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Uscire dalla guerra. Giustizia e tribunali

Uscire dalla guerra. Giustizia e tribunali

Archivio istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Parma; Fondo fotografico; Busta 2FE 81-114: Processo a Maestri e altri, foto 108 “Imputati e avvocati difensivi”.

Abstract

Quale fu la situazione dell’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale, al termine di un conflitto lungo e particolarmente cruento sfociato in Italia nella guerra civile degli anni 1943-1945? Quali furono le modalità e gli strumenti con cui i governi del dopoguerra cercarono di chiudere i conti con il passato regime fascista e la Repubblica sociale italiana? Uno degli strumenti più importati fu la giustizia.

Quale fu la situazione dell’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale, al termine di un conflitto lungo e particolarmente cruento sfociato in Italia nella guerra civile degli anni 1943-1945? Quali furono le modalità e gli strumenti con cui i governi del dopoguerra cercarono di chiudere i conti con il passato regime fascista e la Repubblica sociale italiana? Uno degli strumenti più importati fu la giustizia.

Gli elementi principali che caratterizzarono la transizione da un regime all’altro attraverso la giustizia furono i seguenti:

  1. Punizione dei crimini attraverso la creazione di leggi straordinarie e tribunali speciali;
  2. Politiche di pacificazione e misure di clemenza (amnistie, grazie):
  3. Politiche risarcitorie nei confronti dei sopravvissuti a stermini o persecuzioni (ebrei, sinti e rom, perseguitati politici, partigiani, popolazioni oggetto di stragi).
Legislazione speciale, Corti d’assise straordinarie e Sezioni speciali delle Corti d’Assise

Dal punto di vista legislativo, fondamentale fu il Decreto-legge luogotenenziale del 27 luglio 1944, n. 159 “Sanzioni contro il fascismo”, approvato dal governo Bonomi. In particolare l’art. 5, prevedeva che

Chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943, abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore di aiuto o di assistenza ad esso prestata, è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra.

Il decreto stabiliva due punti fermi di grande importanza:

1) i reati perseguiti erano quelli compiuti negli anni 1943-1945 durante il periodo della Repubblica sociale italiana. Non si intendeva dunque inquisire uomini e azioni compiute durante il regime fascista;

2) l’uso dei termini “collaborazione col tedesco invasore”, “collaborazionismo”, implicava di fatto la presunzione di un ruolo subalterno esercitato dai fascisti della RSI rispetto alle azioni compiute dall’esercito tedesco “invasore” in Italia. Le conseguenze, dal punto di vista giudiziario, sociale e culturale, furono importanti.

Innanzitutto, gli imputati italiani, pur giudicati e condannati sulla base del codice militare di guerra, non saranno definiti criminali di guerra. In secondo luogo, il termine “collaborazionista” implicherà sottintendere un ruolo minore, minimizzare o negare le responsabilità dei reparti e delle bande della Repubblica sociale italiana rispetto all’esercito tedesco in reati come stragi, omicidi, sevizie, deportazione di ebrei. Sarà un pretesto formidabile offerto dal legislatore ai fascisti di Salò per scaricare le responsabilità principali dei crimini sull’esercito tedesco.

Le Corti d’Assise straordinarie (Cas), destinate a processare gli imputati di collaborazionismo, furono istituite il 22 aprile 1945 (Decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142) dal terzo governo Bonomi a cui partecipavano i partiti che facevano parte del Comitato di Liberazione nazionale (Cln) con il compito di giudicare i reati di “collaborazione con il tedesco invasore”.

I principali crimini perseguiti erano rastrellamenti, in particolare della popolazione civile, partecipazione a incendi e distruzioni, collaborazione allo spoglio di opere d’arte o alla rapina di beni; partecipazione alla deportazione di ebrei; partecipazione a plotoni d’esecuzione, partecipazione a tribunali speciali della Rsi, sevizie ai danni di civili e partigiani, delazione nei confronti di civili e partigiani, attuazione di forme di collaborazionismo economico.

Il giudice delle Cas proveniva dalla magistratura ordinaria ed era affiancato da una giuria popolare.

