Memorie contese: il 27 gennaio
Entrata del campo di concentramento di Auschwitz II-Birkenau con i binari che portavano alla rampa di selezione.
Crediti: Jacek7770 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento
Abstract
Il 27 gennaio, giorno dedicato alla commemorazione della Shoah e della deportazione (non solo ebraica) nei lager nazisti, nei suoi oltre vent’anni di esistenza è stato accompagnato da numerose iniziative, soprattutto in ambito scolastico. Alla luce dei diffusi dubbi sulla loro efficacia, si rende necessaria una riflessione che, a partire dalla ricostruzione dell’evoluzione della memoria della deportazione in Italia ed Europa, metta capo a nuove soluzioni didattiche adottando un approccio critico alla memoria pubblica.
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27 January, the day dedicated to the commemoration of the Shoah and the deportation (not only of Jews) to the Nazi concentration camps, has been accompanied in its more than twenty years of existence by numerous initiatives, especially in schools. In the light of the widespread doubts about their effectiveness, a reflection is needed that, starting from the reconstruction of the evolution of the memory of deportation in Italy and Europe, would lead to new didactic solutions by adopting a critical approach to public remembrance.
Questo articolo è stato sottoposto a revisione in doppio cieco (double blind peer review)
Premessa
Tra le date del calendario civile, quella del 27 gennaio sembrerebbe la meno “contesa”. Chi avrebbe il coraggio di criticare questa giornata memoriale, con il rischio di essere tacciato di negazionismo? Salvo la minoranza dei negazionisti espliciti, in effetti nessuno mette in discussione la veridicità degli eventi commemorati il 27 gennaio e la loro collocazione nel calendario civile.
Le cose, però, non sono così semplici. Per due motivi.
In primo luogo per il legame tra questa data e lo stato di Israele, che, fondato o no, è comunque diffusamente percepito. In un contesto in cui la situazione in Medio Oriente sembra aggravarsi ogni giorno di più e non trovare soluzioni pacifiche, anche il 27 gennaio è finito al centro di polemiche pubbliche.[1]
In secondo luogo per problemi di natura didattico-pedagogica. Dopo quasi un quarto di secolo dall’introduzione del Giorno della Memoria , non sono pochi i dubbi degli insegnanti sulla sua efficacia, dubbi ben espressi dalla semiologa Valentina Pisanty:
Due fatti sono sotto gli occhi di tutti.
– Negli ultimi vent’anni la Shoah è stata oggetto di capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale.
– Negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore.
Sono fatti irrelati, due serie storiche indipendenti, così come non c’è alcun nesso dimostrabile tra, poniamo, la violenza negli stadi e i progressi della ricerca sul cancro? Oppure un collegamento c’è, ed è compito di una società desiderosa di contrastare l’attuale ondata xenofoba interrogarsi sulle ragioni di questa contraddizione? [2]
In questo articolo approfondiremo il secondo corno della questione, articolando la trattazione in quattro parti:
- la prima, introduttiva, analizzerà il testo della legge istitutiva del “Giorno della Memoria” con l’obiettivo di metterne in evidenza le potenzialità e le ambiguità;
- la seconda proporrà una sintetica ricostruzione della genesi di questa ricorrenza, con riferimento all’evoluzione della memoria della deportazione e della Shoah in Italia e in Europa dal 1945 a oggi;
- la terza si soffermerà sugli usi del 27 gennaio nei venti e passa anni successivi alla sua introduzione nel calendario civile;
- la quarta, infine, cercherà di rispondere alla domanda di Pisanty e di fornire alcune ipotesi di percorso che possano fare del 27 gennaio non una data rituale, ma un momento di riflessione e di crescita effettiva per le studentesse e gli studenti delle nostre scuole.
La legge istitutiva: non solo Shoah
La lettura analitica della norma istitutiva del Giorno della Memoria mostra già alcuni aspetti problematici che poi sono emersi nell’uso di questa ricorrenza. Per questo può essere utile riportarne il testo integrale.
Art. 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, sì sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’art. 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.[3]
La centralità della Shoah è evidente: è citata esplicitamente nelle prime righe dell’articolo 1; vi sono ripetuti riferimenti alla persecuzione antisemita in entrambi gli articoli; la stessa data del 27 gennaio rimanda all’arrivo dell’Armata Rossa (non citata) al campo di Auschwitz – il Lager nazista in cui la maggioranza dei deportati era costituita da ebrei – ed è, a livello europeo e mondiale, il giorno dedicato esplicitamente alla memoria della Shoah. Tuttavia vi sono riferimenti anche ad altri soggetti coinvolti nella deportazione nazista. Nell’articolo 1 si fa riferimento agli “italiani che hanno subito la deportazione” e ai Giusti. L’articolo 2 specifica che vengono commemorati non solo i deportati razziali, ma anche quelli politici e militari, con riferimento quindi anche agli IMI.
