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Popoli e nazionalismi: andata e ritorno

Popoli e nazionalismi: andata e ritorno

Di Napoli_Castel_Nuovo_museo_civico_-_ingresso_di_Garibaldi_a_Napoli_-_Wenzel_1060721.JPG: Franz Wenzel derivative work: F l a n k e r (talk) – Napoli_Castel_Nuovo_museo_civico_-_ingresso_di_Garibaldi_a_Napoli_-_Wenzel_1060721.JPG, CC BY-SA 3.0, Collegamento

  1. L’ambito del discorso

Ad una lezione analitica sullo sviluppo storico delle nazioni e sul ritorno dei nazionalismi, che presupporrebbe tesi forti e un quadro chiaro delle prospettive odierne, ho preferito una conversazione distesa ed una impostazione più concettuale, orientata a spiegare la modifica subita nel corso del tempo dai due concetti annunciati nel titolo. Il termine “ritorno” allude alla ripresa di concetti che sembravano desueti e accantonati dalla discussione pubblica, sebbene non dalla storiografia; in realtà, in questi ultimi trentasette anni, questi concetti sono ritornati potentemente in auge.

Il problema è perché. Come mai assistiamo alla proliferazione di lemmi a lungo desueti, impiegati estensivamente al punto da fare perdere di vista l’oggetto di cui si tratta? L’interrogativo in questione rimane aperto e oggetto di discussioni: avanzo delle ipotesi di lavoro, che non vogliono essere delle tesi forti, in quanto sorgono da una prospettiva, quella italiana, che risulta pur sempre limitata. La prospettiva nazionale oggi è tornata con forza e questo ritorno ai nazionalismi e/o populismi è molto legato al tempo presente. Oggi assistiamo a un uso indistinto, esteso e un po’ inflazionato del termine populismo: nella pubblicistica più recente esso viene impiegato sia a proposito del popolo tradizionale sia a proposito della nazione, ponendosi quindi a cavallo tra i due concetti e abbracciando un ambito concettuale molto esteso. Prima di affrontare le ragioni di questa sovrapposizione mi piacerebbe esporvi grosso modo due o tre snodi, ossia come popolo prima e nazione poi siano stati usati e come infine essi si stiano intrecciando. Procediamo per gradi.

Anzitutto va precisato che tra popolo e nazione non esiste un rapporto di identità bensì un rapporto dialettico e un significato tendenzialmente divergente. Il concetto di popolo rimanda a una popolazione colta nel suo insieme, indistinta nelle sue componenti, alla quale si guarda senza evidenziare le diverse articolazioni, status, diritti politici, civili e sociali di coloro che la compongono. Quando parliamo di popolo ci riferiamo quindi a un qualcosa di indistinto.

Nazione si riferisce invece a un ideale di comunità politica omogenea che supera e unifica le differenze interne al popolo. Se il concetto di popolo non tematizza l’esistenza di differenze interne, che non solo non esclude ma anzi presume, quello di nazione è fortemente omogeneizzante, in quanto tutti i suoi membri sono accomunati dalla qualifica di soggetti nazionali. Nella nazione l’identità omogenea supera e unifica le differenze del popolo, postulando una genesi e un obiettivo comune da raggiungere: la nazione, infatti, può essere un presupposto ma anche un obiettivo. Non è detto che quando si parla di nazione ci si riferisca sempre a nazioni compiute, esistendo anche soggetti in nuce che aspirano a diventare nazione. Il termine nazione ha quindi una valenza diversa a seconda che venga attribuito a uno stato, a un soggetto politico oppure a un soggetto latente che aspira a diventare politico.

Oliver Cromwell, di Robert WalkerNational Portrait Gallery: NPG 536 , Pubblico dominio, Collegamento

Il significato di questi due termini muta costantemente e pertanto risulta difficile tracciare una unica narrativa dei due concetti. Benché impiegati entrambi già nel medioevo e in età moderna, qui ci interessa il significato relativo alla legittimazione politica in età contemporanea, diciamo a partire dalla rivoluzione francese. Il nucleo del mio interesse come storico dell’età contemporanea riguarda l’uso dei concetti di nazione e popolo come basi di legittimazione della politica, come strumenti concettuali cui ci si richiama per giustificare e ritenere legittimo il potere politico. Sebbene già in Machiavelli se ne faccia ampio riferimento, è dal secolo XVII, dalla rivoluzione di Cromwell, che l’impiego politico del “popolo” trae le mosse. Esaminare l’evoluzione del concetto, da allora ai nostri giorni, sarebbe un compito oltre le mie forze e il tempo a mia disposizione, per cui mi limiterò alla disamina di alcuni passaggi, per poi arrivare alle trasformazioni subite dai due concetti nei tempi più recenti, ossia a partire dalla fine del secolo XX.

Il concetto di popolo nasce dal riferimento in età moderna ai sudditi territorialmente dispersi di uno stato; popolo è l’insieme dei soggetti dello stesso sovrano ma eterogenei tra loro, per l’appartenenza a territori e dominii diversi, che, pur retti magari dallo lo stesso sovrano, hanno estensioni, diritti, patti diversi. Il popolo al suo interno è qualcosa di eterogeneo, privo di omogeneità territoriale.

