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Insegnare il Mediterraneo contemporaneo

Il posto scomodo del Mediterraneo nel curricolo di storia

Gli insegnanti sono abituati ai popoli carsici della storia. Costituiscono una nutrita famiglia, della quale fanno parte egizi, assiri e greci, e altri popoli che – a un certo punto del racconto– si inabissano, fanno qualche sporadica apparizione nel corso dei secoli e poi ricompaiono in un oggi, dove acquistano improvvisa notorietà e presenza assidua nei nostri media. Su scala più grande, il Mediterrano mostra la stessa natura. Per un lungo periodo costituisce la scena madre di tutte le storie che si raccontano, da quelle appena ricordate, fino a Roma. Poi, nel successivo Medioevo, condivide la scena con un comprimario sempre più invadente, l’Europa del Nord, per cedergliela definitivamente alla fine del XVI secolo.

Le ragioni storiografiche di questo andamento erratico della narrazione storica sono state ben studiate. Affondano le loro radici in epoche remote, forse in due tradizioni distinte: quella ebraica (basti pensare al libro di Daniele con la sua immagine dei regni successivi) e quella latina, come ci insegnano le età della storia di Seneca il Vecchio. Meno note, ma ugualmente ben studiate, sono le motivazioni didattiche, che hanno inciso e continuano a incidere pesantemente nel curricolo di storia. Molto più recenti, muovono i primi passi nella Germania del principio del XIX secolo, che, impegnata in una lotta mortale contro la Francia napoleonica, elabora un programma, insieme politico e scientifico, volto a scolpire il profilo genetico-culturale della nazione germanica, vista come il punto di arrivo di quel percorso della civiltà che, nato in Oriente e nel Mediterraneo, emigra definitivamente verso il centro-nord dell’Europa (o come si dice talvolta, verso l’”Estremo Occidente”). Nel corso dell’Ottocento, come è stato messo in luce da un buon corpo di studi europei (e parzialmente italiani, a cominciare dai lavori pionieristici di Giuseppe Recuperati e Gianni Di Pietro), questo modello di storia è stato adattato e fatto proprio dalla maggior parte delle nazioni europee, Italia compresa.

Questa narrazione, dunque, nella quale il Mediterraneo si ecclissa dopo la battaglia di Lepanto e nella quale la storia contemporanea si svolge per la maggior parte dentro scenari continentali, nasce da un punto di vista preciso, quello della sorgente nazione tedesca. Viene assunto, poi, dall’Europa perché ne motiva culturalmente la sua conquista del mondo, giustificandone il “fardello civilizzatore”. Nel corso del Novecento, infine, subisce un’ulteriore deviazione verso il continente americano, concepito come il figlio naturale della civiltà europea. Ed è attraverso questa filiazione, che l’Europa continua ad affermare una sorta di primazia morale e culturale sul mondo intero.

In questa visione del passato, vi sono dei “prima” e dei “poi” ben delineati e, dunque, insegnabili. Il “prima” (il premoderno) è sostanzialmente mediterraneo. Il “poi”, la modernità, è europea. L’organizzazione temporale è connessa a sua volta con uno schema spaziale altrettanto facilmente riconoscibile: il Nord europeo, il Sud mediterraneo. Legati a questo in modo evidente, si apprendono i parametri della civilizzazione: l’organizzazione urbana, politica, civile, sociale. Nella polarizzazione del dibattito politico e mediatico, conseguentemente, il Nord equivale a progresso; il Sud ad arretratezza. Storia e geografia diventano così i pilastri di una costruzione sociale della storia nella quale il Mediterraneo rappresenta il passato e l’Europa il presente.