Dal testo di legge emergono altri due aspetti che meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda la dimensione didattica. Nel secondo articolo si fa riferimento esplicito a iniziative legate al Giorno della Memoria da organizzare, non solo ma soprattutto, nelle scuole, in un’ottica di conservazione di un passato “oscuro” della storia italiana ed europea con l’auspicio che eventi simili non si ripetano mai più.[4]
Il secondo riguarda l’Italia. Nell’articolo 1 si fa riferimento alle leggi razziali e alla persecuzione da parte delle autorità italiane dei cittadini ebrei. Dunque si suggerisce che anche gli italiani ebbero delle responsabilità nella realizzazione della deportazione. Tuttavia, sia la scelta del 27 gennaio[5], sia il mancato riferimento al fascismo, che non viene mai citato, sia l’allusione al fatto che tra i Giusti vi fossero anche dei fascisti (“coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti”) hanno finito col favorire un approccio che tende a deresponsabilizzare l’Italia e gli italiani.
In generale, quello che maggiormente emerge dalla lettura del testo della legge è che la Shoah per il legislatore doveva svolgere un ruolo centrale ma non esclusivo nelle commemorazioni. Se invece consideriamo l’evoluzione che ha avuto la gestione di questa data nelle commemorazioni pubbliche e nelle iniziative delle scuole, è difficile negare che la deportazione razziale ne sia diventata il riferimento principale.
La memoria della deportazione
1945-1989: deportazione e antifascismo
La memoria pubblica[6] della deportazione in Italia[7] conosce una strana evoluzione, ben sintetizzata dall’andamento delle pubblicazioni dedicate alla deportazione nel dopoguerra. Come è stato evidenziato da una ricerca realizzata nel 2016 dall’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea[8], si assiste a un proliferare di scritti di ex deportati ed ex deportate nell’immediato dopoguerra – tra il 1945 e il 1948 – seguito poi da una quasi totale assenza di pubblicazioni sull’argomento fino alla seconda metà degli anni Cinquanta. La vicenda di Se questo è un uomo di Primo Levi[9] non fu dunque un fenomeno isolato, ma fu rappresentativo da un lato del bisogno impellente dei sopravvissuti di comunicare la propria esperienza, dall’altro della difficoltà, se non vera e propria riluttanza, della società italiana a prestare ascolto.
A metà degli anni Cinquanta la situazione comincia a cambiare. Uno degli episodi più significativi avviene nel 1955, quando viene inaugurata a Carpi la prima mostra sui campi di concentramento, destinata a lasciare un segno profondo nella memoria pubblica, grazie anche alla sua riproposizione in varie città italiane fino al 1961. Sulla scia di questa iniziativa, nel 1962 viene avviato, sempre a Carpi, il progetto del Museo Monumento al deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti, inaugurato nel 1973.[10] A questa stagione della memoria pubblica della deportazione appartiene anche il padiglione italiano al memoriale di Auschwitz. Allestito nel 1979, per iniziativa dell’ANED, viene progettato da un gruppo di lavoro di cui fanno parte l’architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso, il regista Nelo Risi, il pittore Mario Pupino Samonà, il musicista Luigi Nono e Primo Levi.[11] Non è un caso che proprio nel 1958 Se questo è un uomo venga ripubblicato da Einaudi e si inserisca in una fase di crescente interesse per la deportazione nei lager nazisti e per la Shoah, fortemente segnata dal processo ad Adolf Eichmann del 1961.[12]
Nel periodo che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta memoria della deportazione e memoria della Resistenza in Italia sono strettamente intrecciate. Due esempi: nel Museo Monumento di Carpi, insieme a reperti dei lager nazisti, si trovano estratti dalle ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza; sulla tela del memoriale italiano di Auschwitz i riferimenti alla deportazione si accompagnano a quelli all’antifascismo.
Legando Resistenza e deportazione, si correva il rischio di estendere a quest’ultima uno degli aspetti della memoria pubblica della Resistenza degli anni Sessanta-Settanta: l’enfasi posta sul sostegno della popolazione italiana alla lotta partigiana, presentato come unanime o quasi, e sul pieno accordo tra le forze politiche antifasciste, che occultava gli aspetti più conflittuali della lotta resistenziale.[13] Questa narrazione venne usata anche in funzione autoassolutoria e favorì la diffusione del mito del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco”, nonché la tendenza a scrollarsi di dosso le responsabilità per le deportazioni, in particolare di quelle razziali, molto forte già nell’immediato dopoguerra.[14]
L’approccio antifascista alla memoria della deportazione ebbe però anche esiti di segno opposto. Ne è un esempio il testo scritto da Primo Levi per il memoriale italiano di Auschwitz. Nel suo contributo Levi rimarca con nettezza lo stretto legame tra i fascismo e il lager, pur senza dimenticare la lotta antifascista e la Resistenza. Siamo lontani anni luce da ogni autoassoluzione, così come non mancano, pur in un contesto centrato sulle vittime, aperture verso il futuro. Si tratta di un contributo che, a quasi cinquant’anni dalla stesura, suona ancora attualissimo e rappresenta un ottimo esempio di “memoria critica”.[15] Per questo motivo merita un’ampia citazione.
