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Per un racconto pubblico del colonialismo italiano in Etiopia. “Scenografie coloniali” a Torino

Per un racconto pubblico del colonialismo italiano in Etiopia. “Scenografie coloniali” a Torino

Foto conservata presso l’Archivio Istoreto, fondo Memorie Coloniali

Abstract

Un elemento importante nel mancato processo di riconoscimento dell’esperienza del colonialismo italiano e di quanto sia falso il mito degli “italiani brava gente” riguarda il fatto che l’immaginario collettivo è stato influenzato nella semplificazione, distorsione o rimozione anche da esperienze individuali o familiari, che hanno a che fare con l’essere cittadini di un’ex potenza imperiale. Quella italiana è stata un’esperienza collettiva che ha visto moltissimi italiani (e in minor parte italiane) partecipare direttamente all’impresa coloniale e ha conservato e trasmesso segni opachi del vissuto in fotografie o cimeli di famiglia che rientrano nel racconto bio-mitologico che viene fatto delle vite dei nonni o dei bisnonni, e che in quanto tale interessa la storicità interrogandola da un punto di vista mai neutrale perché filtrato da un approccio affettivo. Quando ci sono, si tratta di rappresentazioni opache, frammentate, lacunose o risignificate in cui ogni scomodità o difficoltà connessa alla violenza viene di norma ulteriormente rielaborata. Da questo scarto e dal disagio di confrontarsi con la scomodità di ogni memoria nasce la mostra Scenografie coloniali. FIAT 333NM di Eleonora Roaro, a cura di Enrico Manera, Roberto Mastroianni e Chiara Miranda e proposta dal Museo diffuso della Resistenza di Torino.

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Uscire dell’invisibilità

Non lo si si ripeterà mai abbastanza. Il colonialismo italiano è un fenomeno storico a lungo rimosso dalla memoria pubblica. A dispetto di una storiografia importante e matura, per lungo tempo il colonialismo liberale e giolittiano e l’imperialismo fascista in Africa settentrionale e orientale (Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia), nei Balcani, nel Mediterraneo e nell’Egeo, hanno avuto scarsa rappresentazione e hanno occupato poco spazio nella percezione storica della memoria pubblica e in particolare il loro portato di violenza connotata in senso razzista non è stato recepito adeguatamente, per non dire che è completamente ignorato in vasti segmenti sociali e generazionali della popolazione italiana.

La repressione delle popolazioni civili nei territori invasi è stata durissima, fin dalla fine del XIX secolo e l’intensità della violenza ha raggiunto il culmine con l’invasione dell’Etiopia nel 1935 e la militarizzazione del Corno d’Africa; insieme allo sfruttamento delle risorse e al progetto di distruzione sistematica delle culture locali, sono documentati l’esistenza di un sistema di sfruttamento sessuale, la presenza di campi di concentramento e l’uso di armi non convenzionali, come i gas tossici, nei confronti dei civili. In questo senso, affrontare la storia del colonialismo in epoca di tarda globalizzazione significa non solo approfondire una pagina poco frequentata della storia di Italia ma anche promuovere l’educazione alla cittadinanza democratica, mostrando come la cultura diffusa e le politiche internazionali fossero intrise di razzismo scientifico e di un pregiudizio eurocentrico, decisamente incompatibili con le linee guida della politica di una società e di un ordine internazionale democratici.

