Select Page

Li chiamavano banditi. Raccontare la Resistenza nelle scuole del primo ciclo

Li chiamavano banditi. Raccontare la Resistenza nelle scuole del primo ciclo

Fotografia della strage di Fondotoce

Abstract

In questo articolo si descrivono attività didattiche sulla Resistenza rivolte a studenti del primo ciclo. Si tratta in particolare di due attività, che riflettono sui modi di raccontare la Resistenza: una incentrata sulla lettura guidata di testi di narrativa per ragazzi, in particolare di Guido Petter, relativi al tema della Resistenza; l’altra è un confronto tra alcune esperienze di scrittura tratte da un giornale clandestino, facilmente reperibile online sulla Banca dati dell’Istituto Parri Stampa clandestina e la descrizione di come tale giornale fu pensato e realizzato dal suo fondatore, Guido Petter, attraverso le parole con cui egli stesso lo descrisse in uno dei suoi libri per ragazzi sull’esperienza resistenziale.

Parlare di Resistenza nel primo ciclo

Da diversi anni, nell’ambito delle attività didattiche sul tema della Resistenza, l’Istituto Storico Piero Fornara propone per gli studenti del primo ciclo percorsi e laboratori di lettura di narrativa resistenziale per ragazzi. Uno spazio piuttosto ampio e di elezione in queste attività è quello che viene dedicato ai libri e alla figura di Guido Petter.

La realizzazione di percorsi di approfondimento del periodo resistenziale in classi in cui non sempre questo momento storico rientra nel “programma” attraverso la lettura di testi di narrativa per ragazzi e l’analisi della stampa clandestina è stata avviata per rispondere alla domanda delle scuole, che desideravano introdurre il tema per rendere più consapevoli i bambini e i ragazzi chiamati a partecipare alle commemorazioni pubbliche.

I percorsi sono accompagnati, in ogni caso in cui è possibile, dal confronto con tutte le altre fonti disponibili, comprese banche dati e filmati.

La loro formalizzazione, avviata una decina di anni fa, sta divenendo sempre più importante, in ragione anche del venir meno, per ragioni anagrafiche, della possibilità di far incontrare ai bambini i protagonisti della Resistenza. Gli incontri con i testimoni permettevano di definire molti degli aspetti del movimento resistenziale che si vanno ora ricercando nei testi che alcuni dei protagonisti hanno lasciato o in quelli che, sulla base della loro esperienza, importanti scrittori per ragazzi in anni recenti hanno iniziato a comporre[1].

Potenzialità dell’utilizzo di fonti narrative per la conoscenza di luoghi ed eventi legati alla Resistenza nel territorio

Le fonti narrative sono spesso utilizzate in ambito scolastico come introduzione ad un particolare argomento e questo approccio può essere utile anche nello studio della storia contemporanea. Una delle finalità del lavoro in classe descritto in questo articolo è quella di portare studentesse e studenti alla piena comprensione di fatti storici svoltisi sul loro territorio. Vengono utilizzati, durante la lettura collettiva, brani in cui i luoghi sono descritti con precisione tale da poter essere individuati dai ragazzi e raffrontati con il paesaggio attuale. Ad esempio, l’apertura del romanzo di Petter Che importa se ci chiaman banditi offre subito una referenza paesaggistica inconfondibile per chi abita sul Lago Maggiore:

Il treno si muoveva lentamente nella notte, trainato da una piccola locomotiva a carbone, non abbastanza potente per un così lungo convoglio. Era formato in gran parte da carri-bestiame, carichi di operai o di sfollati che rientravano da Milano e avevano dovuto traghettare il Ticino sui barconi. Da mesi il ponte ferroviario di Sesto Calende era crollato sotto i bombardamenti.[2]

Il protagonista sta raggiungendo la zona del Vergante, Piemonte, da Milano, perché vuole aggregarsi ai partigiani che sa essere lì presenti. Chiunque abiti in provincia di Novara ha, almeno una volta, attraversato il ponte ferroviario e automobilistico di Sesto Calende per passare dal Piemonte alla Lombardia. Leggere che il ponte era stato distrutto dalle bombe ci consente di introdurre il contesto storico in cui la Resistenza nasce e si sviluppa in modo non astratto.[3]

In Che importa se ci chiaman banditi, si parla della Repubblica dell’Ossola e, per far capire meglio al protagonista, che non la conosce, la conformazione della zona, il personaggio con cui sta parlando appronta una sorta di carta geografica.

«l’Ossola – gli spiegò Athos – è come un ramo, con tanti rametti a sinistra e a destra. Ma più a sinistra che a destra».
Nel fondo del camino, al di là della fiamma che cominciava ormai ad abbassarsi, giacché non v’era ragione di gettare altra legna data l’imminenza del riposo notturno, stava una grande lastra di ferro, tutta annerita dal fumo. Athos prese un pezzo di legno e tracciò su di essa una linea verticale, che risultò più chiara del fondo.
«Ecco, questa è la Valdossola – disse. Qui in alto – continuò poi – c’è la Svizzera. A sinistra c’è il Monte Rosa, a destra invece c’è una fila di montagne e al di là di queste sta il Lago Maggiore. Capito? Adesso guarda qui: dall’Ossola, come tanti rametti, partono tante valli laterali».
E Athos cominciò a tracciare, a sinistra, partendo dal basso della linea già segnata, quelli che egli aveva chiamato “rametti”. Disegnando quei rami, Athos pronunciava nomi che già erano carichi, per Nemo, di risonanze emotive.
«Questa è la valle Anzasca, sale proprio fin dentro il Monte Rosa. Poi c’è la valle Antrona, e va su fino ai laghi e alle centrali idroelettriche di Antronapiana. Poi c’è la val Bognanco, che sta proprio sopra Domodossola. E qui la Val Divedro, dove c’è la galleria del Sempione. In alto in alto, la valle Antigorio, che poi più su si chiama Formazza, con la cascata del Toce. Il Toce poi è il fiume che attraversa tutta la Valdossola e arriva nel Lago Maggiore»[4]

Nella terza di copertina di questa edizione del libro è pubblicata una cartina dell’Ossola: si potrà notare che non si discosta molto dalla descrizione di Petter[5].

Nei testi di Guido Petter, non è raro trovare descrizioni di questo tipo:

A destra, lontano, brillava l’azzurro del Lago Maggiore, appena velato da un po’ di foschia nella parte più alta, verso la Svizzera. Davanti, si elevavano le cime rocciose e irregolari dei Corni di Nibbio, che nascondevano la Valgrande. Sotto c’era, col Toce che scorreva fra campi e prati, la valle dell’Ossola. E risalendo con lo sguardo si giungeva prima alla punta rocciosa del Migiandone, poi a Piedimulera dove si apriva sulla sinistra la Valle Anzasca, aspra e impervia, che saliva fino a Macugnaga e al Monte Rosa. E il Rosa, quel giorno, era visibile in tutta la sua imponenza: sovrastava con le sue cime, bianco di nevi e solcato verticalmente da canaloni vertiginosi, tutti gli altri monti intorno.[6]

La lettura collettiva di brani scelti può essere utile per indagare altri aspetti della Resistenza: la conformazione del territorio in cui i partigiani operano, il sistema di organizzazione delle bande, il reperimento di cibo, armi, i contatti con i civili. Di solito le tematiche da approfondire sono scelte in anticipo con i docenti che richiedono l’intervento. Più avanti abbiamo esemplificato alcuni di questi temi riprendendoli da quelli approfonditi nei laboratori di lettura svolti nelle classi in passato.