La storia della Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo, non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere di Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto. […] È triste ma doveroso rammentarlo, agli altri ed a noi stessi: il primo esperimento europeo di soffocazione del movimento operaio e di sabotaggio della democrazia è nato in Italia. È il fascismo […]. Ma non tutti gli italiani sono stati fascisti: lo testimoniamo noi, gli italiani che siamo morti qui. Accanto al fascismo, altro filo mai interrotto, è nato in Italia, prima che altrove, l’antifascismo. […] Alcuni fra noi erano partigiani e combattenti politici; sono stati catturati e deportati negli ultimi mesi di guerra, e sono morti qui, mentre il Terzo Reich crollava, straziati dal pensiero della liberazione così vicina. La maggior parte fra noi erano ebrei: ebrei provenienti da tutte le città italiane, ed anche ebrei stranieri, polacchi, ungheresi, jugoslavi, cechi, tedeschi, che nell’Italia fascista, costretta all’antisemitismo dalle leggi di Mussolini, avevano incontrato la benevolenza e la civile ospitalità del popolo italiano.[16]
Dopo il 1989: deportazione e Shoah
L’elaborazione della memoria della deportazione conosce una svolta decisiva tra gli anni Ottanta e Novanta, con lo spostamento del focus della narrazione pubblica dall’antifascismo alla persecuzione della popolazione ebraica.[17] In ambito internazionale si assiste a un interesse crescente per la Shoah a partire dalla fine degli anni Settanta grazie anche al cinema e alla televisione. Un ruolo rilevante viene giocato, per esempio, dalla serie televisiva statunitense Holocaust,[18] del 1978-79: pur presentando gravi limiti artistici e storici, ha una straordinaria diffusione a livello mondiale e dà certamente un contributo al crescente peso assunto dalla Shoah nella memoria dei paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti e in Germania.[19] Meno noto a livello popolare, ma ben più importante sul piano storiografico e cinematografico, è Shoah[20] di Claude Lanzmann, del 1985, un documentario di quasi dieci ore che è a un tempo un documento – per le testimonianze di vittime, spettatori e perpetratori – un’opera d’arte – per le oculate scelte a livello di riprese e di montaggio – e una riflessione storiografica – grazie anche alle interviste a storici, tra cui Raul Hilberg.[21] Ma è Schindler’s List[22] di Steven Spielberg, del 1993, a segnare l’immaginario sulla Shoah negli anni Novanta e nei decenni successivi. Originale commistione di cinema autoriale e cinema hollywoodiano, Schindler’s List non solo diventa IL film sulla Shoah, ma condiziona anche profondamente l’immaginario collettivo su questo tema. Il grande peso attribuito ai Giusti, di cui vi è traccia anche nella legislazione italiana che istituisce la commemorazione del 27 gennaio, è certamente debitore anche della figura di Oskar Schindler, ricostruita con grande perizia, e qualche ambiguità, da Steven Spielberg.[23]
Ovviamente non fu solo Hollywood a spingere la memoria pubblica dell’occidente a focalizzarsi sempre più sulla Shoah. In Germania, per esempio, il fenomeno nacque anche dal basso sulla scia del movimento del Sessantotto. Ricordando le persecuzioni naziste contro la popolazione ebraica, i giovani contestatori tedeschi rinfacciavano all’establishment della Germania occidentale e alla generazione dei padri la rimozione dell’ingombrante passato nazista.[24]
Ma è la svolta del 1989 a giocare in questo ambito un ruolo decisivo.[25] Secondo lo storico britannico Tony Judt la caduta del Muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale e il collasso dell’Unione Sovietica determinano un vero e proprio cambio di paradigma della memoria europea. Fino al 1989, nonostante la divisione in due blocchi, tutti i paesi europei sostanzialmente condividevano una memoria pubblica centrata sull’antifascismo. Questo era interpretato come un movimento condiviso dalla grande maggioranza delle popolazioni europee e rivolto contro la Germania nazista, considerata unica responsabile della guerra. Tuttavia questa memoria, secondo Judt, era caratterizzata da alcune gravi reticenze che mettevano capo a un atteggiamento autoassolutorio: non si parlava del ruolo dei governi collaborazionisti e dei crimini di guerra perpetrati dagli alleati.[26]
Con la fine della guerra fredda si è assistito a un “ritorno del rimosso”. La lotta contro il nazifascismo è stata in vario modo messa in discussione: se ne sono enfatizzate le pagine più problematiche; si è sottolineato che una parte importante delle popolazioni europee non l’aveva sostenuta o aveva scelto di non schierarsi; in alcuni Paesi dell’est ha cominciato a diffondersi l’idea che il 1945 non sia stata una liberazione, ma solo il passaggio da un totalitarismo a un altro.[27]
