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Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni

Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni

Foto del monumento BBPR a…, tratto dalla mostra Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazion realizzata da ANED.

Abstract

Abstract

Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni è una mostra fotografica e documentaria, prodotta e curata da ANED con l’obiettivo di presentare i monumenti e i memoriali realizzati dagli architetti milanesi su proprio invito. Attraverso l’analisi dei sei diversi progetti questo articolo presenta la relazione tra la missione e l’identità dell’Associazione e alcuni risultati stilistici e formali caratteristici della produzione dei BBPR sul tema della Memoria e della Deportazione, con un’attenzione particolare all’adesione in prima persona all’antifascismo dei quattro architetti.
L’Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti è stata fondata nel 1945 dall’incontro tra chi tornava dai lager e le famiglie dei compagni e delle compagne che invece erano stati assassinati. Oltre a un primo obiettivo di impegno mutualistico per il rientro, il reinserimento e il sostegno agli associati, l’Associazione si è occupata fin dai suoi inizi di ricerca storica, di promozione dei valori dell’antifascismo e di tutela della Memoria.

double blind peer review double blind peer review Questo articolo è stato sottoposto a revisione in doppio cieco (double blind peer review)

Introduzione

Dopo un lavoro durato circa due anni, a gennaio 2023 presso la Casa della Memoria di Milano è stata allestita Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni, la mostra voluta da ANED che riunisce per la prima volta i monumenti e i memoriali dedicati alle vittime delle deportazioni nazifasciste realizzati dallo studio BBPR, dalle iniziali dei quattro architetti che lo fondarono: Gianluigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers.

Le fotografie di Nanni Fontana, scattate nell’estate del 2021, raccontano i cinque progetti, affiancate da documenti d’archivio e foto rare che ne ricostruiscono le vicende, soprattutto in relazione al ruolo che ANED (Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti) ha avuto nella realizzazione e nella cura dei diversi luoghi. Fontana costruisce una narrazione per immagini capace di raccontare, più che la descrizione architettonica dei memoriali, l’esperienza di incontro con i luoghi attraverso una sequenza dinamica e composta in cui emerge il taglio della sua professione di fotoreporter.

La mostra, a cura di Giuliano Banfi, Gaia Carboni, Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi, con la collaborazione di Fondazione Memoria della Deportazione, di Alberico Belgiojoso, di Fondazione Fossoli e con la consulenza di Maria Vittoria Capitanucci, sviluppa un percorso cronologico nel lavoro degli architetti milanesi a partire dal Monumento ai caduti nei campi di concentramento nazisti (1945) al Cimitero Monumentale di Milano; continua con il Memorial di Gusen (1965), con il Museo-Monumento al deportato politico e razziale di Carpi (1973), si sofferma sulla lunga vicenda del Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio di Auschwitz (1980) per concludersi al Monumento al Deportato del Parco Nord Milano(1998) e ad alcuni accenni al Memoriale in ricordo alle donne deportate a Ravensbrück (1982), tornato visitabile solo recentemente a seguito dei restauri.

Autori e testimoni

Il primo elemento di interesse della mostra coincide con il suo carattere inedito: nella vastità dell’opera dello Studio BBPR e nella sua internazionalità, non era mai accaduto che ci si concentrasse in modo completo sull’impegno all’antifascismo che caratterizzò la biografia dei quattro architetti, prima e dopo la Seconda guerra mondiale. L’amicizia iniziata tra i banchi del Ginnasio Parini e consolidata nelle aule della facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, prese corpo naturalmente nel 1932 nella fondazione di uno studio che corrispondesse ai valori di architettura e condivisione che continueranno a essere trasmessi dalla firma mai mutata delle quattro iniziali, forte affermazione di una progettazione collettiva e sottolineata dalla frase spesso ripetuta pubblicamente  «Qualsiasi progetto fatto in quattro è comunque migliore di quello che avrebbe potuto essere prodotto da ciascuno»,[1] presente nella mostra ad accompagnare il percorso di visita.

