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Paesaggio e patrimonio territoriale. Dalla storia alla coscienza di luogo

Paesaggio e patrimonio territoriale. Dalla storia alla coscienza di luogo
Abstract

Paesaggio è un termine polisemico. Il paesaggio non è solo ciò che si vede, ma un insieme di relazioni e di funzioni che esprimono il valore di un territorio. A leggerlo bene, il paesaggio ci dice qualcosa non solo sulle trasformazioni storiche, ma anche sulle prospettive future di un territorio. L’articolo concentra l’attenzione su questa connessione, con particolare attenzione al ruolo dell’agricoltura, toccando essenzialmente quattro aspetti: dallo spazio al territorio; il paesaggio agrario, la patrimonializzazione del paesaggio; educare al paesaggio.

Il presente articolo è sostanzialmente la versione scritta della lezione svolta il 9 settembre 2021 nella  Summer School su “Sviluppo sostenibile, ambiente e patrimonio nell’educazione civica. la centralità della storia”, organizzata dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

Premessa

Il paesaggio non è solo ciò che si vede, ma un insieme di relazioni e di funzioni che esprimono il valore di un territorio. A leggerlo bene, il paesaggio ci dice qualcosa anche sulle prospettive future di un territorio, oltre a testimoniare, essendone il frutto, le sue trasformazioni passate. È soprattutto su questa connessione che qui vorrei concentrare l’attenzione, toccando essenzialmente quattro aspetti: dallo spazio al territorio; il ruolo dell’agricoltura; la patrimonializzazione del paesaggio; educare al paesaggio. Perché se il paesaggio diventa patrimonio, cioè qualcosa che ha valore, diviene cruciale anche l’educazione e l’insegnamento al paesaggio, vale a dire una conoscenza e una presa di coscienza della sua importanza.

Dallo spazio al territorio

Il processo di formazione del paesaggio sta all’interno di un fenomeno più generale che i territorialisti chiamano di territorializzazione, cioè un processo storico incessante, di lungo o di lunghissimo periodo, che nella fase attuale, ormai detta Antropocene, pone loro il problema di come questo paesaggio lungamente costruito diventi patrimonio e di come esso esprima la crisi ecologica che attanaglia il nostro tempo.

In una prospettiva di lungo periodo, possiamo dire che la natura più il processo storico, cioè la natura più l’uomo, sono i protagonisti del processo di territorializzazione fondato sulla cooperazione tra natura e uomo. C’è quello che ci mette la natura, che ci sarebbe anche a prescindere dalla presenza umana: la montagna, il deserto, la pianura, il fiume e le acque, la vegetazione e così via; poi ci sono i segni delle attività umane, che ovviamente non sono solo quelli dell’agricoltura, anche se – come si vedrà – l’agricoltura svolge un ruolo primario in questo processo di territorializzazione. Il territorio formatosi dalla trasformazione cooperativa dello spazio naturale ha una sua dimensione visibile, costituita dal paesaggio. Basta guardare alcune immagini di paesaggio, anche casuali, di territori più o meno antropizzati, per accorgersi di questa feconda e a volte problematica combinazione tra elementi naturali e elementi umani; un insieme che poi va a formare ciò che i territorialisti chiamano patrimonio, secondo una acquisizione culturale emersa essenzialmente nel corso del Novecento. Ora, i poeti e gli artisti si accorgono delle cose prima degli altri: quasi sempre prima degli studiosi e molto prima dei politici. Già Leopardi, salendo sulla torre di Recanati, probabilmente quella del suo passero solitario, e osservando il paesaggio della campagna marchigiana, rilevava come lo si doveva osservare non come un prodotto della natura, ma come il risultato di un incontro fecondo tra la natura e l’uomo:

una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura.[1]

Come sappiamo, oggi il paesaggio è definito in via prioritaria dalla definizione della Convenzione europea del paesaggio, che peraltro introduce anche l’elemento della percezione, cioè uno dei punti di contatto con quanto accennato in precedenza:

“paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.[2]

 È una definizione che sostanzialmente ricalca quella del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dove però al termine “percezione” è sostituito quello di “identità”:

Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.[3]

Il paesaggio come espressione di identità di un territorio

È di nuovo il rinvio all’azione dei fattori convergenti umani e naturali e delle loro interrelazioni. Ma secondo me, al di là delle definizioni normative come quelle citate, il senso più profondo di una definizione paesaggistica è quello che ci dà Emilio Sereni, quando scriveva che «il paesaggio è il farsi di una certa società in un certo territorio»[4]. Si tratta di una definizione molto evocativa, che giunge a suggerire quasi un’equazione, tra una società che funziona e un paesaggio bello, o addirittura tra paesaggio e politica, o anche tra paesaggio e democrazia. Ecco perché possiamo considerare il paesaggio come specchio di quello che si fa, di quello che succede intorno.