Si può quindi ritenere che il “combinato disposto” del crescente interesse per le persecuzioni antisemite e della crisi del paradigma antifascista abbia spostato il focus della memoria della deportazione decisamente sulla Shoah, che è venuta assumendo il ruolo di religione civile europea e occidentale.[28] La legge italiana del 2000 che istituisce il Giorno della Memoria è infatti preceduta e seguita, tra il 1995 e il 2005, da diverse risoluzioni del parlamento europeo che fanno della Shoah il caposaldo della memoria pubblica istituzionale europea collegandola alla lotta contro il razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo.[29] In realtà, come osserva Aline Sierp, l’interpretazione della Shoah come “atto fondante dell’Unione europea”, di cui non c’è traccia nei trattati di fondazione, va intesa “ex post” come «il punto di riferimento centrale per la definizione dei valori e degli obiettivi politici dell’Unione europea».[30]
L’allargamento dell’Unione Europea ai Paesi ex-comunisti del 2004 accentua ulteriormente la crisi del paradigma antifascista. Ai nuovi membri si chiede di riconoscere nella memoria della Shoah un caposaldo della memoria comune europea; “in cambio” molti di loro pretendono che a questa si affianchi la memoria dell’”antitotalitarismo”, formula che comporta l’equiparazione di nazismo e stalinismo. La “Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa” è il prodotto finale di questo processo: Shoah e antitotalitarismo vengono presentati come i due pilastri della memoria europea e l’equiparazione dai nazismo e stalinismo è completa. Il tutto, al prezzo di affermazioni a dir poco discutibili sul piano storiografico, presentate come “verità storiche”.[31]
Come ha scritto Markus Prutsch, questo approccio è semplicistico, teleologico, omissivo e autoassolutorio. Semplicistico, perché considera la storia come una sapere portatore di verità assolute. Teleologico, perché riduce la storia europea a una contrapposizione in bianco e nero tra un passato oscuro e un presente luminoso. Omissivo, perché si concentra solo sul periodo successivo alla Prima guerra mondiale, tralasciando altri momenti della storia europea, come il colonialismo e l’imperialismo. Autoassolutorio, perché ripropone l’esternalizzazione della responsabilità che aveva caratterizzato le memorie pubbliche europee prima del 1989: laddove prima l’unico colpevole era la Germania, adesso si aggiunge l’Unione Sovietica, ma non cambia il dispositivo argomentativo che vede i singoli stati scaricarsi di ogni responsabilità e scegliere per sé solo il ruolo della vittima di potenze straniere.[32]
In questo quadro internazionale, la situazione italiana presenta alcune peculiarità. La messa in discussione del paradigma antifascista comincia a manifestarsi negli anni Ottanta, anche grazie ai lavori divulgativi dello storico Renzo De Felice. Si deve proprio a De Felice una delle affermazioni che ha maggiormente segnato la memoria della Shoah degli ultimi decenni: «il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto».[33]
La cosiddetta “fine della prima repubblica”, la crisi dei partiti antifascisti e l’affermazione di partiti privi di legami con l’antifascismo storico o eredi del fascismo determinano una messa in discussione dell’antifascismo che ha anche ricadute sulla memoria della deportazione. Il crescente peso della Shoah nell’immaginario pubblico si accompagna a strategie memoriali che vengono portate avanti soprattutto dalle forze politiche del centrodestra, ma trovano risonanza al di là di questa area politica: sganciare l’Italia fascista da ogni responsabilità nella realizzazione del piano genocidario; contrapporre, o quanto meno affiancare, alle vittime della Shoah altre vittime.
La prima operazione, avallata da De Felice, mette capo a una serie di luoghi comuni ancora oggi difficile da demolire, nonostante le molte e circostanziate obiezioni degli storici: le leggi razziali fasciste sarebbero state imposte da Hitler a Mussolini o, quanto meno, non sarebbero state altro che una imitazione dell’alleato nazista; il fascismo avrebbe governato sostanzialmente bene fino all’introduzione delle leggi razziali.[34]
La seconda strategia ha a che fare con il “paradigma vittimario”[35] e le sue conseguenze. Come scrive Enzo Traverso:
La memoria del gulag ha cancellato quella delle rivoluzioni, la memoria della Shoah ha sostituito quella dell’antifascismo, la memoria dello schiavismo ha eclissato quella dell’anticolonialismo; sembra quasi che il ricordo delle vittime non possa coesistere con quello delle loro lotte, delle loro conquiste e delle loro sconfitte.[36]
L’immedesimazione solo con le vittime spinge a pensare la storia come qualcosa che si subisce sempre e non si agisce mai, e tende a elaborarla in termini prevalentemente emotivi. Inoltre il paradigma vittimario può incoraggiare una concezione dell’identità nazionale rancorosa ed esclusiva, che usa la condizione di vittima per evitare di fare i conti con il proprio passato e per innescare una competizione fra le vittime.[37]
Usi e abusi del 27 gennaio
Fin dalla sua introduzione, il Giorno della Memoria ha visto un proliferare di iniziative da parte delle scuole e degli enti locali. Non a caso: in Italia, già prima del 2000, le proposte dedicate alla Shoah erano state numerose, soprattutto in ambito scolastico, a testimonianza di quanto questo tema fosse sentito dall’opinione pubblica negli anni ’90. Osserva Guri Schwarz:
Una caratteristica della via italiana al “Giorno della Memoria”, è infatti la capillarità delle attività: tanti momenti di commemorazione, per lo più per un pubblico di dimensioni contenute. Fare la storia del Giorno della Memoria implica dunque scandagliare gli impulsi diversificati che vengono da comuni, regioni, scuole, associazioni, in assenza di chiare direttive o di una strategia coerente.[38]
