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Tolleranza, Coesistenza, Convivenza

Tolleranza, Coesistenza, Convivenza

Murale a Cipro

  Articolo inserito nel dossier del n. 11 della rivista
Tolleranza e intolleranza. Stranieri e diversi nel mondo contemporaneo

Abstract

L’articolo riprende il concetto di tolleranza, uno dei due fulcri attorno ai quali si è sviluppata la Summer school 2018 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, e ne amplia lo spettro di riflessione, includendo anche i termini coesistenza e convivenza, spesso usati (e considerati) come se fossero sinonimi, ma che in realtà sono due concetti separabili, semanticamente divaricabili, per quanto certamente vicini. L’autore si sofferma poi sul concetto di identità che, seppure estremamente diffuso, ritiene inadeguato, incongruente e pericoloso per la rappresentazione delle società. La sua proposta è quella di una rappresentazione secondo somiglianza.

Il binomio coesistenza e convivenza

Ho scelto questo titolo per il mio intervento, perché tolleranza riprende il tema centrale dell’incontro, ho aggiunto poi il binomio  coesistenza e convivenza sul quale voglio invitarvi a riflettere. Spesso usiamo i termini coesistenza e convivenza come se fossero sinonimi, sovente, nel linguaggio comune, ci comportiamo così. In realtà, qualche tempo fa, lavorando su queste problematiche, ero arrivato all’idea che, forse, coesistenza e convivenza potrebbero essere considerati come due concetti, certamente vicini, ma separabili, semanticamente divaricabili. Ripeto, rimangono pur sempre vicini e fra l’altro, l’italiano, a differenza del francese e dell’inglese, si presta a questo. Noi abbiamo esattamente questi due termini coesistenza e convivenza, anche lo spagnolo ha questa caratteristica. Chi mi ha, per così dire, preceduto nell’uso di questo binomio è l’antropologo, sociologo spagnolo, Carlos Giménez Romero, che si interessa, soprattutto, di accoglienza, di immigrati. Uno dei suoi argomenti, guarda caso, propone di separare, di distinguere coesistenza e convivenza. In Italia, Gustavo Zagrebelsky, in un suo libro-intervista La virtù del Dubbio[1] propone, anch’egli, la separazione, la distinzione tra coesistenza e convivenza. Inoltre Zagrebelsky dà una definizione che si può cogliere con facilità. Proviamo a immaginare qualsiasi spazio, grande o piccolo – una città, un quartiere, una casa – lì  le persone possono o coesistere o convivere. Coesistere è fondato su un’idea di separazione, convivere, invece, è fondato su un’idea di relazione, di interazione. Là dove prevale la separazione (ad esempio cerchiamo di non interferire, di non disturbarci a vicenda) vi è l’idea di coesistenza. Convivenza, invece, è interazione, scambio, coinvolgimento.

Se diamo uno sguardo al mondo in cui viviamo, in natura troviamo sia fenomeni di coesistenza sia fenomeni di convivenza. Tutte le cose o coesistono o convivono. Se prendiamo il mondo inorganico, prevale nettamente la coesistenza: gli oggetti, l’uno accanto all’altro, coesistono, non diciamo che convivono, ad esempio un orologio e una penna  coabitano in uno spazio  che può essere il tavolo. Nel mondo organico, il mondo della vita, troviamo, invece, molto spesso, fenomeni di convivenza sotto un’infinità di forme. Un accenno, soltanto, che è importante sottolineare: in biologia non si parla di convivenza ma si parla di simbiosi. Da un punto di vista semantico non vi è differenza: convivenza viene dal latino, simbiosi dal greco, ma vuol dire esattamente la stessa cosa. I biologi usano il concetto di simbiosi in molte maniere. Simbiosi nasce in biologia verso la fine dell’Ottocento poi, col passare dei decenni, nel Novecento, gli studi relativi  alle forme di simbiosi, ovviamente sono aumentati, a lungo però le forme di simbiosi sono state considerate come fenomeni marginali. Da un po’ di tempo a questa parte, specialmente per l’impulso di una biologa americana Lynn Margulis, che aveva messo in luce come la simbiosi non può essere un fatto soltanto esterno agli organismi tra gli organismi, ma come siano molto più interessanti le endosimbiosi, cioè le simbiosi dentro gli organismi: ad esempio nel nostro stomaco si trovano batteri. Studi ulteriori hanno messo in luce un grado di intimità ancora maggiore, cioè simbiosi intracellulari, cioè dentro le stesse cellule. Una delle conseguenze degli sviluppi di questi studi in biologia, è la messa in crisi del concetto di individuo. Individuo significa non scomponibile, non divisibile, in realtà, gli organismi non sono in-dividui, sono dei di-vidui. Fra l’altro, in perfetto parallelo coi biologi, io mi spingo a dire che gli individui sono dei con-di-vidui. Inoltre anche le componenti psicologiche, sociali dell’essere umano possono essere concepite sotto questa prospettiva.