Questa omogeneità politica comincia a delinearsi con i conflitti di religione a sostegno del potere di alcuni principi contro l’interferenza della Chiesa e prende forma con Cromwell, il quale inizia ad appellarsi al popolo come leva per contestare il potere sovrano. Da allora in poi il concetto di popolo troverà un riferimento nella omogeneità territoriale, diverrà la base per una politica e un parlamento che avrebbero dovuto rappresentare le eterogeneità del popolo. I populismi riprendono questa eterogeneità, cercano di stare a cavallo tra il concetto di nazionalismo e quello di popolo e inoltre possono implicare fenomeni diversi, ma lo vedremo meglio più avanti.

  1. Cenni al revival storiografico del nazionalismo

Partirei dalla discussione, dal revival di questi concetti che si è avuta a partire dagli anni Ottanta del sec. XX: è un dato di fatto che la discussione sul concetto di nazione e di nazionalismo si è vivacizzata improvvisamente all’incirca dal 1979. In area anglofona è iniziata una ricca discussione sul concetto di nazione, un tema che era stato accantonato dalla storiografia per almeno trent’ anni: improvvisamente, a partire dal 1979, si è assistito al nascere di una cospicua letteratura, preceduta da un dibattito su alcune riviste di sinistra, come la “New Left Review”, che si è rivelata tra i protagonisti di questa discussione in ambito marxista. Il dibattito, alla fine degli anni Settanta e inizi anni Ottanta, riguardava anzitutto la crisi del marxismo e, in particolare, la crisi del concetto di classe davanti al dirompente successo elettorale del partito conservatore guidato dalla signora Margaret Thatcher. Perché, si domandavano gli storici inglesi, il concetto di classe era così in declino? E perché il declino dell’identificazione in classi si accompagnava a regionalismi linguistici antibritannici? Quali le ragioni di questo fenomeno? Carenze concettuali del marxismo, inadeguatezza dell’impianto classista della categorizzazione un po’ rigida in alcuni filoni del marxismo novecentesco, nei quali il concetto di classe aveva esaurito l’identità sociale? Il concetto di classe risultava ormai insufficiente? C’era forse bisogno di tenere presente la storia nazionale come collante sociale importantissimo per capire a fondo il rapporto tra individui, classe e nazione?

Queste domande sono tornate in auge perché alla fine degli anni Settanta hanno preso vita movimenti territoriali consistenti che rivendicavano la propria identità separata da quella inglese: si pensi agli scozzesi, al terrorismo irlandese in via di ridimensionamento e avviato verso un processo di dialogo, seppur non ancora di pacificazione, al Québec, al revival di tutta una serie di movimenti territoriali che rivendicavano identità linguistiche separate da quelle statuali. Nato in gran parte nell’area intellettuale della sinistra, il dibattito trovò ricaduta rapida in una serie di pubblicazioni che videro protagonisti studiosi di ambito marxista ma anche intellettuali dell’area centroeuropea di grande spessore. Penso soprattutto a Miroslav Hroch e Ernest Gellner, due grandi intellettuali di area mitteleuropea, seppur diversi tra loro per collocazione e biografie, i quali sottoposero alla discussione una serie di questioni strutturali e di lungo periodo, insistendo molto, a differenza degli storici marxisti, sul fatto che il concetto di nazione non fosse puramente di tipo sociale ma frutto di una “invenzione”, ossia di una produzione culturale: la nazione come una storia che ha un inizio e può avere una fine.

Come nasce una nazione? La tesi di Ernest Gellner

Nel dibattito sul modo di intendere una nazione, Gellner, lo studioso da questo punto di vista più inquietante, sottolinea come la produzione dell’identità nazionale rappresenti un fenomeno moderno, destinato a moltiplicarsi. Il libro di Gellner Nazioni e nazionalismo, tradotto in italiano nel 1991 ma risalente al 1983, contesta l’esistenza della nazione, concetto del tutto astratto e inafferrabile, e vede invece all’opera il nazionalismo, che è il sentimento capace di mobilitazione politica su base territoriale, capace cioè di mobilitare soggetti storici attivi che promuovono l’idea di nazione per finalità politiche mutevoli. Da antropologo prima che da storico, Gellner individua un meccanismo ricostruttivo della nazione, in base al quale la genesi di comunità politiche che si definiscono nazioni seguirebbe tendenzialmente uno schema omogeno: le comunità territoriali, che si sentono minacciate nella loro sussistenza da qualche pericolo politico e culturale, sentono il bisogno di qualificarsi politicamente per sopravvivere, di reclamare una identità separata rispetto al tentativo di dominio. Si tratta di comunità che sussistono entro “calderoni” più vasti, ma che a un certo punto si sentono minacciate: si tratta di élite politiche, prima culturali e/o religiose e poi politiche, che prima difendono la comunità esistente e poi la definiscono in termini di nazione a volte magari in termini espansivi che oltrepassano il nucleo originario. La storia delle nazioni, secondo Gellner, sarebbe destinata a crescere perché stanno aumentando le interazioni tra i popoli e il senso di minaccia avvertito da certe comunità territoriali, in virtù di questa crescente interdipendenza.

