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Tre questioni sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente

Tre questioni sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente
Abstract

L’articolo riflette sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle istanze del presente, provenienti da diverse parti all’interno del Vecchio Contiente, agitato da pulsioni nazionalistiche e usi strumentali e politici del passato che si riverberano nella didattica, oltre che nelle politiche della memoria. In particolare l’autore risponde a tre questioni cardine, interlacciate tra loro: come mai nel calendario civile europeo alcune date sono assurte a vere e proprie giornate memoriali e altre invece no; quali operazioni di elaborazione di un racconto storico scritto “dall’alto” sono attualmente in atto (o lo sono state di recente) in Europa e con quali differenze tra Europa dell’Est e nell’Europa occidentale; stiamo assistendo a un vero indebolimento dell’insegnamento della storia in Europa, che passa anche da una forte strumentalizzazione della disciplina a fini politici.

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The article reflects on the teaching of history in Europe and of Europe in the face of the demands of the present, coming from different parts within the Old Contient, agitated by nationalistic impulses and instrumental and political uses of the past that reverberate in didactics, as well as in the politics of memory. In particular, the author responds to three pivotal questions, which are intertwined: how come some dates in the European civil calendar have become real memorial days and others have not; what operations of elaboration of a historical narrative written ‘from above’ are currently underway (or have been recently) in Europe and with what differences between Eastern Europe and Western Europe; we are witnessing a real weakening of the teaching of history in Europe, which also passes through a strong instrumentalisation of the discipline for political purposes.

Questione 1

La Summer school è stata anticipata a luglio da una pre-Summer durante la quale sono state proposte due interviste, a Filippo Focardi e Lorenzo Pregliasco, in cui si è sviluppato il tema dei momenti centrali della storia e della memoria d’Europa, con una prima riflessione su come spiegarli/narrarli/comunicarli soprattutto a scuola.
Focardi, ha affrontato le questioni del paradigma dell’antifascismo e dei totalitarismi novecenteschi, mentre Pregliasco ci ha raccontato quali sono le ragioni del successo del suo podcast “Qui si fa l’Italia”, dedicato ai momenti che hanno maggiormente segnato la storia della Repubblica italiana.    
Alla luce di quanto è emerso dalle due interviste, abbiamo anzitutto voluto chiedere a Piero Colla, professore a Strasburgo e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio del Consiglio d’Europa sull’insegnamento della storia (OHTE), qual è il motivo per cui, nel calendario civile europeo, alcune date sono assurte a vere e proprie giornate memoriali -si pensi, al 9 novembre, anniversario della caduta del muro di Berlino (1989) – ed altre, invece, no. In questo caso, si trattava di una cesura storica, anche sul versante del racconto storico nello spazio pubblico. Ma ci sono verosimilmente altri eventi, nella recente storia europea, che hanno segnato una svolta o comunque risultano idonei a sottolineare un passaggio significativo nella rappresentazione pubblica della storia. Quali altre date, insomma, oltre sa 9 novembre, sarebbe utile/opportuno/giusto trattare nell’insegnamento della storia a scuola?

Dopo il 1989, il 2004 (allargamento e Est dell’Unione Europea)

La mia attenzione si concentrerà su accadimenti o cesure periodizzanti intervenuti tra il 1989 e il presente. Nell’intervista di Focardi,[1] il significato dell’‘89 è analizzato da un’ottica ben precisa: facendo cioè riferimento alle controversie che hanno segnato, e ancora condizionano, la ricerca di un consenso attorno ai cardini di una memoria “europea”, condivisa e riconciliata. La questione, a mio parere, riguarda le sfere della politica e della diplomazia, piuttosto che la scuola.

Se si guarda a quest’ultima, invece, e a un possibile curricolo di storia, i problemi sono diversi rispetto all’individuazione di snodi teorici, e nuovi nuclei tematici. Tra le date da non “dimenticare” citerei infatti l’allargamento dell’Unione europea alle sue frontiere orientali e sud-orientali, che si concretizza nel maggio 2004, ma ha avuto ulteriori strascichi con le adesioni successive di Bulgaria e Romania (2007) e della Croazia (2009). Trovo infatti che questo passaggio storico (che suggella la riunificazione del continente, se non altro sui piani della cooperazione politica e del riconoscimento di certi principi fondanti) non abbia trovato un posto nella coscienza storica comune. Il problema non è solo italiano; ma per un paese fondatore, ospite del trattato che diede vita alla Comunità europea, la lacuna cognitiva mi sembra particolarmente grave. Può darsi che si pensi ancora al percorso che va dalla ratifica delle nuove adesioni da parte dei parlamenti nazionali ed europeo alla loro realizzazione concreta come ad un dato formale: trattati che impegnano governi, istituzioni e sistemi giuridici, senza lasciare un segno sulla vita dei popoli e sulle rispettive culture.  Proporrei invece di leggerli come un punto di frattura, a partire dal quale enucleare una serie di dilemmi irrisolti, che il XX secolo ha lasciato in eredità al successivo.