Nella descrizione degli episodi di lotta partigiana o di eccidi, i testi possono essere letti come vere e proprie trascrizioni di testimonianze orali. Per valutare “l’attendibilità” di queste narrazioni si opera, ove possibile, un confronto tra le fonti narrative, le ricostruzioni rintracciabili nelle banche dati come L’atlante delle stragi nazifasciste e i resoconti dei protagonisti. Uno degli episodi ricorrenti nella narrativa di Petter è l’eccidio di Fondotoce, consumatosi nell’omonima località il 20 giugno 1944 e ben scolpito nella memoria degli abitanti del novarese e del VCO: sul luogo in cui avvenne la fucilazione del giugno del 1944 sorgono oggi il Parco della Memoria e la casa della Resistenza, inaugurata nel 1996.

Vediamo come viene narrato in testi diversi.

In Nel rifugio segreto abbiamo questa descrizione:

«E così, a giugno, hanno deciso di stroncarci. Allora di tedeschi ce n’erano tanti, qui, nelle valli. Sono venuti in più di diecimila, nell’Ossola. Hanno circondato tutti i monti della Valgrande, hanno rastrellato per una settimana. Ne hanno uccisi molti, dei nostri, e molti altri li hanno fatti prigionieri. A Fondotoce, li hanno portati». Arianna si fece attenta. Lei aveva già sentito parlare, in quei mesi, di Fondotoce, e di tanti partigiani uccisi, proprio come nei mesi precedenti aveva sentito parlare di Meina, di Baveno, e degli ebrei – uomini, donne e bambini – uccisi e gettati nel lago. Erano paesi che non aveva mai visto, non sapeva nemmeno bene dove stessero, ma i loro nomi si erano legati a immagini di morte, di strage, avevano assunto per lei un colore cupo, un suono sinistro. «Ne hanno presi più di quaranta – diceva ancora Tempesta – Li hanno messi in fila e li hanno fatti camminare lungo la strada del lago, da Intra a Fondotoce, che sono forse dieci o dodici chilometri. Gli hanno fatto portare un cartello su cui c’era scritto che erano dei banditi, in modo da farlo vedere alla gente. E poi, a Fondotoce, li hanno fucilati. […] Tutti tranne uno – continuò Tempesta – È rimasto sotto gli altri, ma solo ferito. E così la gente, alla sera, quando i tedeschi sono andati via, se n’è accorta e lo ha salvato.»[7]

L’episodio di Fondotoce riportato è così in Sempione ‘45:

Qui il lago cominciava a perdere la sua vastità. Le sponde si facevano più vicine, le montagne più erte, e lo specchio d’acqua si trasformava infine in una distesa di canne palustri, nel punto in cui il Toce vi si gettava. Qui cominciava l’Ossola.
Davanti a lui i due ferrovieri avevano intessuto una conversazione rada, di cui gli giungeva solo qualche frammento. Quello che stava seduto nella fila interna, a un certo momento, si piegò in avanti e verso il finestrino indicando all’altro col dito un’ampia spianata. Entrambi guardarono in silenzio quel luogo, che sembrava però deserto e anonimo.
– Ecco, proprio là – disse poi il primo.
– Quaranta, erano?
– Quarantadue. Anzi, quarantatre.
Lui capì subito a che cosa si riferivano. Era accaduto a giugno, quasi un anno prima. Glielo aveva raccontato a Domodossola uno che era riuscito a cavarsela. Il rastrellamento in Valgrande, i prigionieri fatti sfilare lungo la strada, proprio quella strada del lago percorsa dalla corriera, e poi fucilati tutti insieme a Fondotoce. Su quella spianata, dunque.[8]

Infine riportiamo il passo relativo alle fasi immediatamente precedenti la fucilazione presente in La prima stella. Valgrande ’44, volume che Petter dedica nella sua interezza ai fatti svoltisi in Ossola nel giugno del 1944 e nel quale sono numerose le pagine che ruotano intorno all’eccidio:

“Ero in giro per le spese”, iniziò a dire, “quando vedo gente che corre verso il lungolago… “Che c’è” chiedo. “È successo qualcosa?” …“Sembra che i tedeschi abbiano preso dei partigiani” mi dice uno che conosco. “Li tengono lì. Non si sa quanti, andiamo a vedere…” “E allora ho deciso di scendere anch’io..”
“E li hai visti?”
“Si… sul lungolago, sapete, vicino al posto della nostra panchina… Ecco, era un gruppo folto, messi in fila per tre o per quattro… Ma si potevano vedere solo da lontano, perché intorno c’erano dei tedeschi armati che tenevano tutti alla larga… forse per impedire che qualcuno potesse parlare con loro… Insomma, ho potuto vederli solo da lontano”
“Quanti erano?”
“Forse quaranta, o cinquanta…Con le barbe e i capelli lunghi, abiti a brandelli…addirittura qualcuno mi è sembrato a piedi nudi”
“A piedi nudi?”
“Sì, una pena a guardarli…anche perché sembravano sfiniti, abbattuti. Dico “sembravano” perché così da lontano…C’era però un cartello, un grande cartello, che si vedeva bene, si poteva leggere anche da lì dov’ero perché era scritto a lettere tutte maiuscole”.
“Un cartello?”
“Lo tenevano alzato, su due aste, i primi due della fila, uno alto e uno piccolo… E in mezzo a loro, sotto quel cartello, c’era anche una donna, con un fazzoletto sulla testa, e una borsa che teneva con le due mani…”
“E cosa c’era scritto su quel cartello?”

“C’era scritto…era una domanda…”Sono questi i liberatori dell’Italia, o invece sono dei banditi?” Forse non sono proprio le parole esatte, ma il senso era quello…Uno dei tedeschi faceva delle fotografie…Poi, a un certo momento, a un comando, il gruppo si è messo in moto, ha cominciato a sfilare per il lungolago, e i tedeschi che stavano davanti ci hanno allontanato, con gesti sbrigativi, minacciandoci con le armi. E così il gruppo è passato, camminavano stanchi, qualcuno zoppicava…[9]

In questo, come in ogni caso in cui si lavora su episodi ritracciabili in più fonti narrative, queste vengono messe a confronto tra loro e i ragazzi sono poi invitati a cercare se i luoghi descritti sono nel tempo cambiati e se le descrizioni corrispondono tra loro e con le ricostruzioni storiche più accurate[10]. Nel caso dell’eccidio di Fondotoce è possibile utilizzare anche delle fonti video: i primi tre minuti di un documentario di RAIStoria permettono di vedere la piana in cui avvenne la fucilazione prima della costruzione del parco della Memoria che vi sorge attualmente e di ascoltare il racconto dell’unico sopravvissuto[11], Carlo Suzzi, che ha poi testimoniato anche successivamente[12]. Interessante in particolare la testimonianza di Suzzi contenuta ne I granai della memoria: https://www.granaidellamemoria.it/index.php/it/archivi/memorie-di-piemonte/carlo-suzzi.

