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Boris Pahor: l’uomo del lungo Novecento, tra autobiografia e letteratura

Boris Pahor: l’uomo del lungo Novecento, tra autobiografia e letteratura

Foto di Boris Pahor.
Di Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons – cc-by-sa-3.0, CC BY-SA 3.0, Link

Abstract

L’articolo propone un percorso didattico per le classi del triennio della scuola secondaria di secondo grado incentrato sulla produzione letteraria e sulla figura di Boris Pahor. Il percorso consta di una parte introduttiva sulla biografia di Pahor e sulla storia editoriale dei suoi testi, curata dal/dalla docente, e di una più pratica nella quale gli/le alunni/e, divisi/e in gruppi, si confronteranno direttamente con i suoi testi. Al termine dei lavori di gruppo, l’insegnante troverà la giusta modalità di restituzione delle ricerche.

Il 22 maggio 2022 ci lasciava alla veneranda età di 108 anni Boris Pahor. I principali quotidiani gli dedicavano articoli e commemorazioni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricordava autorevolmente la sua figura dopo averlo insignito di uno dei più alti riconoscimenti (Cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana), ministri e rappresentanti politici sloveni e italiani così come molti suoi concittadini di nazionalità slovena e italiana lo salutavano dimostrandogli affetto e stima.[1] Eppure il generale e unanime cordoglio nei confronti di questa grande figura di intellettuale non sarebbe stato tale pochi anni prima.

Nel corso della sua lunga vita Pahor ha vissuto, raccontato e rielaborato dal suo personale punto di vista il secolo passato. Lo stesso “secolo breve” che il grande storico Hobsbawm aveva definito “l’età degli estremi” fa da sfondo alla sua vita. Leggere Pahor diventa, anche a scuola, un ottimo “esercizio” tra storia e letteratura con il quale è possibile ripercorrere questo lungo novecento attraverso il vissuto personale di un intellettuale di confine, dandoci l’opportunità di superare l’ottica italocentrica a cui siamo abituati.

 

Parte introduttiva: biografia e vicende editoriali 

Durante il primo incontro, l’insegnante introdurrà la figura di Pahor agli alunni seguendo due tracce: la sua biografia e le vicende editoriali. Elementi che permettono di restituire una panoramica dello scrittore ma anche del rapporto tra le sue opere e il pubblico italiano. Per la preparazione, si suggerisce la lettura dei seguenti testi autobiografici: Tre volte no. Memorie di un uomo libero con Mila Orlić del 2009, Figlio di nessuno. Un’autobiografia senza frontiere scritto con Cristina Battocletti del 2012[2] e Così ho vissuto. Biografia di un secolo, con Tatjana Rojc del 2013.[3]

Boris Pahor nasce il 26 agosto 1913 nell’allora Città imperiale di Trieste e qui muore il 30 maggio 2022 come cittadino italiano. Tra questi due freddi dati anagrafici, scorre la lunga vita di Pahor, piena di eventi tragici ma anche vissuta con pienezza e orgoglio.

Della lunga vita di Pahor, due aspetti rimangono costanti nel tempo: il suo forte legame con Trieste e, al contempo, la sua forte identità slovena. Elementi, apparentemente in contrasto, che ci permettono invece di rimettere in discussione l’immagine della Trieste “italianissima” e irredente a cui siamo abituati. Pahor, così come i suoi genitori e familiari, infatti si sentono in tutto e per tutto, cittadini di Trieste e allo stesso tempo di nazionalità slovena, senza vederci alcuna contraddizione.