Una grande questione aperta: le frontiere fisiche e simboliche dell’Europa

Uno dei dilemmi più importanti e generali è la questione delle frontiere, interne ed esterne, dell’appartenenza all’Europa: il grande “allargamento” ha coinciso con un tentativo (in parte fallito) di ridefinire l’identità politica dell’UE, il concetto di cittadinanza che la tiene unita, e il suo ruolo nel mondo. Frontiere fisiche, in primo luogo, ma anche simboliche, che quindi toccano la problematica della contrapposizione delle memorie recenti, esaminata nel video di Focardi. Una conseguenza diretta dell’ingresso dei rappresentanti dei “nuovi paesi” nelle istanze decisionali dell’UE fu infatti di riaprire la questione dell’“europeità”, dei limiti del consenso attorno a certi valori fondamentali (la Carta dei Diritti, allegata al trattato di Lisbona del 2009), accentuando l’urgenza di far dialogare le sensibilità dei due versanti della coscienza europea.

In senso astratto, la ricerca di un punto di sintesi, costruito attorno al concetto di diritti umani, era stata oggetto di dibattito fin dagli anni ’70 (penso agli accordi di Helsinki): ma è stato quel passaggio a renderla indifferibile. Dal 2004, la coscienza occidentale ha dovuto confrontarsi con la relatività della sua memoria politica, dei suoi totem. Le due sponde del continente sembrano separate da rappresentazioni contrapposte ed irriconciliabili degli esiti della Seconda guerra mondiale. Da Tallinn a Sofia, la percezione dominante del lungo dopoguerra non è quella di un traguardo di stabilità e autodeterminazione, ma di un’oppressione straniera, contrabbandata come emancipazione e riscatto. L’idea di riscrivere la storia comune includendovi questa dimensione tragica, raggiunge così (nella seconda metà degli anni 2000) le istanze dell’UE (Commissione, Parlamento), anche se già da anni il Consiglio d’Europa, che si era aperto fin dagli anni ’90 ai paesi del blocco ex-sovietico, si era trovato a dibatterne, tra imbarazzi e reticenze.  Vi faranno eco tanto le iniziative come la risoluzione del PE del 2 aprile 2009 su “coscienza europea e totalitarismo”, quanto progetti di sintesi narrativa e didattica, come l’avvio, nel 2007, del progetto di “Casa della Storia europea”, finalmente inaugurata a Bruxelles dieci anni dopo.[2]

È possibile riconciliare le “memorie asimmetriche” delle due parti d’Europa?

Da questa presa di coscienza nasce la domanda se quella frattura sia saldabile, ma anche il bisogno di coglierne il significato, che non si riduce, secondo me, a un diverso giudizio sull’esperienza del socialismo realizzato. Il problema non si pone solo in retrospettiva, e non investe solo e tanto un’interpretazione del passato. Come in tutti i casi in cui ci si trova davanti a una memoria rivendicativa e polemica, questa si salda a diverse prospettive per il futuro, che da quella memoria prendono nutrimento. L’avvicinamento formale tra le “due” Europe ha creato un terreno di contatto dove si negoziano, e a volte si scontrano visioni asimmetriche, in merito alla centralità dei concetti di nazione, sovranità, Stato di diritto, e persino al tema dello Stato sociale. Lavorando in un’istituzione europea costituita da rappresentanti delle parti sociali, il CESE, posso confermare che la percezione del concetto di welfare state, di libertà d’impresa conosce forte variazioni, tra Europa orientale e occidentale. La diversa lettura dell’idea di cittadinanza dà adito a ulteriori attriti nella comprensione dei rapporti tra “noi”, nazioni europee, e ogni alterità: il migrante, gli Stati Uniti, e il continente russo-asiatico. L’attualità geopolitica ce ne fornisce qualche prova…  Si tratta quindi di uno snodo storico fecondo e complesso in termini di interrogativi connessi, di domande che ne scaturiscono.