La messa in questione della visione tradizionale

Dal punto di vista storiografico è da un pezzo che questo modello di storia cessa di avere un qualche valore euristico, o anche solo di catalogo organizzato dei fatti del mondo (probabilmente la sua principale funzione è quella di organizzatore dell’Accademia). Anzi, questo modello è diventato, esso stesso, un oggetto di studio, utile per capire ambizioni e visioni del mondo di un lembo del pianeta terra, nel corso del secolo e mezzo nel quale si organizzò politicamente al suo interno, e si lanciò in un politica aggressiva al suo esterno. Durante il Novecento, questo modello è stato ampiamente ridefinito. Ora è “Storia europea”. Non è più “la Storia”. Questa Storia europea, a sua volta, non fa riferimento a “origini” mediorientali, ma si ricentra su realtà locali, su spazi fino a qualche tempo fa poco presi in considerazione nelle indagini sui tempi premoderni (basti pensare allo sviluppo degli studi sul mondo slavo e, in genere, sull’Europa orientale, oppure a un libro, L’Europa dei Barbari, di Karol Modzeleski, che sarebbe stato impensabile solo pochi decenni fa). Questa storia esibisce, dunque, un’incertezza fortemente conflittuale sulle sue “origini”, come fu a tutti evidente al tempo del dibattito internazionale sulla Costituzione Europea.

E’ un’Europa ricontestualizzata, quella che noi viviamo. Al tempo di Hegel, la traiettoria della sua vicenda si disegnava sullo sfondo di un pianeta considerato privo di altri poli di civilizzazione, dal momento che l’Oriente, come si diceva, era cristallizzato nei suoi domini dispotici, dell’Africa si favoleggiava che mancasse di storia, e delle civiltà americane si dava un giudizio di marginalità. Il divario coi nostri giorni, nei quali l’Europa è diventata una “provincia della storia”, è abissale. Il nuovo contesto vede il nostro sub-continente situato in un mondo policentrico, che tende a proiettare nel passato questa sua natura plurale.

La mondializzazione preme sulla nostra visione del passato, a tal punto da aver favorito la proliferazione di una molteplicità di “storie mondiali”, che, a partire dalla World History degli anni ’80 del secolo scorso, si sono strutturate in Global history, Connected history, Deep History, Big History, Post-colonial studies (e potremmo continuare l’elenco) che hanno preso il posto, sul proscenio internazionale degli studi, delle “Annales”, l’ultima grande scuola storiografica europea. Lo spazio terrestre non si limita a funzionare da scenario, ma ambisce a diventare co-protagonista della vicenda umana. Ne sono una testimonianza lo sviluppo delle storie ambientali, climatiche, o quella New talassography, nella quale gli oceani e i mari (e dunque il nostro Mediterraneo) si propongono come soggetti della narrazione storica. Da una storiografia che metteva in forte risalto le “soggettività”, tipica degli anni del primo post-modernismo storiografico, si passa allo “spatial-turn”, un modo di considerare il passato, nel quale “i territori”, cioè gli spazi organizzati dall’uomo, ambiscono a diventare il nuovo soggetto paradigmatico degli studi storici.

La didattica, dal canto suo, vive analoghi sussulti. Per riassumerne le complesse vicende che hanno segnato il dibattito internazionale a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, potremmo dire che oggi si fronteggiano due schieramenti. Da una parte, la storia insegnata è vista nel suo ruolo tradizionale di costruttrice di identità (nazionali, locali, o sovranazionali come nella insistente politica scolastica del Consiglio d’Europa). Dall’altra, la storia insegnata è vista come strumento per la lettura del mondo. Per i primi, quel modello elaborato nell’Ottocento è lo storytelling che dà senso all’essere italiani o europei, in un mondo sempre più connesso e planetarizzato, e perciò va salvaguardato nelle scuole. Per i secondi, si tratta di riformulare il nostro approccio al passato. Occorre guardarlo dal nostro punto di vista, di uomini e donne del XXI secolo, che vivono una stagione del tutto inedita nella vicenda umana (e quindi per nulla comparabile a quella ottocentesca), e che, a partire da questa, devono ricostruire la loro genealogia. In questo modo, si pensa, la storia potrebbe riguadagnare quel suo ruolo di strumento formativo, che sta rapidamente perdendo attrattiva per governi e società.