Le Cas operarono fino all’ottobre 1945, sostituite dalle Sezioni speciali delle Corti d’Assise straordinarie fino al 1947. Da fine 1947 in poi i reati di collaborazionismo, quei pochi che vennero ancora perseguiti, passano alla giustizia ordinaria.

Tra 1945 e 1946 un numero elevatissimo di denunce era affluito negli uffici dei pretori e dei procuratori generali; a loro spettava il compito di valutare se aprire i fascicoli d’inchiesta e spiccare i mandati di cattura, o disporre le archiviazioni. La necessità di avviare i processi in tempi rapidi non permetteva in molti casi di predisporre istruttorie inattaccabili. Le segnalazioni e le denunce si ammassavano, le inchieste si aprivano con facilità, ma con altrettanta velocità potevano essere affossate per le ragioni più varie: insufficienza di prove, mancanza o ritiro dei testimoni d’accusa, difficoltà nell’individuare e identificare gli accusati, difficoltà nel ricostruire vicende che si erano svolte in luoghi diversi della RSI o in teatri di guerra mutevoli.

Un’idea della entità del lavoro che spettava ai pubblici ministeri incaricati delle indagini e ai tribunali ci viene da un documento datato 28 febbraio 1946 redatto dall’Ispettorato generale del Ministero di grazia e giustizia il quale stimava che, complessivamente, in tutta Italia erano in corso 1407 processi, mentre 18.365 procedimenti aperti giacevano presso gli uffici dei Pubblici ministeri[1]. Qualche altro esempio ci viene dalla tabella seguente:

Differenze rilevanti si possono riscontrare tra le diverse Corti, ma le differenze maggiori sono quelle rilevabili tra i distretti giudiziari del centro nord e quelli del meridione: le Sezioni speciali di Corte d’Assise di Brindisi, Lecce e Taranto, come quasi tutte le Corti siciliane, non erano operative per mancanza di processi di loro competenza.

L’assenza o la scarsità di indagini e processi nel sud Italia si può far dipendere, almeno in parte, dal fatto che queste zone erano state toccate in misura minore dall’occupazione tedesca, non avevano conosciuto il governo della RSI e dal fatto che la guerra partigiana si era sviluppata prevalentemente tra centro e nord Italia,

Rendevano lenta e poco efficiente la macchina giudiziaria numerosi problemi. In un paese appena uscito dalla guerra gli edifici dei tribunali erano spesso distrutti o non agibili, il personale negli uffici giudiziari, i carabinieri e i Pubblici ministeri che dovevano seguire le indagini e istruire i processi non erano sufficienti. Anche poter disporre di giudici a cui affidare lo svolgimento dei processi per collaborazionismo non era facile. Molti si erano compromessi col regime fascista e la RSI ed erano sottoposti essi stessi a indagine o erano stati epurati; i più giovani, magari appena tornati dalla guerra, erano inesperti. In altri casi rifiutavano di presiedere questi processi per paura delle conseguenze: soprattutto nel primo dopoguerra il pubblico che assisteva ai processi minacciava gli imputati, gli avvocati e i giudici, a volte, soprattutto in seguito a sentenze ritenute troppo miti, cercava di linciare i condannati o di malmenare i giudici.

Processi e condanne

Il quadro generale – dal luglio 1944 al dicembre 1952 – dei condannati per collaborazionismo, dei processi ancora in corso e dell’impatto dei provvedimenti di clemenza viene riassunto in una relazione inviata dal ministro di grazia e giustizia, Adone Zoli, al presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, all’inizio del 1953. Dalla relazione risulta che vi erano stati:

– 5928 condannati per collaborazionismo

– di questi 259 erano stati condannati a morte

– la sentenza era stata eseguita per 91 di essi. Per gli altri 168 la condanna alla pena di morte non aveva avuto seguito in conseguenza di provvedimenti di amnistia o di grazia.

Un numero imprecisato di condannati era stato liberato e la pena era stata interamente estinta in seguito alle amnistie.

Al 31 dicembre 1952 i condannati per collaborazionismo ancora detenuti erano 266, i latitanti 334.

