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L’onlife interroga la (didattica della) storia: postverità, consumi culturali, distorsioni e banalizzazioni

L’onlife interroga la (didattica della) storia: postverità, consumi culturali, distorsioni e banalizzazioni

“Post-truth-era 03”. Fotografia dalla serie POST-TRUTH ERA di Heikki Leis. Negativo su vetro, 2017. CC BY-SA 4.0, Link

Abstract

In questa riflessione[1] ci si chiederà come il tempo dell’onlife e dei nuovi consumi mediali interroghi l’insegnamento della storia, tematizzando in questa prospettiva alcuni nodi problematici collegati all’affermazione del web sociale, come le nuove forme di autorialità, il sovraccarico informativo, la postverità e la banalizzazione dei contenuti. Infine, si individueranno nella didattica di questa disciplina – e in particolare nel metodo storico – alcune strategie di risposta a tali questioni.

Onlife è l’efficace espressione del filosofo dell’informazione Luciano Floridi,[2] che usa l’immagine della mangrovia, pianta che vive nell’acqua salmastra dove si incontrano mare e fiume, per indicare come le due dimensioni offline e online non siano due “mondi” paralleli ma piuttosto dimensioni che si compenetrano con continui rimandi reciproci. Onlife è dunque la modalità con cui oggi si stabiliscono rapporti, si lavora, si studia, si compiono attività quotidiane e in cui si vive il rapporto con le informazioni.

 

I nuovi canoni di autorialità e autorevolezza del web sociale

Il web sociale (o web 2.0), ossia la Rete caratterizzata dai social network e dai servizi di instant messaging (WhatsApp e Telegram), ha radicalmente cambiato i criteri di auctoritas e di autorialità, e ciò ha avuto un forte impatto sulla nostra storia culturale.

Il vivere sociale al tempo dell’onlife è definito dalla coautorialità:[3] significa che i nuovi media consentono con semplicità di produrre contenuti e di pubblicarli online senza l’intervento di apparati di mediazione, come sono le redazioni giornalistiche, le case editrici, o le televisioni per i media mainstream. La disintermediazione – o comunque forme di mediazione nuove ma senza apparati[4] – comporta la confusione dei ruoli del fruitore e del produttore, fino al superamento della loro distinzione nella figura degli “spettautori”.[5] La conseguenza è che, per un contenuto reso pubblico (ad esempio postato sul proprio profilo social), sulla carta le responsabilità̀ del singolo e delle imprese di comunicazione sono sostanzialmente le stesse: nei media tradizionali la regolazione della sfera pubblica era attribuita agli apparati, mentre nel web 2.0 si deve affidare a chiunque, anche a un bambino o un adolescente, perché́ il semplice possesso dello strumento abilita a pubblicare e diffondere quel contenuto. Cade così la tradizionale distinzione tra i professionisti della comunicazione, come i giornalisti, e i comunicatori occasionali. Lo stesso fenomeno può essere applicato alle nozioni storiche e, più in generale, ai campi del sapere.[6] In questa prospettiva, dall’analisi dei discorsi sulla guerra in Ucraina[7] si rileva come la disintermediazione e la crescita di orizzontalità del web sociale producano una stratificazione e un “patchwork mediale” più complesso e articolato.

Il cambiamento di canoni di autorialità è legato al fatto che, al tempo dell’online, cambiano anche i canoni di autorevolezza del sapere. La Storia (sociale e culturale) di una comunità̀ è rappresentata anche dalla modifica dei processi di selezione di saperi condivisi e di fonti affidabili. Spesso ciò è connesso con le innovazioni tecnologiche, come emerge dal passaggio dall’oralità alla scrittura: nessuno di noi ha potuto leggere un testo di Socrate, poiché il filosofo ateniese aveva un atteggiamento che, con le categorie di Eco,[8] potremmo definire “apocalittico” verso la scrittura, che è una tecnologia di mediazione; il paradosso è che, a distanza di venticinque secoli, conosciamo una parte del suo pensiero poiché i suoi allievi, a partire da Platone (a sua volta critico verso la scrittura come dimostra il mito di Theuth nel Fedro), di fatto non seguirono le indicazioni del maestro e accettarono il passaggio al discorso scritto. Secoli dopo, nel Medioevo, una fonte aveva in sé un’iscrizione di autorevolezza quando la comunità le riconosceva il credito di esprimere il proprio pensiero, oltre a commentare quello altrui (si pensi all’Ipse dixit, utilizzato per indicare un’affermazione ritenuta vera poiché riferita ad Aristotele); dunque, l’auctoritas era attribuita a taluni pensatori o testi sacri a cui la collettività aveva deciso di assegnare, appunto, autorevolezza e, attraverso forme di mediazione tecnologica (la scrittura, l’opera di copiatura dei monaci amanuensi, poi la stampa…), si conservava nel tempo e al contempo si modificava tramite la mediazione.[9]