Il pericolo di un arresto del processo di integrazione europea

Si può sostenere che il sostanziale disinteresse dei sistemi d’informazione verso l’evoluzione politica dell’area est-europea si è fuso con una rappresentazione semplicistica per cui tutte le influenze dovrebbero operare in una sola direzione: da ovest verso est.  Nei paesi fondatori, il grande allargamento del 2004 stato pensato come il fondamento di una colonizzazione culturale discreta.  A posteriori, bisogna constatare che questa illusione è stata smentita, e che circolazione di pensieri e ideologie procede nei due sensi.  Vi è per esempio una coincidenza (magari fortuita, ma inquietante) tra la cronologia dell’allargamento all’est, con le speranze che ha suscitato, e le prime battute d’arresto nel progetto di costituzionalizzazione dell’UE: l’esito negativo dei referendum confermativi del progetto di trattato costituzionale, in Francia e in Olanda del 2005, segnò il tramonto di ogni progetto di rifondazione, al rialzo, del patto politico dell’UE. Non si trattò di episodi isolati, e altre linee di tendenza si sono innestate su quella prima battuta d’arresto. Una riguarda il calo della partecipazione elettorale. Nei “nuovi” paesi, in occasione dello svolgimento delle prime elezioni europee, non si registrò nessun tasso superiore al 50 %, con la Slovacchia che raggiunse l’83 % di astensioni.  Il contagio, per così dire, si è esteso a macchia d’olio. Dalla prima elezione del Parlamento europeo a suffragio universale (1979) in poi, tutte le elezioni europee, hanno segnato, fino al 2014, un calo di partecipazione rispetto al voto precedente. In Italia, la tendenza si è protratta anche con le ultime elezioni europee.

Un secondo dato, ben presente nei dibattiti pubblici – ma il cui retroterra storico non è stato sufficientemente indagato – è l’ascesa simultanea (in tutto il Nord Europa, in Olanda, Italia, Francia, Gran Bretagna…) e spesso l’accesso al governo di forze che rilanciano una concezione etnoculturale della cittadinanza, e che fanno tutte, con differenze solo di grado, professione di euroscetticismo. Le elezioni dello scorso autunno 2022, in Svezia e Italia, sono state un’ulteriore conferma di questo trend di nazionalismo reattivo, ostile all’universalismo democratico, che fin dagli anni ’90 aveva raccolto ascolto e legittimità nel discorso pubblico in Romania, Polonia, Ungheria e Slovacchia.

Gli indizi di una convergenza, di un’azione comune nel nome della “democrazia illiberale” rivendicata da Orbán (che riprendeva l’espressione del politologo americano Fareed Zakaria)[3] sono espressi in modo chiaro nel 2022. Nel quadro dei lavori Convenzione sull’avvenire dell’Europa, Marine Le Pen ha rilanciato l’idea di un’“internazionale” dei partiti nazionalisti, attraverso una Dichiarazione solenne sottoscritta dai principali movimenti etnonazionalisti. In nome dei valori tradizionali e di un’opposizione fondamentale tra la fonte di legittimità – le comunità nazionali – e un “super-Stato” che li priverebbe di sovranità. Il documento sancisce un’idea di Europa alternativa al progetto nato nel ’57, e confermato a Maastricht. È forse ora di ripensare il ritorno imperioso delle patrie come una costruzione a più voci, e un effetto “perverso” e inatteso, della nuova Europa a 28 stati membri – scesi a 27 dopo il Brexit. Nell’avvento di una democrazia plebiscitaria e illiberale, l’esperienza dell’Europa centro-orientale precede l’Occidente e gli offre dei modelli pratici – in politica estera, nel diritto, nella retorica ostile alle élites e ai migranti. L’ondata populista che si propaga dalla Polonia alla Grecia, dall’Ungheria alla Finlandia ha ovviamente radici ben precedenti all’allargamento, ma vi si collega e si può tematizzare assieme, anche perché si declina nella forma del sospetto reciproco, e di una preoccupante decostruzione dall’interno del progetto federale europeo.

Questione 2

 A partire almeno dall’Ottocento, gli stati nazionali o i loro promotori si sono regolarmente impegnati in un’opera di costruzione del racconto storico nazionale, individuando poi nella scuola uno dei luoghi principali in cui veicolarlo.
Anche oggi ritroviamo operazioni di elaborazione di un racconto storico scritto dall’alto”, che potrebbe/dovrebbe renderci migliori cittadini” della nostra nazione o dell’Europa. Sotto questo aspetto, ci sono elementi di similitudine tra quanto avviene nell’Europa dell’Est e nell’Europa occidentale? È inevitabile, a questo proposito, pensare da una parte ad alcune iniziative di centralizzazione della scrittura della storia da parte di nuovi o vecchi istituti della memoria nazionale o di revisione di manuali scolastici; dall’altra, ad alcune iniziative dell’Unione europea, come la Casa della Storia europea a Bruxelles, l’Osservatorio sull’insegnamento della storia, la redazione di manuali bilaterali.