Se prendiamo in considerazione gli imputati e tra questi coloro che furono condannati, possiamo dire che, in generale, tra coloro che avevano esercitato ruoli di rilievo nella Rsi, negli alti gradi dell’esercito, dell’amministrazione, dei tribunali speciali, ben pochi furono condannati a pene severe. Per la quasi totalità di loro non si giunse nemmeno al dibattimento; se processati, furono condannati a pene lievi, assolti, liberati in seguito alle amnistie. Gli esempi più noti sono quello di Pietro Pisenti, ex ministro della giustizia della Rsi, processato e assolto, e quello del ministro delle Forze armate Rodolfo Graziani, condannato nel 1950 a 19 anni di reclusione di cui 13 anni e 8 mesi condonati, rimesso in libertà in quello stesso anno.

La maggior parte dei collaborazionisti che subirono delle condanne aveva esercitato funzioni medio-basse, erano inquadrati nelle varie Brigate nere, nella Guardia nazionale repubblicana, nei servizi di polizia investigativa (UPI Ufficio politico investigativo), e nello spionaggio. La tesi che i tribunali si accanissero contro i gregari, mentre i capi uscivano indenni dalla resa dei conti, fu ampiamente utilizzata dagli avvocati difensori dei condannati per chiedere annullamenti delle sentenze e revisione dei processi.

Collaborazioniste

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e nel corso del 1944, accadde che centinaia di ragazze scrivessero o si presentassero di persona alle federazioni provinciali del Partito fascista chiedendo di poter partecipare attivamente alla guerra, di imbracciare un fucile sostituendo soldati e appartenenti alla Milizia che avevano abbandonato i loro posti.

Il governo di Salò non mandò le donne a combattere, ma nell’aprile 1944 istituì il Servizio ausiliario femminile (SAF), affidandogli compiti specifici. Secondo la tradizionale cultura fascista, ragazze e donne potevano esercitare compiti quasi esclusivamente di supporto ai reparti armati maschili: potevano essere dattilografe, infermiere, telefoniste, pulitrici, cuciniere. Il regolamento del SAF prevedeva che l’addestramento militare fosse solo per legittima difesa.

Nonostante la politica ufficiale, corpi e bande autonomi o semiautonomi che operavano nella RSI, permisero alle donne di partecipare ad azioni militari. Le donne e ragazze arruolate nella X Flottiglia Mas (250 ausiliarie) potevano combattere accanto ai marò. Nelle Brigate Nere le donne erano munite di pistole e mitra. Parteciparono, dunque, in prima persona alla guerra civile, a scontri armati, perquisizioni, fucilazioni, rastrellamenti di partigiani, stragi di civili e distruzione di paesi.

Non sappiamo ancora quante furono nel complesso le donne che collaborarono attivamente in varie forme alla guerra della RSI, ma molte di loro nel dopoguerra furono chiamate a rispondere del reato di collaborazionismo, o di spionaggio.

Le fasciste di Salò erano accusate, in generale, di molteplici reati, ma due erano i capi d’imputazione principali. In maggioranza furono condannate per aver partecipato attivamente alle azioni di guerra e repressione del movimento partigiano, per reati come strage, rastrellamento, cattura di partigiani, omicidio, sevizie. Altre furono processate per il reato, considerato tipicamente femminile, di delazione nei confronti di antifascisti e partigiani, per aver denunciato e contribuito alla cattura e deportazione di persone e famiglie di religione ebraica.

Le condanne delle Cas furono paragonabili a quelle dei camerati maschi: a morte mediante fucilazione, ergastolo e a 30 anni di reclusione, pene variabili dai 24 ai 10 anni di reclusione. Altre ragazze di Salò non arrivarono a processo o furono assolte per insufficienza di prove o perché ritenute innocenti.

Chiudere i conti col passato. Provvedimenti di clemenza: amnistie e grazie (1946-1953)

La giustizia non agì solo attraverso i processi e il diritto penale o di guerra. Altrettanto importanti furono le misure di clemenza. Tra i provvedimenti di clemenza adottati, le amnistie e gli indulti rivestirono un’importanza fondamentale. Il loro uso politico è frequente nella storia d’Italia. Dall’aprile 1944 al dicembre 1949 furono emanati ben 24 provvedimenti: uno ogni tre mesi. I maggiori beneficiari dei provvedimenti di clemenza, nel primo decennio del secondo dopoguerra, furono ex fascisti e collaborazionisti: si è calcolato che dei provvedimenti di amnistia, indulto e grazia beneficiarono 5328 fascisti, 2231 in modo totale, 3363 in parte[2].