Con la nascita della stampa e della prima industria editoriale – altro passaggio tecnologico decisivo e si ricordi l’importanza della traduzione e della diffusione della Bibbia nelle lingue volgari nel periodo della Riforma luterana – l’autorevolezza diviene garantita da poteri centralizzati riconosciuti, seppur orientabili e portatori d’interessi (case editrici, università̀, quotidiani e riviste). Nella cultura del libro inizia a porsi il problema del diritto d’autore e della relazione tra autorialità e pubblicabilità; il sistema editoriale finisce per diventare un dispositivo di mediazione e di selezione: la qualità di quanto viene pubblicato è certificata dal fatto che sia stato pubblicato, l’editore stampa opere di autori di cui prevede il rientro dell’investimento, mentre il lettore tende a fidarsi della scelta dell’editore ritenendo autorevole ciò che ha stampato. Ciò non significa che questo processo preservi dalla diffusione di fonti non certificate: le grandi case editrici hanno pubblicato testi produttori di razzismo e odio (dal Mein Kampf di Hitler al testo antisemita inventato dalla polizia zarista dei Protocolli dei Savi di Sion, sulla cui riproduzione a stampa ancora oggi si dibatte[10]), così  come la storia delle più importanti redazioni giornalistiche è anche accompagnata da notizie false e dai tentativi manipolatori dei poteri; tuttavia, con il marchio editoriale o redazionale, è chiaro chi abbia la responsabilità, fatta di onori e oneri, della selezione.

Nel web sociale emergono nuovi intermediari culturali:[11] un primo criterio è che l’autorevolezza di un contenuto è riconosciuta dai pari (numero di like, condivisioni, interazioni…), secondo una forma di sviluppo dei saperi di profonda rottura con il modello verticale tradizionale (quello della ricerca scientifica e dell’insegnamento scolastico); Wikipedia è il simbolo di produzione culturale dal basso, in modo collaborativo, di uguaglianza a priori, indipendentemente dall’età o dalla carica accademica. Questo è da un lato un’opportunità, ma dall’altro può portare a delle distorsioni: ad esempio, per lungo tempo, digitando “video Olocausto” su Google, uno dei primi risultati era un video negazionista della Shoah con milioni di visualizzazioni e, pertanto, tra le posizioni più in vista del motore di ricerca.[12] Allo stesso modo, perché un articolo del New York Times dovrebbe essere più credibile di uno pubblicato su un sito dichiaratamente xenofobo, come tuttiicriminidegliimmigrati.com, qualora quest’ultimo raggiunga un elevato numero di condivisioni via social network (dove quindi non è in primo piano la testata, ma il singolo articolo)?

Proprio quest’ultimo esempio indica come, in un’età̀ dei media che vede il protagonismo delle società̀ del web,[13] le piattaforme abbiano assunto un ruolo e una responsabilità̀ nel profilare e gerarchizzare contenuti e utenti, divenendo “custodi di Internet”,[14] dal momento che presidiano l’intero orizzonte socio-tecnico all’interno del quale si muovono semplici utenti e potenti gruppi editoriali, strutturando il flusso informativo attraverso la logica – inavvertita sul piano esperienziale e non trasparente a tutti gli utenti – degli algoritmi di visualizzazione.

Va ricordato che il web è uno spazio segnato dal sovraccarico informativo, ossia da una quantità immensa di contenuti, difficilmente valutabile dalla mente umana.[15] In questa condizione – individuiamo così un altro nodo problematico – la fruizione non è principalmente legata all’accesso alle informazioni, ma alla loro selezione e interpretazione. Il filosofo francese Pierre Lévy[16] ha parlato di “diluvio dell’informazione”, sottolineando come navigare nel cyberspazio, così come per il patriarca Noè al tempo dell’arca e del diluvio d’acqua, comporti la necessità di selezionare le informazioni e comporle in un quadro sistemico. Questa funzione di mediazione culturale e di selezione delle fonti è nei fatti assegnata agli algoritmi, in quanto meccanismi automatizzati – frutto di scelta umana, istituzionale e commerciale – di indicizzazione ed elaborazione delle informazioni.[17] Ecco dunque la seconda modalità con cui, nel web sociale, un contenuto diventa autorevole: attraverso automatismi generati dai sistemi di intelligenza artificiale, che assegnano priorità̀ di visualizzazione sulla base dei profili identitari degli utenti.

Cosa significa oggi per un ragazzo, a un anno dall’invasione russa, fare una ricerca sulla “storia dell’Ucraina”? Se la competenza più importante è la selezione più che l’accesso alle fonti, si comprende come la didattica della storia sia chiamata in causa. Selezione delle informazioni, comprensione delle fonti, lettura critica di testi e fatti, contestualizzazione: sono indicatori dell’Information Literacy, una delle declinazioni più rilevanti delle competenze digitali nel quadro della cittadinanza onlife,[18] ma al tempo stesso sono anche componenti del metodo storico.

 

Il rapporto con la fonte al tempo della postverità

Analizzare e contestualizzare la fonte, infatti, è un nucleo fondante della disciplina, poiché fa parte da sempre dell’epistemologia della storia. Nell’insegnamento odierno, però, assume una nuova urgenza poiché si collega alla postverità, l’insieme di pratiche culturali, retoriche, mediali che caratterizza il regime discorsivo tipico del web 2.0.[19]

Tale prospettiva è strettamente collegata alla forte rilevanza che, nel dibattito pubblico e scientifico degli ultimi anni, ha assunto la questione delle fake news.[20] Molti degli eventi più significativi degli ultimi anni[21] sono stati analizzati anche chiedendosi se ci fosse stato un’influenza delle fake news. In occasione della pandemia da Covid-19, per esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha evocato il pericolo di una infodemia, ovvero la diffusione incontrollata di notizie non verificate e false, fenomeno che altre ricerche hanno associato anche alla propagazione dell’antisemitismo durante l’emergenza sanitaria.[22]