Trieste, infatti, appare davvero come la città degli estremi novecenteschi, simbolo e vittima dei più grandi stravolgimenti e drammi storici. Asburgica fino al 1918, diventa dopo la Grande guerra luogo d’elezione per il cosiddetto fascismo di frontiera, poi della politica di italianizzazione, e ancora nel 1938 palcoscenico per la celebre “adunata oceanica” durante la quale vengono proclamate le leggi razziali.[4] La Seconda guerra mondiale con la creazione dei vicini campi di concentramento a Rab e Gonars,[5] fino al dramma delle foibe e della politica del terrore del Terzo Reich il cui simbolo si ritrova nella Risiera di San Sabba.[6] Al termine del conflitto nel 1945, la città e i dintorni si ritrovano a dover affrontare un lungo periodo di instabilità e incertezza fino all’assegnazione definitiva della città all’Italia nel 1954.[7] Il 1989 e la fine della guerra fredda rappresentano un altro passaggio cruciale a cui segue l’indipendenza della vicina Slovenia, e quindi il suo ingresso nell’Unione Europea nel 2004. Pahor vive e cresce in questa Trieste dove subisce la politica italianizzatrice del ventennio fascista, la deportazione, ma anche il lungo dopoguerra.

La vicenda editoriale dei libri di Pahor è l’altra importante chiave di lettura per mostrare agli alunni le resistenze che la comunità italiana ha mantenuto nel riconoscere alle proprie minoranze nazionali piena cittadinanza.

Egli è infatti autore di numerosi libri pubblicati già a partire dagli anni Cinquanta, restando praticamente sconosciuto al pubblico italiano. Nel 1955 esce in Slovenia il suo primo romanzo, Mesto v zalivu[8] (poi tradotto in italiano come La città nel golfo) con immediato successo di pubblico, grazie anche alla tematica resistenziale. Da quel momento, la sua produzione letteraria non si fermerà più, ma si è dovuto aspettare oltre 40 anni perché anche il pubblico italiano potesse leggere un suo libro.

La vicenda editoriale del suo testo più celebre Nekropola[9] è di per sé particolarmente interessante. Pubblicato in francese nel 1990 con il titolo Pélerin parmi les ombres, il testo viene spedito (nella versione francese) ad alcuni editori italiani, ma senza ottenere risposte. Solo dopo aver vinto il Concorso Srečko Kosovel, esce nel 1997 una prima edizione grazie al Consorzio culturale del Monfalconese.[10] Nonostante il premio, però nessun grande editore si fa avanti, condannando il testo a rimanere relegato ad un ambito ristretto fino al 2008 quando sarà infine pubblicato da Fazi.[11] Dopo questo faticoso tentativo di “rompere il muro”, molti dei testi di Pahor sono infine stati tradotti e pubblicati, permettendo al pubblico italiano di scoprire l’autore e l’uomo.

Questa lunga e difficile vicenda è importante perché è lo specchio del difficile rapporto che il mondo culturale italiano ha intrattenuto, più che con Boris Pahor, con la questione delle proprie minoranze linguistiche e nazionali, ignorandole se non osteggiandole apertamente. Tra il successo riscosso negli ambienti sloveni (sono numerosi i premi come il prestigioso Prešeren nel 1992 e le ripetute candidature al Nobel) e la sua assenza nel mondo culturale e politico italiano corre una distanza che rimanda alla storica questione di una società, quella italiana, che non ha mai fatto davvero i conti con il proprio passato fascista e nazionalista.

 

L’attività didattica: Boris Pahor, tra autobiografia e letteratura

In seguito alla panoramica iniziale, la seconda parte del percorso è invece dedicata alla scoperta dei testi di Pahor. Alcune premesse si rendono però necessarie: l’ attività qui proposta, infatti, nasce da un intervento pubblico dedicato a Pahor che inizialmente non aveva alcun carattere didattico. L’idea di immaginare un percorso in classe è nata solo in un secondo momento. La proposta si presenta come traccia generale e non è stata mai messa in pratica. Il laboratorio presentato può quindi essere adattato dall’insegnante alle esigenze della classe, sia per numero di gruppi che per quantità di materiale da utilizzare.

Ad ogni gruppo verrà richiesto di lavorare su due livelli: da una parte, sui testi letterari di Pahor, dall’altra su brevi saggi dedicati al periodo storico di riferimento. Gli estratti qui proposti non sono da intendersi come materiali preconfezionati per il laboratorio, ma esclusivamente come rimandi e suggerimenti. Un’eventuale ed ulteriore selezione di testi per i gruppi dovrà necessariamente essere calibrata dall’insegnante stesso sulla base della preparazione della classe. Come metodologia generale, si suggerisce di partire dai testi di Pahor per stimolare la curiosità e quindi accompagnare i ragazzi in letture di approfondimento storico.