Quello di Gellner è un filone tra i più interessanti, anche se inquietanti, perché identifica l’idea di nazione con l’esistenza di un ceppo linguistico che si possa qualificare come separato. Se le nazioni non esistono in natura, ed esistono invece i nazionalismi che se ne appropriano, la nascita non è spontanea: il “calderone” linguistico a un certo punto viene a frantumarsi e questo punto di rottura non è determinabile a priori. È necessaria, perché si compia il fenomeno, una minima dimensione territoriale, sociale, economica ma questa varia nel tempo, per cui le dimensioni minime in età moderna non sono più le stesse di oggi. Gellner dà alcune indicazioni: i nazionalismi si possono sviluppare in condizioni diverse perché oggi le basi economiche possono essere più ridotte di un tempo e non c’è più bisogno, quindi, di grandi scale produttive e grandi industrie per costituire delle comunità politiche e rivendicare delle identità linguistiche. Egli fa riferimento a circa duemila potenziali ceppi linguistici che possono costituire le basi delle nazioni nel mondo odierno: la precondizione per la frantumazione del mondo in comunità più piccole è forte e tanto più lo diviene nel procedere della globalizzazione. È un nesso che egli pone come interrogativo, ma non mi risulta che gli studi successivi abbiano approfondito questo tema e cercato una verifica alle tesi di Gellner, rimaste un po’ periferiche nel dibattito successivo. Gellner, morto nel 1995, è rimasto senza eredi ma ritengo che i suoi stimoli permangano tuttora molto potenti.

Nazionalismo e decolonizzazione: il superamento della visione eurocentrica in Benedict Anderson

Una visione diversa è quella di Benedict Anderson che, all’interno del dibattito neo-marxista, proponeva una lettura antropologica del nazionalismo come fenomeno mondiale che avrebbe avuto le sue radici nella decolonizzazione, nella crescita a livello mondiale di reazioni al dominio delle potenze coloniali, e portatore di un sentimento di appartenenza e di solidarietà che accompagna e rende possibile la modernizzazione. Egli individuava l’origine di tale processo non tanto in Europa quanto in America latina, e soprattutto nel Messico, ove erano iniziati prima che altrove i movimenti indipendentisti. In tale ottica il concetto di nazione veniva declinato in modo molto diverso rispetto alle trattazioni di molti storici europei, contro un tendenziale eurocentrismo che avrebbe condizionato a lungo la storiografia. Anderson parlava oltre una dozzina di lingue, era un esperto di Asia, di Indocina in particolare, aveva una grande apertura internazionale. Nell’ insistere sull’autonomia dei movimenti anticoloniali suggeriva che la nazione moderna europea nascesse sulla scorta dell’emulazione di ciò che era successo in America latina, in un dibattito che vedeva Eric J. Hobsbawm su posizioni contrarie rispetto a questa tesi. Anche molti storici europei furono di diverso avviso, sostenendo invece che la storia del concetto di nazione avesse un’origine europea e avesse a che fare con comunità territorialmente disperse ma accomunate da un’unica lingua: un’idea di nazione che, attraversò soprattutto il romanticismo e si trasformò in rivendicazione di una identità culturale omogenea che potesse sorreggere la formazione di stati contemporanei in quanto separati dagli esistenti imperi.

Nazioni e “invenzione della tradizione”: la posizione di Eric J. Hobsbawm

Fu la rivoluzione francese ad animare più fortemente la rivendicazione dell’idea di nazione come base e fattore di omogeneizzazione del popolo. In che misura poi questo rapporto tra popolo e nazione avvenga, ciò fa parte di un dibattito più ampio, nel quale la rivoluzione francese costituisce il passaggio centrale della costituzione di uno stato omogeneo, che rivendica come base comune un’identità nazionale, del tutto “inventata” dirà Hobsbawm, nel libro L’invenzione della tradizione scritto insieme a Terence Ranger. Per Hobsbawm, nel passaggio da popolo a nazione politica che rivendica una sua autonomia ci si richiama di fatto a tradizioni in gran parte “inventate”, non nel senso che non avessero dei precedenti o che fossero del tutto artificiose ma nel senso che i precedenti materiali del passato venivano assunti come anelli di una unica narrazione, portante quasi necessariamente alla formazione della nazione: le tradizioni letterarie, i bagagli culturali precedenti, le diverse formazioni politiche venivano rilette tra fine Settecento e inizio Ottocento in vista della formazione della nazione e in chiave nazionale si rileggevano le storie precedenti. Da qui la tesi di Hobsbawm sull’invenzione delle nazioni, ossia una costruzione culturale e politica nella quale si adoperarono intellettuali laici, militari e addirittura sacerdoti o ex sacerdoti. Col Romanticismo venne a crearsi un rapporto stretto con il pensiero religioso laicizzato, che nel separare religione e politica riprende alcuni stilemi del pensiero religioso, della storia intesa come processualità e come recupero di una narrazione dotata di una sua teleologia. L’identità sociale collettiva viene elaborata e reinventata da intellettuali che si basano sull’esistenza dei nuovi mezzi di comunicazione: a partire dalla fine del Settecento i libelli, i pamphlet, i volantini si moltiplicano man mano che la stampa si diffonde e diventa sempre più popolare la caricatura che sbeffeggia le antiche gerarchie. Viene a formarsi una intellettualità che comincia a professionalizzarsi sull’uso di questi nuovi media, attorno ai quali si costituisce il nucleo dei sostenitori dell’idea nazionale.