Tre luoghi comuni su come si costruisce il canone della storia insegnata

La questione in realtà è composita ed è opportuno far discendere da essa una serie di quesiti derivati, che permettano di fare chiarezza, esplicitando alcuni assunti piuttosto comuni.  Il primo è che l’impianto narrativo della storia insegnata a scuola sia semplicemente un derivato e uno strumento dei processi di Nation building.  Ciò implicherebbe, se l’assunto fosse vero, che col declino dell’autorità dello stato-nazione, indotto dai noti processi di globalizzazione economica e culturale, la storia in quanto disciplina si troverebbe privata della sua funzione “naturale” e si troverebbe condannata all’irrilevanza. A meno che non si assista ad un tentativo di restaurazione (europeo, globale, fondato sull’inclusione e il rispetto delle minoranze) imbastito sulla stessa falsariga: invenzione di eroi e di date emblematiche, di un tracciato esemplare, di una pretesa di continuità costruita su determinati valori di riferimento.

Un secondo assunto, che spesso ritroviamo nei lavori di ricerca sul racconto o “romanzo” nazionale – è che questo processo sia necessariamente “pilotato” dall’alto, ossia prescritto da un soggetto esterno alla scuola e alla cultura. Nel caso dell’Italia, avrebbe avuto per protagonista, di volta in volta, la monarchia sabauda, lo Stato giolittiano, il fascismo o la DC. E magari oggi poteri economici transnazionali, il mercato ecc.  In ogni caso, un soggetto esterno alla scuola, che si esprime con la voce di un’istituzione.  In realtà, la costruzione dei canoni scolastici è avvenuta non solo top down, ma anche, se non prevalentemente, bottom up. Certo, l’intenzione di “usare”, “imporre” un’interpretazione a tesi è sempre stata presente. Ma culture e canoni d’insegnamento non sono mai stati il frutto di un input consapevole e mirato dal potere statale: si tratta di una forzatura, che non permettere di rendere conto delle inerzie, dei compromessi, delle dissonanze tra identificazioni e linguaggi contrapposti, che si riscontrano in una stessa società e condizionano pesantemente la ricezione.  Gli studi in materia (dall’indagine pan-europea Youth and History del 1995, ad un illuminante studio comparativo realizzato in Francia e in Canada[4]) documentano la complessità della ricostruzione, da parte degli alunni, dei vari scampoli narrativi che compongono la loro coscienza storica.

L’ultimo assunto è che imbastire un racconto delle origini, e costruire la cittadinanza, siano aspetti complementari, ed immediatamente efficaci. La storia raccontata a scuola sarebbe cioè una storia a tesi, portatrice di un messaggio. Questo assunto viene declinato in due modi: come assunto interpretativo – che ci fa leggere la scuola del fascismo, del dopoguerra, come se i suoi messaggi fossero univoci. Sovrapponendo dunque le intenzioni, la retorica, a ciò che la storia insegnata comunica.   Oppure in termini normativi – postulando che, oggi come allora, è necessario immettere nelle pratiche didattiche messaggi e “valori” opportuni, e questo ci garantirà un risultato. Tale rappresentazione mi sembra sostanzialmente fuorviante.  Un esempio concreto mi viene dalla realtà della Svezia, dove un ente di Stato coltiva la memoria dei genocidi e della Shoah. In uno studio commissionato da questo stesso ente è stato appurato che la nuova generazione di insegnanti – massicciamente esposta a corsi di formazione e a materiali di approfondimento – era in realtà meno preparata e meno motivata rispetto a questo tema di quella nata negli anni ’40 e ‘50.