Le società umane

Nelle società umane coesistenza e convivenza sono due dimensioni compresenti. Ogni società umana è organizzata in base a un certo senso di ordine. Per costruire ordine, le società umane costruiscono delle categorie (lavoro di categorizzazione, lavoro di classificazione). Gli antropologi, a lungo, hanno utilizzato sistemi di classificazione nelle società umane: il classificare, l’ordinare, certamente crea delle situazioni di coesistenza esterna tra le categorie. Individui della categoria A, individui della categoria B, spesso, finiscono in una situazione di coesistenza. Il criterio è la separazione. Basti pensare alle caste nell’India classica, dove la separazione è molto forte. In una società però non si possono applicare solo criteri di ordine classificatorio. Le società conoscono anche fenomeni di interazione tra categorie e classi diverse. Naturalmente ci sono società più coesistenti e società meno coesistenti, società più conviventi e società meno conviventi. Ad esempio, una società fortemente individualistica, dove si possono immaginare gli individui come atomi separati gli uni dagli altri tende verso il polo della coesistenza. Quando, in sociologia, si parla di atomizzazione si fa riferimento a società in cui prevale la dimensione di coesistenza.

Finora sono state considerate le società da un punto di vista per così dire “oggettivo”, ora vorrei passare a considerare le società dal punto di vista dei soggetti, del modo in cui rappresentano la loro società.  Come rappresentiamo la nostra società o anche le altre società, i rapporti tra le società etc?  Farò riferimento al concetto di identità. Metterò subito le carte in tavola, per chi non conoscesse la mia posizione sull’identità indico due miei volumi: il primo Contro l’identità[2], del 1996 e il secondo, L’ossessione identitaria, del 2010[3]. Sarò esplicito fino in fondo: considero l’identità come una rappresentazione inadeguata della vita sociale, una rappresentazione dotata di forte incongruenza. Tuttavia, l’identità è certamente una rappresentazione estremamente diffusa, a tal punto da non riuscire a farne a meno. Ricordo che quando tenevo lezione su questi temi, facevo qualche esperimento con gli studenti, gli studenti  spesso chiedevano che rappresentazione si potesse usare al posto di identità. Per quale motivo l’identità sia divenuta quello che diversi autori, tra cui il sottoscritto, chiamano “il mito del nostro tempo” è una riflessione che ci porterebbe ad altri argomenti e non mi consentirebbe di stare nei tempi prescritti. Prendiamo atto però che, effettivamente, l’identità è un po’ il mito del nostro tempo. Di questi tempi, alcuni si pongono la domanda “l’identità è di destra o di sinistra?”. Per essere molto veloci, ritengo che l’identità si presti moltissimo a un discorso di destra.

Huntington e la questione identitaria

Samuel Huntington è un politologo che non condivido, è il famoso autore de Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale[4]. Voglio citarlo perché ha un pregio che non molti hanno. Ha il pregio di esporre il suo pensiero identitario in maniera estremamente chiara. Per Huntington l’identità è la risposta alla domanda “Chi siamo?”, vale per un gruppo, ma specialmente per gli stati-nazione, per le civiltà. Questi sono i due livelli presi in considerazione da Huntington. Quando un qualsiasi “noi” si pone la domanda “chi siamo?”, la risposta è l’identità di quel gruppo. Secondo l’autore la risposta di tipo identitario significa dire qual è la sostanza, l’essenza permanente di un noi.

