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Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti

Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti

Collage di oggetti ad opera dell’autrice

Abstract

Dopo aver delineato un quadro di riferimento sullo stato dell’arte per quel che riguarda l’archeologia dell’età contemporanea, si procede a indagare la storia di Beppe Fenoglio con i metodi dell’archeologia, cioè lo studio dei resti materiali del passato. L’operazione porta a dipingere un ritratto dello scrittore-partigiano e allo stesso tempo a raccontare le storie degli oggetti della sua vita, usandoli come fonti per la costruzione di una biografia archeologica. Attraverso l’osservazione e lo studio di oggetti personali, di alcuni elementi architettonici e l’analisi della loro material agency, si restituisce una chiave di lettura archeologica al complessivo quadro storico.
Alcuni oggetti presi in esame provengono dalla raccolta del Centro Studi Beppe Fenoglio, altri sono conservati dagli eredi, altri ancora disseminati tra le colline delle Langhe e il centro storico di Alba.

ARCHEOLOGIA DELL’ETÀ CONTEMPORANEA

Sembra un ossimoro eppure è reale: l’archeologia può occuparsi di indagare la società contemporanea, anzi è utile che lo faccia e lo sta già ampiamente facendo. Ciò è possibile se veniamo a patti con due assunti, ovvero che l’archeologia è quella disciplina che studia il passato inteso in senso generale (non solo quello archaios) attraverso i suoi resti materiali e che questo modo di studiare il passato è una metodologia applicabile a tutti i “passati” che producono materialità. Riguardo a quest’ultima, arriva fino a noi quella di un passato molto antico, del quale ci sono pervenute tavolette d’argilla recanti incisioni cuneiformi o tesori altomedievali composti da fibule in oro con decorazioni preziose a cloisonné, ma anche quella del passato di cinque giorni fa: una nave piena di persone affonda nel mediterraneo e tornano a riva i suoi rottami e gli oggetti appartenuti a chi c’era sopra. La differenza tra queste tre storie è solo la cronologia d’appartenenza, ma per poterle raccontare nei dettagli disponiamo solamente delle evidenze materiali.

 

SÌ MA, SERVE VERAMENTE?

Sembra che, almeno a grandi linee, si sappia già tutto del passato a noi più prossimo. Siamo circondati da fonti scritte, orali, fotografiche, audiovisive, cartografiche: davvero le fonti materiali possono fornirci ancora informazioni di cui non siamo al corrente? Per rispondere, un esempio: lo studio unanimemente considerato capostipite dell’archeologia dell’età contemporanea è stato il Garbage Project, un progetto di screening dei rifiuti condotto a Tucson, Arizona, dal 1973 al 2005 dall’archeologo William Rathje. Il team di ricerca ha intervistato gli abitanti della città chiedendo loro quante lattine di birra consumassero ogni settimana e poi ha aperto i bidoni della spazzatura per confrontare il dato materiale con le testimonianze orali. Risultato: il 60% delle persone intervistate aveva dichiarato il falso e consumava molta più birra di quanto non avesse detto durante le interviste. Questo non significa semplicemente che i cittadini di Tucson hanno mentito, ma fa riflettere sul perché di questa auto-percezione falsata: in una società che ha come valori il fitness e la salute e che impone dei modelli di consumo “corretti” nessuno ha piacere di dichiararsi indulgente con l’alcool. Lo studio degli oggetti ci parla quindi delle relazioni che tra questi e le persone intercorrono e di come il contesto sociale influenza queste relazioni. L’agnizione di alcune dinamiche è possibile solo se si passa attraverso gli strumenti dell’archeologia.