Il paesaggio non è solo ciò che si vede. Carlo Tosco, storico dell’architettura che ha scritto sul paesaggio come patrimonio storico, ha definito il paesaggio “risorsa apicale”, cioè una griglia attraverso la quale è possibile leggere le risorse complessivamente presenti su un territorio. È l’insieme delle diverse componenti che il codice chiama i beni paesaggistici, dove stanno anche i monumenti naturali, cioè elementi naturali come gli alberi. Mi ha colpito l’albero dei cento cavalli a Sant’Alfio, alle pendici dell’Etna, di cui conservo una foto che scattai diversi anni fa, proprio all’ombra di quel castagno. E non si tratta solo di alberi, ma anche di cascate, calanchi, formazioni geologiche, formazioni come le rocce, per esempio. Elementi che per la loro peculiarità, rarità o tipicità paesaggistica sono degni di tutela.

Secondo l’articolo 136 del Codice, sono beni paesaggistici:

a) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;
b) le ville, i giardini e i parchi… che si distinguono per la loro non comune bellezza;
c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;
d) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.[5]

Questo è il codice del 2004-2008. Quel codice che stabilisce anche l’obbligo per le regioni italiane di redigere i cosiddetti piani paesaggistici, che attualmente solo pochi governi regionali hanno fatto.

A proposito del paesaggio, Salvatore Settis ha scritto che l’Italia è il paese dei paradossi: dice che è il Paese con la più lunga tradizione di leggi di tutela e nello stesso tempo il Paese che ha più abusivismo; il Paese dove le licenze a costruire e l’edificazione continuano ad aumentare anche quando la popolazione smette di crescere; è il Paese del bel paesaggio nel quale non si insegna il paesaggio[6]. Eppure le normative per la tutela sono cominciate presto. Ci sono dei prodromi già ai primi del Novecento, ma l’impianto normativo principale è la “legge Croce”. Quando Benedetto Croce fu ministro nel governo Nitti e poi nell’ultimo governo Giolitti, subito prima del fascismo, tra il 1920 e il 1922, nacque questa legge per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico. In essa si mettono insieme, appunto, le bellezze della natura e le bellezze frutto dell’intervento umano alle quali si attribuisce valore: palazzi, monumenti e così via.

La legge n. 778 del 1922 si intitolava “Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”. Nella relazione di presentazione al Senato, Croce si espresse così:

Un altissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato, poiché il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari […], con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli.[7]

L’obiettivo di Croce era allora di far capire al Parlamento perché lo Stato avrebbe dovuto occuparsi di queste cose. Tra l’altro in un Parlamento composto in gran parte, all’epoca, da proprietari terrieri e che quindi non era facile convincere circa l’intervento dello Stato in questo campo, perché poteva sembrare in qualche modo un’insidia per la proprietà privata.

Su ispirazione di questa legge prefascista furono poi elaborate anche le due leggi Bottai del 1939, che distinguono tra bellezze individue e bellezze di insieme e per la prima volta prevedono la possibilità della pianificazione paesaggistica. Ci torneremo più avanti. Secondo diversi studiosi, l’articolo 9 della Costituzione, secondo cui la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, si colloca su questa linea identitaria. Del resto, lo stesso Benedetto Croce era anche lui tra i costituenti.

Se perciò la visione del paesaggio è una visione ‘processuale’ collegata al funzionamento della società e alle trasformazioni del territorio, allora l’intervento dello storico e la prospettiva storica ci aiutano, diciamo così, a definire questo processo di territorializzazione, che peraltro rompe le partizioni storiche tradizionali. Io insegno storia moderna, ma in realtà occupandomi di questi temi sono costantemente costretto ad infrangere i confini del mio settore disciplinare, perché non è possibile studiare l’agricoltura, il paesaggio, l’ambiente, il territorio e le sue trasformazioni, limitandosi ad un periodo breve e definito: le convenzionali partizioni tra età antica, medioevo, età moderna e contemporanea non tornano.

 

Il ruolo dell’agricoltura

Tra gli strumenti del processo di territorializzazione, l’agricoltura è certamente uno dei primi e dei più importanti. Ne possiamo aggiungere altri: la città, le manifatture, l’industria, le infrastrutture e così via. Ma l’agricoltura, insieme all’allevamento, è l’attività che più di ogni altra ha cominciato ad organizzare lo spazio naturale trasformandolo in territorio. Essa non è solo un settore economico, ma l’inizio di una filiera che risponde a una esigenza basilare dell’umanità, l’alimentazione. E questo è un punto su cui occorre recuperare consapevolezza, anche da un punto di vista di metodologie didattiche rivolte alle giovani generazioni: partire dal cibo è una cosa molto importante perché può servirci a dare concretezza ai nostri ragionamenti.