La violenza coloniale esercitata nei contesti extraeuropei è stata uno dei prodromi della violenza politica e razzista del Novecento in Europa: le colonie sono state uno dei luoghi di incubazione dell’internamento dei civili e degli eccidi di massa che trovano il loro apice nel sistema concentrazionario e sterminazionista nazista nel cuore della Seconda guerra mondiale. La legislazione razzista dell’Africa Orientale Italiana del 1937 e le leggi antiebraiche del 1938 hanno comune matrice giuridica e culturale e mostrano una stretta connessione con l’ideologia coloniale del fascismo bellicista che ha preparato l’occupazione dell’Etiopia del 1935: l’imperialismo e la colonizzazione, declinati nei rapporti internazionali e nei progetti economici e demografici, sono aspetti di un modo di intendere l’“uomo nuovo fascista” che collega la “chiara coscienza razziale” alle cultura patriarcale, alla pianificazione demografica e alla sottomissione del genere femminile progettata dal fascismo in vista della guerra mondiale.[1]

Alla luce di questi elementi, la critica post-coloniale induce a ritenere che più che di una semplice rimozione del progetto coloniale si debba parlare della costruzione di un silenzio attorno alla sua realizzazione nei suoi aspetti più minuti e quotidiani: più che di un processo inconscio paragonabile a quello che riguarda la memoria individuale dal punto di vista psicanalisi, la mancanza nella memoria pubblica di una presa d’atto della responsabilità politica dell’Italia nel colonialismo tra Otto e Novecento deve essere dunque inteso come un processo in cui la violenza coloniale è stata silenziata e invisibilizzata (e in alcuni ambiti o episodi esplicitamente negata) in favore di una visione edulcorata e pacificata che – ripetendo il punto di vista coloniale – ha voluto solo trasmettere l’idea di una missione civilizzatrice o di progresso portata dalla “civiltà bianca” al resto del mondo.

Questa sistema costruzione ideologica ha inteso occultare un tema macroscopico che ha che fare con uno Stato i cui militari hanno commesso pesantissimi crimini di guerra, senza ammetterlo e scegliendo una rappresentazione di sé che ha i tratti del vittimismo e della colpevolizzazione di altri: in particolare nel caso italiano, l’efferatezza dei crimini di guerra commessi durante la seconda guerra mondiale dalla Germania ha permesso di utilizzare l’immagine del “cattivo tedesco” per minimizzare le colpe dell’Italia fascista e dell’esercito regio, in particolare nell’ambito coloniale e imperialista.[2]

Mentre in diversi paesi europei le dinamiche generate dal colonialismo sono da tempo oggetto di studio e dibattito pubblico, in Italia si fatica non solo a “fare i conti” con il passato coloniale ma banalmente anche a conoscerlo. Nel migliore dei casi poi la violenza coloniale sembra essere identificata con il solo imperialismo fascista, come se il tema fosse una specificazione dell’antifascismo e non un qualcosa che a fare con la storia militare, economica e sociale della nazione fin dai tempi dei suoi esordi nel XIX secolo. È chiaro invece come l’immaginario razzista e coloniale sia parte integrante di una storia culturale che ha radici profonde e antiche ed è all’origine di stereotipi ancora viventi e operanti nella società contemporanea.[3]

 

Memorie dal basso

Un elemento importante nel mancato processo di riconoscimento di quanto sia falso il mito degli “italiani brava gente” – presunti protagonisti di una colonizzazione più umana e bonaria rispetto a quello di altri stati europei – riguarda il fatto che l’immaginario collettivo è stato influenzato nella semplificazione, distorsione o rimozione anche da esperienze individuali o familiari, che hanno a che fare con l’essere cittadini di un’ex potenza imperiale. Quella italiana è stata un’esperienza collettiva che ha visto moltissimi italiani (e in minor parte italiane) partecipare direttamente all’impresa coloniale e ha conservato e trasmesso segni opachi del vissuto in fotografie o cimeli di famiglia che rientrano nel racconto bio-mitologico che viene fatto delle vite dei nonni o dei bisnonni, e che in quanto tale interessa la storicità interrogandola da un punto di vista mai neutrale perché filtrato da un approccio affettivo. Quando ci sono, si tratta di rappresentazioni opache, frammentate, lacunose o risignificate in cui ogni scomodità o difficoltà connessa alla violenza – già preventivamente obliterata dai testimoni diretti – viene di norma ulteriormente rielaborata. Da questo scarto e dal disagio di confrontarsi con la scomodità di ogni memoria nasce la mostra Scenografie coloniali. FIAT 333NM di Eleonora Roaro (a cura di Enrico Manera, Roberto Mastroianni e Chiara Miranda) proposta dal Museo diffuso della Resistenza di Torino.[4] Si tratta di una mostra artistica e storica che è nata attorno all’installazione di una giovane artista italiana che ha inteso sollevare il tema dei “conti con il passato” attraverso la propria storia familiare, riarticolando fotografie casualmente ritrovate e di difficile constestualizzazione e riorganizzandole in modo spaesante in una esperienza visiva e sonora al tempo stesso, ispirata a una visione caleidoscopica.