I tre postulati precedenti sono strettamente correlati, e li vorrei confutare assieme.  La cultura storica presente a scuola contiene qualcosa di più del progetto nazionale – se non altro perché molti contenuti storici non si riferiscono ad esso. Essa si estrinseca, storicamente, “dentro” le frontiere dello Stato-nazione – ma esprime una relazione tra cultura e passato che è diversa tra le nazioni europee, e che espleta varie funzioni.   Ciò è rivelato bene dalla comparazione tra i processi riformatori in corso. In certi paesi (in particolare nell’Europa del Nord) la valenza identitaria del racconto nazionale è scarsamente pronunciata, la storia viene insegnata sempre meno – senza che le ambizioni di formazione civica del sistema si siano attenuate: l’alleanza storia-nazione non è quindi un dato naturale. In altri contesti (USA, Gran Bretagna…) il canone d’insegnamento della storia non è l’espressione di una governance centralizzata – ma viene declinato in autonomia, nelle entità sub-nazionali e nelle scuole. La coerenza nei contenuti, storicamente, è stato il frutto dalle reti di formazione universitarie, da una certa omogeneità sociale del corpo insegnante, da un certo consenso sociale.

La crisi della funzione civica della storia: le tendenze alla ri-nazionalizzazione

Fatte queste premesse, nel panorama globale delle politiche di riforma dei curricula di storia, è possibile scorgere una logica comune di ri-nazionalizzazione, un discorso restauratore, teso a compensare fenomeni disgregativi paventati: l’idea che gli alunni “non provino” a sufficienza un senso di appartenenza, che non “conoscano” la storia comune. A questo vocabolario comune, dai toni allarmistici (che non a caso fa capolino in un contesto post-coloniale: la Francia del primo mandato di Mitterrand) si ricollegano visioni assai diversificate della funzione civica della storia – il che spiega come le risposte alla “crisi” assumano, anch’esse, forme ben diverse.   In Francia, e più tardi in Danimarca, nei Paesi Bassi, si è assistito negli ultimi decenni a tentativi di ri-codificazione di un canone nazionale ufficiale. Ma il modello erudito, ottocentesco, non è più spendibile.  Molto spesso, in questi progetti di restaurazione, si accavallano preoccupazioni civili e richiami imperativi alla memoria. La Francia offre uno dei casi più lampanti; sotto la presidenza Sarkozy (2007-2012) il potere politico è intervenuto per mettere sotto tutela la memoria della colonizzazione, per sottolinearne (cito testualmente) i risvolti “positivi”.

Troviamo poi un’area geopolitica estesissima – dai Balcani ai paesi baltici – dove il racconto nazionale, dopo la lunga parentesi dei regimi comunisti, è stato riattivato secondo il modello ottocentesco, ma con un’intenzione giustificata dagli sviluppi più recenti: riaffermare la continuità della cultura nazionale, per passare la spugna su una storia di lacerazioni ideologiche drammatiche (pensiamo alle eredità contrapposte dello Zarismo e del Bolscevismo, che la scrittura ufficiale della storia, nella Russia di Putin, riesce a conciliare, con palesi omissioni).

L’uso politico della storia nazionale: le ”leggi memoriali”. Gli altri fenomeni di “formalizzazione” della memoria

Questo uso della storia, che ha per finalità di nascondere pagine imbarazzanti dell’esperienza collettiva, e di mettere all’indice chi osasse metterle in piazza, si spinge fino all’introduzione di sanzioni legali. Un esempio lampante ci viene dalle cosiddette “leggi memoriali” approvate dal parlamento polacco sotto il governo.  La prima stesura della legge di riforma dell’Istituto della memoria nazionale, del 26 gennaio 2018, stipulava che

chiunque, pubblicamente e contrariamente ai fatti, attribuisca alla Nazione polacca o allo Stato polacco una responsabilità o corresponsabilità per i crimini nazisti, commessi dal III Reich […] ovvero per altri crimini di guerra e crimini contro l’umanità […] è punito con una multa o con la reclusione fino a 3 anni.[5]

 La rivendicazione e la promozione di una memoria normativa, però, trascendono il quadro delle legislazioni nazionali.  Nel periodo che spazia dalla “dichiarazione di Stoccolma” del 2000[6] alla creazione dell’ IHRA,[7] fino alla risoluzione del Parlamento europeo del 27 gennaio 2005,[8] la memoria della Shoah si è mutata per esempio in un ambito di memoria formalizzato, oggetto di impegni solenni in campo internazionali – ma declinandosi in una prospettiva civica, non più nazionale ma “cosmopolita”, ed eticamente connotata.  In questo contesto, la formalizzazione della memoria obbedisce a un’istanza pratica, ma di tipo nuovo: ricordare è lo strumento che consentirebbe di “prevenire” minacce quali l’intolleranza o il razzismo.

La coesistenza di queste tipologie, di fatto antagoniste, d’istituzionalizzazione di segmenti di memoria, ci pone di fronte ad una dimensione diversa dall’esperienza del XIX e del XX secolo, quando i canoni scolastici di storia si sono formati, e formalizzati. Essi ci parlano, soprattutto, della presenza simultanea di diversi usi, e di una frustrazione comune rispetto all’inanità di questo attivismo: sintomo forse di una crisi, ben più generale, dell’autorità e dell’efficacia della parola della scuola.