Prima proposta didattica: il laboratorio di lettura

Il primo livello di lavoro sulla Resistenza proposto alle classi del primo ciclo è un laboratorio di lettura. Poiché si è scelto di lavorare, oltre che su episodi specifici avvenuti nel territorio, per i quali esiste di norma una sola fonte narrativa, anche sulle caratteristiche generali della Resistenza, è parso opportuno avere un ventaglio di testi da analizzare in classe sui temi individuati come importanti a partire dalla ricorrenza delle richieste degli insegnanti. Questo permette un confronto di fonti narrative omogenee per argomento di autori diversi. Allo scopo è stata creata una silloge in cui, per i temi individuati – la propaganda fascista, la guerra vista dai bambini, 25 luglio 1943, 8 settembre 1943, come si diventa partigiano, la scelta del nome partigiano, le donne nella resistenza, la vita da partigiani –, sono stati inseriti stralci da:

  • Nino Chiovini, Valgrande partigiana e dintorni 4 storie di protagonisti
  • Pippo Coppo, Conversazioni sulla guerra partigiana
  • Carlo Costa-Lorenzo Teodonio, Razza partigiana. Storia di Giorgio Marincola 1923-1945
  • Fernando Gattini, Le nostre giornate
  • Vincenzo Grimaldi, Tutti pazzi o tutti eroi
  • Enrico Massara, Mon vieux capitaine
  • Guido Petter, I ragazzi della banda senza nome
  • Guido Petter, Ci chiamavano banditi
  • Fernando Gattini, Le nostre giornate
  • Carlo Torelli, Per un’idea (con la I maiuscola)
  • Guido Weiller, La Bufera[13]

Solo nel caso di Petter si tratta di testi espressamente scritti per ragazzi, di materia prevalentemente autobiografica.[14]

La scelta dell’autore

Guido Petter è nato a Colmegna di Luino (VA) nel 1927 ed ha preso parte, giovanissimo, alla guerra partigiana piemontese con il nome di battaglia di Nemo, frutto, come spiegheremo, di una scelta molto meditata[15]. Nel suo testo autobiografico Che importa se ci chiaman banditi si citano Arona, Borgomanero, Dormelletto, Meina, Invorio, Paruzzaro, località novaresi ben conosciute dai ragazzi delle scuole dell’ambito territoriale del Novarese e Verbanio Cusio Ossola e dove la memoria della Resistenza è ben radicata, elemento che offre occasioni, come sottolineato all’inizio, per coinvolgere le scuole in cerimonie commemorative. In altri romanzi, come Nel rifugio segreto e La prima stella. Valgrande ‘44 sono descritte con precisione le zone della valle dell’Ossola, con riferimenti puntuali a episodi della lotta partigiana ben conosciuti anche dai più giovani, almeno a livello locale.

Molto legato alle zone del Vergante in cui aveva combattuto da antifascista, lo psicologo-partigiano nel dopoguerra ha continuato a frequentarle anche per rendere periodicamente omaggio ai compagni caduti nell’Eccidio di San Marcello del 28 marzo 1945[16].

La scuola secondaria di primo grado di Invorio, in provincia di Novara, è stata dedicata a Guido Petter il 25 marzo 2012, a quasi un anno dalla sua morte verificatasi a seguito di un malore che lo aveva colpito nel corso di un incontro pubblico a Dolo, Venezia, il 24 maggio 2011; proprio questa intitolazione ci ha spinti a creare un percorso che valorizzasse la sua figura. Questa scelta non è dettata solo dal fatto che l’area di competenza territoriale del nostro Istituto comprende le zone in cui egli ha combattuto come partigiano e che vengono descritte con precisione nei suoi testi, ma è stata motivata anche dall’età del giovane partigiano e dalle caratteristiche della sua produzione per ragazzi sull’esperienza resistenziale.

Caratteristiche della produzione petteriana

Nell’aprile del 1976 esce per Giunti Marzocco il romanzo Che importa se ci chiaman banditi, di Guido Petter, scritto in realtà nel decennio precedente. L’autore introduce così il suo lavoro nella prefazione:

Il racconto che segue riflette i caratteri essenziali di un’esperienza realmente compiuta, narra eventi che sono tutti accaduti, più di trent’anni fa.
Il tempo trascorso ha però cancellato dalla mia memoria molti nomi, tolto precisione a molti particolari e scompigliato un po’ il filo che collegava gli uni agli altri i singoli fatti (escludendo così anche la possibilità di dare alla narrazione la forma di un diario).
Sarebbe dunque vano, al di là della fondamentale veridicità dei singoli episodi qui descritti, attendersi in ogni pagina corrispondenze DI DETTAGLIO con la realtà, o cercare di individuare tutte le persone che stanno, o stavano, dietro i personaggi che qui prendono vita.

Il testo racconta la vicenda di uno studente diciassettenne che, partito da Milano, nell’inverno 1944-45

si unisce ad un gruppo di partigiani sul lago d’Orta. Nelle marce notturne, nelle soste ai cascinali, nei combattimenti, scopre poco per volta i vari aspetti di quella vita, le diverse personalità dei compagni, il legame profondo con la popolazione. E vive con intensità i grandi problemi della scelta dei valori essenziali, della responsabilità e della paura, della violenza e della morte, costruendo sé stesso a contatto con una realtà che non concede tregua.[17]

La narrazione, pur in gran parte autobiografica, è in terza persona. Petter parlerà in proposito di “diario in terza persona”. Uno stile adottato anche in altri suoi testi, che poi verrà modificato nell’edizione successiva del 2008 quando il titolo diventa Ci chiamavano banditi. Nella prefazione di quell’edizione Petter spiega il motivo della variazione:

Questo libro è già apparso nel 1978, col titolo Che importa se ci chiamano banditi, titolo che riprendeva il primo verso di una canzone partigiana ossolana. Aveva però la forma di un racconto, e benché io avessi precisato nella premessa che si trattava di una sorta di “diario in terza persona” in cui erano descritti fatti tutti realmente accaduti, fu in genere considerato dai miei lettori (e soprattutto dai più giovani) come un romanzo, ispirato alla guerra partigiana ma anche aperto, come accade appunto nei romanzi, all’invenzione fantastica.
Ho dunque ritenuto giusto, per rendere più evidente il carattere di piena realtà dei fatti narrati eliminare ogni possibilità di fraintendimento, procedere a una sua riscrittura, passando dalla terza alla prima persona, e dall’uso del passato a quello del presente. Il testo ha assunto così la forma evidente di “diario” (benché non sia stato scritto in quei giorni, come risulta del resto anche dalla mancanza di date), ma solo qualche anno dopo.[18]

In un caso, Petter ha accompagnato il suo testo ad un apparato didattico che è stato la fonte di ispirazione per la costruzione della silloge di fonti narrative e documentali con cui accompagniamo il laboratorio di lettura: l’edizione scolastica di Sempione ’45 della Loescher, dimostra l’attenzione che Petter dedica alla stesura di questi testi, ma anche le difficoltà di interpretazione e decodifica cui possono andare incontro i giovani lettori. Stimolato dalle domande portegli nei numerosi incontri di presentazione nelle scuole da parte dei ragazzi, inserisce documenti, cartine e un contesto storico sulla Resistenza di cui ritiene i ragazzi abbiano necessità per affrontare la lettura.

e pagine di questo autore, accanto ad altre tratte da testi di altri autori sul tema della Resistenza per ragazzi di recente produzione, e alla silloge sopra descritta, costituiscono il materiale di partenza per percorsi di lettura che vanno ad indagare da diversi punti di vista il tema della Resistenza[19].

Uso dei testi nel laboratorio di lettura in classe

Con un brainstorming, all’inizio del primo dei due incontri previsti dal percorso, si chiede ai ragazzi che cosa sanno/pensano della Resistenza, delle persone che vi presero parte, del periodo e dei luoghi in cui si svolse e si raccolgono le diverse risposte. Senza esprimere giudizi su quanto emerso, dopo una breve introduzione storica viene poi proposta alla classe la lettura collettiva di brani già individuati per spiegare gradualmente in cosa consisteva una banda, come vi si arrivava, con quali passaggi maturava la scelta, come si viveva la clandestinità, quali erano le difficoltà. Quando alcune tematiche che si ritiene indispensabile trattare non sono emergono in modo spontaneo, vengono introdotte con una spiegazione della loro rilevanza.