 

Gruppo 1 – L’incendio del Narodni dom, il fascismo antislavo e l’italianizzazione forzata

Al primo gruppo si affiderà la lettura di alcuni racconti di Pahor riguardanti il periodo della nascita del fascismo e dell’italianizzazione forzata. In particolare si rimanda a Il rogo nel porto e La farfalla sull’attaccapanni.[12] Come supporto per la comprensione del periodo, si suggerisce la lettura del breve saggio di Marta Verginella Il confine degli altri, e il capitolo “La duplice oppressione” del saggio di Raoul Pupo in Adriatico amarissimo (pp. 62-97).[13]

Il primo evento, traumatico, che segna la vita di Pahor già da bambino è senza alcun dubbio l’attacco fascista del 13 luglio 1920 al Narodni Dom. L’episodio storico, troppo a lungo ignorato dal pubblico italiano, rappresenta infatti uno dei principali topoi della narrazione di Pahor. Sebbene avesse solo sette anni, il suo ricordo è vivido e ricopre un significato particolare nella costruzione della propria identità nazionale. Un attacco squadrista, guidato dal fascista Francesco Guida, non unico nel suo genere, che rappresenta il preludio della lunga opera di italianizzazione a danno delle minoranze slovene e croate nei territori ex-asburgici.

Pahor lo riporta con immagini di «uomini in camicia nera che ballavano gridando “Viva! Viva!” e ”Eia, eia eia, alalà!”» attraverso gli occhi di due bambini (lui e la sorella):

Evka e Branko però erano piccoli e non capivano quello che diceva la gente. Sapevano che bruciava la Casa della cultura e che non era giusto che i cattivi fascisti l’avessero incendiata, ma non si spiegavano perché i soldati fossero usciti dalla caserma in piazza Oberdan se ora se ne  restavano lì a guardare. […] E perché i pompieri non avrebbero dovuto spegnere il fuoco? Come mai i soldati, calmi e pacifici, guardavano gli uomini neri che spingevano via i pompieri quando questi allargavano il telone e qualcuno vi cadeva sopra da una finestra per poi rimbalzare verso l’alto proprio come Branko quando si buttava sulle molle del letto della mamma?[14]

Attraverso lo sguardo stupito dei bambini, Pahor pone in realtà domande fondamentali: perché lo Stato italiano non ha difeso i propri cittadini ma si è fatto complice delle camicie nere? Una domanda scomoda perché rimanda alla collusione tra Stato liberale e fascismo (siamo nel 1920!).

Il rogo è dunque un vero e proprio spartiacque per Pahor e per gli sloveni triestini, il preludio ai numerosi attacchi fascisti nei confronti della comunità slovena[15] e alla successiva snazionalizzazione: nel 1923 la celebre Riforma Gentile ammette come unica lingua di insegnamento l’italiano, nel 1925 un regio decreto proibisce l’uso di lingue diverse dall’italiano nelle sedi giudiziarie e a seguire negli uffici amministrativi, nei negozi e nei locali pubblici.

Anche il racconto La farfalla sull’attaccapanni rappresenta la testimonianza di come questa politica venne subita dalla popolazione slovena, in particolare dai bambini nelle scuole:

«Giulia!» ripeté nuovamente adirato, ma con quel nome le sembrava che non chiamasse lei, bensì la bambina che le avevano affidato e che lei sbadatamente aveva perso. […]
«Vieni qui», le disse con gli occhi lampeggianti.
Julka si mosse e già le dita impazienti del maestro l’avevano afferrata per l’orecchio.
«Non voglio più sentire quella brutta lingua», disse camminando fra i banchi e tirandosela dietro.[16]

 

Gruppo 2 – La scoperta dell’identità slovena

Al secondo gruppo, si affiderà il compito di approfondire la nascita (e quindi anche le cause) della resistenza clandestina nata in seno alla comunità slovena. Per la ricerca storica di contesto, si suggerisce anche qui di consultare Raoul Pupo, Adriatico amarissimo in particolare il paragrafo dedicato al Tigr, all’interno dell’utile capitolo La duplice oppressione. A questo si può affiancare Il confine degli altri, dove si trova la ricostruzione dettagliata del processo di Trieste del 1941.[17]