Questione 3

Un’altra grande questione che è al centro di questa Summer, e che verrà affrontata diffusamente nel corso dell’ultima giornata, è quella del vero o presunto indebolimento dell’insegnamento della storia in Europa.
In effetti, nei paesi dell’Europa occidentale lamentiamo un fenomeno del genere, magari a vantaggio di insegnamenti “nuovi” come quello alla cittadinanza; nei paesi dell’Europa orientale, viceversa, notiamo un grosso “investimento” pubblico/istituzionale sulla storia a scuola, che magari non ci piace perché coincide con una forte strumentalizzazione della disciplina a fini politici, ma che non indica certo una sua perdita di peso, tutt’altro.

Una crisi dell’insegnamento della storia? Europa occidentale e Europa orientale a confronto

La questione di cui sopra evoca, molto correttamente, la coesistenza di due sensibilità, anzi di due “trend” paralleli, nelle politiche educative europee, che rendono difficile fornire una risposta univoca all’interrogativo. A questo proposito, vorrei condividere un episodio. Pochi anni orsono, quando ero impegnato a costruire, in Francia, un seminario comparativo sulla situazione dell’insegnamento della storia in Europa,[9] avevo proposto di inserire nel titolo del seminario la parola “crisi”. Mi sembrava ragionevole ipotizzare che le conclusioni dei miei studi sulla quasi-scomparsa della materia, dopo le riforme adottate nei paesi nordici, potessero generalizzarsi, almeno come linea di tendenza.

Ricevetti allora una serie di obiezioni, in parte legate a esigenze di rigore metodologico: dove ci poniamo, e a che titolo parliamo, quando, da storici, puntiamo il dito su una “crisi”?  Altre critiche, di carattere più empirico e sostanziale, provenivano da studiosi di area est-europea. Come facevano notare, i fenomeni di marginalizzazione e di relativizzazione del sapere storico in ambito scolastico, all’opera in Occidente, non avevano avuto alcun peso ad est della vecchia cortina di ferro. Dove al contrario la storia, e in particolare quello che Nora definisce il “romanzo nazionale”, ha conosciuto dall’’89 in poi un revival formidabile. Il problema del titolo del seminario fu risolto in maniera salomonica, con un punto interrogativo aggiunto alla fine!

Si può parlare di “crisi”, in definitiva?  Consiglierei di non lasciarsi guidare dalla soggettività, e di prendere come riferimento dei dati obiettivi, che trascendano il quadro nazionale.  Alcune linee di tendenza emergono, per esempio, dallo studio preliminare alla creazione presso il Consiglio d’Europa dell’OHTE, a cui si è già accennato.[10] E che in parte nasce proprio come risposta alle preoccupazioni, che quell’indagine (che risale al 2019) ha confermato.  Ne risulta infatti che, paese dopo paese, la storia viene progressivamente inglobata in altre discipline, espunta da alcuni indirizzi, dall’esame finale (come è accaduto in Italia) o resa facoltativa.  Nella scuola dell’obbligo, in particolare, il suo insegnamento è spesso integrato in un blocco di materie a carattere civico o sociale, mentre i licei tendono ad espellerla dagli indirizzi non umanistici.  Non è raro che la storia, in quanto materia obbligatoria e comune, sia presente solo fino alla fine del primo ciclo della scuola secondaria (Gran Bretagna) – o esclusivamente nei licei.

Non si tratta, in realtà, del risultato di riforme recenti, ma di un processo di lungo periodo, esteso quanto meno all’area dell’Europa occidentale e al Nord-America, e che ha destato proteste fin dagli anni ’80 e ‘90, in particolare in Francia e in Gran Bretagna. Queste, però, non hanno quasi mai dato adito a un’inversione di tendenza, almeno sul piano degli orari. Nel caso della Svezia, che ho analizzato, il declino che si riscontra tra la fine degli anni ’50 e gli anni 2000 oscilla tra il 65% e il 100 % delle ore d’insegnamento. Tra il 1980 e il 1994, la materia non era più presente, come tale, nei nove anni della scuola dell’obbligo.