Possiamo partire dalla domanda “che paesaggio hai nel piatto?” per valutare qual è oggi la nostra capacità di immaginare la filiera produttiva che sta dietro al cibo. Se mangiano pane e olio, ad esempio, quanti dei nostri ragazzi sono in grado di immaginare un campo di grano e un uliveto? Di figurarsi il lavoro della semina, della raccolta, il fluire delle stagioni, la trasformazione, la commercializzazione… insomma tutte le operazioni che stanno dietro alla pietanza che abbiamo davanti e che rappresentano in varia misura anche operazioni con riflessi paesaggistici. Forse la loro immaginazione si ferma al supermercato dove è stato comprato l’olio o al negozio dove si è preso il pane; ovviamente lo stesso ragionamento può valere per la carne, per la frutta, per il vino e così via.

Dobbiamo ricostruire filiere agricole, ma anche paesaggistiche e, infine, di territorio per comprendere davvero il processo di formazione del paesaggio, che ci rimanda alla grande storia dell’ambiente. La storia dell’ambiente è una disciplina recente, ora introdotta anche negli ordinamenti universitari. Una materia che riguarda la ricostruzione dei grandi quadri ambientali nel tempo, a partire da quelli principali delle acque, dei boschi, delle coltivazioni, che pone al centro il rapporto complesso tra popolazione e risorse, tra società e geografia. Questo ambito tematico include il rapporto città-campagna, che per l’Italia in particolare costituisce un carattere di fondo della nostra storia, ma anche un problema del presente. Anche la pandemia recente del Covid, del resto, ce lo ha sottolineato in maniera evidente. Due componenti territoriali fondamentali – città e campagna, appunto – pur essendo nettamente distinte, hanno a lungo dialogato, intessendo relazioni e assolvendo funzioni reciproche. Oggi che la campagna e la città sono più confuse, meno rigidamente definite – pensiamo allo sprawl urbano intorno alle nostre città, ma anche dei nostri centri più piccoli che si espandono nella campagna anche quando la popolazione diminuisce – si potrebbe essere indotti a pensare che siccome si confondono, dialogheranno meglio. E invece siamo in una situazione in cui questo dialogo si è spezzato, nella quale una città può illudersi di vivere senza aver bisogno della campagna circostante, mentre la campagna può morire senza che la città più vicina se ne accorga.

Già Leonardo da Vinci si rese conto dei pericoli dell’urbanesimo, anche per ragioni pratiche come la peste e la necessità di difendersi dalla diffusione dei contagi, tanto che propose a Ludovico il Moro, duca di Milano, di alleggerire la pressione demografica del ducato:

e trarrai di dieci città 5.000 case con 30.000 abitazioni e disgregherai tanta congregazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno, empiendo ogni parte di fetore, si fanno semenza di pestilente morte.[8]

Qui c’è il rapporto con l’epidemia, che al tempo era la peste, e Leonardo diceva che concentrarsi troppo nelle città è un errore. Un rapporto città-campagna che ritroviamo anche nella storia dell’arte, con il riferimento obbligato all’affresco di Ambrogio Lorenzetti. Siamo alla metà del Trecento, poco prima, quando dipinse il celebre Buongoverno della città sulla campagna, un affresco molto noto dove si vede come l’agricoltura, operando in funzione della città, costruisce paesaggio oltre a produrre cibo: producendo beni alimentari, essa produce il paesaggio. Su un’altra parete egli rappresentò il Cattivo governo, dipingendo una campagna senza contadini, senza animali, senza colture, con le forze erosive della natura che riprendono il sopravvento.

 

I quadri ambientali italiani

L’Italia è una realtà molto varia per la sua conformazione fisica, differenziata fin dai suoi caratteri naturali. La natura ci ha messo del suo, l’uomo ha fatto il resto in un paese stretto e lungo, quasi interamente circondato dal mare, formato per poco meno dell’80% da colline e montagne. È ovvio che anche le forme di utilizzazione del suolo siano state diverse fin dalle origini a seconda della latitudine, del clima, dell’orografia e della disponibilità di acqua. Il quadro ambientale è importante. Quando si dice “un paesaggio costruito dall’uomo” non vuol dire costruito dall’uomo indipendentemente dalla natura, ma si deve intendere anche il peso dei caratteri ambientali. Naturalmente nel territorio ci sono le persone e quindi è difficile fare storia dell’ambiente senza la storia degli uomini che hanno vissuto in quell’ambiente.