Il provvedimento di clemenza più significativo fu l’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946.

Segnò un cambio decisivo di prospettiva riguardo alla punibilità dei crimini fascisti. Un provvedimento ampiamente studiato e oggetto di giudizi contrastanti tra chi lo ha ritenuto importante per voltare pagina rispetto al passato, uno strumento per favorire la pacificazione nazionale e chi lo ha considerato un “colpo di spugna” sui crimini perpetrati dai fascisti della Rsi e i loro alleati tedeschi.

Il provvedimento di clemenza fu voluto dal primo governo De Gasperi e presentato dal guardasigilli, il comunista Palmiro Togliatti, come scelta necessaria per «un rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale», un atto «di forza e di fiducia nei destini del Paese» e prevedeva l’amnistia per reati comuni, politici e militari[3].

Le reazioni da parte dell’opinione pubblica al provvedimento furono diverse. Il “Corriere d’informazione” [successivamente “Corriere della sera”] del 9-10 luglio 1946 esprimeva perplessità sul fatto che fosse uno strumento efficace di pacificazione. In un articolo intitolato Pacificazione? si scriveva che l’opinione pubblica aveva accolto il provvedimento «con perplesso silenzio che è venuto facendosi più grave da quando la stampa ha cominciato a pubblicare i nomi dei beneficiari più in vista». Sarà, in realtà, un silenzio di breve durata, sostituito da centinaia e centinaia di lettere di protesta, da manifestazioni e da altre forme pubbliche di dissenso.

Un esempio: il fisico Enrico Persico, che aveva fatto parte del gruppo di Enrico Fermi, scriveva, nel luglio 1946, al collega Franco Rasetti, emigrato in Canada:

Qui come sai abbiamo fatto la repubblica, alla quale io ho dato il mio voto, ma senza farmi troppe illusioni. Il suo primo atto è stata una pazzesca amnistia che rimette in circolazione ladri, spie fasciste, rastrellatori e torturatori, eccetto quelli le cui torture erano ‘particolarmente efferate’. Viene proprio il rimpianto di non aver fatto, a suo tempo, il torturatore moderatamente efferato. L’epurazione, come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del Manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle Università.[4]

L’applicazione estensiva del decreto di amnistia, ben oltre le intenzioni del promotore, ottenne

l’effetto di annullare gran parte delle pene già erogate e di sancire il non luogo a procedere per molte cause non ancora dibattute, con la conseguenza di determinare l’immediato rilascio di un ampio numero d’imputati detenuti per espiazione di pena o in attesa di giudizio.[5]

Coloro che non furono immediatamente liberati beneficiarono di notevoli sconti di pena.

Quando gli effetti dell’amnistia cominciarono a essere visibili tornarono a moltiplicarsi gli episodi di violenza contro ex fascisti, attuati sia direttamente dalla folla, sia da squadre partigiane ricostituite.

Giustizia in Alto Adige. La Cas di Bolzano

Anche in Alto Adige, come in gran parte d’Italia, difficoltà pratiche di vario genere – dalla mancanza di una sede, alla difficoltà di trovare personale e magistrati disponibili – ritardarono l’inizio dell’attività giudiziaria della Cas di Bolzano.

Per questo la Corte cominciò la propria attività a fine luglio 1945, affrontando un centinaio di denunce che attendevano o l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Il primo processo avvenne il 5 settembre 1945.

Comune anche al resto d’Italia era la difficoltà di istruire i processi a causa della irreperibilità dei testimoni, uccisi o morti nei lager o che volevano evitare di incontrare gli aguzzini soprattutto se non potevano contare sulla solidarietà della popolazione o di un gruppo.

In Alto Adige il problema dei testimoni era ancor più drammatico dal momento che coloro che avevano commesso crimini di guerra erano compaesani che erano stati arruolati nella SOD (Südtiroler Ordnungsdienst), la polizia ausiliaria che, dopo l’8 settembre 1943 operava al fianco delle truppe tedesche. Un altro problema era rappresentato della profonda diffidenza tra le due etnie, italiana e tedesca, aggravata da vent’anni di fascismo, dal problema delle opzioni, dall’inserimento del Trentino Alto Adige nel Reich tedesco dopo l’8 settembre 1943. Sicuramente non aiutava nemmeno il fatto che i giudici della Cas fossero italiani o Dableiber (coloro che al momento delle opzioni avevano scelto di rimanere in Alto Adige).