Fin dagli esordi – e benché il suo lavoro fosse inquadrato nelle opere pubbliche volute dal regime – lo studio BBPR si distinse per l’originalità dei suoi progetti, capaci di discostarsi dall’impronta retorica voluta dal fascismo. Negli anni Trenta e primi anni Quaranta la presenza dello studio sulla scena pubblica è costante: i BBPR partecipano attivamente alla Triennale di Milano, realizzano la Colonia elioterapica di Legnano (1938) e il Palazzo delle Poste all’Eur42 a Roma (1939-1941), e sono coinvolti nella pianificazione urbana (Piano Regolatore di Pavia nel 1933 e quello della Valle d’Aosta nel 1943).

Nel corso di questi anni avviene la progressiva adesione all’antifascismo, processo per altro non lineare per i quattro architetti che, come tanti colleghi italiani del tempo, erano stati affascinati dalla ricerca di una nuova architettura per il popolo propugnata dal regime. In un carteggio conservato dalla famiglia, Lodovico Belgiojoso spiega le difficoltà di trovare alternative alla fede fascista in cui avevano creduto per «le aperture date alla pianificazione urbanistica ed al Movimento moderno in architettura».[2] E tuttavia a partire dalla proclamazione dell’Impero, la fiducia nel fascismo inizia a incrinarsi, fino a essere definitivamente rotta dalla promulgazione delle leggi razziali e dall’inasprirsi della propaganda antiebraica, che li colpisce in modo diretto.[3]

Successivamente a questo passaggio ideologico, i quattro conobbero, seppure in modo diverso, tutti gli aspetti della violenza del nazifascismo: Gianluigi Banfi fu deportato a Fossoli, a Bolzano, a Mauthausen e ucciso a Gusen; Lodovico Belgiojoso –  che con Banfi era stato tra gli animatori del Partito d’Azione e aveva trasformato lo Studio in un centro clandestino della Resistenza dopo l’Armistizio -, venne a sua volta arrestato e deportato, solo per caso assegnato a diversa mansione nell’ultimo Lager e perciò sopravvissuto; Enrico Peressutti fu richiamato al fronte come ufficiale di collegamento con la punta avanzata dell’ARMIR ed ebbe modo di rendersi conto delle condizioni disperate dell’esercito italiano; Ernesto Rogers fu costretto a rifugiarsi in Svizzera e fu internato nel campo di Vevey a causa delle sue origini ebraiche.

Al termine del conflitto mondiale i tre superstiti ritornarono a una intensa attività progettuale e di critica, in cui rimane forte anche l’impronta di Banfi e che fece dello studio un punto di riferimento internazionale per la diffusione della cultura progettuale italiana.

Per l’intera produzione memoriale i tre architetti progettarono sempre confrontandosi con la voce dei testimoni, di chi – conoscendo in prima persona gli eventi e gli orrori – aveva chiaro quale fosse stato il processo storico che aveva condotto al momento presente e sentiva l’urgenza di impedirne la ripetizione attraverso un atto di memoria. Un impegno che continuò anche dopo la morte di Rogers (1969) e di Peressutti (1976), con il solo Belgiojoso rimasto a portare avanti questa peculiare visione anche a nome e in vece dei compagni.

Collaborazione

Ci sono poi due altri temi che i curatori intendevano evidenziare attraverso la selezione di documenti e fotografie storiche che accompagnano le immagini prevalentemente in bianco e nero di Fontana, due aspetti che non sono propriamente separabili. Se le fotografie del fotoreporter descrivono l’incontro con i diversi memoriali e monumenti, con le differenti atmosfere e modalità di racconto, i documenti allegati approfondiscono e spiegano in quale misura la realizzazione degli stessi progetti sia stata possibile grazie all’azione e alla collaborazione tra istituzioni ed enti mediata da ANED attraverso figure chiave. Oltre cioè a raccontare di volta in volta i legami di amicizia e condivisione d’intenti dei BBPR con altre professionalità tecniche e creative, vengono ricostruiti gli scambi e il carattere collettivo che da sempre ha caratterizzato l’identità dell’Associazione. Così, accanto alle foto del Memorial di Gusen si può leggere, per esempio, l’incipit dell’appello di Ermete Sordo, fratello di Narciso, ucciso a Gusen, per l’erezione di un monumento che preservasse le ultime tracce del lager il cui terreno era oggetto di lottizzazione da parte dell’amministrazione locale, e si possono leggere anche alcuni frammenti della relazione inoltrata da Valeria Morelli, incaricata da ANED per l’acquisto dell’area su cui si collocava il forno crematorio e attorno a cui sarebbe stato costruito il Memorial.