 

TEMI E OBIETTIVI

Gli ambiti di studio della disciplina sono molteplici e variegati: l’archeologia industriale, quella dei conflitti contemporanei e della reclusione, del paesaggio, della vita quotidiana, dell’architettura, delle migrazioni. Con l’obiettivo di restituire un’interpretazione della contemporaneità più completa possibile, l’archeologia dell’età contemporanea affronta questi temi da una prospettiva che è sempre multidisciplinare, nel metodo e nella tipologia di fonti consultate. Inoltre, mette in discussione il concetto stesso di successione cronologica per compartimenti stagni (preistoria, età antica, medioevo, eccetera), proponendo studi che si muovono trasversalmente nel tempo, analizzando le rimanenze del passato nel presente. Infine, è multivocale, cioè considera alla pari tutte le narrazioni, dando voce ai “muti della storia” e non avvalendosi della narrazione mainstream.

Ancora, adempie a tre necessità. La prima è quella di tutelare la materialità che testimonia degli eventi storici del nostro tempo in un’epoca (la nostra) in cui tutto muta rapidamente e altrettanto rapidamente viene sovrascritto. Il riconoscimento del valore storico, archeologico, memoriale del patrimonio materiale è essenziale perché tali testimonianze non vadano perse. La seconda è quella di restituire alle sezioni della società che non hanno avuto riconoscimento della propria memoria la legittimazione mancata: si presta a dare voce alle storie di quegli individui o di quelle collettività che non emergono in altre fonti fuorché in quelle materiali, la storia delle persone “normali” e delle fasce meno considerate. Inoltre è un efficace strumento di messa in atto di progetti di recupero della memoria che partono “dal basso”. Infine, il contatto con l’eredità materiale ha un impatto di comunicatività molto forte presso il pubblico: queste tre caratteristiche offrono la possibilità di sfruttare l’archeologia dell’età contemporanea come efficace strumento di public history (o archaeology) e di service learning.

 

HATERS (QUASI) SCONFITTI

A differenza di altri paesi in cui l’archeologia dell’età contemporanea è un ramo affermato della disciplina, in Italia si sono riscontrate alcune resistenze all’accostamento di queste parole. Non ci stupisce, basti pensare che una cinquantina d’anni fa toccava all’archeologia medievale cercare di sfondare il muro della cronologia e far riconoscere il patrimonio materiale di cui si occupa come patrimonio archeologico. Attualmente, solo in tre università del nostro paese è previsto un insegnamento intitolato archeologia postmedievale, che è anche il titolo dell’unica rivista dedicata a questi temi di ricerca in Italia. Malgrado il riconoscimento accademico della disciplina fatichi ad arrivare, non poche ricerche si stanno muovendo in questa direzione e, per la prima volta nel 2021, se ne è discusso pubblicamente al convegno Scavare il presente – Come l’archeologia può indagare l’età moderna e contemporanea, a cura di Giuliano Volpe, organizzato dalla rivista Archeologia Viva. Sono stati illustrati diversi studi già avviati: due si occupano di archeologia del conflitto, ricercando i resti della Prima guerra mondiale in Trentino e attraverso lo studio di un ex campo di prigionia della Seconda guerra mondiale in Puglia; uno di archeologia delle migrazioni contemporanee a Lampedusa, studio che recupera e analizza gli oggetti che il mare restituisce sulle coste.

 

UNA BIOGRAFIA ARCHEOLOGICA

La vita quotidiana, come abbiamo detto, è uno dei temi chiave dell’archeologia dell’età contemporanea. La nostra disciplina si inserisce perfettamente in quell’ampio bacino di studi chiamati material culture studies, che si occupa di paesaggi, edifici, strumenti, manufatti, che sono i resti materiali delle società del passato o le sussistenze di quelle del presente. Entro questo ambito di studi, la matrice materiale è considerata quale ingrediente attivo del sistema persone-cose-società che costituisce la base del contesto in cui viviamo. In questo modo, agli oggetti viene attribuita un’agency, un ruolo da mediatori nel loro tempo di esistenza e nei confronti del contesto in cui sono calati, che influenzano e dal quale sono influenzati.

Scrivere una biografia archeologica significa proporre una narrazione che tenga conto di questa relazione tra cose e persone e che racconti la storia delle une attraverso le altre. In realtà non c’è nulla di nuovo: ogni studio archeologico parte dalla narrazione della storia di un oggetto, di un sito, di un contesto, per dedurre la storia delle persone che lo hanno utilizzato, costituito, vissuto.