Io aggiungerei che questa sostanza  può essere o di tipo biologico – le teorie razziali: siamo una razza fatta in un certo qual modo – o di tipo culturale e storico, o l’una cosa e l’altra insieme, come spesso avviene. Inoltre Huntington aggiunge: «Sappiamo chi siamo, solo quando sappiamo chi non siamo e, spesso, solo quando sappiamo contro chi siamo». Lo studioso ha ben chiaro che cosa significhi la logica identitaria. Se si entra in una logica identitaria, si entra in uno schema in cui A  è diverso da non-A, A  ha una sua sostanza e ne rivendica l’identità. Questo significa, automaticamente, creare un’alterità. Siamo noi con la nostra concezione identitaria che creiamo un’alterità. Tutti gli altri sono non-Noi: prevale quel non, prevale la negazione. Negazione di che cosa?

Una proposta positiva: la somiglianza

Qui voglio introdurre la mia proposta positiva.  Credo di poter affermare che l’identità non sia l’unico modo di rappresentare le società, o gli esseri umani, o la vita. È una possibilità. Il fatto che sia così diffusa, estesa, non toglie il fatto che sia solo un modo di rappresentare e, secondo me,  un modo assai pericoloso. Huntington l’aveva messo in luce lo scontro delle civiltà e non aveva torto.  Vi è un altro modo? Ecco, io lo chiamerei somiglianza, termine lasciato nel linguaggio più trito, nel linguaggio più quotidiano, nel linguaggio meno aulico possibile. Identità, invece è termine pulito, concettualmente, filosoficamente, ha un’allure, se così si può dire.  Per dare un fondamento, un incipit, uno stimolo a vedere la somiglianza come qualcosa di estremamente importante, vorrei citare una frase che Platone attribuisce a Protagora. Prendiamola per buona, diciamo che Protagora, nel V secolo A.C.,  in un dialogo con Socrate, avrebbe affermato: «Ogni cosa, per un verso o per un altro,  per un aspetto o per un altro,  è simile a qualsiasi altra cosa». È un’affermazione di un coraggio teorico spaventoso: questo pezzetto di cartone, per un verso o per un altro, è simile, che so, a questo computer?   è simile a questa persona che sono io? Per un verso o per un altro. Ogni cosa è simile a qualsiasi altra cosa. Prosegue: «È possibile, infatti, che il bianco, in qualche modo, somigli al nero, il duro al molle, e così le cose che sembrano completamente opposte tra loro, persino i contrari».

Qualche tempo fa, ho tenuto un seminario, dove ho fatto un parallelo tra queste affermazioni di Protagora e La zona grigia di Primo Levi. È lo stesso modo di ragionare. Primo Levi: le vittime da una parte, i persecutori dall’altra. Primo Levi non adotta un pensiero dicotomico, bianco da una parte e nero dall’altra. Il grandissimo interesse antropologico e non solo antropologico di Primo Levi è proprio questo: avere colto le sfumature, i gradi, diciamo così, che da un estremo vanno ad un altro, la cosiddetta zona grigia;  già presente in Se questo è un uomo, nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, diventa un tema assolutamente fondamentale, centrale. Protagora direbbe “il nero e il bianco un po’ si somigliano, per un verso o per un altro, vedrai che qualcosa…”. È un altro modo di rappresentare le cose. Vuol dire che, quando ritorniamo al “noi chi siamo?” anziché fornire una risposta identitaria come Huntington, si offre un’altra rappresentazione:  anziché creare una barriera – noi rispetto agli altri –  si procede attraverso il somigliante. Vuol dire che siamo simili a questi altri gruppi, a quest’altro, a quelli etc. Simili non vuol dire che non ci siano le differenze, ma queste differenze non si trasformano in alterità insuperabili.