Un nuovo ruolo del Mediterraneo

In questa sfida, la didattica è ben accompagnata da una nutrita schiera di studiosi, che provano a rileggere il passato “con gli occhi del mondo”. Il Mediterraneo è esso stesso visto come “un mondo”. La sua geografia non può limitarsi alle coste e al mare. Ma, come spiega Nicola Labanca nell’intervento che presentiamo nel Dossier, di esso fanno parte regioni sempre più interne, a vari livelli di integrazione col mare. Ad esempio, al tempo dell’impero romano, grazie al fitto sistema di comunicazioni fluviali e stradali, il mondo direttamente connesso col Mediterraneo si estende per circa 3 milioni e mezzo di km. Ma, oltre i limes (settentrionali, ma non dimentichiamo, anche meridionali), si aprono regioni vastissime, che la storiografia attuale denomina col nome collettivo di “barbarico”, variamente romanizzate, e che, a buon titolo, possiamo ritenere parte del “mondo mediterraneo”. Nicola Labanca sembra riprendere lo stesso modello per disegnare un Mediterraneo contemporaneo, composto dall’insieme degli stati rivieraschi, ma anche da una seconda fila di stati che sono variamente, ma comunque fortemente connessi con le sorti del mare: basti pensare al ruolo della Germania e della Russia nelle vicende attuali.

Questo mondo si forma lentamente, durante il processo di neolitizzazione e, soprattutto, nella sua fase della prima urbanizzazione. Dopo la lunga stagione di unità politica, sotto l’impero romano, viene progressivamente inserito in un contesto mondiale continentale, sotto la forte spinta di due nuovi soggetti, l’Islam a sud e l’impero mongolico a nord e in seguito all’attività potente di Genova e Venezia, che riescono a integrare i circuiti dell’Europa del Nord e del Mediterraneo. Con Iran, India e Cina, l’area euro-mediterranea si afferma come uno degli snodi principali di un continente – l’Eurasiafrica – che prende forma nel corso dell’età moderna. L’integrazione progressiva dei grandi centri meso e sudamericani sposta, è vero, la bussola delle economie centrali verso l’Europa del Nord, ma non per questo il Mediterraneo viene dimenticato. Ne è una prova l’ingresso nel mare della potenza mondiale emergente, l’Inghilterra (e in secondo piano l’Olanda) che provvede a mantenere buoni livelli di integrazione mondiale, lasciando ai soggetti locali il compito di gestire scambi, e, in progressiva alleanza con l’impero turco, a regolarne le questioni interne.

Sul finire dell’Ottocento, il taglio del canale di Suez e la navigazione a vapore, nonché la scoperta delle immense riserve energetiche mediorientali, restituiscono al Mediterraneo un posto centrale: è questa la storia che ci racconta Mostafà Hassani Idrissi, nella sua lezione introduttiva al Dossier. Le due porte – Gibilterra e Suez – lo aprono all’Atlantico e all’Indiano e, attraverso questo, al Pacifico. Il Mediterraneo cambia ruolo. Con un gioco di parole potremmo dire che da “mare in mezzo alle terre” diventa un “mare in mezzo agli oceani”. Questa rivoluzione segna la fine del co-gestore del mare, quell’Impero turco, del quale le nazione europee decretano la malattia e promuovono la scomparsa. Il grande bacino interno diventa uno spazio che va gestito direttamente. La Prima guerra mondiale, che nell’immaginario prevalente è ormai quasi solo guerra di trincea (di terra, dunque), scoppia per una scintilla mediterranea (Sarajevo è in una delle sue grandi tre penisole) e vede, alla sua conclusione, il raggiungimento di uno dei suoi scopi principali: la spartizione delle spoglie dell’impero turco. In pratica, tutta la riva meridionale del mare.