Lo studio che segue propone di analizzare gli oggetti e i luoghi della vita di una persona del passato contemporaneo, anche relativamente conosciuta, per dimostrare che il passaggio dalla fonte materiale è sempre rivelatore di nuovi punti di vista che, altrimenti, rimarrebbero nascosti e che invece restituiscono un nuovo tassello alla complessità del reale.

 

ARCHEOLOGIA DI BEPPE FENOGLIO – UNO SCRITTORE PARTIGIANO ATTRAVERSO I SUOI OGGETTI

Per raccontare la storia degli oggetti di Beppe Fenoglio e, attraverso questi, la sua vita, il discorso viene organizzato in tre macro-tematiche: la sua provenienza, l’esperienza nella Resistenza e l’attività di scrittore.

 

ALBA E LE LANGHE

Casa Fenoglio

Piazza Rossetti corre esternamente al duomo di Alba, lungo il fianco della chiesa che corrisponde alla navata sinistra. Dall’altro lato della piazza, l’altro polo del potere cittadino, ovvero il municipio. Sorge in piazza Rossetti un edificio in cemento rosa e grigio, il cui aspetto non è sempre stato questo. Nel 1854 gran parte di Alba viene completamente ricostruita secondo un nuovo piano urbanistico e architettonico promosso dall’allora sindaco della città Giorgio Busca (che, tra l’altro, è anche l’architetto che progetta il piano). Le costruzioni di piazza Rossetti vengono rase al livello del suolo, e sovrascritte da nuovi edifici: al civico 1 sorge una casa su due piani. Passata una settantina d’anni, negli anni Venti del Novecento, al pian terreno dell’edificio, civico 2, si installa la macelleria di Amilcare Fenoglio, il padre di Beppe; la famiglia Fenoglio prende casa al civico 1. La casa, seppur su due piani, non è grande: pochi ambienti arredati con un mobilio nero e austero. A partire dal secondo dopoguerra, Beppe Fenoglio passa lunghe nottate a scrivere nel soggiorno, su un tavolone nero che alla mattina lascia ingombro di fogli e posacenere strabordanti. I Fenoglio restano in piazza Rossetti fino al 1956 quando Amilcare Fenoglio va in pensione chiudendo la macelleria. Diverse attività abbandonano Piazza Rossetti, che cade pian piano in una condizione di degrado. Negli anni Ottanta il comune decide di rimetterla a posto e abbatte senza troppe remore alcuni edifici per costruirne di nuovi: tra questi, una parte di casa Fenoglio, quella corrispondente al civico 1, al cui posto dovrebbero sorgere nuovi edifici comunali. La popolazione albese, scontenta, raccoglie le firme perché gli spazi ancora in piedi della casa (il civico 2 della macelleria e gli ambienti sopra questa) possano ospitare un centro studi dedicato allo scrittore. Otto anni dopo l’abbattimento, il comune cede gli spazi: dal 2000, i vecchi ambienti di casa Fenoglio diventano il Centro Studi. Piazza Rossetti 2, nella sua nuova veste, è stata allestita come una casa museo: i mobili neri sono stati riportati nelle stanze che li ospitavano e ricollocati anche grazie alla puntuale testimonianza di Marisa Fenoglio[1]. Casa Fenoglio è il punto di partenza di questa ricerca: gli oggetti e i luoghi che citeremo sono in essa custoditi o ad essa collegati. Anche il tema del riconoscimento di un certo valore storico alla traccia materiale da parte della società tornerà. Ci addentriamo allora in questa narrazione, aderenti alle testimonianze materiali, sperando di restituire attraverso un’indagine archeologica il giusto valore anche alle cose che non ne hanno avuto.