Si leggono quindi brani selezionati con una scelta antologica, concentrandosi in genere su uno o due argomenti rintracciabili nei libri di Petter integrati con brani da altri testi: la lettura integrale dei romanzi per poter ritrovare tutte le tematiche citate viene lasciata ai singoli studenti nell’intervallo di tempo che trascorre tra i due incontri con l’esperto previsti dal progetto.

Un esempio di lavoro su una tematica emersa: la scelta del nome di battaglia

Capita spesso che nel brainstorming i ragazzi segnalino che i partigiani avevano un nome di battaglia. Partendo da questa osservazione, si illustrano le ragioni che stanno alla base di questa necessità e si leggono diversi brani di differenti autori su questo tema. Poiché in Che importa se ci chiaman banditi Petter dedica parecchie pagine alla scelta e alle difficoltà che essa implica, questo brano viene letto per ultimo, dopo avere spiegato ai ragazzi che alcuni compagni di banda hanno assegnato a Renato, il protagonista del romanzo, il nome di “Provvisorio” non senza averlo avvisato che, se non vuole che “Provvisorio” gli resti appiccicato per sempre, deve trovarsi in fretta un altro nome di battaglia.

Riportiamo il brano nella sua quasi integrità.

Ma come! [pensa Renato] In un mondo di Mitra, Fulgori, Folgori, Frecce, Tigri e D’Artagnan, e, sia pure ad una tonalità minore e più umana, di Nuvole, Primule, Barbe e Barbis, un Provvisorio! Sentiva qualcosa rimescolarglisi dentro, un’insofferenza, un’urgenza che non gli lasciava prendere sonno, e si sentiva arrossire di vergogna sotto la coperta tirata fin sul naso. Guai se avessero continuato a chiamarlo così anche il giorno dopo, era già in ritardo.[20]

Renato si sforza di trovare un nome «robusto» e che cancelli «via l’altro, come una gomma d’inchiostro cancella un brutto errore d’ortografia»[21].

Dopo avere passato in rassegna diverse possibilità e averne valutato i pro e i contro, (nomi già presenti nel gruppo, ambigui, semplici, da riservare al capo), Renato si convince che il nome di battaglia «dovrebbe servire a dissimulare, a far apparire come normale qualcosa che invece è pieno di forza, una forza di cui nessuno si accorge e che si rivela solo nel momento cruciale».[22]

Queste parole sono molto efficaci nello spiegare ai ragazzi con quali ideali ed aspettative ragazzi poco più grandi di loro hanno aderito alla Resistenza.

Ma la scelta di Renato non è ancora conclusa. Nelle pagine seguenti intervengono in soccorso del ragazzo i ricordi scolastici e su tutti svetta quello di Ulisse nella scena in cui insieme a Menelao va a chiedere la restituzione di Elena ai Troiani prima dello scoppio della guerra di Troia. È in quel momento, infatti, che colui che sembrava piccolo e impacciato si rivela un grande oratore. Il giovane Petter-Renato immagina che l’effetto che deve fare un nome di battaglia sia esattamente quello suscitato dal discorso di Ulisse, ma immagina anche che non sarà certamente lui l’unica persona cui è venuto in mente di chiamarsi con il nome dell’eroe omerico. Ricorriamo di nuovo alle parole dell’autore.

Gli venne allora in mente che anche Ulisse si era inventato un “nome di battaglia”, per difendersi dal Ciclope. Aveva detto di chiamarsi “Nessuno”, quasi per farsi piccolo piccolo, per annullarsi all’occhio rotondo del gigante, ma poi il Ciclope si era ben dovuto accorgere di chi era questo “Nessuno”, quando gli aveva infilato nell’occhio il palo infuocato. Certo -meditava Renato – non posso farmi chiamare “Nessuno”, il Rosso si schianterebbe dalle risate…
A questo punto egli si fece però più attento, sentiva di essere vicino a qualcosa che poteva andar bene. Con gli occhi fissi al soffitto sul quale le ombre andavano attenuandosi col morire della fiamma, inseguiva un’idea che aveva appena intravisto. Ma sì…”Nessuno” in latino si dice “Nemo” e Nemo è un nome, o almeno assomiglia a un nome. E qualche altro lo aveva già preso, dopo Ulisse: il Capitano Nemo, il misterioso comandante del sottomarino di “Ventimila leghe sotto i mari”. […] Dopo Ulisse – ragionò Renato – che è stato il “Nemo numero uno” è venuto il Capitano Nemo, che possiamo allora considerare come il “Nemo due”. Perché non potrei, io, essere “Nemo tre?”. Sembra un nome da niente, quasi una sigla, e invece quanta roba c’è dietro. Un altro Nemo-tre, nel battaglione, non c’è di sicuro.[23]
Ebbe l’impressione che una forza straordinaria, ma dissimulata e contenuta, gli si diffondesse lungo il corpo rattrappito sotto la coperta, e decise così che quello sarebbe stato il suo nome.[24]

In Sempione ’45, lo spazio dato a questo tema è invece quello di una nota:

Sono, come anche quelli del capitolo precedente, tutti “nomi di battaglia”. Ogni partigiano se ne sceglieva uno. Questi nomi erano talvolta molto comuni (Edoardo, Andrea, Nicola, Renzo, Alba, Rita, Bruno, Ciro, Cino, Peppino), talvolta fantasiosi e allusivi (Tarzan, Freccia, Fulmine, Valanga, Nuvola, Vento, Farfallino, Fiero, Fracassa, Mitra, Lupo…)[25]

La proposta di rielaborazione per i ragazzi

Altri testi che si propongono in lettura su questo tema sono tratti dalla silloge utilizzata per il laboratorio[26] o dallo scaffale di narrativa resistenziale della sezione didattica della biblioteca dell’Istituto. Dopo la lettura, ci si accerta che i ragazzi abbiano ben compreso i motivi per cui il nome di battaglia era necessario e quali e quante potevano essere le modalità di scelta.

A conclusione dell’attività, si chiede ad ogni alunna e alunno di scegliersi un nome di battaglia, motivandone la decisione alla classe.

Altri temi

Nell’incontro successivo il lavoro fatto sulla scelta del nome di battaglia può essere ripetuto, con il diretto coinvolgimento degli studenti, per altre tematiche resistenziali che possono essere proposte ai ragazzi anche quando non sono emerse dal brainstorming iniziale: la fatica delle marce, il modo in cui i partigiani vivevano o si abbigliavano, il momento della scelta, il rapporto con i compagni o la propria famiglia, ecc. Si presentano sempre anche brani tratti da altri testi, pur dando ampio spazio a quelli di Petter.

Si distribuiscono a piccoli gruppi di studenti testi omogenei per argomento invitandoli a raffrontarli tra loro e chiedendo azioni di restituzione come la ricostruzione grafica dei luoghi descritti, chiedendo sempre la condivisione nel grande gruppo di quanto letto, per verificarne l’effettiva comprensione.

La seconda proposta: il lavoro sulla stampa clandestina

All’epoca della sua militanza fra i garibaldini della X Brigata Rocco Guido Petter è stato autore di un giornale clandestino, “La Staffetta Azzurra”, un dattiloscritto su velina pubblicato nei primi mesi del 1945[27]. Questo ci ha portati a sviluppare un secondo percorso didattico in cui pagine di stampa clandestina e di narrativa di uno stesso autore sono messe a confronto.

Nei primi tempi, presentavamo ai ragazzi o agli insegnanti che seguivano i corsi di formazione sulla letteratura resistenziale alcune immagini del giornale clandestino raccontando che esistevano dei punti di contatto tra esso e il libro Che importa se ci chiaman banditi.