L’esperienza di Pahor nel seminario di Capodistria rappresenta un altro importante momento di svolta nella sua vita: qui egli prende piena consapevolezza dell’ingiustizia insita nel divieto di parlare la propria lingua e scopre, grazie ad altri seminaristi sloveni e croati, la letteratura slovena (mai studiata nelle scuole italiane). Ed è proprio in seminario che Pahor supera quel complesso di inferiorità maturato negli anni precedenti: «vivevo una vita da colpevole senza sapere di quale delitto mi fossi macchiato. Di fatto per lo Stato e per la società ero reo di essere uno Sloveno. […] “Coltiviamo la lingua slovena di nascosto” mi spiegarono. Questa fu per me una rivelazione, un compromesso che risolse il mio problema di coscienza: ero sloveno e dovevo restare sloveno».[18]

Il testo di riferimento principale per questo periodo è il romanzo di formazione politica Qui è proibito parlare. Vi si trovano descritti numerosi episodi di discriminazione e repressione, ma soprattutto la voglia di riscatto della comunità slovena.

Ema, la protagonista, è una fiera giovane donna slovena rimasta orfana. A Trieste conosce Danilo un giovane che la introduce alla rete clandestina slovena. Qui scopre un universo di posizioni politiche tra correnti cristiane, liberali e comuniste, il ruolo dei prelati e quello del difficile rapporto con la “madrepatria” jugoslava che l’aiuterà a maturare una propria posizione politica. Ella viene a conoscenza del gruppo clandestino del TIGR, acronimo che sta per Trieste Istria Gorizia Reka/Rijeka (Fiume).[19] Il gruppo diviene noto alle autorità italiane nel 1930 dopo l’attentato alla sede de Il popolo di Trieste che provoca la morte di una persona e il ferimento di altre tre. Ecco come Danilo, compagno di Ema, riassume la decisione di organizzare l’attacco alla sede del giornale:

Era successo dopo che gli sloveni sottoposti alla giurisdizione italiana, resisi conto che per vie legali non si cavava un ragno dal buco, avevano cominciato a opporsi alla violenza con la violenza. […] Quale possibilità di difenderti ti rimane se dappertutto, dove sorgono case di cultura slovene, s’innalzano i roghi; e non basta averti privato delle scuole e dei giornali nella tua lingua, ma addirittura non ti è permesso esistere pubblicamente come sloveno. […] Allora fu deciso. Perché forse è giusto che in questo secolo si punisca un insegnante che si vendica spruzzando la sua saliva sulle labbra dei bambini che a scuola pronunciano una parola di una lingua maledetta. Così si è reso necessario fare a pezzi i macchinari di quel giornale che ogni giorno caldeggiava l’annientamento della gente slovena.[20]

Il quotidiano si era infatti fortemente caratterizzato fin dai primi anni per posizioni razziste antislave. Ricorda Pahor: «Noi eravamo le “cimici”», «gente senza lingua né civiltà».[21] Come ulteriore suggerimento di approfondimento, è possibile recuperare, in uno studio dello storico Martella, alcuni estratti del Popolo di Trieste, particolarmente efficaci: «Stieno [sic!] buonini gli slavi. Noi siamo disposti a non accorgerci che simili insetti vivano in mezzo a noi, a patto che gli insetti restino a muffire nell’ombra. Altrimenti mediteranno amaramente sulle conseguenze» o, similmente, il 18 maggio 1922: «Lo slavo è, per sua natura, anguilla. […] È viscido, tortuoso, asfissiante».[22]

Un esercizio di immedesimazione per i ragazzi importante per comprendere altri punti di vista e affinare una sensibilità nei confronti delle minoranze.