A dimostrazione della «contaminazione di grande effetto emotivo e comunicativo»[4] c’è innanzitutto il progetto per il Museo-Memoriale di Carpi: al concorso bandito dal sindaco Bruno Losi in collaborazione con ANED e le altre associazioni del territorio, lo studio BBPR partecipa e vince presentando un progetto in collaborazione con Renato Guttuso, che vedrà poi l’allestimento delle tredici sale del pianterreno del Palazzo dei Pio ad opera di Albe e Lica Steiner.

Il punto più alto di questo spirito collaborativo tra lo studio, ANED e altre professionalità è occupato dal Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi di sterminio di Auschwitz. Nella mostra sono presenti le immagini a colori dell’opera nella sua attuale collocazione: una grande spirale in metallo occupava in origine tutta la lunghezza dei due stanzoni del Blocco 21 ad Auschwitz. La struttura funge da telaio per le grandi tele dipinte da Pupino Samonà sapientemente illuminate dal regista Nelo Risi che, come in un fregio classico, ricostruiscono gli eventi dalla nascita del fascismo, alla deportazione e fino alla liberazione. Insieme ai disegni delle prime idee a firma BBPR sono esposte riproduzioni della lettera in cui Primo Levi accetta l’incarico di redigere il testo che ancora oggi accoglie il visitatore all’ingresso, del documento con cui G. Ricordi & C. S.p.A. acconsente all’utilizzo permanente nell’allestimento de Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, la composizione di Luigi Nono del 1966, e dello scambio commosso dei ringraziamenti tra Samonà e Gianfranco Maris, presidente di ANED che aveva fortemente voluto la realizzazione del Memoriale, il primo a raccontare la deportazione nazionale italiana nel museo del lager. Sono ripercorse anche le difficili vicende del suo smontaggio obbligato: nonostante il carattere espressamente didattico e didascalico della narrazione storica illustrata dall’opera, la nuova gestione del sito di Auschwitz ha imposto nel 2015 la rimozione immediata del Memoriale, ritenuto non idoneo a svolgere la funzione pedagogica dei padiglioni nazionali secondo l’impostazione data dal nuovo regolamento.[5] All’urgenza del trasferimento è seguito il restauro a cura dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e – di nuovo grazie a una collaborazione tra enti – il trasferimento a Gavinana gestito da un accordo tra il Comune di Firenze, Regione Toscana, Ministero dei Beni Culturali e ANED.

I nomi

Il secondo tema che la mostra vuole far emergere è da una parte una cifra stilistica dell’opera dei BBPR, e dall’altra invece la convergenza dei memoriali con gli scopi e la missione di ANED fin dai suoi inizi. Nella progettazione memoriale dello studio i nomi delle vittime a cui il monumento è dedicato sono inseriti quali elementi visivi e non complementari. A Carpi si trova una sala intera sulle cui pareti sono incisi oltre quattordicimila dei circa quarantamila nomi dei deportati italiani, a cui si aggiungono l’omaggio ad Anna Frank e ai sessantasette martiri di Fossoli,[6] mentre al Monumento al Deportato del Parco Nord i masselli che recano il ricordo delle vittime sono addirittura elemento cruciale compositivo.