San Benedetto Belbo e la Censa di Placido

Durante l’infanzia, Beppe Fenoglio trascorre qualche estate a San Benedetto Belbo in Alta Langa, zona d’origine della famiglia paterna. Anche se la fondazione dell’abitato è antica, San Benedetto dovrà aspettare fino a metà Ottocento per essere raggiunta da una strada percorribile con i carri e fino a fine Ottocento per ospitare una scuola. Con l’avvento delle strade e della scuola il numero di abitanti cresce e infatti diversi edifici del paese risalgono a quel periodo. Tra questi, la Censa (da licenza, esercizio commerciale in cui si vendono beni di monopolio) di Placido Canonica, vero centro economico e sociale del paese, che include in sé anche l’Osteria dei Fiori.

La Seconda guerra mondiale e in particolare l’autunno del 1944 segnano profondamente il destino di San Benedetto e anche della Censa. Dopo l’attacco del Passo della Bossola, le forze dell’RSI danno fuoco a diversi paesini dei dintorni, tra cui San Benedetto[2]. Anche la Censa è danneggiata dalle fiamme, ma si salva dalla distruzione completa.

La Censa è stata un luogo centrale nell’esperienza fenogliana della Langa: qui lo scrittore si reca diverse volte dopo la guerra, ascolta le storie di cui si chiacchiera e poi le rielabora nei suoi scritti. Spesso si tratta di gite rapide di uno o due giorni e le camere della Censa lo ospitano mentre è in cerca di nuovi spunti per le opere. L’attività della Censa è stata longeva: l’osteria infatti è rimasta attiva fino agli anni Novanta, dopodiché l’edificio ha conosciuto una fase di abbandono durata fino al 2010, quando è stata rilevata dalla Fondazione Bottari Lattes. La Fondazione ha messo in atto un primo restauro ricostruendo il tetto e sostituendo la copertura lignea con losanghe di pietra di Langa. Il corpo dell’edificio era però ancora gravemente danneggiato: il valore storico e letterario riconosciuto a questo luogo ha permesso di avviare un nuovo intervento di restauro, in carico al Comune, conclusosi quest’anno. I nuovi lavori hanno permesso di confermare il coinvolgimento della Censa nell’incendio del ’44, dato il ritrovamento di travi originali bruciate e di riflettere sulla storia di questo edificio anche in funzione delle componenti della struttura. Un esempio: sono stati rinvenuti due forni costruiti in pietra di Langa, collegati da un sistema particolare di aspirazione di fumi. Chi conduce i lavori sostiene che due forni così grandi, per un’osteria, siano tanti: la loro presenza potrebbe suggerire una destinazione d’uso diversa originariamente prevista per questo immobile, che ne vedesse effettivamente la necessità: forse un fornaio?

La Censa di Placido è una di quelle testimonianze materiali il cui valore è stato fortunatamente riconosciuto e dunque sta affrontando un efficace processo di restituzione.

 

FENOGLIO PARTIGIANO

Valdivilla, storia di due muri

Il 24 febbraio a Valdivilla ha luogo una battaglia che rimarrà nella memoria di chi ha combattuto da partigiano nelle Langhe: si tratta dell’ultima disfatta partigiana prima della fine della guerra. Valdivilla è una frazione di Santo Stefano Belbo che consiste in un piccolo agglomerato di case lungo una strada. Lo scontro avviene poco fuori dal centro abitato presso una cascina in cui si è rifugiata una pattuglia fascista. Sei partigiani della brigata Belbo della II Divisione Langhe aprono la strada al resto dei compagni verso la cascina. Tra quelli che li seguono, c’è Beppe Fenoglio. L’intenzione è quella di tendere un’imboscata ai fascisti, ma quando arrivano alla cascina scoprono di essere attesi. Si apre il fuoco: i fascisti sparano dalle finestre della cascina, i partigiani si rifugiano come possono nei fossi lungo la strada o dietro ad un camion carico di botti di vino che è parcheggiato lì. Da entrambe le parti cadono vittime: i partigiani perdono il comandante Pinin Balbo, padre di Poli, i fascisti un generale. Poi, succede un fatto determinante. Un partigiano di nome Set di appena sedici anni viene ferito ad un piede; un amico, Dario Scaglione detto Tarzan, lo porta in salvo in una cascina dove possa essere medicato. Alla fine della battaglia i fascisti vanno a cercarli e li arrestano. Set, ferito, viene fatto prigioniero e portato a Canelli. A Dario, visto il suo gesto di grande lealtà, viene proposto di passare con la RSI. Rifiuta. Dopo aver scritto poche righe di commiato alla famiglia[3], viene fucilato contro il muro della cascina presso la quale si era svolto il combattimento. Dario Scaglione e Beppe Fenoglio erano amici molto stretti e proprio per questo lo scrittore partigiano racconterà la sua storia in ben cinque diversi scritti (due racconti, il finale de Il partigiano Johnny, una lettera al comune di Alba e una a Calvino).