La spontaneità delle iniziative di per sé non è un male: contraddicendo tanti luoghi comuni sulla scuola italiana, le tante proposte dedicate alla memoria della Shoah mostrano un livello di motivazione e una capacità di iniziativa degli insegnanti notevoli. Tuttavia scontano anche il rischio di un inadeguato approfondimento, quando non di vere e proprie banalizzazioni, complice anche l’assenza di iniziative di aggiornamento coordinate.[39]
Si considerino, per esempio, i viaggi della memoria: pensati come strumento per integrare l’apprendimento teorico sui libri con l’esperienza vissuta nei luoghi della deportazione, hanno rischiato e rischiano di diventare “eventi” di natura puramente emotiva. Se il viaggio si trasforma in una sorta di pellegrinaggio nei luoghi della deportazione, per il quale non viene richiesta la “fatica del concetto” della contestualizzazione storica, il rischio è che la sacralizzazione si rovesci in banalizzazione, in cui tutta la vicenda si risolve in un generico conflitto tra bene e male.[40]
27 gennaio reloaded: per una memoria critica della deportazione
Alla base delle considerazioni di Valentina Pisanty citate in apertura vi è innanzitutto proprio la constatazione che la banalizzazione del Giorno della Memoria e la sua deriva prevalentemente emotiva ne abbiano determinato l’inefficacia. Ma non solo. Secondo Pisanty è lo stesso dispositivo narrativo spesso usato nelle commorazioni del 27 gennaio, che mette al centro la vittima disinteressandosi del contesto, ad aver spianato la strada a una concezione identitaria e nazionalista della memoria. Uno degli aspetti comuni ai movimenti politici europei cosiddetti “sovranisti” è l’approccio vittimista al passato, che sfrutta la Shoah “come forma narrativa vuota nella quale chiunque – compresi gli antisemiti – si può insediare per rappresentarsi nel ruolo di vittima, come tale meritevole di indennizzi e immunità speciali.”[41]
Pisanty, che se ne condivida in tutto o in parte la diagnosi,[42] ci ricorda che le strategie didattiche adottate per commemorare la Shoah sono spesso quanto meno inefficaci. Per far fronte a questa situazione ipotizziamo cinque strategie accomunate dallo stesso obiettivo: formare nelle nuove generazioni una “memoria critica”, che si tenga lontana dalla retorica della “memoria condivisa”, eviti ogni interpretazione essenzialista della nazione e sia capace di “affrontare anche le pagine più scomode della storia nazionale” e di confrontarsi con le memorie degli altri.[43]
1. Più storia, meno memoria. Si tratta del suggerimento più scontato, ma proprio per questo da ribadire. Bisogna fare in modo che gli studenti sviluppino una conoscenza approfondita del fenomeno della deportazione nazista nel contesto della storia del Novecento, con un punto di vista anche europeo e globale. Il tutto accompagnato da un lavoro sul piano metodologico, che favorisca la comprensione della natura scientifica, quindi problematica e non dogmatica, del sapere storico.
2. Tematizzare la storia della memoria pubblica. Può apparire una proposta problematica, viste le ben note difficoltà a portare a termine la programmazione, vero e proprio tormentone degli insegnanti di storia. Tuttavia inserire nella programmazione anche la storia della memoria della deportazione e di altre date del calendario civile è una scelta impegnativa, ma da raccomandare. È un’occasione non solo per dare fondamenta storiche alle ricorrenze ufficiali, facendole uscire dalla dimensione retorica, ma anche per far comprendere che “qualsiasi visione essenzialista della memoria storica” è infondata, poiché si tratta di un costrutto sociale inevitabilmente a rischio di “essere strumentalizzato per fini e scopi politici”.[44]
3. Studiare i perpetratori e gli spettatori. Il prevalere del paradigma vittimario nelle attività dedicate al 27 gennaio ha avuto tra le sue conseguenze anche il mancato o inadeguato approfondimento degli altri due attori della Shoah individuati da Raoul Hilberg: i perpetratori e gli spettatori.[45] Studiare questi due soggetti è invece non solo necessario per un’adeguata comprensione del fenomeno, ma anche di straordinaria utilità proprio per quelle finalità formative e educative che hanno motivato l’introduzione di questa giornata a livello europeo. Lo studio delle dinamiche che portarono uomini e donne a non intervenire mentre si perpetrava lo sterminio, o a prendervi parte direttamente, permette di sviluppare riflessioni sui meccanismi e sulle dinamiche sociali che possono portare “persone comuni” a rimanere indifferenti di fronte a crimini inenarrabili, o addirittura a commetterli. Inoltre, un lavoro di questo genere consente di collegare l’indagine storica alla psicologia sociale, alla sociologia e alla riflessione filosofica.[46] In questo modo lo studio del fenomeno della deportazione può essere comparato a dinamiche del presente, comprese quelle vissute quotidianamente dagli studenti nel gruppo-classe o nei gruppi di amici, realizzando così una attualizzazione non strumentale e non banalizzante.