L’installazione di Roaro riutilizza immagini di persone, oggetti e paesaggi dell’Africa orientale italiana per evocare l’immaginario coloniale a partire da un archivio familiare tramandato, vago e lacunoso e così riproduce intenzionalmente il tratto tipico delle memorie di famiglia (in questo caso legato a un’impresa di autotrasporti), per fare risaltare nel loro stridore con il presente gli aspetti quotidiani e minuti dell’avventura coloniale italiana. L’installazione audio-video intende restituire con il linguaggio artistico la figura del colonizzatore maschio, bianco ed europeo proprio attraverso l’esibizione del legame biografico che lo collega all’artista in relazione alla costruzione di un’immaginaria “scenografia” dell’avventura coloniale e alla sua scarsa leggibilità. L’operazione di arte contemporanea vuole fare risaltare gli aspetti opachi, negati, falsificati e rimossi dell’avventura coloniale italiana per esporli e reindirizzarne il senso: assume così valore civile nell’innescare nello sguardo del pubblico l’avvio di un processo di riflessione, nella misura in cui intende partire dalle tracce ricomposte di un’erede del “colonizzatore” che si mette nella posizione scomoda di chi si interroga sulla storia di famiglia.

Arte e storia

Attorno all’installazione artistica che, per sua stessa natura tende a rivolgersi all’immaginazione, la posta in gioco dell’educazione civile e democratica, in un paese – è bene ricordarlo – attraversato da pulsioni xenofobe e razziste di taglio neo-nazionalista e identitario, ha richiesto che nessuno spazio di ambiguità fosse lasciato nelle intenzione del messaggio: la mostra torinese è stata progettata spazialmente in modo tale che l’installazione risultasse visibile al termine di un percorso di carte geografiche, pannelli di testo e immagini fotografiche (in versione più ridotta in mostra ed estesa nel catalogo), intesi come una cornice storica volta a fornire strumenti di orientamento e approfondimento storico e per problematizzare lo stesso sguardo colonizzatore che in passato si è posato sui “paesaggi” dell’Africa e che rischia ancora oggi di agire nei nostri occhi in virtù della sua semplice riproposizione.

Anche a livello tematico si è voluto sottolineare un aspetto di novità: se i crimini di guerra italiani nelle colonie sono negli ultimi anni al centro di una buona attenzione, almeno delle persone più sensibili alle ragioni della storia pubblica, meno noto è il mondo mentale dei civili. Coloni, funzionari pubblici o privati, lavoratori sono stati i protagonisti di un’emigrazione di popolamento tanto incentivata quanto poco riuscita, in cui è stata decisiva l’asimmetria strutturale dei rapporti tra dominatori e dominati.  Nel 1939 si contavano 165mila civili italiani in Africa orientale italiana, di cui il 48% era in Etiopia, concentrato nell’aree urbane, su una popolazione di 12 milioni di persone[5]; i “bianchi” godevano di status privilegiato da un punto di vista giuridico, sociale e materiale e lo hanno vissuto con la legittimazione fornita dall’alto del potere e di una mentalità eroicizzante e razzialmente inferiorizzante di chi si attribuisce il primato della civiltà e della conoscenza del territorio. Per usare le parole di un gerarca fascista di alto rango come Giuseppe Bottai che, come molti ha raccontato la sua “avventura” in Africa, «non v’è traccia d’uomo; non case, non strade. Siamo i primi lavoratori su questa natura sovrana»[6].