Il mediterraneo contemporaneo

Alla fine della Prima guerra mondiale, quindi, il Mediterraneo assume una forma a noi nota. L’Europa si configura come il Nord dominante e le coste musulmane come il Sud dominato, con l’unica eccezione della neonata Repubblica turca. E’ la storia della colonizzazione-decolonizzazione, della quale, nelle versioni più diffuse del curricolo, si dà un certo spazio alla vicenda mondiale (africana e asiatica), mentre si attribuisce un ruolo minore a quella mediterranea. La stessa colonizzazione libica è raccontata come esordio conquistatore della “grande proletaria”, con qualche cenno alla repressione fascista, mentre non si cita neppure la storia, complicata e torbida, della sua decolonizzazione. Seguendo il filo del discorso di Labanca, invece, scopriamo la centralità della colonizzazione/decolonizzazione mediterranea, sia dal punto di vista della storia mondiale, sia da quello più particolare europeo e italiano.

La parola chiave è “colonizzazione tardiva”. Gli stati europei cominciano a considerare la sponda sud del mediterrano come terra di conquista, proprio mentre si formano i movimenti rivoluzionari che portano all’indipendenza delle colonie più antiche; e la colonizzazione del mare viene compiuta proprio mentre in Europa si producono e si insegnano teorie rivoluzionarie, delle liberazioni individuali, sociali e nazionali.

Accade così che le popolazioni del Sud si vedano progressivamente private della libertà, a volte dei territori, confinate in un ruolo di soggezione, in un mondo nel quale questo stato viene dichiarato illegale e inumano. Partecipano alla Prima guerra, che premia la dottrina Wilson, contraria a qualsiasi colonizzazione; e alla Seconda, combattuta dagli Alleati in nome della liberazione contro le dittature. Ma, a Sétif, quell’8 maggio del 1945 nel quale la guerra finiva in Europa, gli algerini scoprirono dolorosamente che “il Nord” non era affatto disposto a riconoscere loro quei diritti, per i quali decine di migliaia di loro connazionali erano caduti in battaglia.

Nello studio corrente della storia si sorvola su un fatto decisivo per la comprensione delle turbolenze attuali, e cioè che il processo di decolonizzazione dei territori musulmani è stato “più che tardivo”. Esso inizia , appunto, con i tragici eventi di Sétif e prosegue fino agli anni ‘70, a volte con trattative faticose ma tutto sommato pacifiche (come nel caso della Tunisia e del Marocco); a volte con guerre crudeli, come nel caso dell’Algeria; a volte con un andamento contorto e sottotraccia, come nel caso della Libia; a volte lasciando strascichi di odio o elaborando soluzioni abborracciate, autentici esplosivi a orologeria, come nel caso delle regioni mediorientali. Quasi ovunque, questo processo si matura dentro un risentimento, generato dalla convinzione, che si fa sempre più solida col passare del tempo, che il Nord abbia riservato al Sud musulmano un trattamento particolarmente ingiusto e sfavorevole.

Mentre molti leader della decolonizzazione studiano nelle università europee, dove si sono spesso imbevuti di teorie rivoluzionarie, altri si formano in loco, e costruiscono organizzazioni e strutture dal carattere molto diverso. E’ il processo di diffusione nell’area delle teorie e delle pratiche del fascismo – realtà essa stessa mediterranea – , messo in luce da Giulia Albanese in questo Dossier. Anche di questo si parla poco nei nostri manuali, dal momento che si preferisce il contemporaneo espandersi delle teorie autoritarie nel continente europeo. Viene così a mancare, per la comprensione dell’attualità, un tassello fondamentale, quello della conversione all’autoritarismo di quote notevoli delle élites, politiche e religiose, del mondo islamico: un fenomeno che è collegato – insieme con altri fattori, quali la perdita di appeal delle ideologie della liberazione novecentesche e le dinamiche interne del variegato mondo arabo-musulmano – con la torsione dittatoriale della maggior parte dei nuovi governi dell’area.