Nella critica alla monumentalistica del secondo dopoguerra l’uso del nome nella rappresentazione della memoria è stato spesso inserito quale possibile declinazione dell’anti-monumento[7] in relazione alla tradizione ebraica. «Ricordare per nome non solo restituisce identità di persone alle vittime di un destino comune ma consente di tradurre l’astrazione di una cifra totale nella somma delle sue componenti parziali»,[8] può essere vero per coloro i quali non sono testimoni diretti degli eventi e si avvicinano al monumento a scopo conoscitivo e commemorativo. La mostra presenta due immagini che confutano questa affermazione di Zevi in relazione, almeno nella sua prima fase, al Monumento ai caduti nei campi di concentramento nazisti del Cimitero Monumentale di Milano. L’archivio fotografico Enrico Peressutti conserva infatti due foto a colori in cui la seconda versione del progetto (che è stato oggetto di tre restauri solo nei primi tredici anni) è attorniata da una grande quantità di ritratti, fiori e oggetti depositati spontaneamente. Alle oltre millequattrocento vittime milanesi corrispondevano altrettante famiglie che non avevano una tomba né altro luogo fisico in cui piangere o pregare per il caro mancato: a questo bisogno risponde l’inserimento nella terza versione del Monumento delle sette lastre in pietra con i nomi dei caduti. Non quindi una nominazione a scopo rituale ma dedicazione specifica alla comunità per cui quel monumento ha valore simbolico. Attorno a questo bisogno di ricongiungimento con il deportato si costruisce anche il primo nucleo di ANED, anzi i primi nuclei diffusi nel territorio che con spirito mutualistico aiutano i familiari a trovare notizie e li supportano nelle necessità pratiche, dal rimpatrio alle richieste di indennizzo, e nella necessità di trovare un sostegno e un riconoscimento in una comunità nuova e mutata dopo il trauma. Tratti di questa comunità sono stati da sempre infatti la solidarietà e il sostegno reciproco, nell’incontro tra ex-deportati e famiglie si costruiva il ritorno alla vita come sancito dall’Articolo 3 dello Statuto dell’Associazione, dove tra gli scopi troviamo al comma l) «svolgere tutta la possibile opera di assistenza, morale e materiale, nei confronti dei soci».[9] Allo stesso Articolo è descritta anche l’attività di ricerca cui è chiamata l’Associazione: (art. 3 comma g) «raccogliere documenti ai fini della storia della Deportazione»),[10] e inizia così già nei primi anni la compilazione di liste di nomi a comporre archivi di dati in cui raccogliere e ridare appunto identità a tutti coloro ai quali e alle quali era stata sottratta tramite immatricolazione nel lager.[11]

Tra i maggiori contributori a questa ricerca la mostra ricorda Giuseppe Valota, ex-presidente di ANED Sesto San Giovanni – Monza e protagonista della genesi del Monumento al Deportato che si trova al Parco Nord. Ultimo per cronologia (è stato inaugurato nel 1998) e perciò disegnato da Lodovico e Alberico Belgiojoso che aveva iniziato a collaborare da tempo con lo Studio,[12] questo progetto si articola intorno ai temi fin qui presentati. È l’unico monumento dei BBPR espressamente dedicato ai deportati politici, rappresentati da una stele in corten che allude a un uomo che trasporta delle grosse pietre sulle spalle – un richiamo all’attività estrattiva tipica di alcuni lager ed in particolare di Gusen – a cui si accede tramite una scala che evoca quella di Mauthausen. Intorno all’elemento verticale si apre un’ampia curva di masselli con incisi i nomi di cinquecentosettanta deportati dall’area industriale di Sesto San Giovanni a seguito degli scioperi operai. Il luogo fu scelto dall’architetto Belgiojoso insieme all’architetto Francesco Borella, progettista del Parco Nord, per la sua posizione sopraelevata e per il valore simbolico dell’area: la collina è infatti formata dagli scarti degli altiforni e altre macerie prodotte dall’attività della Breda, in particolare della sezione V Aeronautica che occupava il nucleo primigenio del Parco stesso e che era stata un sito importante della resistenza operaia. Giuseppe Valota fu l’autore della ricerca che ha permesso di stilare l’elenco completo dei deportati e delle deportate di area sestese che appare sui masselli[13] ma fu anche tra i promotori della realizzazione stessa del progetto. In mostra sono visibili i documenti che attestano il suo impegno al coinvolgimento dei vari enti interessati per la realizzazione di un “sacrario verde” che ricordasse le vittime della deportazione dell’area delle fabbriche, così come era stato proposto da alcuni studenti di una scuola media della zona che, dopo aver assistito nel 1976 alla testimonianza di un ex-deportato, avevano avvertito la necessità di avere un luogo dove ricordare un evento così importante per il territorio dove abitavano.[14]