Il PM Giovanardi scrivendo, il 30 gennaio 1947, alla Procura generale di Venezia, spiegava così le scelte della Corte bolzanina:

Data la speciale situazione, allo scopo di evitare ripercussioni politiche, si è seguito il criterio di colpire solo i casi più gravi di abusi ed eccessi commessi contro italiani ed allogeni optanti per l’Italia, da parte di allogeni al servizio dei nazisti. Malgrado ciò, in numerosi casi, i giudici popolari scelti tra i due gruppi etnici italiano ed allogeno, si sono dimostrati di particolare mitezza.[6]

Gli imputati giudicati dalla CAS di Bolzano furono, in particolare, sorveglianti del campo di concentramento di Bolzano, autori di azioni di rastrellamento di militari sbandati, di partigiani, di renitenti o disertori dell’esercito tedesco. Altri processi riguardarono delatori sia nei confronti di antifascisti o partigiani che nei confronti di tedeschi o ladini non optanti per la Germania nazista.

Le condanne variarono dall’ergastolo (2) a 30 anni (6), 20 anni (8), dai 5 ai 10 anni (19), ai 2 anni di detenzione (28). Nessuno fu condannato a morte; 31 imputati furono assolti, per 12 fu dichiarata l’estinzione del reato per amnistia.

La strage di Merano

A Merano il 30 aprile 1945, rispondendo a voci che si erano diffuse sulla fine della guerra, molti cittadini di lingua italiana aveva cominciato ad esporre il tricolore alle finestre e a scendere in piazza ritrovandosi poi in due cortei nati spontaneamente per festeggiare la pace. Nessuno era armato, qualcuno portava al braccio una fascia tricolore. I soldati tedeschi, ancora numerosi in città, in un primo momento erano rimasti a guardare poi qualcuno aveva cominciato a sparare sulla folla uccidendo otto persone, tra cui un bambino di sette anni, e ferendone una ventina, di cui undici in modo grave. Anche alcuni civili avevano partecipato al massacro, sia sparando sulla folla, sia incitando i soldati a uccidere,

Nella mattinata del 30 aprile, un secondo corteo si era diretto verso il centro di Merano. Anche in questo caso si erano verificati fatti di sangue; tra gli imputati per quei fatti vi era un intero gruppo familiare: il padre Augusto Knoll, nato a Merano nel 1884, operaio pittore, il figlio Ugo di anni 17, scolaro, e la figlia Karoline di 25 anni[7].

Secondo varie ricostruzioni dei fatti si era potuto accertare che alcuni soldati guidati da un ufficiale delle SS avevano sparato raffiche di mitra, prima in aria, poi ad altezza uomo, sui partecipanti al corteo ferendo e uccidendo diverse persone. Le testimonianze erano concordi anche nell’affermare che i fratelli Knoll avevano incitato i soldati ad uccidere, avevano sparato sui manifestanti e si erano accaniti contro morti e feriti.

Tra marzo e giugno 1946 si era tenuto, presso la Cas di Bolzano, il processo contro dieci imputati, per i fatti di Merano.

Nel corso del processo Augusto e Karoline Knoll avevano negato ogni addebito e ripetutamente contraddetto i testimoni. Ugo era latitante.

La Corte aveva condannato Karoline Knoll alla pena dell’ergastolo per i reati di collaborazionismo, omicidio aggravato, furto aggravato, vilipendio di cadavere, vilipendio di ministro del culto cattolico e altri reati minori. Il fratello Ugo e il padre Augusto erano stati condannati a 30 anni di reclusione.

Un altro processo importante della Cas di Bolzano fu quello a carico di Albino Cologna, guardiano del campo di concentramento di Bolzano. Imputato, con i torturatori ucraini Misha Seifert e Otto Sein, di numerose uccisioni e torture a danno dei prigionieri.