Nell’ambito di una disciplina come la storia, che assume il pensiero di lungo periodo, occorre tuttavia chiedersi se le fake news siano qualcosa di nuovo, oppure se siano solo nuove forme di manifestazione di un problema sempre esistito; ossia se – come hanno sostenuto Giglietto, Iannelli, Valeriani e Rossi[23] – “fake news is the invention of a liar”, l’invenzione di una bugia. Di sicuro non sono un fatto nuovo.[24] Il già citato documento antisemita Protocolli dei Savi di Sion, ancora in anni recenti citato come fonte autentica da un deputato italiano,[25] potrebbe essere ritenuto la fake news virale per eccellenza; o ancora, come rilevava March Bloch in La guerra e le false notizie,[26] tutto quanto attiene alla  costruzione del consenso per l’intervento bellico, come mostrano i recenti casi motivati da un  presunto carattere umanitario (Guerra del Golfo, Kosovo, Iraq, Libia, Ucraina…)[27] di fatto rientra nella categoria. E d’altro canto la stessa storia del giornalismo può essere riletta come il continuo tentativo di manipolazione (e di resistenza) di poteri economici, politici e culturali nei confronti dei media (si pensi alla Loggia P2 e il Corriere della Sera).

Le fake news, dunque, non sono una novità. Il fatto nuovo, tuttavia, sta nella loro forza di impatto al tempo del web sociale, che si spiega con il concetto di “postverità”, fenomeno che comporta l’emergere di nuove pratiche discorsive e culturali[28] e questioni educative.[29] Il neologismo “postverità”, legato alla situazione di sovraccarico informativo, si è imposto nel discorso pubblico nel 2016, quando gli Oxford Dictionaries, importante istituzione culturale anglofona, l’hanno dichiarata parola dell’anno, dandone questa definizione: «Tipo di discorso relativo a o descrittivo di circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica del ricorso all’emozione e alle convinzioni personali».

La postverità è connessa alla moltiplicazione dei media e alla personalizzazione dei contenuti incentivata dagli algoritmi secondo la preferenza, di cui abbiamo già parlato: più che negare la verità, essa viene moltiplicata e “privatizzata”. In questo modo le verità diventano tante quante i soggetti che vogliono enunciarle, l’esperienza diretta legittima la presa di parola, emozioni e convinzioni personali pregresse contano più dei fatti. Si materializza così un regime confusivo in cui tante verità convivono senza gerarchie. In un regime di postverità, se ad esempio un utente di Instagram posta una fake news con contenuto razzista inserendosi in un gruppo xenofobo, coprodurrà flusso culturale razzista anche se, pochi minuti dopo la pubblicazione, verrà smentito da altri utenti, poiché́ avrà confermato le credenze pregresse degli interlocutori e prodotto emozioni d’odio razzista.[30]

Si assiste dunque alla scomparsa del legame tra referente e contesto, causando la pressoché totale “emancipazione” dell’informazione e della fonte dal contesto.[31] Ancora una volta, dunque, si può intuire come il rigore del metodo storico, basato appunto sulla contestualizzazione, è una via per promuovere quelle competenze mediaeducative[32] associate al pensiero critico, da sempre caposaldo della Media Education[33] e su cui si tornerà. In chiusura della riflessione sulla postverità, sottolineiamo come la sua affermazione comporti un rischio legato all’estrema “personalizzazione” della “verità”. Come nota Anna Maria Lorusso, «la verità è accordo».[34] Il riferimento è alla filosofia cognitiva e semiotica di Peirce, incentrata sull’interpretazione come punto di incontro tra individualità e socialità: nella grande varietà di interpretazioni, nel corso di un processo, emergono degli “abiti interpretativi”, ossia delle interpretazioni condivise dalla comunità sulle quali i membri convergono. Scrive Peirce:

Il reale è ciò cui alla fine, presto o tardi che sia, giungeranno l’informazione e il ragionamento e che dunque è indipendente dalle mie o dalle vostre fantasie… In questo modo […] il concetto di verità implica essenzialmente la nozione di una comunità.[35]

Ecco perché l’affermarsi della postverità impatta sulla comunità: la moltiplicazione delle verità e l’assolutizzazione della propria verità, o comunque della propria comunità chiusa, mina il legame sociale, poiché saper discriminare le verità significa condividere saperi e condividere saperi vuol dire appartenere a una comunità.[36] Tale processo, dunque, ha un impatto forte sui fenomeni storici, frutto di interpretazioni e accordi collettivi attorno ai quali comprendiamo – si pensi alla “Resistenza” per la storia della Prima Repubblica – come condividere saperi significhi condividere comunità e sviluppo culturale.

