italia contemporanea”, n. 303, dicembre 2023, pp. 169-190.
  • H. Pötzsch, V. Šisler, Playing Cultural Memory: Framing History in Call of Duty: Black Ops and Czechoslovakia 38-89: Assassination, in “Games and Culture”, n. 14(1), 3-25. https://doi.org/10.1177/1555412016638603.
  • L. Rao, Storia a stelle e pixel : come il videogioco reinterpreta il Novecento americano, Paguro, Mercato S. Severino (SA) 2019.
  • V. Šisler, H. Pötzsch, T. Hannemann, J. Cuhra, J. Pinkas. History, Heritage, and Memory in Video Games: Approaching the Past in Svoboda 1945: Liberation and Train to Sachsenhausen, in “Games and Culture”. n. 17(6), 2022, pp. 901-914.
  • V. Šisler, J. Švelch, S. Clybor, O. Trhoň, Adapting contested national history for global audiences in Attentat 1942 and Svoboda 1945: Liberation, in “Studies in Eastern European Cinema”, 14(1), 69–84, 2022, https://doi.org/10.1080/2040350X.2022.2071522.
  • J. Svelch, Gaming the iron curtain: how teenagers and amateurs in communist Czechoslovakia claimed the medium of computer games, Massachusetts Institute of Technology, Boston 2018.
  • M. Szabla, The Witcher as Soft Power: How Poland Uses the Game for Cultural Diplomacy, in “Games and Culture”, n. 14(3), 2019.
  • I. Zulkarnain “Playable” Nationalism: “Nusantara Online” and the “Gamic” Reconstructions of National History, in “Sojourn: Journal of Social Issues in Southeast Asia”, Vol. 29, No. 1, March 2014, pp. 31-62, url: https://www.jstor.org/stable/43186994.
Ludografia
  • Attentat 1942 (Charles games, 2017).
  • Kingdom Come: Deliverance (War Horse Studios, 2018).
  • Last Train Home (Ashborne Games – THQ Nordic, 2023).
  • Svoboda 1945 (Charles games, 2021).
  • This war of mine (11 bit studios, 2014).
  • The Witcher 3: Wild Hunt (Cd Projekt Red, 2015)

Note:

[1] J. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics. PublicAffairs, 2004.

[2] M. Consalvo, Atari to Zelda: Japan’s Videogames in Global Contexts. MIT Press, 2009.

[3] Si vedano: P. Mantello, Playing discreet war in the US: Negotiating subjecthood and sovereignty through Special Forces video games, in “Source: Media, War & Conflict”, Sage Publications, Ltd, December 2012, Vol. 5, No. 3 (December 2012), pp. 269-283, Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26001066; P. Crogan, Gameplay Mode. War, Simulation, and Technoculture, University Minnesota Press, 2011; H. Pötzsch, V. Šisler, Playing Cultural Memory: Framing History in Call of Duty: Black Ops and Czechoslovakia 38-89: Assassination, in “Games and culture”, March 21, 2016 Research Article, https://doi.org/10.1177/1555412016638603.

[4] L. Rao, Storia a stelle e pixel : come il videogioco reinterpreta il Novecento americano, Paguro, Mercato S. Severino (SA) 2019.

[5] Una decina di anni fa Manuel Noriega aveva chiesto i danni alla casa di produzione Activision per come era stato ritratto in Call of Duty: Black Ops II (Activision, 2012), ambientato durante la Guerra fredda. Si veda: Manuel Noriega contro “Call of Duty”, in “Il Post”, 17 luglio 2014, url: https://www.ilpost.it/2014/07/17/noriega-call-of-duty-activision/.

[6] Nel 1984, Aleksej Pažitnov, un programmatore sovietico del Centro di Computazione dell’Accademia delle Scienze di Mosca, creò Tetris ispirandosi a un gioco da tavolo chiamato Pentomino. Poiché lavorava per lo Stato, i diritti del gioco appartenevano al governo sovietico e vennero gestiti dall’ente Elorg (Elektronorgtechnica). Nel 1989, il dirigente di Nintendo Henk Rogers volò a Mosca e negoziò direttamente con Elorg, ottenendo i diritti ufficiali per console e portatili. Tetris divenne così il gioco di punta del Game Boy, vendendo milioni di copie.