4. Spiazzare con l’arte. La dimensione emotiva non può essere lasciata solo a chi propone commemorazioni superficiali o retoriche. Non esiste apprendimento autentico che non sia mediato anche dalla dimensione affettiva, a maggior ragione per un tema così pregno di dolore come la deportazione nazista. Da questo punto di vista le scelte adottate in Italia negli anni Sessanta e Settanta per commemorare la deportazione, che vedevano il prevalere della dimensione artistico-immersiva su quella informativa, possono costituire una ispirazione anche in ambito didattico. Usare il linguaggio artistico, purché non didascalico ma il più possibile anticonvenzionale, può essere un’ottima strategia. Si pensi a un film come La zona di interesse di Jonathan Glazer: la rappresentazione dei perpetratori e della banalità del male, nonché della nostra memoria dei lager nazisti, è realizzata con un linguaggio cinematografico originale e spiazzante, che crea domande e inquietudine, e non facili risposte.[47] O, ancora, i monumenti berlinesi dedicati alla varie forme di deportazione edificati dopo il 2000: la scelta di fondo è stata non la retorica e la rappresentazione realistica, ma l’allusione e lo spiazzamento.[48]
5. Non rinunciare alla speranza. Come sottolinea Enzo Traverso, l’affermazione del paradigma vittimario ci ha espropriati di una memoria in grado di conservare il “principio speranza”, che invece era veicolato dalle memorie delle rivoluzioni o dei sommovimenti dal basso, come la Resistenza italiana: i loro protagonisti erano uomini e donne che avevano cercato di prendere in mano il proprio destino e di cambiare il mondo, e che quindi lasciavano in eredità non solo ricordi ma anche speranze.[49] Benché evidentemente la memoria delle deportazioni sia inevitabilmente collegata soprattutto a quella delle vittime, è possibile e auspicabile che la dimensione della speranza possa farne parte. Dunque, insieme agli Häftlinge, anche la rivolta del ghetto di Varsavia, gli scioperi delle operaie e degli operai nell’Italia del marzo 1944, molti dei cui protagonisti furono deportati nei lager nazisti, e le insurrezioni del 1945, che alla fine cacciarono i nazifascisti: sconfitte ma anche vittorie, che ci hanno dato la possibilità di parlarne e che ricordano che l’ordine costituito non è mai l’unico ordine possibile.
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- E. Traverso, Il passato: istruzione per l’uso. Storia, memoria, politica, Ombre corte, Verona 2006.
Note:
[1] A titolo di esempio citiamo la lettera aperta di un docente di storia milanese, scritta in occasione del 27 gennaio 2024, e la risposta del coordinamento degli istituti storici della Lombardia: www.reteparri.it/comunicati/il-coordinamento-lombardo-risponde-al-prof-mazzi-sul-giorno-della-memoria-10423/ (consultato il 16/7/2024).
[2] V. Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, Milano 2020, p. 5.
[3] Legge 20 luglio 2000, n. 211: www.normattiva.it/esporta/attoCompleto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2000-07-31&atto.codiceRedazionale=000G0268 (consultato il 16/7/2024).
[4] L’ampia diffusione di iniziative in ambito scolastico per il Giorno della Memoria è anche facilitata dal fatto che non si tratta di un giorno festivo. In base alla classificazione ufficiale dello Stato italiano rientra infatti nelle “giornate celebrative nazionali e internazionali”, che non sono giornate festive, ma date in cui “gli organi pubblici organizzano eventi collegati alla circostanza che si intende celebrare”. Cfr. https://presidenza.governo.it/ufficio_cerimoniale/cerimoniale/giornate.html (consultato il 16/7/2024).
[5] Durante la discussione parlamentare sulla proposta di istituzione del Giorno della Memoria, nel testo originario, proposto da Furio Colombo, la data doveva essere il 16 ottobre, per ricordare il rastrellamento del ghetto di Roma del 1943. Si optò poi per il 27 gennaio, data già riconosciuta a livello europeo e mondiale. In questo modo venne persa la dimensione “italiana” della vicenda, che avrebbe dato maggiore enfasi alla presenza degli italiani non solo tra le vittime, ma anche tra i perpetratori. Cfr. G. Schwarz, Il 27 gennaio e le aporie della memoria, in “Italia contemporanea” n. 296, agosto 2021, pp. 102-103.