 

Gruppo 3 – La deportazione e il lager

Al terzo gruppo verrà invece affidata la lettura di Necropoli dedicato alla deportazione e al lager.[23] A fianco del romanzo, si consiglia la lettura di Primo Levi, I sommersi e i salvati ed in particolare i capitoli La vergogna e Lettere di tedeschi.[24]

Pahor, dopo l’8 settembre 1943, torna a casa. Trieste in quel momento è ormai annessa al Terzo Reich come Zona d’operazione del Litorale adriatico.[25] Dopo essere sfuggito al sicuro arresto per i disertori, si rifugia sul Carso dove entra in contatto con la Resistenza slovena, il Fronte di liberazione (Osvobodilna Fronta). Un periodo di forte maturazione politica raccontato nel suo La città nel golfo e bruscamente interrotto il 21 gennaio 1944 quando viene arrestato dai domobranci, i collaborazionisti sloveni.[26] È l’inizio di un incubo, di quello che a giusto titolo può essere considerato il secondo e più rilevante trauma nella vita di Pahor: il lager.

Questa drammatica esperienza lo porta in un nuovo contesto, lontano da casa, a contatto diretto con la morte di massa. Necropoli, la città dei morti, è infatti il titolo della sua opera più nota e più toccante. Il libro, diversamente dagli altri scritto in prima persona, non segue un vero ordine cronologico, ma si presenta come un flusso di pensieri. Già nelle prime pagine del libro, Pahor, tornato come “turista” nei luoghi della prigionia, ci pone di fronte ad una questione fondamentale e sconcertante:

Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l’idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po’ di gelosia: non soltanto perché oggi occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (ne sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale.[27]

E da qui che si dipana una narrazione che intreccia ricordi vividi del campo ad una riflessione sull’impossibilità di poter trasmettere davvero quel vissuto.[28] «Sono ingiusto, lo so», si trova a dire, nei confronti di chi non ha visto quell’orrore ma cerca, nonostante tutto, di avvicinarcisi. «Continuo a sentire come un’ingiustizia il fatto che quei visitatori si facciano un’idea di questo luogo in un’atmosfera così piacevolmente calda e pacifica, quasi sognante».[29] Un invito, non a respingere le sue parole, ma farsene carico, ad ascoltarlo con la consapevolezza della distanza inevitabile e incolmabile che corre tra noi “turisti dei lager” e il testimone. Una riflessione importante anche per i più giovani sempre più spesso coinvolti nei viaggi della memoria e in progetti su queste difficili tematiche.

Nel suo flusso di pensieri, Pahor prova un profondo “senso di colpa” nei confronti di chi non è sopravvissuto. Un sentimento che aveva già attraversato Primo Levi: «Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione».[30] E sembra proseguire il filo del discorso, Pahor:

In questo momento vorrei dire qualcosa ai miei ex compagni, ma ho la sensazione che tutto ciò che riuscirei a dire sarebbe insincero. Io sono vivo, perciò anche i miei sentimenti più schietti sono in una certa misura impuri.[31]

Qui si innesta il racconto della strage di circa cento ragazze all’interno del lager che provoca in lui un profondo senso di colpa per non aver reagito:

Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù per le scalinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un’SS conduceva, a una a una, le ragazze nella baracca col forno, distante venti passi. Le mitragliatrici, sparando dalle torri di guardia a destra e a sinistra, avrebbero falciato la nostra massa zebrata, i grandi riflettori l’avrebbero abbagliata, ma quella fine ci avrebbe salvato dall’angoscia e dall’umiliazione che si erano depositate in noi. Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n’era andato insieme al succo vitale che scorreva via dai corpi con la diarrea.[32]

Un “senso di colpa” che gli alunni potranno ritrovare in numerosi passaggi del libro.[33]

Eppure Pahor è capace di riportare l’orrore del campo, anche attraverso numerosi episodi di solidarietà e tentativi di resistenza. Egli, piuttosto che soffermarsi sulle figure degli aguzzini, sembra preferire il racconto dei tanti che lo hanno aiutato o che hanno dimostrato la volontà di resistere alla macchina della morte: il medico Franc che, scambiando i cartellini tra deceduti e condannati a morte, riesce a salvarne alcuni,[34] oppure le manomissioni di alcuni prigionieri russi ai missili,[35] e ancora la storia del ragazzo di Spalato, deportato in seguito ad un altro grande processo imbastito dagli italiani a Spalato, che continua a vantarsi di quante ragazze avesse avuto nella sua città: «Il suo racconto era una favola che ci trasportava tutti e due fuori da quel mondo senza eco»[36]. Episodi capaci di evitare la “banalizzazione del dolore” con cui queste tematiche troppo spesso vengono trattate.