Tabella 1: La popolazione dell’Italia dall’età romana a oggi

Il grafico della popolazione italiana all’età romana fino al Novecento, mostra un lungo periodo di sostanziale stasi, con oscillazioni essenzialmente legate alle grandi epidemie, prima fra tutte la peste nera della metà del XIV secolo, poi la peste seicentesca. Cadute alle quali seguono le riprese che ogni volta puntualmente si sono verificate. Infine, l’andamento verso l’alto successivo alla rivoluzione industriale, che apre la fase del mito della crescita continua, che è rimasto in vigore senza vacillare almeno fino agli anni ’70 del Novecento. Nell’ultima fase, dall’Unità in poi, l’Italia ha visto la popolazione crescere ancora, ma con un forte cambiamento della struttura socio-professionale, particolarmente rilevante a partire dalla metà del Novecento. Se guardiamo il grafico della popolazione attiva nei tre settori fondamentali dell’agricoltura, dell’industria e del terziario c’è un punto di snodo, un incrocio che ci dice molto sul radicale mutamento della società e del territorio in Italia.

Tabella 2: Popolazione attiva in Italia dall’Unità a oggi

In questo grafico il punto di arrivo, cioè la situazione odierna, è esattamente inverso al punto di partenza. Al tempo dell’Unità il 70% della popolazione viveva di agricoltura. Meno del 20% era impiegato nell’industria e poco più del 10% nel composito, ma ancora limitato, settore dei servizi. Oggi la classifica è esattamente ribaltata. Come si vede il punto di incrocio di queste curve si colloca tra il 1950 e il 1970, un sorpasso che produce una forbice e rappresenta bene il passaggio dell’Italia da paese contadino a paese industriale. Ma per poco, perché nel decennio successivo l’altra linea, quella dei servizi, che aveva già sopravanzato quella dell’agricoltura, supera anche quella dell’industria e l’economia si avvia verso una progressiva terziarizzazione.

Questi mutamenti hanno avuto un riflesso importante anche sul paesaggio e hanno modificato i quadri ambientali. In un Paese strutturalmente e storicamente policentrico come l’Italia, le campagne, le aree interne e i piccoli centri sono stati quelli che hanno pagato il tributo maggiore al cosiddetto boom economico (in un primo momento definito addirittura ‘miracolo’), cioè ad un modello di sviluppo sostanzialmente polarizzante, che ha concentrato le attività, la popolazione e i servizi nei poli urbani e in qualche tratto di costa. Si è trattato di una trasformazione profonda e rapida, che però può essere inquadrata anche in una evoluzione di più lungo periodo, che ha visto l’agricoltura passare da settore labour intensive a settore capital intensive. Il paesaggio riflette la trasformazione dell’economia.

Le Italie agricole e l’identità

La storia dell’agricoltura e del paesaggio ci aiuta molto, tra l’altro, a capire le differenze all’interno di questo paese. Già una schematica osservazione dei paesaggi agrari italiani – quello della cascina al Nord, del podere al Centro e della masseria a Sud – ci rivela una sostanziale pluralità di agricolture, di insediamenti, di rapporti di produzione. Ma in Italia le schematizzazioni, come i valori medi, non spiegano molto. Ad uno sguardo più ravvicinato ci accorgiamo che in realtà le differenze vere e profonde non sono solo quelle tra Nord e Sud, come a lungo abbiamo pensato secondo uno schema dualistico dello sviluppo. Le disparità territoriali, che inevitabilmente sono diventate anche disuguaglianze sociali, purtroppo, sono quelle tra città e campagna, tra costa ed entroterra, tra montagna e pianura; al punto che potremmo alla fine immaginare che in Italia ci sono tanti sud e pochi nord, e che magari c’è qualche nord anche al sud e viceversa. Questo se il sud e il nord non sono soltanto una questione di latitudine, ma piuttosto una condizione esistenziale.

La storia dell’agricoltura mostra che fin dalla prima età moderna lo sviluppo italiano ha seguito linee evolutive differenziate: nel Centro-Nord si assiste a un disseminarsi dell’insediamento umano nelle campagne, con relazioni di potere più ravvicinate (le città e i loro contadi, gli stati regionali in formazione, il superamento della feudalità), mentre nel Mezzogiorno è presente uno Stato più grande e lontano, una capitale e le sue province, i latifondi, un’organizzazione ancora feudale, una lontananza del potere.