A partire dal 2012, con la messa on line del portale giornaliallamacchia.it da parte degli Istituti Storici per la Resistenza di Novara e Biella-Vercelli e successivamente con l’apertura del portale stampaclandestina.it da parte dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, è stato possibile ampliare l’offerta didattica, introducendo un laboratorio che, accanto a quello incentrato sulla letteratura resistenziale, propone l’analisi delle fonti non narrative, grazie al fatto che sono stati resi disponibili per la consultazione anche a distanza i numeri de “La Staffetta Azzurra”[28].

In questa seconda proposta si mettono a confronto il testo Che ci importa se ci chiaman banditi, nel quale viene descritto in più punti come l’idea del “bollettino” nacque e come fu poi realizzato[29] e i numeri disponibili nelle banche dati de “La Staffetta Azzurra”[30].

L’analisi della stampa clandestina in classe

Nel lavoro in classe[31], dopo una breve ripresa della definizione di Resistenza e delle caratteristiche delle bande partigiane[32], si domanda ai ragazzi come immaginano possa essere fatto un giornale clandestino, con quali mezzi potrebbe essere realizzato e quali argomenti inserirebbero se si trovassero a crearne uno.

Si fa seguire al brainstorming la lettura collettiva dei passi del romanzo di Petter in cui si fa esplicito riferimento al bollettino, a partire dalle pagine dove si trovano le idee che sulla sua struttura frullano nella testa del neo-partigiano Nemo[33] fino a quella sulla sua realizzazione, passando attraverso la descrizione degli eventi che la rendono possibile. Fondamentale si rivela la completa disponibilità di una macchina da scrivere[34], dovuta al caso: durante un’azione contro un magazzino fascista ad Arona, Generale, il partigiano che per primo aveva accennato alla possibilità di scrivere ciò che stava accadendo, riesce a trovare e prendere «una macchina da scrivere portatile per Nemo»[35] e si affretta a consegnargliela.

Come è fatto un giornale clandestino?

Prima di mostrare ai ragazzi come è possibile consultare nella banca dati Stampa Clandestina “La Staffetta Azzurra” si riprende quanto da loro risposto alla domanda “come vi immaginate che sia un giornale clandestino?” e si chiede anche “come scegliereste il suo titolo?”. Le proposte dei ragazzi sono tutte annotate e raggruppate, se simili. Si legge poi il brano in cui Petter descrive come Nemo immaginava potesse essere il giornale nei giorni piovosi in cui era costretto, con i suoi compagni, a non muoversi dall’accampamento.

Nemo approfittò di quei giorni per progettare e preparare il giornale. C’era innanzi tutto il problema del titolo. La formazione, prima di diventare una vera brigata, si era chiamata Volante Azzurra; ora era la 10° Brigata Rocco. Perché il giornale non avrebbe potuto chiamarsi “Volante Azzurra”? Il sottotitolo poteva essere “Giornale della 10° Rocco. Esce come può e quando può”[36]

La macchina da scrivere era malandata, mancava di un paio di lettere, la x e la m. La x era poco importante, la m invece lo era molto. Nemo decise di usare al suo posto la n, e di aggiungere poi a mano la gambetta mancante. La macchina aveva un altro difetto: di tanto in tanto, in modo imprevedibile, il carrello scattava di alcuni spazi, e le parole restavano spesso tagliate in due parti. Ma non era scritto, nel sottotitolo del giornale, “esce quando può e come può”?[37]

La descrizione dell’andamento del progetto prosegue nella pagina successiva:

Il giornale nacque davvero, in quel giorno e nel seguente.
Nemo batté i bollettini e un paio di articoli già preparati, la canzone portata da Generale, il resoconto dell’azione cui aveva partecipato, servendosi di carta carbone per fare molte copie; poi diede i fogli a Matteotti[38] perché li correggesse mettendo le gambette a tutte le m. Il titolo lo disegnò a matita azzurra, contornando poi a penna le lettere. Si fece prestare da Ugo una cucitrice per unire le varie pagine. Fece poi, con Matteotti, il giro delle tende per distribuire quel primo numero, che i partigiani incuriositi si contesero, e cominciò a battere altre copie per gli altri due battaglioni, da affidare alle staffette che mantenevano i collegamenti»[39].

Il racconto delle vicende della brigata prosegue e si comprende che la stesura del giornale è ormai diventata molto importante per Nemo, tanto che, costretto a nascondersi in un fienile per sfuggire a una retata di fascisti, tra le cose che tiene con sé in un momento tanto pericoloso ci sono la macchina da scrivere e la scatola di latta in cui conserva i fogli[40]. La narrazione si conclude con la fine della guerra che segna, con l’uscita dalla clandestinità, anche la fine de “La Staffetta Azzurra”.

Il lavoro sulle fonti

La disponibilità delle copie della “Staffetta Azzurra” ha ampliato le possibilità didattiche. Il tema della Resistenza può ora essere affrontato non solo attraverso il corpus di una serie di romanzi per ragazzi scritti da un autore che oltre ad aver vissuto in prima persona ciò che racconta, come docente di pedagogia è stato capace in seguito di usare uno stile e un linguaggio particolarmente adatti, anche a distanza di anni, ad un pubblico di preadolescenti e adolescenti.

Dopo una introduzione alle banche dati online disponibili a partire dalla home page del sito dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e sulle loro modalità di utilizzo, ai ragazzi viene proposto di cercare “La Staffetta Azzurra” all’interno della banca dati online Stampa Clandestina Questa operazione e la successiva discussione su quanto trovato permettono di far comprendere agli studenti le caratteristiche di un documento come un giornale clandestino e alcune elementari regole di ricerca all’interno di un database[41]. Una volta individuati i numeri de “La Staffetta Azzurra” disponibili, si chiede ai ragazzi di identificare le corrispondenze tra il romanzo e il documento originale. Ad esempio, nel romanzo si dice che si inseriranno nel bollettino le canzoni partigiane e si invitano quindi i ragazzi a ricercarle nei numeri trovati. Oppure, l’attenzione può essere posta al riconoscimento di elementi come le lettere difettose nella macchina da scrivere, elemento da Petter ben descritto nel romanzo[42], o ai disegni e così via. In alcuni casi, le classi sono giunte a comporre un loro giornalino.

Nella sua semplicità, l’attività descritta si è rivelata efficace per introdurre anche i ragazzi più piccoli da una parte ai concetti di documento, originale, copia, ricerca, database, e dall’altra alla comprensione del fenomeno resistenziale e delle sue principali caratteristiche. La nascita della Banca dati nazionale, in cui oggi il periodico clandestino è disponibile, testimonia che la rete degli Istituti dedica attenzione alla conoscenza della Resistenza in tutti gli ordini di scuola.

Questo progetto e le sue finalità sono declinabili anche in un laboratorio con studenti giovanissimi, che dal racconto diretto di quei giorni possono comprendere molto, anche se non avessero ancora affrontato lo studio di quel periodo storico.