Testimoniava Mario Leoni, professore a Bolzano:

Ho avuto modo di conoscere il Cologna che era il guardiano addetto alle nostre celle ove sono rimasto dal 15 gennaio al 9 marzo 1945. Costui è il vero autore delle varie atrocità che furono commesse in dette celle sia da lui materialmente sia dai due russi (Seifert e Sein) che si abbandonavano spesso ad atti di crudeltà inauditi e bestiali. Sono stato diverso tempo nella cella n. 36, annessa a quella chiamata della morte (n. 35), dalla quale era separata da un muro di circa 10 centimetri di spessore. Ricordo che in detta cella, la n. 35, furono successivamente rinchiuse tre donne ebree di nazionalità italiana che una alla volta morirono in seguito ai maltrattamenti subiti. Esse erano tenute 5-6 giorni senza mangiare. Venivano fatte dormire sul pavimento ove vi era acqua alta due dita. A ciò si univano bastonature e sevizie che venivano compiute dai due ucraini, consenziente il Cologna.[8]

Ad Albino Cologna furono concesse le attenuanti “tenuto conto della sinistra influenza che sulla sua rozza personalità poté esercitare il tristo ambiente di implacabile persecuzione della polizia nazista nel quale egli spiegò il suo terribile zelo” e quindi condannato a 30 anni di reclusione di cui 10 subito condonati. Otteneva la liberazione condizionale il 17 dicembre 1952.

Giustizia negata: gli ebrei

Se consideriamo i processi contro i responsabili della deportazione degli ebrei italiani, contro i delatori e le delatrici che avevano denunciato gli ebrei negli anni della Repubblica di Salò, furono pochi quelli che si conclusero con condanne, che non ricaddero nell’amnistia o nell’assoluzione per insufficienza di prove[9].

Un processo che si concluse con una condanna fu quello a carico di Antonia Rosini Vicentini, condannata per «delazione di ebrei a scopo di lucro»[10].

La donna, una signora di una certa età (45 anni nel 1943), appariva affidabile e ben disposta, esercitava la rispettabile professione di erborista a Malnate, in provincia di Varese, in un luogo particolarmente favorevole per intraprendere il viaggio verso la Svizzera. Molti ebrei costretti a fuggire ai nazifascisti si erano rivolti a lei per essere aiutati a passare il confine italiano e riparare in Svizzera. La signora Antonia e un suo complice, il Muzzi, chiedevano il denaro strettamente necessario per organizzare il pericoloso viaggio e davano ampie garanzie di passare incolumi il confine. Era tutto così ben organizzato che era previsto e incoraggiato anche che gli ebrei che volevano espatriare portassero con loro tutto il denaro e quanti più beni possibile in valige e bauli (beni e denaro depredati e spartiti poi tra gli organizzatori dei viaggi e i vari complici).

Di alcune di queste persone, vecchi, giovani coppie, madri e figli, nel dopoguerra si era persa ogni traccia; di altri si era riusciti, in sede investigativa e processuale, a ricostruire le vicende: su indicazione della Rosini e del Muzzi gli ebrei che si erano affidati alla donna erano stati catturati dai militi fascisti prima del confine, spogliati di tutti i loro averi, consegnati ai tedeschi, deportati nei campi di sterminio.

La Rosini Vicentini sarà condannata a 15 anni di reclusione dalla Cas di Novara (9 luglio 1946) e otterrà una riduzione di pena per amnistia del 1946 di 7 anni. Chiederà la grazia più volte a partire dal 1947, ma le verrà sempre negata in considerazione della gravità dei reati. Sarà liberata definitivamente in seguito all’amnistia del 1953.

Dopo la guerra parte degli ebrei scampati ai campi di sterminio o tornati rinunciarono preventivamente a chiedere giustizia in tribunale per i motivi più vari che andavano dalla sfiducia nel nuovo stato e nella sua burocrazia, dalla rassegnazione alla mancanza di solidarietà. L’amarezza in molti di loro derivava anche dal verificare gli atteggiamenti diffusi di fastidio, quando non di aperta ostilità, nei loro confronti da parte di coloro che negli anni del fascismo e della Rsi avevano approfittato o si erano impadroniti dei loro beni sequestrati, confiscati, persi in vario modo in seguito alle leggi razziali.

Spesso anche il ricorso alla giustizia si rivelava inutile.