 

L’effetto margine e il complottismo

La postverità mira non tanto a convincere di un’altra verità ma a creare confusione rispetto alle fonti ufficiali, causando, tra gli altri, due effetti con cui la didattica della storia è chiamata a confrontarsi. Da un lato si assiste a quello che il sociologo Christopher Bail ha chiamato “effetto margine”,[37] ovverosia quel fenomeno per cui l’opinione più estrema e radicale acquisisce visibilità nella sfera pubblica, ottenendo un senso di legittimità, e ridefinendo i contorni del campo discorsivo, spostandolo sempre più verso l’esterno. Così l’indicibile diventa dicibile: in uno studio sull’odio online ho parlato di “ritorno della razza” come forma di novità (in assenza di credibilità scientifica) nella dialettica tra istanze biologica e differenzialista riferite alle logiche del razzismo;[38] allo stesso modo, l’inaccostabile diventa accostabile: è quanto è avvenuto nel 2021 in occasione della distorsione della Shoah attraverso l’inaccettabile paragone da parte di alcuni gruppi no-green pass e no-vax tra la persecuzione nazifascista o l’internamento nei lager con uno strumento di salvaguardia della salute pubblica.[39] L’effetto margine è emerso nel 2021 anche dal rapporto “La società irrazionale” dell’autorevole istituto Censis, quando rilevava che il 5,8% degli italiani è convinto che la Terra sia piatta e per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna.

Proprio il Terrapiattismo[40] nelle “cascate informazionali” in Rete[41] permette di ben comprendere il secondo effetto facilitato dalla postverità, ossia l’affermazione del complottismo e la banalizzazione di contenuti anche storici (sul fascismo si vedano Granata e Pasta).[42] Nell’ambito della sua critica allo storicismo, inteso come insieme delle «filosofie profetiche della storia», Karl Popper[43] ha introdotto la nozione, appunto, di complottismo, che è diventata particolarmente attuale nelle vicissitudini del tempo presente. La “teoria cospiratoria della società” è precisamente il contrario del vero fine delle scienze sociali; essa si riassume nella convinzione che «la spiegazione di un fenomeno sociale consiste nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima ri-velato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo». L’assunto implicito di questa teoria, continua ancora Popper, è che «qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti».[44] Al tempo del web sociale, come notano tra gli altri il sociologo Enzo Campelli[45] o lo psicologo Rob Brotherton,[46] il ricorso alle narrative cospiratorie è pervasivo: così si può spiegare l’aumento dell’antisemitismo nel primo anno di pandemia da Covid-19, come rilevato da una ricerca del Centro di ricerca sulle relazioni interculturali dell’Università Cattolica e della Fondazione CDEC, in cui emergono  gruppi cospirazionisti molto porosi e più collegati tra loro che in passato.[47]

La selezione delle informazioni nel web sociale può rafforzare le convinzioni di narrative e tesi tenute ai margini: ancora una volta, dobbiamo richiamare l’attenzione sui criteri automatici di selezione delle fonti. Come si è già detto, gli algoritmi che “organizzano” i risultati dei motori di ricerca e dei social network provano a prevedere le scelte del soggetto, anticipandole: se un utente clicca “mi piace” alla pagina “Viva Juventus”, subito l’algoritmo suggerirà di seguire il gruppo “Juve forever”, non “Interisti per la vita”… In questo modo, essendo spinti verso persone con gusti simili al proprio, assistiamo al fenomeno delle echo chambers (camere dell’eco, casse di risonanza) che distanzia le logiche del dibattito dalla sfera pubblica come spazio di confronto, dissenso, dialogo e partecipazione. Al contrario si creano sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove si propagano pensieri tra loro simili che si fanno reciprocamente eco, si rafforzano progressivamente, divenendo sempre più estranee al dissenso e consolidate nelle proprie convinzioni.

Eli Pariser[48] ha parlato di filter bubble (bolla filtro), sostenendo che ciascuno vive in una sua “bolla” di gusti e preferenze, che filtra il reale e crea un effetto di risonanza, un effetto eco: il rischio è scambiare ciò che appare nei nostri spazi online per la realtà, mentre è solo ciò che corrisponde alle nostre convinzioni. Ha dunque un effetto rassicurante, perché non mette in dubbio o alla prova il mondo in cui ci sentiamo a nostro agio. Le echo chambers si formano dunque poiché ciascuno riceve, nella sua vita online, aggiornamenti e suggerimenti non sulla base di un condiviso rilievo sociale, ma sull’interesse “per me”. Le minacce alla propria visione del mondo vengono tenute fuori dalla dieta informativa, accentuando un meccanismo cognitivo che tutti mettiamo normalmente in atto: il confirmation bias (pregiudizio di conferma), per cui tendiamo a muoverci entro lo spazio delle convinzioni già acquisite e ad evitare la dissonanza. Le filter bubbles sono dunque dei dispositivi di gestione dell’informazione, che conducono a un mutamento radicale dei concetti di autorità, credibilità, verità e visibilità sociale.

Bolle informative ed eco delle opinioni favoriscono la polarizzazione delle opinioni nei social, interpretando ogni evento attraverso il bivio dentro/fuori, favorevole/contrario, con me/contro di me (effetto bivio). Schierarsi e prendere posizione diventa una modalità spontanea e immediata di affrontare le cose, spesso anche prima di riflettere sufficientemente su di esse. Il risultato è l’impermeabilità, poiché i contenuti alternativi non solo vengono rifiutati me persino non più incontrati, e si arriva alla “selezione” e condivisione di teorie fino a poco prima indicibili.