Le immagini di documentazione privata, fondamentali nel creare le memorie di famiglia, tendono a riflettere dal basso questa immagine dall’alto prodotta dalla cultura, testuale e visuale, dell’impero.[7] Nella massiccia propaganda imperiale, il colono doveva essere l’esempio di una generazione nuova, l’avanguardia «della “rivoluzione antropologica” portata avanti dal regime attraverso un profondo processo di educazione e trasformazione della società».[8] Nella realtà materiale e nell’immaginario le strade, simbolo stereotipico del progresso, hanno avuto importanza enorme (con una immagine che è servita anche a cancellare la funzione militare della rete viaria). La rete di comunicazioni stradali e in generale l’infrastrutturazione erano cruciali per il rapido spostamento di truppe e di merci che viaggiavano su autocarri come i Fiat 633, iconici “protagonisti” degli scatti utilizzati per la mostra in cui coloni e colonizzati si mostrano attorno al simbolo della civiltà del motore e del trasporto delle merci. La categoria degli autotrasportatori aveva assunto effettivamente un ruolo privilegiato e inedito al punto che «i “padroncini” […] divennero uno dei simboli dell’Africa orientale italiana».[9] Millesettecento risultavano quelli censiti nel 1937, con un numero analogo a quello dei coloni contadini in Aoi: il camion poteva diventare il simbolo di civiltà, lavoro virile e progresso che riflette l’ideologia coloniale elaborata e costruita nel racconto pubblico, fatta di «esuberanza di braccia e disoccupazione», «popolamento proletario», «volto umano e benevolo», «opere costruite» e «terreni valorizzati»: «la “grande proletaria” di Pascoli e l’ “impero del lavoro” di Mussolini si erano ormai saldati entro un nuovo edificio ideologico, costruito con impegno dalla propaganda fascista, e destinato a sopravvivere al regime».[10]

Tra i testi che accompagnano la mostra[11] il saggio di Micaela Veronesi mette a tema il problema della riproducibilità delle immagini di provenienza coloniale: si tratta di scatti la cui leggibilità non può essere mai innocente perché sono riflessi della cultura dell’epoca e hanno avuto un ruolo attivo nella costruzione dell’immaginario, in quanto tali in grado ancora oggi di rimettere in circolo stereotipi razzializzanti e inferiorizzanti attorno all’etnia, al genere e all’identità.

Escludendo beninteso le immagini oscene di violenza, di sopraffazione e dei resti umani delle stragi, è il gesto stesso del fotografo a essere uno sguardo di rapina e conquista, che mette l’oggetto in posa dell’immagine in una posizione subalterna, tanto più forte quanto meno è diffusa la cultura visuale del soggetto che verrà rappresentato nei termini di un souvenir e in quanto tale reificato. In un romanzo importante per raccontare colonialismo come Il re ombra di Maaza Mengiste figura tra i personaggi proprio un fotografo – in questo caso un militare dell’esercito italiano: i suoi scatti sulle donne e sulle guerriere etiopi prigioniere sono cruciali nella narrazione e le fotografie (che in quanto tali non ci sono ma sono dipinte verbalmente) assumono un ruolo centrale nel racconto della scrittrice afrodiscendente[12].