Dopo la guerra, Fenoglio tornò spesso a Valdivilla con gli amici, a rimembrare la storia di quella giornata. Tra questi non mancò mai Ugo Cerrato, il quale in una video-intervista rilasciata nel 2005 girata a Valdivilla, indicò sul muro della cascina alcune perforazioni di proiettile che imputò alla raffica che uccise Dario Scaglione.

La cascina presso la quale si svolse lo scontro esiste ancora ed è ancora abitata da Carlo Scarrone, classe 1939, che abitava lì a Valdivilla già nel ’44 e aveva sei anni il 24 febbraio. Nella sua memoria rimane nitida quella battaglia, sicuramente anche suffragata dai racconti dei genitori e dei vicini. Anche il signor Scarrone ha ben in mente i fori lasciati dai proiettili sul fianco della casa e li ricorda anche sulla facciata, sotto alle finestre da cui sparavano i fascisti; la sua deposizione è stata essenziale per individuare effettivamente luoghi in cui si è combattuta la battaglia. Con tutte le accortezze del caso, l’archeologia dell’età contemporanea ha la fortuna di poter sfruttare anche le fonti orali di testimoni diretti per ottenere informazioni riguardo al patrimonio materiale di cui si occupa[4]. I due muri sono stati restaurati tra il 2005 e il 2010 e il restauro ha cancellato i fori. Questo significa che la traccia materiale testimone del fatto che quei corpi di fabbrica sono stati il teatro del combattimento di Valdivilla è scomparsa: a ricordarla, restano solo una lapide dedicata a Dario Scaglione, ma collocata su una parete che non è quella della fucilazione, e un monumento ai caduti della II Divisione Langhe, collocato dove si trovava parcheggiato il camion con le botti di vino, cosa che però non è in alcun modo segnalata. Il mancato riconoscimento dell’importanza delle eredità materiali e archeologiche del contemporaneo comporta, come in questo caso la loro perdita definitiva. E non si può contare per sempre sulla testimonianza diretta. La cancellazione dei fori provocati dai proiettili che hanno ucciso Dario Scaglione è una scelta inattenta che annulla la testimonianza più tangibile di un importante capitolo della Resistenza langarola.

Le armi del partigiano

Le armi di Beppe Fenoglio sono state trovate nel 2013 dalla figlia Margherita, nella casa che era stata dei suoi genitori. Si tratta di una colt M1911 A1 e di una carabina M1, rinvenute insieme al cinturone di sostegno delle armi, al quale sono applicate due borse porta-munizioni e una fondina per la pistola. Grazie alle matricole presenti sulle armi è stato possibile ricostruire la storia di questi oggetti[5]: entrambe di fabbricazione americana, transitate probabilmente entrambe nel Regno Unito, sono arrivate in Piemonte grazie all’intervento delle forze alleate. La colt è stata probabilmente donata a Fenoglio da un ufficiale di missione inglese o americana, siccome si tratta di un’arma destinata ad alti gradi dell’esercito. La carabina invece è un’arma più comune, che potrebbe essere arrivata a Fenoglio anche attraverso gli aviolanci della RAF. Il cinturone porta-armi è americano, come anche le due borse porta-munizioni, ma non così la fondina per la colt che è inglese: perché la pistola americana ci entrasse una parte della tela è stata asportata.