Infine, in conclusione di tale riflessione sul pensiero cospiratorio, occorre richiamare la necessità di tenere insieme l’educazione allo spirito critico e la prevenzione del complottismo. Quello che può sembrare un paradosso può trovare, invece, una risposta nell’abitudine all’approccio critico-storico alle fonti e al testo degli “spettautori”. Si tratta di un’istanza confermata anche da una ricerca del Cremit sulla “povertà educativa digitale”, da cui emerge una diffusa incapacità di ragazzi delle scuole inferiori di II grado a interpretare un video di TikTok negazionista verso il Covid-19, a fronte di una migliore conoscenza per ciò che riguarda le pratiche mediali quotidiane e le conoscenze sul digitale; si riconoscono le caratteristiche di quel prodotto multimediale, ma non se ne riconosce la finalità cospirazionista e la sua inattendibilità.[49]

 

Coscienza storica e interrogativi per la didattica della storia

Più che fornire risposte, le questioni richiamate sollevano interrogativi e stimoli su cui la didattica della storia è chiamata a portare il proprio contributo. Tra i temi collegati a questa riflessione, su cui altrove occorrerà tornare a riflettere, vi sono: l’educazione al pensiero critico, alla responsabilità e alla consapevolezza etica al tempo della datificazione e degli algoritmi;[50] la grande occasione, nonostante i rischi, delle nuove forme di autorialità degli spettautori e la necessaria strada che la scuola, ossia la più importante agenzia educativa del Paese, deve percorrere nella prospettiva della cittadinanza onlife;[51] i nuovi apporti sui criteri dell’euristica che derivano dagli studi neuroscientifici[52] sui pensieri lenti e veloci,[53] sull’inibizione,[54] sulla vicarianza[55] e le loro applicazioni alla selezione delle fonti; l’educazione al pensiero divergente e la sua relazione con il metodo storico.

Su quest’ultimo punto ci si soffermerà nei prossimi paragrafi, nella convinzione che, al tempo dell’onlife, sia particolarmente necessario avere coscienza storica e, dunque, educare a pensare storicamente. Occorre, intanto, ribadire come questo sia il punto di maggior intreccio con il lavoro mediaeducativo, di cui il pensiero critico è sempre stato il caposaldo, insieme con il suo strumento concettuale per eccellenza, ovvero l’analisi. Ritroviamo le matrici di questa impostazione nella Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire,[56] la teoria critica francofortese[57] per cui la cultura di massa sviluppata dai media rappresenta la fase ultima dell’affermazione storica del modo capitalistico di produzione, infine la semiotica francese dei media che ha fornito metodi e strumentazione per sottoporre ad analisi i messaggi. L’idea che i media non siano trasparenti, che siano delle costruzioni, che attraverso di essi chi comunica possa imporre idee e valori al proprio destinatario, ha condotto la Media Education a individuare proprio nell’analisi dei messaggi lo strumento per favorire lo sviluppo di pensiero critico rispetto a essi: smontare le costruzioni mediali significa accorgersi di cosa nascondano, guadagnandone una comprensione chiara.

La formazione alla coscienza storica è più difficile di un’azione meramente informativa. La didattica della storia – e in fondo anche il video TikTok cospirazionista al centro di un precedente esempio – si scontra con la carenza, in modo trasversale alle età, della categoria generale della connessione storica come relazione, diversa da quella meccanica di rapporto tra causa ed effetto, che collega nel tempo eventi diversi. Lo studio della connessione storica può aiutare a scoprire prospettive meno immediatamente fruibili rispetto alla “logica della ragione strumentale” che domina molti campi della prassi e della conoscenza. «L’utilità della storia – scriveva alcuni anni fa Agostino Giovagnoli,[58] già presidente della Sissco – coincide in un certo senso con la sua apparente inutilità, il suo valore formativo consiste nella qualità di sapere alternativo che esso ha assunto rispetto ad altre impostazioni oggi prevalenti». In questo senso, la questione del buon insegnamento della storia –proprio su questa Rivista è di recente intervenuta Enrica Bricchetto[59] – non riguarda l’oggetto mai il metodo, non la maggiore o minore prossimità cronologica all’evento, ma il modo in cui lo si affronta, i criteri che si seguono: nel 2023, non è possibile ignorare la guerra in Ucraina per un insegnante di storia e, altrettanto, sarebbe errato ignorare il web sociale come principale spazio di apprendimento sul tema da parte degli studenti. Solo la fedeltà a un percorso metodologico rigoroso può risolvere davvero il problema della “attualità” degli eventi: è il procedimento storico, non la distanza cronologica, che può produrre il necessario distacco, mai garantito a priori, dell’oggetto di studio.

Lo scopo dell’approccio storico – e lo spazio informativo del web sociale può essere un’opportunità in tal senso – è giungere a qualcosa di nuovo e inatteso, in cui in molti casi si stenta a riconoscere ciò che aveva inizialmente attirato la nostra attenzione. Nella ricerca storica, ci si abitua a constatare che le ipotesi iniziali sono contraddette dalla ricerca, attraverso un’immane fatica per la sua perenne incompiutezza. Al tempo dell’onlife, significa educare alla ricerca del confronto tra punti di vista diversi, non solo di quello uguale al mio, che l’algoritmo mi conferma. Quando avviene, rompendo le dinamiche comunicative della postverità tra bolle filtro e camere di eco, si sfruttano le grandi opportunità della coautorialità dei media e si assiste a quella che Toschi[60] chiama “comunicazione generativa”, poiché non obbedissce alla “dittatura dello script”, ossia non si lascia imporre dai layout preimpostati e facilmente riproducibili, non anteponendo la facilità d’uso al rischio dell’omogeneizzazione. È questo, ad esempio, il senso del coding, in cui i bambini imparano le regole per modificare il codice e modificare la programmazione.[61]

Approccio storico, inoltre, significa bagaglio culturale, metodi di analisi, sensibilità capaci di portare il singolo evento in un contesto complessivo, quello delle vicende ad esso veramente contemporanee. In questo senso la storia è la risposta all’eternalizzazione, un fenomeno tipico delle dinamiche comunitative del web sociale e della postverità.