Tra “volontarismo” e “naturalismo”

Per quanto nuova, non era una discussione priva di precedenti. Già nel corso della seconda guerra mondiale, nelle sue note lezioni alla Sorbona del 1944, Chabod distingueva due diverse idee di nazione, una “volontarista”, ossia creata attorno a una idea politica di trasformazione sociale, e l’altra “naturalista”, ossia etnica e basata sull’appartenenza “naturale” a comuni legami linguistici e di sangue. Non elaboriamo qui la sua analisi se non per cogliere qualche assonanza tra l’idea volontarista di nazione e quella “inventata” di Hobsbawm. Dall’idea di nazione alla sua trasposizione politica c’è un passaggio non automatico e la rivendicazione di una identità politica può avvenire in duplice modo. La rivoluzione francese con Sieyès rivendica il concetto di popolo nazionale ossia trasforma il “popolo” in una nazione politica che si costituisce attorno al Terzo Stato. Un esempio differente può essere offerto dal caso americano in cui l’eterogeneità dei colonizzatori consente di parlare di un popolo con una missione più che di una omogenea nazione, e negli Stati Uniti non si costituiranno partiti “nazionalisti” ma un partito “populista” democratico in cerca del voto di piccoli proprietari e contadini e di immigrati in ascesa che si contrappongono agli interessi delle élites finanziarie e commerciali sin dai tempi del presidente Jackson. Infine diverso è l’uso che ne fa la Restaurazione sul continente europeo: i monarchi che tornano al potere dopo il congresso di Vienna si rendono conto che la base del potere si è ormai modificata e cominciano a omogeneizzare i loro territori. Il congresso di Vienna afferma proprio questa idea di omogeneizzazione territoriale, nella volontà di evitare la frammentazione dei territori e di creare dei regni o principati omogenei entro confini comuni: bisognava evitare l’uso strumentale del concetto di popolo fatto dai rivoluzionari e ribadire che sarebbe stato il re a rappresentare il popolo, contestando alla rivoluzione francese il monopolio della emancipazione popolare. I sovrani avrebbero finito per accettare solo a malincuore il concetto di nazione che si sarebbe consolidato attorno alla unità territoriale del popolo, e lo avrebbero accolto solo come comunità linguistica e di sudditanza purché perdesse la valenza di corpo politico e il potere non venisse accentrato nelle mani del popolo.

Vignetta satirica sul Congresso di Vienna, di Werra18Own work, CC BY-SA 4.0, Link

La cosiddetta restaurazione sarà una lunga fase di transizione, dialettica, tra popolo e nazione, che si romperà nel 1848-49: il popolo non era ancora omogeneo, quello di nazione un concetto ancora latente e tendenzialmente pericoloso in quanto richiamava la rivoluzione. Sovrani e intellettuali moderati cercheranno in questo periodo di recuperare il concetto di nazione per svuotarlo del significato pericoloso e per cercare di fare i conti con esso, per far incontrare la restaurazione con la modernità. Non fu un discorso a senso unico, né avvenne dappertutto nella stessa misura: alcuni stati risultarono più reazionari, in altri questo discorso si fece più spinto. La rivoluzione del luglio 1830 sgominò l’ultimo tentativo in Francia di riportare indietro le lancette del tempo, ma seppur sconfitta la tradizione legittimista francese non fu del tutto sgominata.

Le rivoluzioni del 1848-49 e il concetto di nazione

Il concetto di nazione divenne dominante nella rivoluzione del 1848-49 come “luogo intellettuale” a cui si fece riferimento per rivendicare l’emancipazione compiuta del popolo dai sovrani. Intellettuali liberali, democratici e rivoluzionari, come i mazziniani, furono pronti in parte a riformare le monarchie assolute, in parte a cercare di rovesciarle, secondo una dialettica difforme sul continente. Nel 1848-49, contro gli antichi privilegi delle aristocrazie terriere e del clero, si saldarono istanze varie attorno alla borghesia, ai ceti artigiani e ai commercianti, e a una parte della aristocrazia decaduta, le forze liberali lanciarono un generico appello europeo al popolo in quanto nazione: non si parlava più solamente in nome di una celebrazione del popolo ma esso veniva qualificato dalla sua dimensione nazionale. Non più solo il latino o il francese ma anche le lingue moderne erano ormai entrate in uso nell’ambito giuridico, nel diritto civile codificato e in quello penale, e la scuola liberale fece di questa base linguistica formativa uno dei punti di partenza per la rivendicazione dell’emancipazione politica, in cui l’omogeneità territoriale veniva superata e ricompresa da quella culturale: il punto di riferimento non era più il territorio ma l’individuo, portatore di una specifica cultura. Con la vittoria temporanea delle rivoluzioni del 1848-49, popolo e nazione cominciarono a fondersi nella rivendicazione di una autodeterminazione politica guidata soprattutto dalle borghesie e le costituzioni liberali presunsero l’omogeneità linguistica del popolo, rivendicando la funzione legiferante dei parlamenti.