Il risultato di questa evoluzione di lungo periodo è che dopo l’Unità il quadro delle campagne è formato da «parecchie Italie agricole differenti tra loro», come dirà Stefano Jacini a conclusione della grande inchiesta agraria che porta il suo nome: «invano cercheremmo, dopo un quarto di secolo dacché fu proclamata l’unità politica, una vera e obbiettiva Italia agricola. Noi troviamo ancora parecchie Italie agricole differenti fra loro»[9]. In genere siamo stati indotti a interpretare questa diversità come un elemento di debolezza, creando una sorta di gerarchia tra le aree ritenute avanzate, perché rispondevano meglio a un modello di mercato capitalistico, e quelle bollate come arretrate perché lontane dal modello dominante. Siccome a volte, a forza di dire che le cose stanno in un certo modo, lo diventano davvero, abbiamo creato il pregiudizio della disparità come misura dell’arretratezza.

Come dicevo, i grandi sistemi agrari che in Italia hanno contrassegnato il paesaggio e – possiamo dire – anche la società, sono quelli del podere mezzadrile e della fattoria nell’Italia centrale; della cascina nell’Italia padana, dove già tra Sette e Ottocento si era venuta affermando un’agricoltura più capitalistica, più aperta all’innovazione, più legata al mercato e tendente alla specializzazione produttiva; quello meridionale del latifondo, con le colture estensive di cereali e pascoli. Ma questa è, appunto, una schematizzazione, perché in realtà al Sud come al Nord la situazione era più articolata: così come nelle regioni settentrionali non c’era soltanto la cascina, ma i poderi della pianura asciutta e della parte collinare, fino ai sistemi più peculiari delle vallate alpine, in quelle meridionali non c’era solo il latifondo, ma anche aree di specializzazione produttiva, come ad esempio gli agrumeti della penisola sorrentina o dell’Etna o come i vigneti della Puglia o gli oliveti della Calabria e del Salento, oggi colpiti dalla fitopatia drammatica della xylella. Nell’area del podere la policoltura ha consentito al sistema mezzadrile di reggere a lungo e quindi di produrre un paesaggio resistente, fatto di più dimensioni: quella orizzontale dei seminativi che si sommava a quella verticale delle alberature, degli olivi, della vite, dei gelsi. I gelsi erano molto presenti anche nel Nord, soprattutto nella parte pedemontana e collinare, ma anche in pianura, collegati a un’attività importantissima dal punto di vista economico come la produzione di seta.

Dicevo che quelle appena enucleate sono delle schematizzazioni, utili a spiegare la pluralità dei sistemi agricoli e dei paesaggi agrari italiani. Se noi dalle colture passiamo alle tipologie delle case contadine, riceviamo la stessa conferma: la masseria, la casa colonica, il maso, ecc. Anche le tipologie insediative e architettoniche danno conto, insomma, di questa fortissima pluralità.

Dobbiamo aggiungere che i paesaggi agrari sono anche paesaggi zootecnici. Cosa sarebbe la storia degli uomini senza quella dei maiali, dei bovini, delle pecore, degli asini, dei cavalli? Anche il tema dell’allevamento ci rimanda a un’idea plurale dei paesaggi italiani che vanno dalle transumanze alpine o appenniniche fino agli allevamenti stabulati della pianura, paesaggi anch’essi che cambiano nel corso del tempo: si pensi al passaggio dagli allevamenti contadini agli allevamenti intensivi dei nostri tempi, ad esempio. Così come un altro elemento importante nella costruzione paesaggistica è l’acqua. In Italia ci sono molti paesaggi frutto della bonifica idraulica: una “guerra delle acque” condotta per formare campi fertili dalle paludi e dagli acquitrini, perfino dai laghi. Si riferiva a questo Carlo Cattaneo quando a proposito della Lombardia parlava di «una patria artificiale costruita più sull’acqua che sulla terra»[10].

Emilio Sereni aveva scritto il suo libro sulla Storia del paesaggio agrario nel corso degli anni ’50, che poi uscì per Laterza nel 1961. Era praticamente la storia del paesaggio agrario italiano dall’antichità etrusca e greca fino alla metà del Novecento. Sereni scriveva chiaramente che il paesaggio agrario è la forma che l’agricoltore imprime al paesaggio naturale: una prassi di generazioni, lontane o vicine che siano. È un fare – aggiungeva – o un farsi, piuttosto che un fatto, esprimendo bene la visione processuale del paesaggio, di qualcosa che pone il problema delle sue trasformazioni. Il problema del cambiamento non può essere eluso, perché le trasformazioni nella storia non sono necessariamente una disgrazia; sono la normalità. La storia è trasformazione, ma quello che noi dobbiamo pensare, e secondo me anche insegnare, è che di fronte alle trasformazioni noi abbiamo due possibilità: o si governano o si subiscono. E trovo che il paesaggio sia un esempio molto calzante per riflettere su questo concetto, in un’epoca in cui noi avvertiamo una progressiva perdita di senso di protagonismo e un estendersi, invece, di sentimenti come l’impotenza, l’ineluttabilità, perfino la rassegnazione. Se la rassegnazione è un sentimento negativo, quasi inammissibile nei giovani, l’ineluttabilità è forse il più insidioso: le cose stanno così perché devono andare così, senza che io possa fare qualcosa o possa incidere in qualche misura sulla trasformazione della società. È un ragionamento che non di rado emerge, purtroppo, anche tra le giovani generazioni.