Spesso si dice che lo studio del passato serve per comprendere il presente. È vero, ma per Marc Bloch il “tradimento della storia” è quando ci dimentichiamo che il passato può essere compreso solo alla luce del presente: «Noi deriviamo sempre dalle nostre esperienze quotidiane [… ] gli elementi che ci servono a ricostruire il passato».[62] Stabilire da quale presente scegliamo di interrogarci per porre domande al passato è fondamentale e va respinto il rischio di ignorare l’impatto dell’onlife sulla nostra società: altrimenti correremmo il rischio di un presente pigro e soddisfatto, che pone al passato domande banali.

In conclusione, di fronte al quadro richiamato sul web sociale, ritengo che la didattica della storia debba tornare – in modo rigoroso, con l’obiettivo magari di giungere a qualcosa di nuovo e inatteso – a porsi una delle domande dell’epistemologia disciplinare, riletta alla luce delle questioni sollevate dalle logiche informative del web sociale. È la domanda con cui si apre l’Apologia della storia o Mestiere di storico, posta dal figlio a Marc Bloch: «Papà, a che serve la storia?».[63] Il grande storico avrebbe potuto invocare il disinteresse del sapere fine a se stesso, evitando l’implicazione pratica, ma opta invece per una scelta “militante” (non al servizio di un’ideologia): serve – risponde – «chiedere alla storia per guidare il nostro operare», dal momento che «una scienza che prima o poi non ci aiuti a vivere meglio ci sembrerà sempre incompleta».[64] Collegandola a un’analoga questione epistemologica riguardante la pedagogia, potremmo affermare che l’educazione, e quindi la didattica, se non è trasformativa, non è.[65] Per questo l’insegnamento della coscienza storica è interrogato da “questo” presente, che è il tempo dell’onlife, dei media autoriali e della postverità.

“Questo” presente è altresì segnato dalla guerra in Ucraina, uno di quegli avvenimenti che Paul Ricœur[66] definiva epoch-making, e che si ricollega alla seconda domanda che Bloch lega a quella del figlio. È la frase ascoltata a Parigi il 10 giugno 1940, mentre i soldati del Reich entrano nella capitale francese: «Dobbiamo dunque credere che la storia ci ha ingannati?». Quel giorno crollava un mondo, non solo in senso materiale, ma crollava un sistema di valori civili fondati sulla libertà. Crollavano anche la fiducia nello sviluppo positivo della storia contemporanea e la speranza di andare sempre più verso un “vivere meglio”. È, in fondo, la domanda che ci siamo posti in questo anno di invasione russa dell’Ucraina, in cui tornano la guerra in Europa e la divisione del mondo in blocchi.   

L’Apologia di Bloch è scritta nel 1942, in piena guerra, e senza il contesto del conflitto non si capisce la scelta “militante” dello storico: è stata la guerra a cambiare il rapporto tra Bloch e la storia.[67]

Proprio in quel momento di crisi della storia, vista come cammino di libertà, nascevano tante domande di storia vera, diversa da quella sperata o immaginata: dove abbiamo sbagliato? Come insegnare ad altri a non ripetere quegli errori? C’era ancora un passato da salvare, un futuro in cui sperare e, in fin dei conti, una storia che valesse la pena di essere raccontata? Con la guerra, per Bloch la conoscenza storica e il rigore storico smettono di essere un lusso della cultura, per diventare un bisogno della società. È un po’ la stessa urgenza che avvertiamo oggi di fronte al problema delle fonti nei media autoriali, alla postverità e al cospirazionismo collegato a sovranismi e nazionalismi, all’effetto margine e alla crisi del metodo critico, interpretabili anche con la crisi dell’insegnamento della storia.[68] È uno scenario che preoccupa: nella riflessione scaturita in Bloch dalla crisi della guerra, la critica diviene autocritica rispetto alla definizione dell’oggetto della storia che, per il fondatore della scuola delle Annales, non è più solo “scienza degli uomini”, ma diviene “scienza degli uomini nel tempo”; per criticare “l’ossessione delle origini”, Bloch cita il proverbio arabo per cui «gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri»[69] e vive una tensione per cogliere le brucianti specificità di eventi che non si è stati capaci di prevedere e prevenire. Al tempo dell’onlife, la posta in gioco è talmente alta che tanto gli storici quanto gli insegnanti di storia non possono permettersi di ignorare i problemi sollevati in questo articolo. È la sfida del presente che è cruciale per la riflessione storica, come spiegava una frase di Henri Pirenne che Bloch amava citare: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico. È per questo che amo la vita».

 

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Note:

[1] Si ringrazia Enrica Bricchetto dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (ISTORETO) per il confronto, condiviso negli ultimi anni, sui temi al centro dell’articolo.

[2] L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017.