Questa dimensione culturale della nazione fattasi politica, in alcuni stati reggerà dopo il 1848 e talune monarchie scenderanno a compromesso, venendosi così a creare una saldatura tra borghesia, aristocrazia e monarchia: il Piemonte e la Prussia guideranno i rispettivi processi di unificazione nazionali. Laddove invece questo patto si ruppe e le costituzioni vennero ritirate, quei regimi entrarono in crisi, perché i tempi erano maturi per la rivendicazione di autonomia da parte di società divenute molto più complesse di prima: finita la servitù della gleba, i contadini cominciavano a emanciparsi mentre le classi borghesi urbane, che godevano di autonomia economica, rivendicavano ora un ruolo nel governo della città e qualche volta anche di più. Fu un sommovimento che avvenne in quella che possiamo chiamare una fase di transizione da un’economia agraria a una moderna economia capitalistica, di cui nel 1848 si avvertivano tutte le premesse: cominciavano allora a diffondersi le ferrovie e l’industria e a declinare la vecchia società feudale, non più adeguata alle esigenze della modernità.

Dove le rivoluzioni vinsero e si formarono degli stati monarchico-costituzionali o addirittura, in Francia, repubblicani, popolo e nazione si fusero. In Russia, invece, dove rimase in piedi un regime feudale, si sarebbe affacciato un movimento che si autodefiniva “populista” il quale rivendicava la rappresentanza del popolo in quanto contrapposto alla casta aristocratica. Invece nell’Europa centro-occidentale, da allora sino alla seconda metà del XX secolo, le moderne democrazie, nate attorno a progetti costituzionali, hanno dato per scontato che popolo e nazione fossero accomunati da un’unica vicenda. In qualche misura questa idea la si ritrova, seppur in maniera distorta, a proposito del fenomeno dei nazionalismi di fine XIX-inizio XX secolo, fase in cui si delinea una gerarchia politica tra le nazioni-popoli: da un lato i grandi imperi coloniali rivendicavano il primato della loro madrepatria e, dall’altro i paesi “in via di sviluppo” in Europa centrale e orientale che non erano divenuti ancora nazioni compiute, vedevano nell’Inghilterra o nella Germania il loro riferimento principale e cercavano di imitare i paesi europei nel completare il loro processo di unificazione. Per quanto concerne l’Italia, l’interventismo della Prima guerra mondiale si prefisse il completamento dell’unificazione nazionale.

By unknonw (not declared and picture not signed) – old poster https://www.tumblr.com/search/italia%20turrita, Public Domain, Link

Flussi migratori e imperialismo coloniale: il problema delle minoranze

In questa fase non ci si pose il problema dell’inglobamento delle eventuali minoranze linguistiche, perché popolo e nazione avrebbero dovuto identificarsi. Il problema diventerà molto chiaro con la Prima guerra mondiale, quando venne a frantumarsi in tanti stati l’impero asburgico, ma già la questione balcanica, negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, aveva evidenziato i limiti dell’identità tra popolo e nazione in territori multietnici.  L’espansione coloniale e la rivendicazione di territori divennero un terreno di conflitto e fonte di tensioni nazionaliste: l’idea di nazione venne usata a vantaggio del più forte e non solo il bagaglio culturale ma anche il legame di sangue venne posto alla base della rivendicazione della identità nazionale. Un intreccio, quello tra sangue e cultura, messo in evidenza, tra gli altri, da Alberto Mario Banti per il caso italiano, sebbene la sua analisi tenda a considerare preponderante il solo elemento naturalista in una tradizione italiana che appunto Chabod aveva invece definito all’opposto come stratificazione culturale. L’intreccio complesso tra la cultura volontarista e quella naturalista della nazione esplose a fine diciannovesimo secolo e inizio del ventesimo a seguito di possenti flussi migratori, che interessarono, per citarne alcuni, italiani, ucraini, polacchi, pronti a emigrare in maniera massiccia verso paesi europei ed extraeuropei ma anche all’interno del continente, e del fenomeno dell’imperialismo coloniale che creava opportunità di acquisizione territoriale fuori dalla nazione. Questo processo cominciò a mettere in crisi una idea culturale di nazione e a evidenziare conflitti linguistici e etnici: alcuni studiosi parlano, a questo proposito, di una prima globalizzazione a fine diciannovesimo secolo, poi spezzata dalla Prima guerra mondiale.

  1. Dal 1945 ai giorni nostri: tra autodeterminazione nazionale e ritorno del nazionalismo

Tralascio le conseguenze dei nazionalismi e della prima guerra mondiale (e l’ascesa, dopo la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, di una tensione tra la nazione russa e l’internazionalismo socialista), con gli scontri che ne seguirono, per passare alla seconda guerra mondiale e al dopoguerra. La sconfitta dei fascismi, che perseguirono un progetto di nuovo ordine europeo e mondiale attorno al concetto di razza, portò con sé la condanna piena del concetto di nazionalismo fusosi con lo sciovinismo razzista e il rifiuto di questo concetto sul piano etico e politico. Si registrò un ripensamento profondo e il rigetto, da parte delle scienze sociali, delle teorie politiche del fondamento degli stati e della politica basate sul principio nazionalista. La nazione doveva essere mediata dalla democrazia e riconosciuti i diritti delle minoranze: uno dei punti centrali era che i diritti dell’uomo dovessero reintegrare il concetto di nazione, costringendolo a mediare con la tutela delle minoranze. Il mondo andava riconfigurato sul principio di nazione, ma all’interno di un assetto politico complessivo ispirato ai diritti umani e al rispetto delle minoranze. Profondamente diverso risultò il concetto di nazione dopo il 1945 rispetto alla fase precedente la Prima guerra mondiale.