E’ in questo magma che, nei tempi recentissimi, si sono svolte quelle che abbiamo chiamato “le primavere arabe”. Una definizione tutta occidentale e autoassolutoria. E’ come se si fosse esclamato, nel dibattito pubblico europeo: “finalmente il mondo musulmano ha trovato la sua strada verso i valori della libertà!”, i “valori-bandiera” dell’Occidente. Della complessità, invece, di queste rivolte ci ha parlato Leila El Houssi, con particolare attenzione alla questione femminile. Dal punto di vista del Nord, il bilancio appare poco positivo. Solo in alcuni casi, come la Tunisia (peraltro particolarmente studiata da El Houssi), si sono riaffermati principi di laicità e di democrazia. Dal punto di vista settentrionale, la “colpa” di queste mancate realizzazioni viene addossata ai tempi lunghi della religione, di un Mediterraneo dilaniato da crociati e corsari, quando non ai caratteri intemporali della “mediterraneità”. La ricostruzione della vicenda contemporanea, come abbiamo visto, focalizza la nostra attenzione sulle responsabilità enormi dell’Europa. Ci sono dunque responsabilità recenti, per nulla riconosciute proprio da quegli Stati europei che intervengono nell’area, affermandosi come portatori dei valori della convivenza civile, della libertà, della giustizia economica. Un’affermazione che trova il suo brodo di cultura nell’assenza generalizzata di conoscenze sulla storia del Mediterraneo contemporaneo.

Un tema e un metodo di studio

Il Mediterraneo contemporaneo. Un altro “contenuto” da aggiungere a un programma già fin troppo affollato di suo? E’ questo l’argomento principe che viene avanzato ad ogni nuova proposta e che, in genere, ottiene i suoi scopi: quello di considerare il nuovo come “bello e impossibile”, e, di conseguenza, quello di tenere in vita l’assetto tradizionale degli studi. Si approfondisce, in questo modo, il divario che, da una parte, separa la ricerca dalla storia insegnata, e, dall’altra, scava un baratro fra l’urgenza formativa degli allievi (orientarsi nel mondo contemporaneo) e le esigue possibilità interpretative di un racconto storico ormai asfittico. Si dovrebbe, invece, partire dalla premessa scontata che le “degnità storiche”, quei contenuti che ritieniamo come imprescindibili, in molti casi lo sono soltanto alla luce del vecchio paradigma ottocentesco. E questo, se produce inevitabilmente un po’ di angoscia nell’insegnante, dovrebbe, per converso, renderlo più sensibile a quelle revisioni che si sforzano di di tenere in conto non solo il punto di vista nord-europeo.

Ma, più concretamente, questo Dossier propone un materiale facilmente gestibile anche in un assetto normale degli studi. La tecnica suggerita, infatti, è quella di alternare dei grandi quadri concettuali (Il Mediterraneo nello spazio mondiale; la Colonizzazione-Decolonizzazione; l’opposizione Democrazia-Dittatura), che peraltro possono essere tranquillamente inseriti in un programma tradizionale, con dei momenti di approfondimento che abbiamo denominato “studi di caso”. Nel dossier ne vengono presentati una decina. Un numero sufficiente per permettere al docente di scegliere con libertà quello, o quelli, da inserire nella sua programmazione. A differenza del laboratorio, uno studio di caso (come abbiamo spiegato in un altro articolo apparso su questa rivista) è un percorso operativo breve, che mette a contatto i ragazzi con i documenti e consente di affrontare dei problemi storici in modo partecipato. Giocando, perciò, con tecniche di comunicazione tradizionali (la lezione) e coinvolgenti, il docente può colmare una lacuna conoscitiva che, se hanno qualche credibilità le ragioni esposte sopra, rischia di avere un potente effetto negativo nel dibattito pubblico europeo e italiano e nel nostro atteggiamento nei confronti di un Altro, scritto sempre con la maiuscola perché, avendo perso i connotati della storicità, è diventato un simbolo dell’arretratezza, come il Mare, lungo le cui sponde vive.

 

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Dati articolo

Autore:
Titolo: Insegnare il Mediterraneo contemporaneo
DOI: 10.12977/nov65
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n. 4, giugno 2015
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Insegnare il Mediterraneo contemporaneo, Novecento.org, n. 4, giugno 2015. DOI: 10.12977/nov65

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