Un antropologo, Simon Harrison, che ha studiato popolazioni della Papua Nuova Guinea, proprio dal punto di vista delle somiglianze, aveva coniato un’espressione che prendo in prestito: “la politica delle somiglianze”. Egli metteva in luce che gruppi non ostili tra di loro sviluppavano una vera e propria politica delle somiglianze, somiglianze con i vicini, ma anche con i nemici, in modo tale che i nemici non fossero solo nemici, solo altri, pronti a essere sterminati.

Logica identitaria e politica delle somiglianze. Due rappresentazioni alla prova

Proviamo adesso a vedere di applicare queste due rappresentazioni: quella dell’identità e quella della somiglianza, pensando noi e loro. L’identità, secondo me, può avere due modalità di applicazione a seconda che, alla parola identità, si aggiunga o si tolga la parola tolleranza. Nel primo caso – identità più tolleranza-  significa che ci sono dei noi e ci sono degli altri. La rappresentazione dell’identità crea l’alterità, gli altri sono altri. Perché? Perché hanno un’altra sostanza, non hanno la nostra identità, per definizione, altrimenti sarebbero simili.  Una rappresentazione che inglobi la tolleranza a che cosa può dar luogo?  Può dar luogo alla coesistenza, dove, ricordo, coesistenza vuol dire, soprattutto, separazione. Voi lì e noi qua. Non ci diamo troppo fastidio. In questo quadro di coesistenza si può partire dall’indifferenza, ad esempio: “è arrivato questo gruppetto di nigeriani, li mettiamo lì”, ma a noi non importa, siamo indifferenti, però siamo tolleranti per cui se fanno una cucina i cui odori si spandono nel vicinato, noi siamo tolleranti. Un passo successivo è l’accettazione, nel senso che, anziché essere indifferenti, sappiamo che, in qualche modo, fanno parte del quadro, beninteso, c’è sempre una linea di demarcazione, però nel quadro ci sono anche loro. Delimitazione, in questo caso, può essere anche un fatto positivo: creando dei confini, quei confini, in un certo senso, possono anche essere protettivi della loro esistenza. Possiamo anche concedere un certo grado di autonomia a questi gruppi che rimangono pur sempre altri. Si può giungere fino al rispetto. Certo, noi, in fondo li rispettiamo. Non solo li tolleriamo, ma la nostra tolleranza è così nobile, sublime che può arrivare fino al rispetto. Rispettiamo le loro usanze etc. Goethe diceva “ma, tollerare è un po’ come insultare”. È un tarlo, cioè la tolleranza ha un limite intrinseco: tollerare vuol dire sopportare e bisognerebbe provare a mettersi dal punto di vista di chi è tollerato, di chi è sopportato. Intendiamoci, questo non mette in discussione l’enorme importanza che   il principio della tolleranza ha avuto nella storia del pensiero europeo, ma ci fa intravedere un limite. Vi è poi un altro aspetto da considerare, la tolleranza è, spesso, a termine. Fino a quando ci sentiamo di tollerare? Quando si verificano particolari fenomeni, adducibili a cause di vario genere quali crisi economiche o cambiamenti di clima politico, la tolleranza è a rischio. Se il nostro pensiero identitario, a un certo momento, non ha più la stampella della tolleranza, se, ad un certo punto qualcuno ci autorizza a dire “adesso basta, essere tolleranti” si ha  lo scivolamento, lo slittamento. Pensate a dei gradini da cui  si può scivolare dall’indifferenza al disprezzo. Non vi è più delimitazione, vi è segregazione e così si può scivolare ancora verso il respingimento. Respingimento è termine ben noto nella politica italiana, è temine ufficiale della politica italiana, da diversi decenni.  Non li vogliamo proprio, li vogliamo far fuori. Far fuori può voler dire due cose: fuori dal nostro spazio ma anche pulizia etnica, come nella ex Iugoslavia. Vi sono più esempi di questo tipo, basti pensare ai nazisti. Inizialmente non pensavano di far fuori nel senso di ammazzare, ma pensavano di far fuori nel senso di respingere gli ebrei. Pensavano di mettersi d’accordo con Francia e Inghilterra etc. e tutti insieme di prendere tutti gli ebrei dell’Europa, caricarli su delle navi e portarli in Madagascar, il più lontano possibile. Ovviamente la cosa non è andata in porto, come si usa dire.  Il gradino successivo è far fuori nel senso di annientare, e sono gradini scivolosi verso un’età del ferro.