La discussione su come declinare l’assetto democratico che avrebbe dovuto assicurare la pace avrebbe creato fratture tra paesi socialisti, capitalisti e in via di sviluppo, ma a cambiare, dal 1945 in poi, fu il giudizio generale, che comportava la condanna del nazionalismo e di un’idea omogenea della nazione, la quale doveva invece essere pensata come articolata e tesa a proteggere le minoranze.

La crisi del Welfare State e la svolta degli anni Ottanta

Perché negli anni Ottanta tutto questo discorso si è riaperto? L’interrogativo posto da Gellner è quello giusto. I problemi nascono non tanto dalla fine della Guerra fredda ma di quell’assetto di protezione che la Guerra fredda comportava, fossero la difesa dei confini, la tutela delle comunità politiche e sociali esistenti entro quei confini e lo stesso ordine globale. Vigeva infatti in passato un ordine internazionale dagli assetti politici consolidati e non sottoponibili a discussione, mentre il concetto di nazione, speso e consumato dai fascisti, non poteva più essere rivendicato.

Negli anni Ottanta questo concetto è tornato invece in auge, tanto da sollevare diversi interrogativi sul come ciò sia stato possibile. Il concetto di popolo dopo la Seconda guerra mondiale cominciò a modificarsi perché dentro l’assetto democratico, oltre al tema dei diritti delle minoranze, grande attenzione venne rivolta alla questione dei diritti sociali, grazie ai movimenti socialisti e soprattutto alla rivoluzione bolscevica che impose certi diritti, poi recepiti nelle democrazie liberali dagli anni Trenta in poi, si pensi all’introduzione in Inghilterra del Welfare State. L’Inghilterra, una delle grandi potenze vincitrici, introdusse un nuovo patto tra stato e cittadini che passava attraverso la sanità pubblica, cominciando ad occuparsi dell’individuo dalla culla alla tomba: i diritti sociali divennero la nuova frontiera che distingueva il popolo e, per certi versi, lo rendeva omogeneo. All’interno delle differenze sociali vi era una rete che cominciava a estendersi per diminuire le disparità: l’eterogeneità era lecita, ma entro certi limiti.

Questa limitazione del conflitto sociale cominciò a venir meno a partire dagli anni Ottanta, quando il sistema del Welfare State venne messo in discussione dalla rivoluzione neoconservatrice della Thatcher, che non fu una teorica neoliberale ma la portavoce di un movimento di rivolta fiscale contrario alle interferenze della pesante macchina burocratica costituitasi attorno all’assistenza pubblica. Se nuove opportunità sono state consentite dal grande successo della democrazia sociale contemporanea, proprio i suoi grandi successi hanno posto le premesse per la contestazione dei difetti, divenuti tanto più macroscopici quanto più alte erano diventate le aspettative della popolazione. E la crescita delle aspettative avrebbe portato con sé la ridefinizione del welfare e dell’estensione dei diritti sociali. Il sociologo T. H. Marshall nel 1949 tenne un discorso all’università di Cambridge, destinato a divenire un classico, sulla nuova era dei diritti sociali, i quali non sono solo un portato della seconda guerra mondiale ma frutto anche delle trasformazioni complessive della società contemporanea: Marshall sostenne allora che, se fino all’Ottocento i diritti politici, civili e sociali erano risultati fortemente intrecciati, con la formazione dello stato contemporaneo essi iniziarono a differenziarsi. Prima furono giuridificati i diritti civili poi quelli politici e da ultimo quelli sociali, che nell’età moderna si configuravano come forme di rapporto personale-comunitario. Per cogliere il salto di qualità costituito dalla raggiunta universalità del Welfare State nei conflitti sociali degli anni Sessanta e Settanta va sottolineato che l’esistenza di diritti legittimi non equivale ad un diritto alle prestazioni sociali: la prestazione, connessa per esempio alla codificazione del diritto alla salute, è oggetto di un costante negoziato politico. Anche se le aspettative, nate nell’ambito del linguaggio dei diritti, fanno pensare a un diritto alla prestazione, non è così automatico che dal diritto discenda una prestazione conseguente.

Unione Europea e populismi

Ci avviciniamo così ai giorni nostri. Il dibattito sui populismi nasce o rinasce in seguito al declino del dibattito sui nazionalismi. Nell’attuale dibattito delle scienze sociali si è prodotta una crescente letteratura sui populismi, a scapito del tema dei nazionalismi, meno battuto in questi ultimi quindici anni. Qual è il motivo? La questione riguarda specificamente l’Unione Europea: dopo il Trattato di Maastricht, all’interno dell’Unione Europea sono esplose molte contraddizioni e quelle misure che avrebbero dovuto essere risolutive e costituire le premesse per affrontare le divergenze tra gli stati si sono rivelate inadeguate al compito e insufficienti rispetto alla complessità della situazione. Paradossalmente si è verificato questo fenomeno: insieme alla formazione dell’Unione Europea, processo molto gravoso e cogente che sottrae competenze agli stati, sono andate aumentando le aspettative dei cittadini ma al tempo stesso sono diminuiti i poteri dei singoli stati, e questo in parte per scelta e in parte a causa del contesto della globalizzazione. E seppur non tutti gli stati hanno condiviso questa scelta, la globalizzazione ci investe tutti.