[6] Sui concetti di “memoria pubblica”, “memoria condivisa” e “memoria conflittuale”, rimandiamo all’intervista a Filippo Focardi contenuta nel presente dossier. Per un approfondimento di taglio sociologico sulla questione, si può leggere: P. Jedlowski, Memoria, in A. Melucci (a cura di), Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, Carocci, Roma 2000, pp. 139-147. Sulla differenza tra storia e memoria e i nessi esistenti tra queste due nozioni, di particolare interesse sono le riflessioni di Paul Ricouer: P. Ricoeur, La memoria dopo la storia, Roma 2001, www.filosofia.it/archivio/images/download/argomenti/Ricoeur_Memoria_dopo_la_storia.pdf (consultato il 16/7/2024). Sul carattere problematico del concetto di “memoria storica”, si veda: M. J. Prutsch, European Historical Memory: Policies, Challenges and Perspectives, Parlamento Europeo, Unione Europea 2015: www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2015/540364/IPOL_STU(2015)540364_EN.pdf (consultato il 16/7/2024).
[7] Per una trattazione più approfondita del tema si veda: F. Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma 2020, pp. 153-191.
[8] La ricerca, curata da Elisabetta Ruffini, mise capo a una mostra che è tuttora disponibile presso l’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (www.isrecbg.it).
[9] Primo Levi all’inizio del 1947 propose il libro all’editore Einaudi che rifiutò di pubblicarlo. Venne allora affidato a un piccolo editore, De Silva, che stampò 2.500 copie del libro di cui circa un migliaio rimase invenduto. Per la vicenda della pubblicazione di Se questo è un uomo si veda: www.primolevi.it/it/se-questo-uomo-edizione-1947 (consultato il 16/7/2024).
[10] Cfr. www.fondazionefossoli.org/i-luoghi/museo-monumento-al-deportato/storia (consultato il 16/7/2024).
[11] Cfr. https://memorialedelledeportazioni.it/memoriale (consultato il 16/7/2024).
[12] Cfr. Focardi, 2020., pp. 174-175.
[13] Sull’evoluzione, tutt’altro che lineare e priva di conflitti, della memoria pubblica italiana della Resistenza, rimandiamo al contributo di Luciana Bramati contenuto nel presente dossier.
[14] Cfr.: Focardi, 2020, pp. 161-162; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013.
[15] Si veda l’ultima parte del presente contributo.
[16] P. Levi, Al visitatore, in ANED (a cura di), In onore degli italiani caduti nei campi di sterminio nazisti, Aprile 1980 (fascicolo edito per l’inaugurazione del Memoriale italiano ad Auschwitz); ora in P. Levi, Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. I, pp. 1335-1336. Primo Levi è, se possibile, ancora più esplicito in una intervista televisiva del 1975, in cui afferma: “Alla fine del fascismo sta il lager”. Cfr. www.raiplay.it/programmi/laboratoriolevi (consultato il 16/7/2024).
[17] Cfr. Focardi, 2020, pp.188-191.
[18] Holocaust (di Marvin J. Chomsky, 1978).
[19] Marvin J. Chomsky, Holocaust, USA 1978. Cfr.: C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, Le Mani, Genova 2006, pp. 62-71; M. Guerri, Ancora immagini della Shoah? Günther Anders e la fiction “Holocaust”, in “Novecento.org”, n. 15, febbraio 2021, www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/ancora-immagini-della-shoah-gunther-anders-e-la-fiction-holocaust-6895/ (consultato il 16/7/2024).
[20] Shoah (di Claude Lanzmann, 1985).
[21] Claude Lanzmann, Shoah, Francia 1985. Cfr. C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, cit., pp. 175-180.
[22] Schindler’s List (di Steven Spielberg, 1993).
[23] Cfr. C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, cit., pp. 140-156.
[24] Cfr. T. Speccher, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 104-138.
[25] Cfr. Focardi, 2020, pp. 311-327.
[26] Cfr. T. Judt, The Past is Another Country. Myth and Memory in Post-war Europe, in “Daedalus”, Fall 1992, pp. 83-97.
[27] Cfr. Focardi, 2020, 311-312. Si veda anche F. Focardi – P. Lagrou, Introduzione, in F. Focardi – P. Lagrou (a cura di), Culture del ricordo e uso politico della storia nell’Europa contemporanea, “Qualestoria”, n. 2, Dicembre 2021, p. 15.
[28] Cfr. E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso, ombre corte, Verona 2005, pp. 79-92.
[29] Benché già citato nella risoluzione del 2000 insieme al 9 novembre, anniversario della Notte dei cristalli, il 27 gennaio diventa data ufficiale dell’Unione europea per la commemorazione della Shoah nella risoluzione del 2005. Cfr. Focardi, 2020., pp. 314-315.
[30] A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea, in F. Focardi – P. Lagrou (a cura di), Culture del ricordo e uso politico della storia nell’Europa contemporanea, cit., pp. 23-24.