Analizzando le armi di Fenoglio nella loro matrice materiale, due questioni saltano all’occhio: la prima riguarda la composizione di questo complesso armamentario, la seconda il rapporto che Fenoglio deve aver intessuto con esse, testimoniandone nelle sue narrazioni. Le armi dei partigiani potevano provenire dai contesti più disparati: alcune erano armi di produzione nazionale in uso prima dell’8 settembre; altre erano state fornite dagli alleati durante la Prima guerra mondiale; in altri casi si trattava di prede belliche dell’inizio della guerra, francesi, greche, jugoslave, russe; alcune ancora, erano state sottratte ai tedeschi occupanti o alla RSI.; infine, come nel caso di Fenoglio, potevano essere state fornite dagli alleati direttamente o tramite gli aviolanci. La seconda questione, ovvero quella del rapporto intessuto da Fenoglio con le sue armi, emerge nitidamente dalle sue parole, in particolare analizzando il romanzo Una questione privata. Qui, le armi sono effettive co-protagoniste, uniche compagne sempre presenti di Milton e riconosciamo, in quelle del romanzo, proprio le due armi di Fenoglio, la colt e la carabina[6]. Le armi di Milton hanno un ruolo da personaggi attivi nella vicenda: è la pistola, ancor più di Milton, a sparare al sergente ostaggio; la vicenda non può avere seguito nel momento in cui Milton perde le armi nella fuga causando la brusca interruzione del romanzo.

Il ritrovamento è stato inaspettato: alla fine della guerra il CLNAI aveva stabilito l’obbligo di restituzione delle armi da parte dei partigiani. Moltissimi però sono i casi in cui la restituzione non è avvenuta: lo dimostrano i registri di raccolta, scarni, in particolare per quanto riguarda alcuni tipi di arma, come le colt. Le motivazioni del diniego sono personali e politiche: alcuni non credono alla reale fine della guerra, altri sono insoddisfatti di come il conflitto è finito e pensano di continuare a combattere. Per capire Fenoglio, probabilmente dobbiamo considerare l’agency che queste armi hanno avuto nella sua vita: per anni vissuto nel perenne pericolo di morire, le armi hanno rappresentato l’unica protezione e lo strumento per la realizzazione del più alto obiettivo della sua giovinezza. Vista così la situazione, non facciamo fatica a comprendere l’attaccamento che un qualsiasi combattente potesse provare per questo oggetto, parte attiva e organica della sua stessa esperienza partigiana.

Oggi sono conservate ed esposte al Centro Studi a lui dedicato.

 

FENOGLIO SCRITTORE

La camicia bianca

A partire dagli anni del liceo, non esiste fotografia che ritragga Beppe Fenoglio senza una camicia bianca indosso. Negli anni subito prima della guerra, per il figlio dei macellai non è un fatto nella norma, così come non lo è frequentare il liceo classico. La scelta della famiglia Fenoglio asseconda un desiderio di ascesa sociale, incalzato dal fatto che gli anni Trenta sono, per i commerci familiari, un periodo fiorente. Per andare al liceo viene fatta confezionare una camicia bianca per Beppe e i suoi fratelli: una sola a testa, siccome le camicie si facevano su misura e costavano care. Ricorda Marisa Fenoglio: «A dispetto di tutte le economie, mia madre li voleva vestiti bene[7]». L’eleganza dunque è per la famiglia una questione di status, gli abiti gridano alla piazza l’ascesa sociale compiuta dai Fenoglio. Addirittura, proprio quest’anno è stata individuata la sola fotografia al momento conosciuta di Fenoglio da partigiano[8] e, ancora una volta, indossa la camicia (non bianca, colore poco adatto alla battaglia, anche se non avrebbe comunque stupito da parte sua). La cosa è ovviamente particolare: la vita dei partigiani era scomoda, sporca, fangosa, non una vita “da camicia”. Ma Fenoglio non ci può rinunciare e nel documentario Una questione privata, il suo comandante di divisione Poli lo ricorda con queste parole: «Era vestito sempre con camicie pulite. Io non so dove se le facesse stirare, lavare… Avrà avuto qualche morosa nascosta! Era un tipo organizzato[9]».