Il fenomeno di portata ancor più generale, legato alla scrittura dei curricula, riguarda la liberalizzazione e la crescente indeterminatezza di finalità, quadri epistemologici (ruolo della cronologia, in particolare), contenuti e metodi. Un’insicurezza sembra essersi fatta strada in merito al tipo di conoscenza che l’insegnamento della storia può assicurare, sempre che questa non sia completamente subordinata a competenze di carattere socio-emotivo.  Questi processi alimentano, a livello di opinione pubblica, due reazioni: la preoccupazione davanti all’appannamento di nozioni o riferimenti che si ritenevano condivisi, o la critica di un uso ideologico, della sostituzione della narrazione nazionale con un altro. Tema presente, tra l’altro, nei dibattiti che hanno preceduto le ultime elezioni presidenziali svoltesi in Francia.

La singolarità della traiettoria in Europa orientale comprova, ancora una volta, che lo status attribuito alla materia è una funzione delle alterne vicende dell’indipendenza nazionale: su quel versante, infatti, l’esigenza di riscatto identitario provocato dal dopo-1989 ha condotto alla riscoperta o alla re-invenzione di un romanzo nazionale auto-assolutorio, declinato attraverso diverse trame narrative: l’alternanza di umiliazioni e rivincite (Polonia), la continuità di una vocazione o di un’ “anima” nazionale, al di là dei cambiamenti di regime (Russia, Romania…) Quando si incrociano con pratiche politiche autoritarie, questi modelli favoriscono la delegittimazione delle aspirazioni nazionali dei paesi limitrofi, se non (come mostra l’idea, ventilata da V. Putin nel 2013, di un “libro unico” di storia per le scuole) un monopolio centrale della verità.

Tanto in Russia quanto in Polonia, Ungheria, e Romania, i tentativi degli anni ’90 di aprire il curriculum, e la scrittura dei manuali, a un giudizio critico verso i principali pilastri dell’orgoglio nazionale, sono stati oggetti di denunce da parte delle stesse autorità responsabili. Ciò ha posto in allerta, fin dagli anni 90, istituzioni transnazionali come il consiglio d’Europa – da cui erano nate le prime iniziative per favorire un approccio multi-prospettico nei curricula occidentali.

Esistono però dinamiche contrapposte: gli ultimi trent’anni hanno segnato anche, per la prima volta, uno sguardo positivo sull’alterità. In Romania per esempio, dove il rispetto delle minoranze rientrava nei parametri per l’ingresso nell’Unione europea.  O in Polonia, dove si assiste a una rivalutazione del posto degli ebrei nella vicenda nazionale. Proprio questo paese si è impegnato, fin dai primi anni ’90, in un confronto con i vicini tedeschi, ma anche con gli Israeliani per controllare e correggere l’immagine dei conflitti etnici e genocidi nel materiale di studio. Siamo quindi in presenza di una fluidità impensabile entro contesti più strutturati, la cui stabilità è anche il frutto delle inerzie dei sistemi di formazione degli insegnanti, del mercato dei manuali o di altri fattori poco visibili.

 Una tendenza comune: dal “romanzo nazionale” alla storia-memoria.

L’aspetto presente in modo più trasversale – anche se non so se sia lecito associarlo a una “crisi” – è la divaricazione tra i diversi progetti statali di costruzione civica e la storia come disciplina a vocazione universale, scientifica, enciclopedica. L’avvento dell’individuo – come soggetto centrale del progetto educativo – impone alle istituzioni educative (anche internazionali) di investire nuovi settori, di cambiare atteggiamento. Nei lavori dell’OCSE, nella definizione di quadri comuni di competenze (Commissione europea, CdE), nelle indagini “PISA”, realizzate dal 2000 in poi, la formazione storica non viene certo bandita o condannata – ma è spesso ignorata, cade al di fuori del raggio di indagine, ed è quindi, indirettamente, svalutata.

A parte le critiche, sostanzialmente giustificate, che l’hanno investita, la forma del “romanzo nazionale”, si è rivelata un format poco congeniale a un progetto civico: tanto all’est quanto all’ovest, l’insegnante di storia si confronta con un pubblico molto diverso da quello a cui erano destinati i manuali costruiti secondo un modello enciclopedico o erudito.