Piazza Kossuth, Budapest, 15 marzo 2012. Discorso di Viktor Orbán , primo ministro dell’Ungheria: “Non saremo una colonia”. Foto di Derzsi Elekes AndorOwn work, CC BY-SA 3.0, Link

I cosiddetti populismi nascono a ridosso della crisi finanziaria avviatasi al più tardi nel 2001 e diventata eclatante nel 2007-08. In questo quadro, l’euro, nato come strumento per far fronte alla globalizzazione, al tempo stesso si è reso moltiplicatore delle differenze all’interno degli stati: a mancare è stato un governo politico forte e con compiti di solidarietà. Nell’Unione Europea si sta moltiplicando un’asimmetria sociale dentro un fenomeno di redistribuzione della ricchezza che riguarda peraltro tutto il mondo. La questione fiscale è al cuore dei rapporti interni in quanto tra il prelievo fiscale interno agli stati e i meccanismi di trasferimento tra stati (come i fondi strutturali e il fondo sociale) si creano delle asimmetrie, per cui le aree “forti” si integrano con altre aree forti dentro l’UE, mentre finanziano quelle deboli dentro il proprio stato e pagano la propria appartenenza alle aree deboli per la qualità complessiva delle amministrazioni e per l’appropriazione dei surplus commerciali. Trainati dalle aree più dinamiche, e talora persino dai perdenti, proseguono i movimenti di rivendicazione autonomista territoriale che contestano l’esistenza degli stati nazionali in Europa, e tuttavia assumono forza dirompente per ora soltanto laddove possono poggiare su qualche idioma: nel caso del Belgio abbiamo assistito all’assenza, per un anno e mezzo, del governo a causa della divisione molto forte tra fiamminghi e francofoni. Queste comunità linguistiche, a cui fa riferimento Gellner, sembra che accentuino la loro importanza man mano che la globalizzazione prosegue: la pervasività dei mezzi di comunicazione contribuisce a favorire il rilievo politico delle comunità linguistiche.

Differenti declinazioni dei populismi

I populismi assumono diverse declinazioni e la rivolta neoconservatrice contro l’espansione dello stato e contro l’assetto del mondo uscito dal 1945 è una di queste. Finita la Guerra fredda si è infatti aperto il problema di una ridefinizione degli assetti internazionali che non ha ancora trovato un assetto istituzionale-giuridico: navighiamo a vista e i vari G7, G8, G20 si configurano come delle istituzioni sostanzialmente illegittime, in quanto non hanno uno statuto giuridico e, per fare un esempio, solo da poco si è cominciato a redigere i verbali dei G7. Si moltiplicano le sedi del segreto e questi organismi raggiungono accordi informali che sfuggono ai meccanismi formali della democrazia. Possiamo quindi dire che l’assetto del mondo globalizzato non ha ancora trovato un assetto giuridico compatibile con la democrazia e ciò genera scontento, preoccupazione e talora anche rivolte.

Alle richieste autonomistiche che sorgono dalle aree forti, fanno da contraltare le rivolte dei perdenti il cui oggetto diventa l’assetto del potere democratico che non è il responsabile di questa trasformazione: se le proteste sono in parte giustificate da responsabilità delle forze politiche, esse si indirizzano verso un ordine politico che non può essere ritenuto il principale responsabile dei problemi, perché gli Stati non sono uguali tra loro e hanno peso diverso nell’ordine internazionale e i meccanismi dell’accumulazione sono altrettanto diseguali tra le democrazie liberali. Allo stato attuale non trova risposta il perché questi movimenti non riescano a indirizzare le loro proteste verso un progetto di futuro: più prosegue questa ondata e più essa diventerà pericolosa. Noi oggi dovremmo distinguere tra i populismi di protesta e opposizione (che hanno carattere ancipite, perché impiegano al contempo argomenti democratici e di sinistra assieme a moduli retorici “populisti” e verticisti, che richiamano tradizioni autoritarie), e quelli invece che sono autentici nazionalismi che trasformano una generica opposizione in una riconfigurazione nazionalista della omogeneità del popolo.

Il populismo dei movimenti di protesta riprende in sé spesso aspettative e tradizioni del socialismo, nella misura in cui aspira a ricreare un senso di comunità sociale che tuteli dal conflitto di classe e dal mercato; e aspetti della tradizione culturale delle destre reazionarie, laddove aspira ad una comunità nazionale omologante che cancelli la complessità sociale delle molteplici appartenenze tipica delle società complesse odierne, nelle quali si impiegano più lingue e si è esposti a messaggi e stili di vita tutt’altro che nazionali.