Un testimone dell’età del ferro, Esiodo (ottavo-settimo secolo a.C.)  ne Le Opere e i Giorni, affermava “io non vorrei entrare, non vorrei entrare in questa età del ferro, vorrei essere nato prima o nascere dopo”. L’età del ferro è dove, guarda caso, la rappresentazione delle somiglianze viene meno. Si consideri questa citazione: «nell’età del ferro, il padre non sarà simile  al figlio ὅμοιον (omoion), né i figli saranno simili al padre, né lo straniero…», lo straniero-ospite, ξένος (xènos). In greco xènos vuol dire entrambe le cose: straniero e ospite, quindi io ho messo insieme né lo straniero-ospite sarà simile allo straniero-ospite, né il compagno al compagno, né il fratello al fratello sarà caro come prima lo era. Si osservi quanti rapporti di somiglianza vengono tagliati nell’età del ferro, dalle spade, dalle armi da taglio dell’età del ferro.

L’idea dello straniero/ospite, è molto diffusa nell’antichità e,  per fare un mio modesto omaggio, si trova anche in molti contesti dell’Italia meridionale. Se, invece, potessimo non entrare nell’età del ferro, se riuscissimo a scalzare la rappresentazione dell’identità e provassimo ad attivare una rappresentazione solo in termini di somiglianza, come voleva Esiodo? La somiglianza è a fondamento della convivenza. Per avere rapporti di convivenza bisogna partire dalla somiglianza.  Dal punto di vista rigorosamente concettuale, somiglianza e convivenza hanno in comune  l’idea della condivisione. Due cose si somigliano nella misura in cui condividono certi tratti comuni. Possono condividere tanto, possono condividere poco, possono far sì che la condivisone aumenti o diminuisca, ma è già pur sempre condivisione. Vi è tutta una serie di tappe possibili. Innanzi tutto non vi è indifferenza, ma interesse per gli altri, un interesse che si traduce in una qualche relazione, quindi un passaggio di confini. Ci sono sempre i confini, a volte i confini mettono un po’ di ordine. Poi, come gli antropologi hanno capito dopo la lezione di Fredrik Barth, i confini spesso sono fatti per essere attraversati, vi sono molti esempi etnologici. Il confine non è qualcosa che vincola, ma è ciò che ti indica dove avviene l’attraversamento, quindi la relazione è sempre andare oltre un confine. La relazione può essere superficiale, ad esempio il commercio muto, di cui i vecchi etnologi studiavano esempi in alcune parti del mondo, consisteva nel lasciare in un luogo un determinato bene, i giorni successivi un altro soggetto passava da quel luogo, prendeva il bene e ne lasciava uno  possibilmente equivalente. Nel commercio muto, il coinvolgimento è esilissimo, però vi è una relazione e un coinvolgimento. Coinvolgimento vuol dire che una relazione, ad esempio una relazione commerciale, coinvolge altri aspetti. Si faccia mente ai Pigmei Mbuti della foresta dell’Ituri, ho lavorato in parte con loro, ma  soprattutto con le popolazioni immediatamente a sud di questa zona che erano in contatto con loro. Noi Bantu portiamo ai Pigmei prodotti dei nostri orti o del nostro artigianato, i Pigmei  ci danno selvaggina, quindi proteine animali, molto pregiate.  Molto spesso questo commercio non si limitava ad essere una relazione soltanto commerciale, ma coinvolgeva le famiglie dei due partner: al bisogno, la famiglia del mio amico Mbuti veniva in soccorso della mia famiglia e viceversa. Coinvolgimento, dipendenza reciproca, ad un certo momento il coinvolgimento può perfino tradursi in una dipendenza: ho bisogno di questo gruppo. Ultimo punto. Progettazione comune. La convivenza diventa significativa soprattutto quando due gruppi, tre, quattro gruppi, progettano, vedono il futuro, organizzano il futuro insieme.  In Africa ci sono esempi formidabili, nell’Africa tradizionale ovviamente, nella Nigeria settentrionale precoloniale, ben quattro gruppi, da secoli, avevano dato luogo ad una convivenza che Nadel chiamava simbiosi. Ognuno di questi gruppi era specializzato in qualcosa – fabbri, agricoltori,  pastori, specialisti dei rituali della pioggia o specialisti dei rituali funebri – ognuno metteva le proprie competenze. Nadel correttamente osservava come non vi fosse fusione che avrebbe annullato tutte le differenze, ma come la convivenza avvenisse in simbiosi. Simbiosi significa sfruttare le differenze che, alimentate, diventano delle risorse.  Convivenza esige un sapere.  Riporto una citazione di Michel de L’Hospital (1507-1573), cancelliere dei sovrani di Francia visse proprio nel periodo delle guerre di religione in Francia e così scriveva ai suoi sovrani: «Ciò che importa non è sapere qual sia la vera religione, ma sapere come gli uomini possono vivere insieme». Trovo questa frase molto importante, perché ci indica l’obiettivo da raggiungere: sviluppare un sapere relativo alle condizioni di possibilità della convivenza. Una rappresentazione identitaria rende la convivenza impossibile, questa è la mia tesi.