[7] J. Svelch, Gaming the iron curtain: how teenagers and amateurs in communist Czechoslovakia claimed the medium of computer games, Massachusetts Institute of Technology, Boston 2018, p. XXII.

[8]  J. Svelch, Gaming the iron curtain: how teenagers and amateurs in communist Czechoslovakia claimed the medium of computer games, Massachusetts Institute of Technology, Boston 2018, p. XXII.

[9] https://www.obs.coe.int/en/web/observatoire/-/what-s-the-current-state-of-the-video-games-industry-in-europe- .

[10] M. Billig, Banal nationalism, Sage Publishing, 1995.

[11] I. Zulkarnain “Playable” Nationalism: “Nusantara Online” and the “Gamic” Reconstructions of National History, in “Sojourn: Journal of Social Issues in Southeast Asia”, Vol. 29, No. 1, March 2014, pp. 31-62, url: https://www.jstor.org/stable/43186994, p. 32. Nel caso di Zulkarnain si tratta di uno studio su un particolare prodotto indonesiano, per altro creato e diffuso da soggetti privati senza alcun intervento del governo centrale del Paese.

[12] T. Judt, Postwar: A History of Europe Since 1945, Penguin Press, London 2005.

[13] G. Giovannetti, Memoria pubblica, storia pubblica e politiche memoriali. Intervista a Filippo Focardi, in “Novecento.org”, n.22, dicembre 2024. DOI: 10.52056/9791254699249/15.

[14] Giovannetti, 2024.

[15] Giovannetti, 2024.

[16] F. Focardi, B. Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, p. 14.

[17] Dogliani 2013, p. 32

[18] Per approfondire ulteriori aspetti si consiglia la lettura di P. Ceccoli, Memoria e identità in Europa: questioni e problemi in Europa orientale, in “Novecento.org”, n. 17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/18.

[19] https://polskigamedev.pl

[20] https://games.lionbridge.com/it/blog/10-cities-for-global-gamers-to-watch/?utm_source=chatgpt.com

[21] M. Szabla, The Witcher as Soft Power: How Poland Uses the Game for Cultural Diplomacy, in “Games and Culture”, 14(3), 2019.

[22] T. Z. Majkowski, Geralt of Poland: The Witcher 3 between Epistemic Disobedience and Imperial Nostalgia, in “Open Library of Humanities”, n. 4 (1): 1–35, 2018, doi:10.16995/olh.216.

[23] The Witcher 3: Wild Hunt (Cd Projekt Red, 2015).

[24] Tentato nel corso della conferenza PlayHistory del 2022 da Igor Pizzirusso ed Edoardo Lombardi. La tragica e improvvisa scomparsa di quest’ultimo a Natale del 2023 ha purtroppo impedito di concretizzare uno studio più organico e strutturato.

[25] This war of mine (11 bit studios, 2014).

[26] “20 days”: This war of mine, giocare il civile in tempo di guerra. Dialogo di Edoardo Lombardi con Wojciech Setlak (11bit Studios) in E. Lombardi, I. Pizzirusso (a cura di), È in gioco la storia. Giocare il passato nel tempo presente, numero monografico di Farestoria. Società e storia pubblica. Nuova serie, Anno IV, n. 1, 2022, pp. 83-92.

[27] https://11bitstudios.com/this-war-of-mine-in-the-museum-of-modern-art/.

[28] Euro Truck Simulator (SCS Software, 2008).

[29] Kingdom Come: Deliverance (War Horse Studios, 2018).

[30] Per approfondire il tema dei musei del comunismo si veda B. Groppo, Politiche della memoria e politiche del l’oblio in Europa centrale e orientale dopo la fine dei sistemi politici comunisti, in Focardi, Groppo, 2013, pp. 235-238.

[31] H. Agnew, The Czechs and the Lands of the Bohemian Crown. Hoover Institution Press, 2004.

[32] Last Train Home (Ashborne Games – THQ Nordic, 2023).