La camicia bianca diventa poi irrinunciabile quando Fenoglio inizia ad affermarsi come scrittore. In questo caso, il suo bisogno di evidenziare, anche con l’abbigliamento, un nuovo status sociale va oltre il suo essere homo novus per la famiglia: lo è per tutta la città di Alba, che fino ad allora un nome come quello di Beppe Fenoglio non lo aveva ancora conosciuto. Fenoglio però, e lo sa bene, anzi se ne fa scudo, è uno scrittore “di provincia”. In una nota autobiografica, egli stesso dice: «La critica mi ha seguito e mi segue con una certa attenzione, in misura superiore, debbo dire, all’aspettativa di uno scrittore appartato e “amateur-like” quale io sono[10]». Il sentimento di inadeguatezza emerge anche nella corrispondenza: Vittorini lo accusa di scrivere libri “dialettali”[11], giudizio terribile che comporterà l’allontanamento di Fenoglio dall’Einaudi; lui stesso si definisce “un dilettante”[12]. La camicia bianca è dunque un simbolo di una soglia varcata, ma la sua perenne presenza probabilmente un’ancora, che racconta un certo disagio, una certa incertezza.

La camicia di Fenoglio dice molto della suddivisione netta tra le classi sociali tra la prima metà del Novecento e il dopoguerra, di una distanza fisica, mentale, culturale tra la città e la provincia, della percezione che ha Fenoglio di sé e di come la esprime all’interno della sua micro-società albese e poi fuori, nella Società con la S maiuscola, all’Einaudi di Torino. Il provincialismo di Fenoglio è una questione che presenta dei controsensi: ne fa uso come di uno scudo per giustificarsi, per difendersi dalle critiche e non abbandona il dialetto e i piemontesismi, ma cerca con fatica il distacco da una vita “lontana dal centro”. Il racconto che ne viene fuori infine, non ha niente di provinciale: al contrario è “racconto corale”, che restituisce il ritratto di una generazione accomunata tutta dall’aver vissuto gli sforzi, gli orrori e le soddisfazioni della Resistenza.

La macchina da scrivere

Imprescindibile oggetto dello scrittore vissuto nell’epoca pre-computer, la macchina da scrivere non è solo uno strumento, ma un simbolo di status, un accessorio di moda, un lusso che da un certo punto in poi Beppe Fenoglio ha bisogno di permettersi.

Quella dello scrittore, oggi conservata dalla figlia Margherita, è una Olivetti, modello Studio 44. È una macchina da scrivere semi-standard, prodotta a partire dal 1952: pesa 6 chili, è provvista di incolonnatore, quattro opzioni di interlinea e il sistema di stampa a martelletti portacaratteri ed è trasportabile grazie ad una valigetta in legno.

Quando Beppe Fenoglio inizia a scrivere, non viene appoggiato né aiutato economicamente dalla sua famiglia. È lo scontro di due mondi inconciliabili: al piano terra i genitori che fanno i macellai non riescono a concepire il sogno del figlio, che sta al primo piano a scrivere storie. Non colgono il senso di quest’attività, così dispendiosa in termini di carta e di affitto della macchina da scrivere e che non porta alcun reddito immediato. La madre di Beppe soprattutto non può sopportare la situazione e gli trova un lavoro presso la ditta enologica Marengo. Fenoglio a malincuore è costretto ad accettare e comincia a dedicare le notti allo scrivere.

Le cose cambiano leggermente nel 1952, dopo l’uscita de I ventitre giorni della città di Alba. In una lettera del 16 giugno 1953, Fenoglio chiede a Calvino se l’Einaudi è ancora in debito con lui per la vendita di qualche copia: gli servono soldi per acquistare la macchina da scrivere. In quel momento l’ultima macchina Olivetti uscita è proprio la sua Studio 44.