La nazione come baluardo alla globalizzazione

Non solo in Francia ma soprattutto nell’ Europa centro-orientale l’idea rafforzata di nazione, che sembrava al tramonto, viene reinventata da movimenti che tendenzialmente, pur nella loro contraddittorietà, possiamo definire di destra, seppur con molte varianti e declinazioni (destra conservatrice, radicale, reazionaria). Parlo di destra perché questi movimenti identificano il nemico nella democrazia, nello stato democratico, nel pluralismo, nell’esistenza di caste indistinte che sarebbero tutte ugualmente responsabili della situazione presente: anche se impiegano il termine di popolo tutto il loro orizzonte si restringe al quadro della nazione, una nazione in armi e omogenea che costituirebbe il baluardo contro l’omologazione della modernizzazione globalizzante. I neonazionalismi non aboliscono le differenze sociali, anzi le rafforzano e paradossalmente il discorso della nazione occulta l’eterogeneità del popolo e il processo per il quale le disuguaglianze si stanno accrescendo, tra il 10% della popolazione mondiale che si sta avvantaggiando della globalizzazione, e un ceto medio europeo che sta enormemente soffrendo e si sta indebolendo a causa del crescente arricchimento del ceto medio asiatico: la  differenziazione sociale si sta allargando e nuove sacche di povertà stanno nascendo sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri.

Alcune precisazioni sul concetto di “populismo”

Di qui il rischio di confusione nel definire estensivamente il populismo odierno, sulla scorta di una classica definizione del politologo Cas Mudde «come un’ideologia che considera la società fondamentalmente separata in due gruppi separati omogenei e antagonistici, il ‘popolo puro’ versus ‘l’élite corrotta’», ossia come un insieme di retoriche sociali prive di contenuto. Questa accezione del populismo come insieme discorsivo vede un aspetto, certo eclatante, del fenomeno della protesta diffusa. Contro un simile approccio, che tendenzialmente incorpora un pre-giudizio contro qualsiasi ragione delle proteste sottostanti al “populismo”, si è espresso Ernesto Laclau, il quale ha sottolineato che nel populismo possono anche esprimersi voci e idee progressive, tanto che a suo avviso in America Latina quegli stilemi avrebbero svolto funzioni positive, creando uno spazio nuovo della politica.  Lasciamo in sospeso se quella fase positiva in America Latina sia ancora aperta o meno, e se il “populismo” di Laclau sia estensibile a stati europei dotati di robusti apparati capitalistici e con forte autonomia della società civile, per interrogarci su un altro modo di intendere il populismo, ossia non come “stile” o “spazio” ma come soggetto in essere con determinati obiettivi.

Di Marie-Lan Nguyen (User:Jastrow) – Opera propria, CC BY 2.5, Collegamento

Nel tentativo di guardare al contenuto sociale e politico del populismo distinguerei piuttosto tra un populismo che genericamente è in opposizione alla globalizzazione e quei movimenti più eterogenei su base nazionalista che invece si configurano in termini di singoli stati e presentano aspetti chiaramente antidemocratici o comunque contraddittori, prossimi al rigetto della democrazia liberale. I primi cercano di mettere insieme idee e programmi spesso opposti sia per motivi tattici sia per mancanza di idee chiare: non avendo identificato il nemico, fanno sì che lo stato in cui vivono divenga l’unico nemico possibile.  I secondi invece ritengono di aver identificato un nemico, per quanto vago, in una minaccia esterna da cui difendersi, sia essa la globalizzazione o l’immigrazione o altro. Entrambi si possono saldare attorno ad un “populismo nazionalista”, ossia una tendenza attiva a rompere la classica divisione dei poteri propria del liberalismo e a vedere nella logica pluralista parlamentare un ostacolo all’interesse del popolo.

Funzione “oppiacea” e possibili derive del populismo

Il linguaggio oppositivo, a me pare, funge da grande oppiaceo: una caratteristica dei linguaggi populisti che si stanno espandendo in tutti i sistemi politici europei è di semplificare le opzioni, impoverire le appartenenze multiple riducendole ad identità omologanti, e promettere tutto per persuadere poi al dunque l’elettorato ad accettare una più accentuata apertura dei mercati e un ulteriore smantellamento dello Stato. Non è detto che tale tendenza debba prevalere, ma nella frantumazione attuale contano molto le capacità dei gruppi dirigenti di intervenire sui mercati del lavoro e sulle imprese per qualificare le aree in difficoltà. I meccanismi di accelerazione della concorrenza esterni ed interni all’UE e l’acuita lotta sociale che ne consegue stanno favorendo forme di accentramento del potere che convivono con le forme esteriori del voto e della democrazia mentre ne svuotano alla radice l’assetto liberale e pluralista. Si generano così tra i perdenti – come i ceti medi e i paesi del bacino mediterraneo e dell’Europa centro-orientale – fenomeni di rigetto del pluralismo se non della democrazia stessa. L’inquietudine riguarda il fatto che, alla ricerca di un nemico diffuso e invisibile, saranno sempre più da attendersi latenti esplosioni di violenza.

Bibliografia essenziale
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  1. Sul concetto di Popolo
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  • Pasquinucci, L. Verzichelli (a c. di), Contro l’Europa? I diversi scetticismi verso l’integrazione europea, Bologna, il Mulino, 2016
  • Revelli, Populismi 2.0, Torino, Einaudi, 2017, cap. 2.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Popoli e nazionalismi: andata e ritorno
DOI: 10.12977/nov220
Parole chiave: , , , , , ,
Numero della rivista: n.9, febbraio 2018
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Popoli e nazionalismi: andata e ritorno, Novecento.org, n. 9, febbraio 2018. DOI: 10.12977/nov220

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