Un caso che getta luce su tante vicende giudiziarie simili è quello di Clara Pirani, maestra, ebrea, sposata con un italiano di religione cristiana. Era stata arrestata nel maggio 1944 per ordine della questura di Varese, consegnata alle SS di stanza a Milano, rinchiusa a San Vittore, trasferita nel campo di Fossoli, infine deportata nell’agosto 1944, assieme ad altri trecento ebrei, ad Auschwitz- Birkenau dove morì. I suoi familiari in Italia, nel frattempo, all’oscuro di quello che stava avvenendo, si attivavano per il suo rilascio[11].

Nel 1947 fu celebrato, presso la Cas di Milano, il processo contro Mario Bassi, ex capo della provincia di Varese e poi di Milano, con l’accusa generica di collaborazionismo, non con quella specifica della responsabilità per la consegna di molti ebrei alle SS tedesche. Il processo si concluse con una condanna a 10 anni, ridotti di un terzo per le attenuanti. La pena residua fu condonata in seguito all’applicazione dell’amnistia del 22 giugno 1946 e il Bassi veniva dunque subito liberato. La sentenza lascerà nelle figlie di Clara Pirani la convinzione di una “giustizia negata”, di essere in una condizione di vittime a cui anche la nuova Italia non offriva risposte in termini di giustizia:

Noi siamo sempre rimaste al di sotto dei giochi della politica e degli imprevisti della storia, in quella zona inferiore, destinata a soccombere. Siamo rimaste ostinatamente sole, in quell’aula di giustizia, ad attendere l’esito di una lotta ineguale.[12]

Il senso di ingiustizia, sarà reso ancora più acuto dalla vana lotta per ottenere dal provveditorato di Torino un indennizzo postumo per l’esclusione della madre dall’insegnamento; un tentativo destinato ad arenarsi di fronte alla burocrazia della nuova Repubblica.

Bibliografia
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Note:

[1]              Da: “Prospetto informativo” redatto dall’Ispettorato generale del ministero di grazia e giustizia di fine febbraio 1946 contenente, regione per regione, il numero dei processi pendenti presso le Sezioni speciali di Corte d’Assise e il numero di procedimenti giacenti presso gli uffici dei PM alla data del 28 febbraio 1946: Archivio Centrale dello Stato, Ministero di grazia e giustizia, Gabinetto, b. 9, fascicolo 36, “Sezioni speciali di Corte d’Assise. Movimento dei processi durante il bimestre gennaio-febbraio 1946”.

[2] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Feltrinelli 2006, pp. 259-260.

[3] Relazione del Ministro Guardasigilli al Presidente del Consiglio sul Decreto Presidenziale 22 giugno 1946 n. 4, in “Gazzetta Ufficiale”, 23 giugno 1946, n. 137.

[4] E. Amaldi, Da via Panisperna all’America, Roma, Editori riuniti, 1997, pp. 176-77.

[5] T. Rovatti, Tra giustizia legale e giustizia sommaria, in G. Focardi, C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 46.

[6] G. Perez, La Corte d’Assise straordinaria di Bolzano, in G. Delle Donne (a cura di), Alto Adige 1945-1947. Ricominciare, Bolzano, Provincia autonoma di Bolzano, Ufficio educazione permanente, biblioteche e audiovisivi, 2000, pp. 104-105.

[7] C. Nubola, Fasciste di Salò, pp. 140-151.

[8] G. Perez, La Corte d’Assise straordinaria di Bolzano, pp. 125-129.

[9] Per alcuni casi particolarmente significativi di “proscioglimento” di responsabili di persecuzioni razziali e di politiche antisemite cfr. Franzinelli, L’amnistia, pp. 207-216.

[10] C. Nubola. Fasciste di Salò, pp. 52-59.

[11] Giuliana, Marisa e Gabriella Cardosi, La giustizia negata. Clara Pirani, nostra madre, vittima delle leggi razziali, Varese, Edizioni Arterigere-Essezeta, 2005.

[12] Giuliana, Marisa e Gabriella Cardosi, La giustizia negata, p. 90.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Uscire dalla guerra. Giustizia e tribunali
DOI: 10.52056/9791254691090/06
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Uscire dalla guerra. Giustizia e tribunali, Novecento.org, n.17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/06

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