La macchina da scrivere di Fenoglio è oggi il simbolo del Centenario Fenogliano. La cerimonia inaugurale dell’anno di appuntamenti ha visto Margherita Fenoglio scrivere alla Studio 44, come si trattasse di un passaggio di testimone tra generazioni che avviene tramite il medium dell’oggetto, in cui l’agency di questo è il motivo per cui questa trasmissione si può compiere. Certe cose assumono un valore riassuntivo delle persone che in esse si sono identificate o sono state identificate da terzi: Margherita Fenoglio che scrive con quella macchina da scrivere si mette direttamente in dialogo con suo padre, facendo assurgere l’oggetto quasi a sineddoche della persona.

 

CONCLUSIONI

Come si è visto, l’archeologia dell’età contemporanea ha intenzione di spingere i propri confini cronologici oltre quelli trattati abitualmente dall’archeologia finora e anzi, l’obiettivo ultimo è quello di non porsi limiti rispetto a questi confini: l’unico vincolo resta quello di affrontare lo studio a partire dai resti materiali che di qualsiasi epoca arrivano al presente.

Tracciare una biografia di Beppe Fenoglio attraverso i suoi oggetti ha messo in evidenza il problema dell’attribuzione di un valore storico (e archeologico) a questi, circostanza dalla quale dipende conseguentemente la messa in atto di una conservazione consapevole e controllata o di un abbandono e di una perdita delle testimonianze. Soprattutto per quanto riguarda i luoghi e i paesaggi, custodi di una storia collettiva più che gli oggetti (più facilmente legati alla storia personale), il pericolo di perdita delle tracce materiali è molto alto: la nostra società, più che mai in precedenza, conosce continui cicli di rimodellamento paesaggistico e architettonico. I tre casi di Valdivilla, Casa Fenoglio e la Censa di Palcido ben rappresentano tre situazioni rispettivamente di perdita, recupero “in corner” e salvaguardia del patrimonio materiale testimone della memoria di Fenoglio e della sua vita. Che cosa viene conservato e che cosa no? La risposta è il frutto di una scelta circa l’identificazione con elementi del patrimonio materiale che testimoniano alcune vicende e dunque la perpetrazione della loro memoria nella società. L’archeologia aiuta a comprendere che cosa si è scelto di conservare e che cosa no, portandoci a riflettere su questa scelta. Leggere le tracce archeologiche permette di dedurre i processi che sottendono alle scelte di valori della nostra società del presente. Parla della nostra auto-percezione e del racconto che vogliamo portare all’esterno e al futuro: parla di noi.

Una maggiore affermazione dell’archeologia età contemporanea come disciplina è essenziale chiave perché il patrimonio di cui si occupa vada incontro ad un’attribuzione di valore, che lo renda tutelato nelle scelte pubbliche di conservazione e restituzione storica, per la formazione della memoria collettiva.


Note:

[1] M. Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1995. Marisa è la sorella di Beppe.

[2] Episodio di Cravanzana in Atlante delle stragi nazifasciste in Italia, http://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/CRAVANZANA,%2020.11.1944.pdf, url consultata il 9 maggio 2022.

[3] Dario Scaglione in “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana”, url: http://www.ultimelettere.it/?page_id=35&ricerca=399, consultata il 16 maggio 2022.

[4] M. Milanese, Le voci delle cose: fonti orali, archeologia postmedievale, etnoarcheologia, in “Archeologia Postmedievale”, IX, 2005

[5] P. Negri Scaglione, Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio, Einaudi, Torino 2022

[6] B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 2006

[7] Fenoglio, 1995, p. 104.

[8] E. Borra, La foto di Fenoglio vestito da partigiano esiste, in “La Gazzetta d’Alba”, 15 marzo 2022.

[9] Una questione privata (Vita di Beppe Fenoglio), 1998, documentario, regia di Guido Chiesa.

http://guidochiesa.net/.

[10] B. Fenoglio, Lettere, Einaudi, Torino 2022.

[11] Lettera di Elio Vittorini a Calvino, del 18 gennaio 1954.

[12] Lettera di Fenoglio a Italo Calvino, del 22 novembre 1960.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti
DOI: 10.52056/9791254691090/21
Parole chiave: , , , , , , , , , , , ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti, Novecento.org, n.17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/21

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