[33] A. Chapman, It’s Hard to Play in the Trenches: World War I, Collective Memory and Videogames, in “Game studies”, vol. 16, issue 2, December 2016, url: https://gamestudies.org/1602/articles/chapman

[34] Si vedano A. Chapman, J. Linderoth, Exploring the Limits of Play: A Case Study of Representations of Nazism in Games, in T. E. Mortensen, J. Linderoth, A. M. L. Brown (a cura di) The Dark Side of Game Play: Controversial Issues in Playful Environments, Routledge, London 2015, pp. 137–153, doi:10.4324/9781315738680-9 e I. Pizzirusso, Da Wolfenstein a Wolfenstein: nazisti-zombie e il concetto di “male assoluto” nell’universo videoludico, in E. Salvatori (a cura di), AIPH 2020 – Book of Abstract, AIPH, 2021, ISBN: 9788894410839, pp. 386-390, url:  [http://www.labcd.unipi.it/wp-content/uploads/2022/03/BoA_AIPH2020_v_1_3-2.pdf]

[35] Focardi, Groppo, 2013, p. 14

[36] Nell’ultima immagine del Museo, per altro, Vaclav Havel è ritratto davanti a una bandiera a stelle e strisce, come se fossero stati gli Stati Uniti (e il capitalismo) ad affrancare il Paese dal gioco comunista.

[37] Attentat 1942 (Charles games, 2017), inizialmente pubblicato con il titolo Czechoslovakia 38-89: Assassination

[38] Svoboda 1945 (Charles games, 2021).

[39] V. Šisler, J. Švelch, S. Clybor, O. Trhoň, Adapting contested national history for global audiences in Attentat 1942 and Svoboda 1945: Liberation, in “Studies in Eastern European Cinema”, 14(1), 69–84, 2022, https://doi.org/10.1080/2040350X.2022.2071522

[40] Si vedano ad esempio G. Contini, S. Paggi, La memoria divisa : Civitella della Chiana, 29 giugno 1944-94, ManifestoLibri, Roma 1996; P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Il Mulino, Bologna 1997; T. Rovatti, Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, DeriveApprodi, Roma 2004.

[41] P. Dogliani, La Seconda guerra mondiale: le politiche della memoria in Europa, in F. Focardi, B. Groppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, pp. 35-36

[42] Giovannetti, 2024.

[43] H. Pötzsch, V. Šisler, Playing Cultural Memory: Framing History in Call of Duty: Black Ops and Czechoslovakia 38-89: Assassination, in “Games and Culture”, n. 14(1), 3-25. https://doi.org/10.1177/1555412016638603

[44] V. Šisler, H. Pötzsch, T. Hannemann, J. Cuhra, J. Pinkas. History, Heritage, and Memory in Video Games: Approaching the Past in Svoboda 1945: Liberation and Train to Sachsenhausen, in “Games and Culture”. n. 17(6), 2022, pp. 901-914

[45] A. Chapman. Is Sid Meier’s Civilization History?, in “Rethinking History”, n. 17:3, 2013, pp. 312-332.

[46] A. Chapman, Digital Games as History: How Videogames Represent the Past and Offer Access to Historical Practice. Routledge, New York 2016.

[47] I. Pizzirusso, Il videogioco in Italia. Riflessioni e sollecitazioni tra studi interdisciplinari e Public History, in “Italia contemporanea”, n. 303, dicembre 2023, pp. 169-190.

[48] S. Caselli, Engaging with Historical Imaginaries Through Digital Games. Immaginari storici nei videogiochi, in “Public History Weekly”, n. 11, 3, (2023), disponibile al sito https://public-history-weekly.degruyter.com/11-2023-3/engaging-historical-imageries-games/ consultato in data 27 dicembre 2024.

[49] S. Caselli, I. Pizzirusso, Videogiocare il passato tra soggettività storiche e memorie precarie: il caso di Martha is dead, in corso di pubblicazione sulla rivista “Farestoria”, 2025. In I. Bogost, Persuasive Games: The Expressive Power of Videogames, The MIT Press, Cambridge 2007 si parla di “retorica procedurale”, definendo così il meccanismo secondo il quale i videogiochi possono persuadere e comunicare attraverso le loro meccaniche di gioco e regole, a differenza della retorica tradizionale (basata su parole) o della retorica visiva (basata su immagini).