Un’altra importante riflessione su cui ci fa riflettere Pahor è quella della capacità di razionalizzare quanto vissuto. Sebbene il libro sia la testimonianza dell’impossibilità di mantenersi razionali di fronte a quel passato, egli riesce però a non cadere in un odio cieco e indiscriminato, come fa quando contesta il suo amico ed ex compagno di prigionia:

hai torto quando nella prefazione domandi al lettore se non sarebbe il caso di annientare una stirpe che ha prodotto Nietzsche, Hitler e Himmler, nonché milioni di esecutori delle loro idee e dei loro ordini. Hai torto perché, senza accorgertene, sei influenzato dal male che ti ha contagiato. […] Ti capisco, ma allo stesso tempo so che sei fuori strada.[37]

Una riflessione che ritroviamo anche in Primo Levi, in particolare quando cita una lettera ricevuta da un tedesco di Stoccarda:

Che Lei abbia potuto far sì che dai Suoi scritti non trapeli un odio irremissibile contro noi tedeschi, è veramente un miracolo, e ci deve indurre a vergogna. Di questo La vorrei ringraziare.

E la risposta dello stesso Levi ricorda quella di Pahor: «che io non provi odio verso i tedeschi, stupisce molti, e non dovrebbe. In realtà, io comprendo l’odio, ma unicamente ad personam[38]

 

Gruppo 4 – Dentro il labirinto

Al quarto gruppo è affidato il compito di approfondire il lungo dopoguerra della città di Trieste, un periodo complesso in cui la città rimane sospesa tra i due paesi. Il testo di Pahor che narra queste vicende dal personalissimo punto di vista di un cittadino della minoranza slovena, è Dentro il labirinto. Per la parte saggistica si rimanda ancora una volta al testo di Pupo o al più specifico e denso testo di Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati.[39]

Pahor, torna a Trieste nel Natale 1946. Egli trova una città sotto occupazione alleata, in attesa di venir assegnata all’Italia o alla Jugoslavia. Egli si troverà impigliato in un vero e proprio labirinto:

E sempre, pensò, i problemi personali si erano intrecciati in un modo o nell’altro alle insidie esterne. Lasciata teologia, lo attendeva al varco l’obbligo militare. E l’esame di maturità. In seguito, la lotta per la libertà lo aveva posto di fronte all’aut aut: scendere in campo con coloro che ne erano alla guida, sebbene non gli ispirassero particolare fiducia quanto a spirito democratico, o starne fuori. Però, dopo un ventennio di resistenza al fascismo, la fuga avrebbe significato tradimento, quindi l’unica alternativa era la lotta. E adesso? Il suo destino personale era di nuovo legato a quello della città. Uniformi inglesi e americane, in linea di principio democratiche, avevano preso il posto di quelle tedesche. Eppure il rebus rimaneva inestricabile; per giunta doveva cercare di risolverlo insieme ai suoi problemi personali.[40]

Un rebus sempre più complicato e, ai suoi occhi, senza soluzione. Con l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Comintern nel giugno 1948, è lo stesso mondo comunista a trovarsi lacerato al suo interno tra internazionalisti, stalinisti e titoisti. Radko non si sottrae al confronto, ma respinge la visione sia del partito comunista sloveno che a suo parere ha egemonizzato il Fronte di liberazione, sia del partito comunista italiano, rappresentato da Vittorio Vidali che riscuote però il sostegno anche degli operai sloveni.

Egli matura presto la convinzione che l’unica soluzione per la città sia la creazione del Territorio Libero di Trieste, previsto dagli accordi di pace ma lasciato sempre in sospeso. Una soluzione, in realtà auspicata da pochi in città ma che permetterebbe, a suo parere, di salvaguardare gli equilibri sempre più compromessi tra le diverse nazionalità.