Le immagini di provenienza coloniale usate nella mostra, che si è scelto di mostrare per il loro implicito valore di denuncia se si coglie il rovesciamento del segno della loro apparente normalità pacificata (e che nel catalogo sono affiancate a materiali visivi di propaganda appartenenti ad archivi di storia del fascismo), restituiscono – se guardate correttamente – il decentramento e la marginalizzazione del soggetto del rapporto di subordinazione. Come scrive Veronesi, poiché «le stesse foto rivelano una coesistenza gerarchizzata […], occorre quindi esercitare un ribaltamento del punto di vista. Mettersi dall’altra parte e vedere noi stessi mentre guardiamo le immagini, rovesciare il nostro modo abituale di guardare per aderire a una nuova più umana modalità di visione, una visione con. Occorre disimparare le categorie del “normale”, dell’abitudinario, del consueto. Le immagini coloniali […] ci guardano e ci rimandano occhi che ci interpellano e ci chiedono di restituire loro giustizia e dignità, ma soprattutto domandano di essere riconosciuti e di riconoscerci in loro».[13]

Incorporata per il periodo del suo allestimento nel percorso del Museo diffuso della Resistenza,[14] la mostra è stata pensata per esercitare una duplice funzione pedagogica, rivolta da un lato verso il colonialismo e i suoi aspetti meno noti e dall’altro verso la sensibilizzazione all’etica dello sguardo, con una prospettiva che si rende sempre più necessaria in una società segnata dall’inflazione di immagini correlata a una sempre più diffusa incapacità di leggerle come traccia di storia e come segno artistico. Chiedere di ragionare visivamente sull’immaginario del colonialismo e di rendere l’occhio più sensibile è parte di un processo di riconoscimento necessario per fare riapparire ciò che della storia è stato invisibilizzato: su tutto manca infatti la consapevolezza di quanto ancora impregnato di dominio sia lo sguardo maschile bianco che da secoli scambia e spaccia il proprio idioma per la forma universale dello spirito umano.


Note:

[1] https://www.youtube.com/watch?v=IsoQdrnKDK4

[2] F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari 2013.

[3] E. Castelli, D. Laurenzi (a cura di), Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2000; F. Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade, Bollati Boringhieri, Torino 2021; F. Falloppa Etiope, Sbiancare un etiope, Utet, Torino 2022.

[4] La mostra è stata allestita a Torino dal 30 settembre al 20 novembre 2022: https://www.museodiffusotorino.it/news/7035/“scenografie-coloniali-fiat-633nm-di-eleonora-roaro”)

[5] G. P. Calchi Novati, L’Africa d’Italia, Carocci,  Roma 2019, p. 199.

[6] G. Bottai, Quaderno africano, Firenze , Sansoni 1939, p. 53.

[7] L. Aquarelli, Il fascismo e l’immagine dell’impero, Donzelli, Roma 2022.

[8] V. Deplano, L’Africa in casa. Propaganda e culturala coloniale nell’Italia fascista, Mondadori, Milano 2015, p. 20.

[9] P. Bertella Farinetti, Sognando l’impero, Modena-Addis Abeba, Mimesis, 2007,  pp. 171-174

[10] E. Ertola, Il colonialismo degli italiani, Carocci, Roma 2022, p. 129.

[11] E. Manera, R. Mastroianni, C. Miranda (a cura di), Scenografie coloniali. FIAT 333NM di Eleonora Roaro, Prinp, Torino 2022.

[12] https://www.doppiozero.com/maaza-mengiste-il-re-ombra ; Si veda inoltre lo specifico progetto visivo: https://www.project3541.com/it/

[13] M. Veronesi, Lo sguardo e il possesso. La violenza implicita nelle fotografie coloniali, in Scenografie coloniali. FIAT 333NM di Eleonora Roaro, cit., pp. 67-72, p. 72.

[14] https://www.museodiffusotorino.it

Dati articolo

Autore:
Titolo: Per un racconto pubblico del colonialismo italiano in Etiopia. “Scenografie coloniali” a Torino
DOI: 10.52056/9791254693872/13
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Per un racconto pubblico del colonialismo italiano in Etiopia. “Scenografie coloniali” a Torino, Novecento.org, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/13

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