Il punto da cui eravamo partiti è che l’agricoltura produce paesaggio e che quindi la storia dell’agricoltura serve anche a capire la storia del paesaggio. Come avviene questa produzione di paesaggio? Avviene attraverso vari elementi, tra cui i principali sono le colture adottate, la morfologia dei campi, le sistemazioni dei terreni, le tecniche, le forme dell’allevamento, i fabbricati rurali, le forme stesse dell’insediamento e le infrastrutture rurali. È evidente che costruire una casa contadina significa anche realizzare una strada per arrivarci e magari aggiungere due filari di alberi lungo quella strada, che poi si ramificherà in strade poderali per raggiungere i campi e così via: sono tutti segni paesaggistici che rimandano a quella prassi di generazioni a cui si riferiva Sereni. È come un susseguirsi di generazioni di agricoltori che per necessità hanno usato le loro zappe, le loro falci, i loro aratri, i loro attrezzi per produrre cibo, ma anche per disegnare paesaggi. Più o meno consapevolmente, le hanno usate come fossero matite sul territorio, matite su un album da disegno. E questo processo sta ancora continuando, seppure con modi e tempi diversi. Oggi non si usano più le zappe, le falci e le vanghe, ma ci sono le macchine, i campi si sono allargati, le colture hanno teso alla specializzazione, ecc.

I prodotti sono l’espressione primaria di questa incessante costruzione paesaggistica, in primis quelli storici dell’agricoltura mediterranea – il grano, l’olio, il vino, cioè i cereali, l’ulivo, la vite – che poi sono stati integrati in vari tempi dalle colture provenienti da altri mondi. La storia delle colture e delle loro migrazioni è una bella storia di integrazione, di incontro culturale, di contaminazione, che si tratti di quelle venute dall’Oriente più lontano, come il riso e il gelso, o di quelle che all’inizio dell’età moderna cominciarono ad arrivare dal nuovo continente americano, cioè il mais, la patata, il pomodoro, il girasole e molte altre. Come si può intuire, anche il rapporto tra agricoltura e alimentazione ci dà anche l’idea di una identità alimentare che è come l’identità sociale, cioè si forma dall’incontro e dall’integrazione di cose diverse, da una contaminazione che a volte è reciproca e altre volte diseguale. Oggi noi consideriamo ormai come nostri questi prodotti pervenutici da lontano. In effetti lo sono, e fanno parte a pieno titolo della nostra identità alimentare. Però l’identità è come il paesaggio: è un processo. Le radici no, ognuno ha le sue, per cui si può dire che le radici del pomodoro sono americana e quelle del riso sono orientali, ad esempio. Le radici, quelle restano. Noi stessi abbiamo delle radici che possono essere etrusche, celtiche o sannitiche, ma infine siamo figli di un processo identitario che invece è una costruzione continua, mutevole. L’identità non è solo ciò che siamo stati e ciò che siamo, è in una certa misura anche ciò che vorremmo essere. La visione processuale ci restituisce un po’ di protagonismo, mentre la visione statica della storia ce la rende come qualcosa di fermo, di già avvenuto e pertanto immutabile, un dato che non è possibile cancellare.

 

Il patrimonio territoriale

I paesaggi agrari italiani corrispondono dunque ai grandi sistemi agrari, che a loro volta rimandano ai sistemi alimentari che oggi tendono ad omologarsi. La cascina, la masseria, il latifondo, il podere della campagna mezzadrile umbra, toscana, marchigiana o romagnola non rappresentavano soltanto un diverso modo di coltivare, ma anche di vivere e di alimentarsi. Il paesaggio diventa, in questa ottica, una componente fondamentale di quello che chiamiamo patrimonio territoriale. Il patrimonio territoriale è una categoria molto utilizzata dalla scuola territorialista e che comincia a trovare riscontro anche in alcune normative, come nella legge regionale della Toscana sul governo del territorio (LR 65/2014) che all’articolo 3 lo definisce come «L’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future»[11], la cui salvaguardia viene indicata come obiettivo della qualità della pianificazione. Si aggiunge che il patrimonio territoriale va considerato come un «bene comune costitutivo dell’identità collettiva regionale»[12].