Sul treno per lasciare la città il protagonista del libro si lascia andare ad alcune riflessioni, utili per capire il rapporto che gli sloveni avevano con Trieste:

Per gli sloveni la città era sempre stata una specie di trappola; ora pareva piuttosto un labirinto dentro il quale il vecchio Minotauro tendeva le sue imboscate per annientare gli eventuali visitatori. Il loro spirito, ovvio. Pareva essere stato ucciso durante la guerra, ma era solo un’illusione. Era solo momentaneamente stordito. E ora, le divinità benevole gli offrivano un valido aiuto a rimettersi in forze. La questione era come venirne a capo, se coloro che avrebbero dovuto metterlo fuori combattimento avevano ancor più ingarbugliato il dedalo che conduceva a lui. Invece di cominciare a educare un nuovo Teseo, si erano lasciati trasportare dai bei sogni.[41]

Egli, stretto tra le diverse posizioni, abbandona la città in cerca di un “nuovo inizio”. Eppure, quando legge di sfuggita che Giunta è stato liberato, le speranze di un futuro più equo vacillano:

Gli tornò davanti agli occhi quella sera estiva con il cielo di sangue come una cupola mostruosa rovesciata sull’edificio in fiamme, ai piedi del quale una marmaglia in delirio ululava e cantava. E sentì le imprecazioni soffocate di suo padre; e vide il fascista Giunta battersi il petto, fiero di aver disinfestato Trieste. […] In quei miserabili anni del dopoguerra era del tutto normale che il mondo si dimostrasse ingiusto con chi aveva già dovuto sopportare tante ingiustizie.

Francesco Giunta, che oltre vent’anni prima aveva guidato l’assalto al Narodni Dom, tornava libero chiudendo amaramente un cerchio di ingiustizie.

 

Conclusioni

Il percorso didattico qui immaginato ha alcuni punti di forza e alcuni di debolezza. Tra i primi troviamo l’opportunità di approfondire un periodo storico complesso da un punto di vista diverso, aiutando gli alunni ad evitare letture troppo schematiche o etnocentriche. L’uso della letteratura rappresenta un altro punto di forza del progetto perché stimola la curiosità nei ragazzi e insegna a “leggere” i romanzi anche come fonte storica.

Tra i punti di debolezza si annovera l’impegno in termini di tempo che la lettura di alcuni romanzi può rappresentare. Mentre per il primo gruppo, i due racconti hanno una lunghezza più limitata, la lettura di Necropoli e soprattutto di Dentro il labirinto, possono rappresentare un vero e proprio ostacolo alla realizzazione del percorso. Un ostacolo che può essere “aggirato” con la selezione preventiva di alcuni testi da parte dell’insegnante.

Infine, quanto descritto in questo articolo può semplicemente essere utilizzato come forma di aggiornamento professionale su queste tematiche, anche prescindendo dalla realizzazione di un laboratorio.


Note:

[1] https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/approfondimenti/2022/06/07/a-trieste-lultimo-saluto-a-boris-pahor-celebrati-funerali_e90b717b-45d4-4cfe-bc4e-7e28e33960ea.html. Cfr. anche https://www.repubblica.it/cultura/2022/05/30/news/franceschini_un_grande_del_novecento_testimone_dellorrore-351783218/?ref=search

[2] B. Pahor, Figlio di nessuno, Rizzoli, Milano 2012.

[3] B. Pahor – Tatjana Rojc, Così ho vissuto. Biografia di un secolo, Bompiani, Milano 2013.

[4] Il discorso di Mussolini si trova in D. Susmel e E. Susmel (a cura di), Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze 1959, Vol. XXIX, p. 114.

[5] Sui campi fascisti si veda Carlo S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004. In particolare su Gonars, si veda A. Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappavu, Udine 2003.

[6] Cfr. https://risierasansabba.it, url consultata l’11 gennaio 2023.

[7] Nel 1954 gli alleati passano i poteri di amministrazione all’Italia, ma sarà solo il Trattato di Osimo del 1975 a fissare definitivamente i confini tra Italia e Jugoslavia.

[8] B. Pahor, Mesto v zalivu, Primorska Založba Lipa 1955.

[9] B. Pahor, Nekropola, Založništvo tržaškega tiska ZTT, Trieste 1967.