Principali testi di narrativa resistenziale per ragazzi disponibili nella biblioteca dell’Istituto storico Piero Fornara
  • *Fulmine, un cane coraggioso : la Resistenza raccontata ai bambini / di Anna Sarfatti e Michele Sarf. – Milano : Mondadori, 2011
  • *Resistenza 60. / [redazione: Francesca Colussi … et al.]. – Bologna : Stoppani, stampa 2005. – 94 p. : ill. ; 21 cm.
  • La *mia resistenza / Roberto Denti. – [Milano] : Rizzoli, 2010. – 162 p. ; 23 cm.
  • *60 testimonianze partigiane / introduzione di Ermanno Detti. – Reggio Emilia : Zoo libri, c2005. – 147 p. : ill. ; 22x23 cm. ((Sul front.: Con il patrocinio di ANPI e Istituto A. Cervi, Museo Cervi.
  • *Storia di Leda, la piccola staffetta partigiana / Ermanno Detti ; disegni di Roberto Innocenti. – Roma : Gallucci, 2017
  • *Fausto e Anna / Carlo Cassola ; a cura di Alba Andreini ; introduzione di Eraldo Affinati. – Milano : Oscar Mondadori, 2017. – XLV, 282 p. ; 20 cm
  • *Racconti della Resistenza / a cura di Gabriele Pedullà. – Torino : Einaudi, [2006]. – XLIII, 345 p. ; 20 cm.
  • *Libere sempre :  una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi /  Marisa Ombra. – Torino : Einaudi, 2012. – 83 p. ; 20 cm
  • *Ritorno al mittente / Guido Quarzo ; illustrazioni di Lorenzo Terranera. – Roma : Lapis, 2011. – 55 p. : ill. ; 19 cm.
  • La *Gabriella in bicicletta : la mia Resistenza raccontata ai ragazzi / Tina Anselmi ; introduzione di Laura Boldrini. – San Cesario di Lecce : Manni, 2019. – 123 p. : ill. ; 21 cm
  • La *guerra di Martina / Paola Soriga ; illustrazioni di Lorenzo Terranera. – Roma ; Bari : Laterza, 2016. – 61 p. : ill. ; 25 cm
  • *Ancora un giorno / Roberto Denti ; illustrazioni di Alfio Buscaglia. – Milano : Piemme, 2011. – 164 p. : ill. ; 19 cm
  • *Qui radio Londra / Vanna Cercenà. – Roma : Lapis, 2018. – 134 p. ; 20 cm
  • *Partigiano Rita / Paola Capriolo. – San Dorligo della Valle : Einaudi Ragazzi, 2016. – 135 p. ; 20 cm
  • La *corsa giusta / Antonio Ferrara. – [Belvedere Marittimo] : Coccole Books, 2014. – 123 p. ; 20 cm
  • L’*estate di Giacomo : la guerra e un partigiano di undici anni / Luca Randazzo. – Milano : Rizzoli, 2014. – 145 p. ; 20 cm
  • Il *sentiero dei nidi di ragno / Italo Calvino ; illustrazioni di Gianni De Conno. – Milano : Oscar Mondadori, 2014. – 219 p. : ill. ; 19 cm
  • *Fuochi d’artificio : romanzo : [il piano segreto di quattro giovanissimi partigiani] / Andrea Bouchard. – Milano : Salani, 2015. – 317 p. ; 21 cm
  • *Io non ci sto! : l’estate che divenni partigiana / Gabriele Clima ; illustrazioni di Arianna Operamolla. – Milano : Mondadori, 2017. – 142 p. : ill. ; 19 cm
  • *Io che conosco il tuo cuore : storia di un padre partigiano raccontata da un figlio / Adelmo Cervi ; con Giovanni Zucca. – Milano : Piemme, 2019. – 436 p. ; 23 cm.
  • Lo *stivale spezzato / Annamaria Piccione ; illustrazioni di Tommaso D’Incalci. – Milano : Paoline, [2010]. – 195 p. : ill. ; 20 cm.
  • L’ *ultima volta che siamo stati bambini / Fabio Bartolomei. – Roma : Edizioni E/O, 2018. – 205 p. ; 21 cm
  • I *ribelli di giugno / Christian Antonini. – Firenze ; Milano : Giunti, 2019. – 206 p. ; 22 cm
  • *Estrella / Ermanno Detti. – Firenze ; Milano : Giunti, 2019. – 122 p. ; 20 cm.
  • La *guerra di Ada / Kimberly Brubaker Bradley ; traduzione di Maurizio Bartocci. – Milano : Piemme, 2019. – 300 p. ; 21 cm
  • *O.S.C.A.R. la resistenza scout : lo scautismo clandestino dopo il 1943 / Luca Maria Pernice. – Manfredonia : Pacilli, 2020. – 199 p. : ill. ; 21 cm

Note:

[1] È il caso, ad esempio, del testo di Paola Capriolo, Partigiano Rita, Einaudi Ragazzi, 2016, che – come avverte un segnalibro distribuito con il volume – “si basa sulla biografia della protagonista, [Rita Rosani], ricostruita nel libro”. Nata a Trieste nel 1920, Rita Rosani, maestra elementare di origini ebraiche, è stata una partigiana italiana medaglia d’oro al valor militare.

[2] G. Petter, Che importa se ci chiaman banditi, Giunti, 1976, pag. 9.

[3] Il bombardamento del ponte deve avere colpito molto l’attenzione di Petter, che ne accenna anche in un altro romanzo, La prima stella. Valgrande ’44. Giovanni, arrivato da Milano, racconta agli altri protagonisti del romanzo il suo viaggio dalla città.

«E come sei arrivato sin qui?» «Col treno, ragazzi. Ma quasi solo carri bestiame ormai. Trenta o quaranta persone per ogni vagone, in piedi, o seduti sulle valigie, o sul pavimento. Ogni stazioncina una sosta. A Sesto Calende, poi, tutti giù perché il ponte sul fiume è stato bombardato, è crollato. E allora tutti su un barcone, ad attraversare il Ticino, poi su un altro treno, altri carri bestiame, fino a Fondotoce, stile tartaruga. E lì, la corriera. Quasi un giorno intero» G. Petter, La prima stella. Valgrande ’44, Interlinea, 2011, pag. 26.

[4] Petter, 1976, pp.103-104

[5] L’autore avverte in proposito, nella seconda e terza di copertina: “i fatti qui narrati si svolgono nella zona fra la Valsesia, il Verbano e l’alta pianura novarese, ma si ricollegano direttamente o indirettamente ad un insieme di altri avvenimenti che riguardano l’intera valle dell’Ossola. Il lettore che desidera seguire con maggiore chiarezza il racconto può dunque utilizzare la cartina qui riprodotta”

[6] G. Petter, Nel rifugio segreto, Giunti, 1998, pp. 35-36

[7] Petter, 1998, pag. 29. Vedi la ricostruzione storica dell’episodio nell’Atlante http://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/FONDOTOCE%20VERBANIA%2020.06.1944.pdf

[8] G. Petter, Sempione ’45, Loescher, 1991, pp. 4-5.

[9] Petter, 2011, pp.77-78. Informazioni sull’eccidio si trovano anche nelle pagine seguenti del romanzo e si fa cenno anche all’eccidio di Baveno ad esso collegato, del 21 giugno 1944. Nell’edizione Interlinea è presente un’appendice documentale che contiene il Proclama del maresciallo Kesserling, la testimonianza di Carlo Suzzi, utilizzabile con i ragazzi più grandi, la testimonianza di Enrico Liguori, Presidente del tribunale di Verbania, oltre ad alcune fotografie dei Martiri di Fondotoce e alle riproduzioni di alcuni manifesti, di cui si accenna nel testo. «I protagonisti di questo romanzo sono immaginari», avverte l’autore, ma qui più che altrove i protagonisti si interrogano e pongono interrogativi al (giovane) lettore sul tema della scelta.