Nel frattempo, come Pierre Nora registrava fin dagli anni ’80, altre modalità dell’investimento del passato si affacciano nella cultura diffusa. Modalità “democratiche”, orizzontali – come attesta la frequentazione sempre più intensiva dei “luoghi” di memoria, permanenti o effimeri.  Cresce perciò la domanda di storia, ma a costo di trasformare la storia nazionale in un “patrimonio” da frequentare, da tutelare in quanto passato: senza investirla di valenze civili o politiche.  Le tracce, come le storie di famiglia, diventano oggetti del discorso della scuola, che le tratta come supporti dell’identità di gruppi (reali o virtuali), o dell’individuo.  Ciò che emerge da queste pratiche è una storia-memoria su cui né lo Stato né la storia in quanto scienza esercitano più un monopolio.  Senza la connessione con una disciplina (come la storia universitaria) e un ceto professionale, le armi dello Stato sono spuntate: esperti e funzionari ministeriali, incaricati della scrittura dei programmi, non sanno letteralmente “quale” storia (sociale, politica, culturale, economica) scegliere, e nemmeno se sia lecito scegliere.  Il campo sembra completamente aperto.

Dalla governance politica dell’educazione emerge la volontà di accompagnare questa nuova relazione più soggettiva, dei gruppi e degli individui, con la storia. Il ruolo dei sistemi educativi, in questo campo, non è però scontato: sono essi i garanti del rispetto dell’obiettività?  Della serietà di un metodo?  O i custodi della memoria di snodi controversi, in nome della coesione sociale? A tali difficoltà si unisce quella, pratica, di tradurre questi obiettivi nella forma ottocentesca dei programmi – che per forza di cose implicano una gerarchia di linguaggi e contenuti. Se l’intento è più rispondere ad un “bisogno” che trasmettere contenuti culturali, questi tendono a scomparire dalla formulazione delle “indicazioni”, o sono resi estremamente vaghi. Negli ultimi due decenni, la revisione dei programmi ha innescato controversie – se non vere e proprie “guerre del canone” –   da cui si può concludere che qualsiasi rivendicazione di un canone codificato, formale, rischia di essere bollata come scandalosa sul piano epistemologico (o peggio: come un’arma nelle mani dell’estrema destra). La scuola è chiamata ad emancipare, a favorire l’inclusione a titolo individuale, non a affermare il primato della storia della popolazione di maggioranza. Polemiche di questo tenore si sono scatenate in Danimarca, Olanda, Gran Bretagna…

In conclusione, da una trentina d’anni a questa parte, la didattica della storia, almeno in Occidente, sembra costruirsi come antidoto: un esercizio che coltiva lo sguardo critico sulle fonti, il sospetto verso i miti delle passate generazioni, un atteggiamento guardingo, inevitabile a fronte delle vere e proprie imprese di falsificazione a cui le nuove generazioni sono esposte. Mi chiedo però se questa funzione sia sufficiente, quando proprio quel flusso di fake news fa leva su una nebbia epistemologica più fondamentale: l’assenza di orientamento nel tempo e nello spazio, di progettualità anche politica – condizione necessaria per rendere qualsiasi indagine storica “necessaria”, pertinente. Cercare di squarciare il velo di mezze verità, di strumentalizzazioni del passato, che avvolge il discorso pubblico, è necessario: ma rischia di lasciare inevasa una ricerca di senso, di verità e di ordine logico, che sottende, in senso lato, la “domanda” sociale di storia che tutti percepiamo.

 


Note:

[1] PRE-SUMMER 2022 | Intervista a Filippo Focardi, https://youtu.be/avJyPMtPF9M

[2] Casa della storia europea, https://historia-europa.ep.eu/it/benvenuto-alla-casa-della-storia-europea.

[3] The Rise of Illiberal Democracy, in “Foreign Affairs », 76, 1997, pp. 22-43.

[4] Le récit du commun. Lhistoire nationale racontée par les éves (a c. di F. Lantheaume e J. Létourneau), Lyon, PUL, 2016.

[5] Sandro De Bernardin, Polonia, i conti con la memoria, in “Atlante Treccani”, 9 febbraio 2018, https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Polonia_i_conti_con_la_memoria.html

[6] Stocjholm Declaration, International Holocaust Remembrance Alliance, https://www.holocaustremembrance.com/it/about-us/stockholm-declaration.

[7] International Holocaust Remembrance Alliance.

[8] Risoluzione del Parlamento europeo sul ricordo dell’Olocausto, l’antisemitismo e il razzismo, Parlamento europeo, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-6-2005-0018_IT.html.

[9] Histoires scolaires en Europe, https://histeurope.hypotheses.org/

[10] Observatory on History Teaching in Europe , Council of Europe, https://www.coe.int/en/web/observatory-history-teaching.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Tre questioni sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente
DOI: 10.52056/9791254693872/02
Parole chiave: , , , , , , ,
Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Tre questioni sull’insegnamento della storia in Europa e dell’Europa di fronte alle urgenze del presente, in Novecento.org, n. 19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/02

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