Si tratta quindi di un passo avanti rispetto alla definizione di sviluppo sostenibile che stava già nelle leggi precedenti. Dunque, il patrimonio territoriale supera anche lo schematismo insito nella nostra frammentazione dei saperi. Il concetto di patrimonio territoriale mette insieme quei pezzi di patrimonio che noi normalmente affrontiamo in modo separato: il patrimonio ambientale dei naturalisti, il patrimonio culturale degli antropologi e degli umanisti, il patrimonio enogastronomico dei cultori del cibo, quello materiale e quello immateriale. È merito della scuola e del pensiero territorialista l’avere ricondotto a unità i saperi e le scienze riguardanti il territorio. Il patrimonio territoriale ha una serie di elementi costitutivi che abbracciano la sfera naturale e quella antropica e che possono essere riassunti così:

  • la struttura idro-geomorfologica, che comprende i caratteri geologici, morfologici, pedologici, idrologici e idraulici;
  • la struttura ecosistemica, vale a dire le risorse naturali: aria, acqua, suolo ed ecosistemi della fauna e della flora;
  • la struttura insediativa, che include città e insediamenti minori, sistemi infrastrutturali, artigianali, industriali e tecnologici;
  • la struttura agro-forestale, cioè boschi, pascoli, campi e relative sistemazioni nonché i manufatti dell’edilizia rurale.
  • Il patrimonio culturale costituito dai beni culturali e paesaggistici (art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio), mobili e immobili.

Un insieme di elementi, dunque, che mettono insieme geomorfologia, ecosistema e valori antropici. Tra questi vi sono i paesi e il paesaggio che nell’insieme ci offrono la possibilità di una lettura territoriale articolata in una rete di sfondo molto variegata, che è il paesaggio, e dei punti, delle maglie, degli incroci che sono i paesi; questi non sono solo gli 8000 comuni, ma anche villaggi, contrade, frazioni che hanno anch’essi dignità di paesi. Ho già cercato di portare l’attenzione, con il mio lavoro su Un paese di Paesi, la mia più recente pubblicazione, a uno sguardo diverso sull’Italia, con il suo policentrismo fortemente trascurato e che oggi può tornare utile per pensare ad un riequilibrio anche demografico. Ma per questo occorrerebbero strategie e processi, dunque politiche adeguate.

Il paesaggio è, insomma, materia e percezione.

Quelle che seguono sono alcune citazioni prese da Sereni, ma anche da Aldo Sestini, l’altro autore che scrisse quel bel libro, pubblicato nel 1963 nelle edizioni del Touring Club Italiano e intitolato proprio Il paesaggio. Uscì nella collana “Conosci l’Italia” ed è un affresco completo del paesaggio italiano, descritto in una fase in cui stava fortemente cambiando. Il paesaggio è presentato da Sestini come «l’immagine da noi percepita di un tratto di superficie terrestre», precisando che «l’Italia possiede una grande varietà di paesaggi. Non esiste un paesaggio italiano»; Sereni d’altro canto presentava il paesaggio come «il farsi di una certa società in un certo territorio, con le opere d’arte e i beni culturali che non possono essere considerati disgiunti dal paesaggio stesso».

Il paesaggio da semplice rappresentazione estetica diviene un bene da tutelare, seguendo il filo che collega l’articolo 9 della Costituzione al Codice dei beni culturali e del paesaggio, che però sta registrando una grande lentezza nella sua attuazione. Si pensi, in primo luogo ai piani paesaggistici: a distanza di quasi vent’anni dalla sua prima emanazione, soltanto poche regioni hanno elaborato il proprio piano paesaggistico, come il codice prevede. Un piano molto importante dal punto di vista della pianificazione territoriale, perché dovrebbe essere sovraordinato agli strumenti urbanistici.

La coscienza di luogo

Occorre passare dalla storia alla coscienza di luogo, adottando un concetto già espresso in economia da Giacomo Becattini e ripreso dall’approccio territorialista di Alberto Magnaghi. Un economista e un urbanista, dunque, che hanno scritto sul ruolo dei territori nei processi di sviluppo, sulla necessità di tornare a considerare il territorio come soggetto attivo e non più soltanto come il pavimento su cui appoggiare le nostre cose o addirittura da abbandonare. Perché il modello di sviluppo dell’età contemporanea si è comportato così: ha sfruttato il territorio oppure lo ha trascurato. Si pensi ai poli urbani, industriali o commerciali da un lato e alle aree interne – cioè le campagne e i paesi – dall’altro. Si è così finito per creare una specie di doppio danno: nelle aree rurali e interne le conseguenze dell’abbandono, la perdita dei servizi, delle attività produttive, delle risorse vitali; nei poli di sviluppo l’eccessiva concentrazione, l’inquinamento, il traffico, lo stress e altri fenomeni negativi del nostro tempo. Ecco perché servirebbe un cambio di rotta e il passaggio dalla conoscenza alla coscienza, consapevoli che la conoscenza da sola non è sufficiente perché assuma un ruolo trasformativo; non basta se non diventa anche coscienza di luogo, di paesaggio e dunque di patrimonio territoriale. Bisogna ridare senso ai luoghi, come ha insegnato Vito Teti proponendo una antropologia del ritorno. Senza abusare del termine “identità”, c’è bisogno di una nuova coscienza dei luoghi nella direzione tracciata da Becattini, cioè di una intimità dei luoghi che riapra la strada a una visione della società che vada oltre il mercato.