[31] www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html (consultato il 16/7/2024). Cfr. A. Sierp, Le politiche della memoria dell’Unione europea, cit., pp. 25-28. Per una analisi dettagliata della risoluzione del 2019, della sua genesi e delle sue possibili interpretazioni, si veda P. Martino (a cura di), Nazismo, comunismo, fascismo. Memorie e rimozioni d’Europa, Radici Future, Bari 2020. Peraltro la stessa convivenza dei due “pilastri” appare problematica, come dimostra la riabilitazione della memoria di personaggi e movimenti compromessi con il nazismo, realizzata in alcuni Paesi dell’est, o la vicenda della Casa della storia europea. Quest’ultima, inaugurata a Bruxelles nel 2017, pur equiparando nazismo e stalinismo, è stata ugualmente contestata da forze politiche di destra e dal governo polacco per l’atteggiamento nei confronti delle nazioni giudicato troppo negativo. Cfr. F. Focardi, Nel cantiere della memoria, cit., pp. 323-327.
[32] Cfr. Prutsch, 2015, pp. 26-37. Le osservazioni di Prutsch risalgono a prima della risoluzione del 2019, ma sono assolutamente pertinenti, giacché si riferiscono al dibattito europeo che poi è sfociato nella delibera del 2019.
[33] Questa dichiarazione risale al 1987; venne fatta da Renzo De Felice nel corso di una intervista a Giuliano Ferrara e pubblicata sul “Corriere della Sera”. Cfr. F. Focardi, Nel cantiere della memoria, cit., p. 178.
[34] Cfr. F. Filippi, “Mussolini ha fatto anche cose buone”. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[35] Cfr. P. Lagrou, L’Europa come luogo di memoria comune? Riflessioni su vittimizzazione, identità ed emancipazione dal passato, in F. Focardi, B. Greppo (a cura di), L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013, pp. 267-276.
[36] E. Traverso, Le memorie dell’Europa. La fine del “principio speranza”, in Focardi, Greppo (a cura di), 2013, p. 287.
[37] Sulla questione della concorrenza tra le vittime, Valentina Pisanty cita il caso della memoria della grande carestia ucraina del 1929-33, per il quale viene usato il termine ucraino Holodomor (letteralmente “infliggere la morte attraverso la fame”). Il confronto con la Shoah viene giocato non solo mediante l’assonanza con il termine Holocaust, ma anche con campagne comunicative in cui questa “competizione” è esplicitata. Pisanty cita un’immagine apparsa il 29 novembre 2016 sul “Secolo d’Italia”, organo del partito Fratelli d’Italia, che commemorava l’Holodomor e in cui appariva la scritta: “The Real Holocaust”. Cfr. Pisanty,2020, pp. 105-109. Sulle conseguenze di una memoria pubblica egemonizzata dal “Paradigma vittimario”, si veda anche: G. De Luna, La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano 2011.
[38] Schwarz,2021, p. 109. Nel caso delle scuole l’assenza di una regia centrale ha significato anche l’elaborazione tardiva di linee guida, che sono state emanate dal Ministero dell’istruzione solo nel 2018.
[39] Di fatto la formazione dei docenti italiani su questi temi è stata delegata a istituzioni estere, come Yad Vashem di Gerusalemme e il Memorial de la Shoah di Parigi, che propongono corsi di alta qualità, ma non possono certo farsi carico di compiti di coordinamento e pianificazione che spettano alle autorità del nostro Paese. Cfr.:Schwarz,2021 p. 110; N. Olivieri, C. Nencioni, E. Mastretta, Formarsi sulla didattica della Shoah: un ventaglio di esperienze, in “Novecento.org”, n. 13, febbraio 2020. DOI: 10.12977/nov311
[40] Schwarz,2021. p. 114. Sul nesso tra sacralizzazione e banalizzazione della memoria della Shoah si veda: V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano 2012.
[41] Pisanty, 2020, p. 108.
[42] Si veda l’intervista a Filippo Focardi contenuta in questo dossier.
[43] Prutsch, 2015, pp. 35-39.
[44] Prutsch, 2015. p. 35.
[45] Cfr. R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei (1933-45), Mondadori, Milano 1996.
[46] Uno degli esempi più interessanti in questo senso è costituito dal libro di Christopher Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino 2022. Tra i tanti meriti di questo lavoro se ne possono sottolineare due, di grande rilevanza didattica e educativa: l’aver applicato con successo alla ricerca storiografica il costrutto teorico di Hannah Arendt della “banalità del male”; aver fatto riferimento ad alcune ricerche di psicologia sociale sull’obbedienza all’autorità, tra cui il famoso “esperimento Milgram”. Cfr.: H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2003; S. Milgram, Obbedienza all’autorità. Uno sguardo sperimentale, Einaudi, Torino 2003.
[47] J. Glazer, La zona di interesse, Stati Uniti – Regno Unito – Polonia 2023. Sul film si veda: S. Morganti, The zone of interest: la perfezione tra immagine visiva e immaginazione uditiva, “Novecento.org”, n. 21, giugno 2024: DOI: 10.52056/9791254696965/22
[48] Cfr. E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali nell’arte e nell’architettura del secondo Novecento, Diabasis, Parma 2010.
[49] Traverso, 2013.