[3] O autorialità condivisa, riprendendo il termine anglofono shared authority.

[4] J. L. Missika, La fin de la télévision, la République des idées, Parigi 2006

[5] P. Aroldi, La responsabilità difficile. Media e discernimento, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012

[6] P.C. Rivoltella, Nuovi alfabeti, Scholé, Brescia 2020 e S. Pasta, Postverità e datificazione. Nuove conoscenze e nuove consapevolezze dall’educazione civica digitale, in “Scholé. Rivista di educazione e studi culturali”, LIX, 1. 2021, pag. 51-63.

[7] P. Raviolo, S. Pasta, “Mediawar. Tecnologie e conflitto nella guerra Russia-Ucraina: rappresentazione mediale e discorsivizzazione nel web sociale”, Scholé. Rivista di educazione e studi culturali, LX(2), 2022, pag. 323-338.

[8] U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.

[9] P.C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, Brescia 2015.

[10] Il riferimento è alle critiche, nel 2021, della Comunità ebraica di Roma alla casa editrice Feltrinelli per aver messo in vendita online I Protocolli dei Savi Anziani di Sion.

[11] G. Boccia Artieri, Stati di connessione: pubblici, cittadini e consumatori nella (Social) Network Society, FrancoAngeli, Milano 2012.

[12] S. Pasta, Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online, Scholé Morcelliana, Brescia 2018. Un interessante lavoro è quello svolto da Milena Santerini, coordinatrice nazionale per la lotta all’antisemitismo (2020-22), che, nel gennaio 2022 a seguito di un accordo con Google, ha ottenuto che nella ricerca di specifiche parole chiave sul motore di ricerca venga data preminenza e visibilità a informazioni verificate e accurate che contrastino pregiudizi antisemiti e falsità sul mondo ebraico.

[13] Si sottolinea il ruolo dei GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) in una situazione di oligopolio del mercato collegato al web.

[14] T. Gillespie, Custodians of the Internet. Platforms, Content Moderation, and the Hidden Decisions That Shape Social Media, Yale University Press, New Haven-London 2018.

[15] Si consideri ad esempio il report “Data Never Sleeps” (Domo, 2022), secondo cui, ad aprile 2022, Internet raggiungeva il 63% della popolazione mondiale, circa 5 miliardi di persone, di cui il 93% (4,65 miliardi) sono utenti di social media. Secondo Statista (“Social media – Statistics & Facts”, 2022), il totale dei dati creati, tracciati, copiati e consumati globalmente nel 2022 è 97 zettabyte, un numero che si prevede crescerà a 181 zettabytes entro il 2025. In media, in un minuto nel 2022 sono state effettuate 5,9M ricerche in Google (2M nel 2013), caricate 500 ore di video su YouTube (48 nel 2013), condivise 66K foto su Instagram (3,6K nel 2013), postato 347K tweet in Twitter (100K nel 2013), condiviso 1,7M contenuti su Facebook (648K nel 2013), inviate 231M email (204M nel 2013).

[16] P. Lévy, Intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano 1994

[17] J. Van Dijck, T. Poell, M. De Waal, Platform Society. Valori pubblici e società connessa, Guerini e Associati, Milano 2019.

[18] S. Pasta, P.C. Rivoltella (a cura di), Crescere onlife. L’Educazione civica digitale progettata da 74 insegnanti-autori, Scholé, Brescia 2022; M. Ranieri, Competenze digitali per insegnare, Carocci, Roma 2022; P.C. Rivoltella, Educating to Digital Citizenship: conceptual development and a framework proposal, in “Journal of e-Learning and Knowledge Society”, Special Issue on “Digital Citizenship”, vol. 18, 3, 2022, pag. 52-57.

[19] W. Quattrociocchi, A. Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, Codice, Torino 2018.

[20] G. Riva, Fake news, il Mulino, Bologna 2018.

[21] Si pensi allo studio del “Securing Democracy in the Digital Age” dell’Australian Strategic Policy Institute (Hawkins, 2017) sull’elezione del presidente statunitense Donald Trump, o a quello dell’Instituto de Tecnologia e Sociedade di Rio de Janeiro sull’affermazione di Jair Bolsonaro in Brasile (Machado, Konopacki, 2018).

[22] S. Pasta, Ostilità. Vecchi e nuovi bersagli, vecchi e nuovi virus, in “Scholé. Rivista di educazione e studi culturali”, LIX, 2, 2021, pag. 89-102.

[23] F. Giglietto, L. Iannelli, A. Valeriani, L. Rossi, ‘Fake news’ is the invention of a liar: How false information circulates within the hybrid news system, in “Current Sociology”, 4, vol. 67, 2019.

[24] Già nel 1873, in Su verità e menzogne in senso extra-morale, Nietzsche sosteneva che non ci sono fatti ma solo interpretazioni.

[25] Si veda lo scambio tra il senatore Elio Lannutti e il direttore del Centro Documentazione Ebraica Contemporanea Gadi Luzzato Voghera (2019): https://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/risposta-di-scuse-del-senatore-lannutti-al-direttore-del-cdec/.

[26] M. Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Donzelli, Milano 2004.

[27] Raviolo, Pasta, 2022.

[28] A.M. Lorusso, Postverità, Laterza, Roma-Bari 2018.

[29] Pasta, 2021a.