[10] Nei suoi testi Petter dedica attenzione anche all’Olocausto (o eccidio) del lago Maggiore, ma, in questo caso, la ricostruzione è meno precisa, soprattutto se confrontata con quanto noto oggi. Alle pagine 4 e 5 di Sempione ’45 si legge che «i tedeschi nel settembre di due anni prima, avevano ucciso e buttato nel lago con una pietra ai piedi una trentina di ebrei. Li avevano sorpresi negli alberghi a Meina, a Stresa, a Baveno, mentre si preparavano a riparare in Svizzera». Ecco la descrizione, decisamente più ampia, del medesimo fatto in La prima stella. Valgrande ’44, p. 14: «Gli ebrei della zona: anche della loro vicenda i ragazzi erano al corrente, come tutti in paese. Sapevano che poco dopo l’8 settembre, quando dopo l’annuncio dell’armistizio era iniziata l’occupazione tedesca, erano giunte ad Arona, a Baveno, a Meina, ma anche sugli altri laghi, quello di Mergozzo e quello di Orta, alcune famiglie ebree, intenzionate a raggiungere la Svizzera attraverso le montagne per sfuggire alla cattura e alla deportazione. In attesa di trovare una guida avevano preso alloggio in albergo o da amici in case sicure. Ma quasi subito erano arrivati anche reparti di SS, che li avevano arrestati. A Meina i tedeschi avevano detto agli adulti di prepararsi per il trasferimento in un campo, poi li avevano fatti uscire a gruppi, li avevano uccisi in riva al lago e ne avevano gettato i corpi in acqua, appesantiti da pietre. Avevano ucciso anche un vecchio e tre bambini. Alcuni dei cadaveri erano finiti nelle reti dei pescatori, altri erano riemersi, e così l’eccidio, che avrebbe dovuto restare segreto, era divenuto di dominio pubblico».

[11] https://www.youtube.com/watch?v=RLkoG1C6ngI. Il paesaggio della piana di Fondotoce così come si presentava nell’immediato dopoguerra è documentato anche in questo filmato, https://www.youtube.com/watch?v=CklDx-8N0_Q, realizzato a partire da sequenze tratte da un film amatoriale, muto, in 16 mm. girato e realizzato da Achille De Cristoforo di Verbania. Il filmato originale è conservato nella mediateca dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel VCO “P. Fornara”. Fu donato dall’Anpi di Verbania che lo ricevette dalla vedova di Silvio Morra. L’Istituto lo ha restaurato, duplicato, e infine presentato all’interno del documentario Ribelli. Immagini cinematografiche della guerra partigiana nel Novarese, regia di Vanni Vallino, produzione Immagina s.r.l. Novara, Istituto storico “P. Fornara” in collaborazione con i sindacati pensionati di Cgil-Cisl-Uil, VHS-36′, uscito come supplemento a “Ieri Novara Oggi”, n. 3/1995. L’Istituto ha concesso l’utilizzo dello stesso per il progetto “I corti di memoria”.

[12] https://www.youtube.com/watch?v=3jRTQ3UFwPo

[13] Nino Chiovini, Enrico Massara, Pippo Coppo, Carlo Torelli, sono importanti personaggi della Resistenza nell’ambito di competenza territoriale dell’Istituto Storico Piero Fornara. La famiglia di Guido Weiller, di origini ebree, dopo l’annuncio dell’armistizio si rifugia in Ossola. Qui Guido prende contatto con il comandante partigiano della zona, il Capitano Beltrami, che offrirà loro la sua protezione. Tutta la famiglia si unisce alla “Squadra d’assalto patrioti Vallestrona” e Guido racconta nel testo utilizzato il suo “periodo eroico” con i partigiani dell’Ossola. Vincenzo Grimaldi, il Comandante Bellini, dopo la resistenza in Val Varaita, ha portato la sua testimonianza in molte scuole di Novara, dove si era trasferito dopo la fine della guerra: Una di queste è stata registrata ed è visionabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=t3xm-n6kajQ. Giorgio Marincola è il figlio, riconosciuto e quindi cittadino italiano, di un sottoufficiale italiano in Africa e di una donna somala, la cui storia è estremamente interessante e su cui l’Istituto Storico Piero Fornara ha lavorato in passato. Hanno tutti raccontato la loro scelta e la loro permanenza nelle fila partigiane. Fernando Gattini è stato Comandante partigiano della Divisione Potente operante in Toscana, ha partecipato alla Liberazione di Firenze.

[14]Oggi, dopo diversi anni di sperimentazione del percorso, la silloge non è più l’unico strumento di raffronto fra testi diversi sulle tematiche oggetto di analisi. A tale scopo è stata creata una sezione didattica della biblioteca dell’Istituto Storico Piero Fornara che raccoglie fonti narrative contemporanee di autori per ragazzi. Si veda l’elenco con i principali testi di narrativa resistenziale per ragazzi presenti nella biblioteca dell’Istituto storico Piero Fornara riportato in calce.

[15] Mancato nel 2011, Petter è stato professore ordinario presso la facoltà di psicologia dell’Università di Padova, ha curato la traduzione e diffusione del pensiero di Jean Piaget in Italia, ed ha compiuto numerose ricerche su temi dello sviluppo cognitivo, della psicologia dell’adolescenza, della genitorialità e della psicologia dell’educazione. A lui si sono ispirate molte generazioni di psicologi italiani. Il professore ha contribuito significativamente alla diffusione di una cultura psicologica nelle scuole e tra gli insegnanti, pubblicando numerosi volumi scientifici e divulgativi di psicologia e psicopedagogia. Nei suoi romanzi per ragazzi si è ispirato ai suoi ricordi di ex partigiano, dando vita a indimenticabili storie di Resistenza e di coraggio, basate sul rifiuto della violenza, dell’ingiustizia, della crudeltà insensata, del razzismo e dell’intolleranza ideologica. Nel dicembre 2005 è stato insignito della Medaglia d’Oro del Presidente della Repubblica per i Benemeriti della Cultura e dell’arte.

[16] Nel capitolo 17 di Che ci importa se ci chiaman banditi, particolare alle pagine da 196 a 199 sono riportati i fatti di San Marcello. In particolare è descritta la ricerca affannosa che Nemo/Petter fa dei compagni dopo avere saputo dello scontro e di come li trova ricomposti all’interno della chiesa del cimitero di Paruzzaro.

Quando abbiamo avviato questo percorso, i testi di Petter venivano utilizzati soprattutto per aiutare i ragazzi nella preparazione di brevi testi da leggere in occasione di manifestazioni pubbliche che prevedevano il loro intervento. In anni recenti il comune di Invorio ha reso percorribili i “sentieri della storia” e creato la Camminata della Memoria, un evento sportivo nato con l’intento di celebrare e far conoscere i luoghi in cui la vita partigiana si svolse in occasione della commemorazione dell’Eccidio di San Marcello del 28 marzo 1945, una delle stragi più efferate della zona. La Camminata viene inserita all’interno della Commemorazione: il tracciato, lungo circa 7,4 km tocca diversi punti del territorio in cui sono presenti tutti i 10 cippi dedicati ai partigiani caduti. Oltre al tracciato lungo, è previsto anche un percorso alternativo più breve, di circa 2,9 km, dedicato soprattutto alle scuole primarie e secondarie della zona, la cui partecipazione è incentivata attraverso dei premi

[17] Quarta di copertina dell’edizione del 1976 di Che importa se ci chiaman banditi, Giunti Marzocco.

[18] G. Petter, Ci chiamavano banditi, Giunti, 2008, prefazione dell’autore.

[19] I testi che vengono utilizzati nell’attività didattica sono soprattutto: Che importa se ci chiaman banditi, Sempione 45, La prima stella. Valgrande ‘44.