In questa prospettiva possono assumere un ruolo attivo la scuola e le istituzioni a partire da quelle locali, ma anche l’attività diffusa delle associazioni, delle famiglie, dell’intero tessuto civile per promuovere la conoscenza e per trasformarla progressivamente in coscienza, in consapevolezza dell’importanza del rapporto tra uomo e natura, una relazione che possiamo leggere bene innanzitutto attraverso il paesaggio. L’Italia è il paese del bel paesaggio – il Bel Paese, come è stato chiamato – ma non c’è una sufficiente attenzione al paesaggio, neanche all’educazione e alla formazione al paesaggio, che tuttavia ha mostrato di fare passi avanti negli ultimi tempi: penso al nuovo corso di laurea in Scienze del paesaggio attivato all’Università di Padova, oppure alla Scuola di Paesaggio intitolata proprio a Emilio Sereni che si svolge da oltre dieci anni presso l’Istituto Alcide Cervi. Insieme ad altre iniziative (master, scuole, progetti): queste costituiscono punti di riferimento per chi si occupa di paesaggio, non solo a livello di ricerca e di studio, ma anche per la Pubblica amministrazione, gli operatori del territorio, l’associazionismo. In linea con il pensiero di Sereni, va superata l’idea di considerare il paesaggio una semplice rappresentazione estetica. Non è il panorama, è qualcosa di più complesso che diviene un bene da tutelare, un deposito di identità, un elemento della percezione. Era lo stesso Sereni a scrivere che «quel dato paesaggistico diverrà per noi una fonte storiografica solo se riusciremo a farne non un semplice dato o fatto storico, bensì un fare o un farsi di quelle genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte»[13]. Ecco come il paesaggio diventa infine un fatto sociale e politico da cui partire.

Nota bibliografica
  • G. Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma 2015.
  • P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contempo­ranea, vol. I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989.
  • A. Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
  • R. Pazzagli, Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, ETS, Pisa 2021.
  • E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961.
  • A. Sestini, Il paesaggio, Touring Club Italiano, Milano 1963.
  • S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010.
  • V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2014.
  • C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Il Mulino, Bologna 2014.

Note:

[1] G. Leopardi, Operette morali, Feltrinelli, Milano 1999, p. 181.

[2] Convenzione europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre, art. 1 (http://www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it/, consultato il 21.12.2022)

[3] Codice dei beni culturali e del paesaggio, decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, art. 131. (https://www.gazzettaufficiale.it/sommario/codici/beniCulturali, consultato il 21.12.2022)

[4] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961.

[5] Codice dei beni culturali e del paesaggio cit., art. 136.

[6] S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010.

[7] Seduta del 25 settembre 1920.

[8] L. da Vinci, Codice Atlantico, fol. 65v-b (edizione Il Codice Atlantico, Milano 1894).

[9] S. Jacini, I risultati della inchiesta agraria. La situazione dell’agricoltura e dei contadini italianidopo l’Unità, Einaudi, Torino 1976, pp. 77-78.

[10] C. Cattaneo, Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di E. Mazzali, Rizzoli, Rizzoli, Milano 1999, p. 294.

[11] http://raccoltanormativa.consiglio.regione.toscana.it/articolo?urndoc=urn:nir:regione.toscana:legge:2014-11-10;65 (consultato il 21.12.2022).

[12] http://raccoltanormativa.consiglio.regione.toscana.it/articolo?urndoc=urn:nir:regione.toscana:legge:2014-11-10;65 (consultato il 21.12.2022).

[13] Dalla prefazione di E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, pp. 7-19.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Paesaggio e patrimonio territoriale. Dalla storia alla coscienza di luogo
DOI: 10.52056/9791254693162/06
Parole chiave: , , , ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Paesaggio e patrimonio territoriale. Dalla storia alla coscienza di luogo, Novecento.org, n.18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/06

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