[30] Pasta, 2018 e S. Pasta, ANTISEMITISMO 2.0. La propagazione dell’odio online nel web sociale, in “Cultura tedesca”, 63, 1, 2022, pag. 81-99. A titolo di esempio si consideri anche il caso studio presentato dal sociologo Tommaso Vitale sulla diffusione delle fake news contro i rom in Francia:  Tommaso Vitale, “Raid, spari e pestaggi contro i rom in Francia: quando una fake news diffusa sui social scatena l’odio razzista”, 2019, https://www.cremit.it/raid-spari-e-pestaggi-contro-i-rom-in-francia-quando-una-fake-new-diffusa-sui-social-scatena-lodio-razzista/.

[31] G. Maddalena, G. Gili, Chi ha paura della post-verità? Effetti collaterali di una parabola culturale, Marietti, Bologna 2017.

[32] Il dibattito sulle competenze digitali è ampio; una panoramica si trova in Pasta, Rivoltella, 2022b; Ranieri, 2022.

[33] P.C. Rivoltella, Media education. Idea, metodo, ricerca, Scholé, Brescia 2017.

[34] Lorusso, 2018, p. 126.

[35] C.S. Peirce, Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge 1931-35.

[36] Lorusso, 2018, p. 136

[37] C. Bail, Terrified: How Anti-Muslim Fringe Organizations Became Main- stream, Princeton University Press, Princeton 2014.

[38] Pasta, 2018.

[39] Si veda il documentario: IHRA, “Holocaust Distorsion: A Growing Thre- at”, 2021: https://youtu.be/ovdF4pGhew8.

[40] S. Monaci, Odio Social. Tecnologie e Narrative della Comunicazione in Rete, Egea, Milano 2022; P. Bertetti, G. Segreto (a cura di), Transmedia Branding. Narrazione, esperienza, partecipazione, ETS, Pisa 2020.

[41] C.R Sunstein, #republic. La democrazia nell’epoca dei social media, Il Mulino, Bologna 2017.

[42] A. Granata, S. Pasta, Quando la Storia risuona in classe. Strategie didattiche e relazionali per facilitare il dialogo e costruire una coscienza collettiva, in “Annali online della Didattica e della Formazione Docente”, vol. 14, 23, 2022, pag. 96-112 e Pasta, 2022a.

[43] K.R. Popper, The Poverty of Historicism, Routledge & Kegan Paul, New York 1957.

[44] K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma, 2 voll., ed. or. 1945.

[45] E. Campelli, “Cospirazione e complotto”, in UCEI (ed.), Natura e genesi del pregiudizio, Scuola e Memoria, Roma 2023.

[46] R. Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

[47] M. Santerini (a cura di), L’antisemitismo e le sue metamorfosi, Giuntina, Firenze 2023.

[48] E. Pariser, Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, Il Saggiatore, Milano 2012.

[49] M. Marangi, S. Pasta, P.C. Rivoltella, Digital educational poverty: construct, tools to detect it, results. Povertà educativa digitale: costrutto, strumenti per rilevarla, risultati, in “QTimes. Journal of Education, Technology and Social Studies”, XIV(4), 2022, pag. 236-252.

[50] P.C. Rivoltella, Nuovi alfabeti, Scholé, Brescia 2020; Pasta, 2021.

[51] S. Pasta, P.C. Rivoltella (a cura di), Crescere onlife. L’Educazione civica digitale progettata da 74 insegnanti-autori, Scholé, Brescia 2022.

[52] P.C. Rivoltella, 2022.

[53] D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2012.

[54] O. Houdé, L’inhibition au service de l’intelligence. Penser contre soi-même, PUF, Paris 2020.

[55] A. Berthoz, L’inibizione creatrice, Codice, Torino 2021.

[56] P. Freire, Pedagogia do Oprimido, ed. orig. 1968.

[57] M. Horkheimer, T.W. Adorno. La dialettica dell’illuminismo, tr. it. Einaudi, Torino 1947.

[58] A. Giovagnoli, Shoah e storia del Novecento, in M. Santerini, R. Sidoli, G. Vico (eds.), Memoria della Shoah e coscienza della scuola (pp. 21-38), Vita e Pensiero, Milano 1999., p. 23

[59] E. Bricchetto, Il metodo degli EAS: una proposta per affrontare la crisi dell’insegnamento della storia e il confronto con il presente, in “Novecentro.org”, 24 agosto 2022.

[60] L. Toschi, La comunicazione generative, Apogeo, Milano 2011.

[61] Pasta, Rivoltella, 2022a

[62] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1976.

[63] Bloch, 1976, p. 23.

[64] Bloch, 1976, p. 28

[65] G. Catalfamo, Fondamenti di una pedagogia della speranza, La Scuola, Brescia 1986.

[66] P. Ricœur, Tempo e racconto – Il tempo raccontato, vol. 3, Jaca Book, Milano 1998.

[67] Giovagnoli, 1999.

[68] Granata, Pasta, 2022

[69] Bloch, 1976, p. 48

Dati articolo

Autore:
Titolo: L’onlife interroga la (didattica della) storia: postverità, consumi culturali, distorsioni e banalizzazioni
DOI: 10.52056/9791254693872/06
Parole chiave: , , , ,
Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, L’onlife interroga la (didattica della) storia: postverità, consumi culturali, distorsioni e banalizzazioni, Novecento.org, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/06

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