I presupposti della convivenza 

Quali sono i presupposti della convivenza? la somiglianza e la politica delle somiglianze. Le somiglianze vanno governate, amministrate, sono oggetto di politica, sono oggetto di scelte. Quali somiglianze ci interessa mettere in luce? Quali differenze mettiamo da parte? Naturalmente ci possono essere delle incompatibilità tra gruppi che vogliono convivere. Se vi dicessi infibulazione? Certamente, vi ho portato un caso  estremo, proprio per evidenziare che le incompatibilità ci sono. Credo però che certe incompatibilità siano più di facciata che non reali, penso che ogni volta si debba discutere, cercare di capire. Cercare di capire per milioni e milioni di persone, cosa vuol dire? Carlos Giménez Romero,diceva «la convivenza è un’arte che occorre apprendere». Certo è un’arte. Io uso spesso il termine tecniche di convivenza, tecniche nel senso originario in greco τέχνη (téchne), ciò che fa nascere qualcosa che prima non c’era. Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, qualche anno fa ha scritto un libretto intitolato Convivere[5] –  tradotto anche in inglese –  dove parla di arte, di cultura della convivenza. Un esempio: Riace. Non è forse qualcosa su cui riflettere? Non va forse nella dimensione della convivenza, più che della coesistenza?

Recentemente, su “La Stampa” ho trovato un riassunto della relazione che Luciano Canfora  ha  tenuto al “Festival della mente” di Sarzana, dove, riprendendo per sommi capi, ha ribadito che, affinché il problema della migrazione non si risolva in una catastrofe, occorre «la creazione di un’unione euro-africana come incremento di intelligenze, energie, intraprendenze economiche, rilancio demografico…» estremamente difficile da realizzare, però, quantomeno, abbiamo una visione per il futuro: una visione di convivenza, perché l’alternativa, lo sappiamo, è la catastrofe. Termino aggiungendo una cosa, una cosa talmente importante che forse avrei potuto curvare tutto l’intervento su questo punto: innanzi tutto convivenza con la natura. Questo è il punto fondamentale. Se noi non capiamo che dobbiamo smetterla di divorare le risorse naturali, la convivenza non è che un sogno. È impossibile che gli esseri umani possano convivere, se gli esseri umani devono combattere duramente tra loro per accaparrarsi le risorse naturali.


Note:

[1]Gustavo Zagrebelsky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007.

[2]Francesco Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[3]Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010.

[4]Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, N.Y, Simon & Schuster, 1996,  Milano, Garzanti, 2000

[5]Andrea Riccardi, Convivere, Roma-Bari, Laterza, 2006.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Tolleranza, Coesistenza, Convivenza
DOI: 10.12977/nov266
Parole chiave: ,
Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Tolleranza, Coesistenza, Convivenza, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov266

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