[10] B. Pahor – M. Orlić, Tre volte no. Memorie di un uomo libero, Rizzoli, Milano 2009, pp. 81-82. Nel frattempo, a partire dal 2000, erano stati pubblicati altri due suoi testi: B. Pahor, Il rogo nel porto, Nicolodi, Rovereto 2001; B. Pahor, La villa sul lago, Nicolodi, Rovereto 2004.

[11] B. Pahor Necropoli, Fazi, Roma 2008.

[12] Entrambi nella raccolta B. Pahor, Il rogo nel porto, Zandonai, Rovereto 2008.

[13] R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Bari 2021, pp. 62 – 97.

[14] Pahor, Il rogo nel porto, pp. 43 – 44.

[15] Una lista di 20 attacchi fascisti nei confronti della comunità slovena di Trieste seguiti all’incendio del Narodni dom si trova in Milan Pahor, 90 anni fa i fascisti incendiarono a Trieste la “Narodni dom”, in “Patria indipendente”, 18 luglio 2010, p. 33.

[16] B. Pahor, La farfalla sull’attaccapanni, in Pahor, Il rogo nel porto, p. 102.

[17] “Su un totale di 65 condannati a morte, pronunciate dal suddetto Tribunale nell’arco intero della sua attività, il 60% riguardava sloveni e/o croati. Su quelle eseguite invece la percentuale saliva a 76,6%”. M. Verginella, Il confine degli altri cit., p. 21.

[18] Pahor, Figlio di nessuno, p. 35 e p. 39.

[19] Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, pp. 81 – 92.

[20] Pahor, Qui è proibito parlare, p. 188-189.

[21] Pahor, Figlio di nessuno, p. 53

[22]  Adriano Martella, Gli Slavi nella stampa fascista a Trieste (1921-22). Note sul linguaggio, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1, 2006, pp. 11-47.

[23] Un’altra interessante riflessione sulla violenza si trova anche in B. Pahor, Il petalo giallo, Zandonai, Rovereto, 2007: un dialogo tra un ex deportato e una giovane vittima di violenza in famiglia.

[24] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007.

[25] Pahor si trovava allora sul lago di Garda come interprete per ufficiali jugoslavi prigionieri. Cfr. B. Pahor, La villa sul lago, Nicolodi, Rovereto, 2004.

[26] Il momento e la dinamica dell’arresto sono raccontati in B. Pahor, Oscuramento, pp. 269 – 272.

[27] Pahor, Necropoli, p. 25.

[28] La possibilità o meno di un possibile superamento di quanto vissuto e di ritorno alla vita civile viene invece raccontato in un altro suo romanzo nel quale egli riporta i mesi passati in un sanatorio francese in attesa di recuperare le forze fisiche. “non si sentiva a casa da nessuna parte. Nonostante la sua persistente presenza, il mondo dei lager era un’arida pianura senza fine, lontana e avvolta nella nebbia, come del resto il vecchio mondo degli uomini, altrettanto estraneo e chiuso” B. Pahor, Una primavera difficile, Zandonai, Rovereto, 2009 (ed. originale 1958), pp. 20-21.

[29] Pahor, Una primavera difficile, p. 56.

[30] Levi, I sommersi e i salvati, p. 64.

[31] Pahor, Necropoli, p. 132.

[32] Pahor, Necropoli, p. 55.

[33] In particolare l’epilogo rappresenta l’apice di tutta questa riflessione. Pahor, Necropoli, pp. 251- 25.

[34] Pahor, Necropoli, pp. 67-68.

[35] Pahor, Necropoli, p. 184

[36] Pahor, Necropoli, p. 177.

[37] Pahor, Necropoli, pp. 245-246.

[38] Levi, I sommersi e i salvati, p. 151.

[39] N. Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati, IRSML, Trieste 2009.

[40] Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati, pp. 34-35.

[41] Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati, pp. 598-599.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Boris Pahor: l’uomo del lungo Novecento, tra autobiografia e letteratura
DOI: 10.52056/9791254693872/16
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Boris Pahor: l’uomo del lungo Novecento, tra autobiografia e letteratura, Novecento.org, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/16

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