[20] Petter, 1976, p 82

[21] Petter, 1976, p. 82

[22] Petter, 1976, p. 83.

[23] In realtà nel testo il nome di battaglia resterà “Nemo”

[24] Petter, 1976, pp.84-85

[25] Petter, 1976, nota 1 p. 24

[26] Si utilizzano in particolari brani di autori/protagonisti con caratteristiche molto diverse tra loro per età ed estrazione sociale, caratterizzati dalla brevità e in cui sono testimoniate scelte del nome molto diverse da quella di Petter. Vincenzo Grimaldi, ad esempio, scrive: «Per me il Comandante scelse il nome di Bellini, come Vincenzo Bellini, il famoso compositore di Catania, a ricordo delle mie origini siciliane», Tutti pazzi o tutti eroi?, pag. 24.
Anche Guido Weiller ne La bufera tratta questo argomento: «Da questa presentazione, con ogni probabilità, derivò il mio nome “da partigiano”: “Guido l’Ebreo”. Me ne resi conto più tardi, per caso, ed ebbi, al momento, una reazione di dispetto. “Ma come, proprio i partigiani, gli antifascisti, mi dànno dell’ebreo come i fascisti?”. Ma mi accorsi in breve che non era così. Nella formazione, nessuno veniva chiamato con il suo vero nome, e meno ancora con il cognome, per ragioni abbastanza evidenti. Anche un semplice richiamo, durante un’azione, usando il nome vero, avrebbe potuto essere molto pericoloso per la famiglia dell’interessato. […] Ogni partigiano usava un nome fittizio. Alcuni erano semplici: Gaspare si faceva chiamare Sergio, Albino si faceva chiamare Bruno, Giuseppe era Ivan. Altri erano nomi di fantasia: Sandokan, Ursus, Falco. Altri ancora erano soprannomi più o meno ancorati a una realtà: c’era “Caserta”, c’era “il Camoscino”, c’era “il Balilla” e c’era “l’Olandese”. Tra questi, venni a trovarmi anch’io: mi chiamavo Guido e non c’erano motivi per cambiarmi nome, ed ero ebreo, un fattore personale di caratterizzazione quale, per un altro, sarebbe potuto essere “il Biondo”, “il Toscano”, o “l’Infermiere”» (pp. 115-116).
In Nel rifugio segreto di Petter l’argomento viene introdotto così a pagina 24: «-Anch’io ho un cugino nei partigiani. Sta in Valsesia, con Moscatelli – E così dicendo alzò la mano a indicare la cerchia di monti che stava al di là della valle, oltre i quali c’era la Valsesia.
-Ah -disse Bill – E come si chiama? Voglio dire, come si fa chiamare?
– il suo nome da partigiano? Orso.
-Ah, Orso! Lo conosco bene, un tipo in gamba.»

[27] Ecco la descrizione che del giornale viene data nella banca dati Stampa Clandestina: “La testata nasce come organo della 10ª brigata Garibaldi, appartenente alla 2ª divisione Redi, attiva nell’Ossola, e intitolata a Rocco Bellio, partigiano caduto a Breia nell’aprile 1944. Esce in pochi numeri tra marzo e aprile 1945. Tra gli autori dei testi, impaginati su due colonne, è da annoverare il giovanissimo Guido Petter, che probabilmente redige l’articolo di apertura del primo numero, datato 12 marzo. Si discosta da altri giornali clandestini della zona per il ricorso a un linguaggio lineare e al tempo stesso vivace, lontano da eccessi retorici. Oltre a ricordare i caduti, tra i quali i garibaldini uccisi il 28 marzo in località San Marcello fra Invorio e Paruzzano (numero 3, 1° aprile 1945), e a fornire notizie sull’attività della brigata, sotto forma di bollettino di guerra, il giornale propone riflessioni di natura politica, in particolare nel secondo numero, e testi in versi”.

[28]Attualmente è in corso il riversamento dei materiali dell’Istituto Storico Piero Fornara su http://giornaliallamacchia.isrn.it/. “La Staffetta Azzurra” non è al momento presente in questa banca dati, bensì su http://www.stampaclandestina.it/. Il progetto “Giornali alla macchia” è stato promosso dagli istituti storici di Novara VCO e Varallo-Biella-Vercelli: l’Istituto Storico della resistenza e della società contemporanea nel novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara” e l’Istituto Storico della resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, mentre http://www.stampaclandestina.it/ è un progetto dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

[29] Nell’edizione del 1976 di Che importa se ci chiaman banditi, il primo accenno all’idea di scrivere un bollettino si trova a pagina 118: «Bisognerebbe avere un giornale, ecco, e qualcuno che sapesse scriverlo, questo giornale. Allora le cose camminerebbero meglio». L’idea è di Generale, un partigiano con una esperienza più lunga di quella del protagonista, ma viene immediatamente raccolta da Nemo/Petter. I due hanno un breve scambio di battute, nel quale emerge anche l’idea di Generale di non stampare il giornale per limitare le difficoltà di uscita, ma di scriverlo a macchina. Solo, ammette Generale, «che io non so scrivere a macchina. Altrimenti avrei già incominciato». (Che importa se ci chiaman banditi, Giunti, 1976, pag. 119). La realizzazione dell’idea da parte del partigiano Petter è veloce: la sottopone all’attenzione di Nicola, il comandante. L’uomo accetta e Nemo comincia a immaginarne la stesura: «Per fare un giornale avrebbe dovuto girare tra i vari reparti a raccogliere notizie ed interviste, e poi a distribuire le copie. O avrebbe potuto chiedere di partecipare ogni volta alle azioni progettate, come corrispondente», (Che importa se ci chiaman banditi, Giunti, 1976, pag 120).

[30] Su Stampa Clandestina sono disponibili i primi tre numeri de “La Staffetta Azzurra”, usciti rispettivamente il 12 marzo, il 20 marzo e il 1° aprile 1945.

[31] Oltre che in alcuni plessi di scuola primaria, l’attività è stata proposta a docenti della primaria e della secondaria di primo grado in corsi di formazione svoltisi a Novara nel 2013, nel 2014, nel 2017 e online nel 2020.

[32] Questo secondo percorso viene svolto in classi che hanno già fatto il percorso sulla narrativa

[33] La scelta del nome di battaglia da parte di Petter è stata descritta sopra ed è oggetto di un lavoro in classe che non coinvolge la stampa clandestina.

[34] Il comando aveva una macchina da scrivere, che serviva però ad altri scopi.

[35] Petter, 1976, p. 143.

[36] Petter, 1976, pp 126-127.

[37] Petter, 1976, pag. 144

[38] Matteotti è il nome di battaglia del giovane partigiano milanese Amleto Livi, caduto nell’eccidio di San Marcello il 28 marzo 1945. La scuola media “Rinascita-Livi” (eredità degli ex “Convitti della Rinascita”, fondati nel secondo dopoguerra dagli ex partigiani con l’obiettivo di istruire ed educare ai valori democratici i reduci e gli orfani di guerra) porta il suo nome. https://www.pietredellamemoria.it/pietre/lastra-commemorativa-ad-amleto-livi-milano/

[39] Petter, 1976, p. 145

[40] Petter, 1976, p. 184

[41] Nel laboratorio sulle fonti narrative, se si prende in esame la descrizione di episodi noti di guerra partigiana, gli stessi sono fatti ricercare dai ragazzi nell’Atlante delle Stragi Nazifasciste, ma non si approfondisce l’utilizzo didattico delle banche dati, argomento riservato a questo secondo laboratorio.

[42] Vedi il brano di pag. 144 di Che importa se ci chiaman banditi, Giunti, 1976, sopra riportato.