Conclusioni

Il caso degli studenti del Parco Nord porta nella seconda fase dell’utilizzo dei nomi, quello descritto da Adachiara Zevi, dove dare nome significa dare corpo a un numero – sia statistico che di matricola. Porta anche a una seconda fase dei monumenti dedicati alle vittime della deportazione nazifascista: superato per cause temporali il momento dell’espressione di un sentimento diretto di una comunità, dei sopravvissuti e delle famiglie, questi assumono la loro definizione più tradizionale, quella del memento, quella del “mai più”, con tutti i rischi di immobilismo e retorica del nostro presente. Come ricostruisce Valentina Pisanty, l’architettura e l’arte hanno affrontato a più riprese e in diversi modi i temi della Memoria, intesa a volte come ciò che davvero unifica nella contemporaneità tutto l’Occidente.[15] Pur non avendo le caratteristiche di scala, temporaneità e relazione definite da Young, la vicenda degli studenti milanesi si colloca temporalmente nel periodo in cui si realizzano i primi anti-monumenti ad opera della generazione, che pur non avendo vissuto direttamente gli anni della guerra, ne sente la responsabilità e si attiva quindi per fare memoria attiva. Per un’associazione come ANED il tema della distanza temporale coincide anche con l’interrogativo di come continuare la propria attività se i testimoni diretti scompaiono e se i Monumenti, perdendo la loro funzione primaria per i familiari, non riescono a essere i simboli attorno a cui costruire l’identità comunitaria di chi viene dopo.

Tra i documenti presenti in mostra, costruita anche raccogliendo quello spirito di collaborazione tra professionalità e competenze diverse già posto come fondamentale dallo studio BBPR, ce ne sono alcuni che sono in grado di annullare quella distanza temporale. Si tratta dei disegni realizzati durante la prigionia da deportati e deportate che assumono un doppio valore di testimonianza. Costituiscono alcune delle pochissime immagini che restano della vita quotidiana all’interno dei lager, tanto da essere stati usati come prove nei tribunali in alcuni dei processi contro i kapo e da essere stati scelti dai progettisti come elemento principale per l’allestimento del Memoriale in ricordo alle donne deportate a Ravensbrück (1982): qui nella piccola cella di punizione le pareti sono coperte da riproduzioni dei disegni di Violette Lecoq, internata in quel campo, e di altri tra cui ricordiamo qui Belgiojoso stesso, Aldo Carpi e Agostini Barbieri.[16] Quelli presentati a Ravensbrück non sono gli unici disegni sopravvissuti, ne esistono più di quel che si potrebbe immaginare, alcuni conservati in istituzioni importanti, come quelli realizzati da Aat Breur-Himba, ex-deportata olandese, che si trovano presso l’archivio dello Stedelijk Museum di Amsterdam, e altri conservati dall’ANED stessa, come i numerosi ritratti di deportati realizzati da Armando Maltagliati, capocampo prima a Fossoli e poi a Bolzano.[17] La famiglia Belgiojoso conserva una cinquantina degli schizzi realizzati da Lodovico durante l’internamento e subito dopo la liberazione, alcuni esposti a testimonianza da una parte della necessità umana di reagire, di affermare attraverso il disegno e l’espressione di sé una resistenza al sistema concentrazionario, e dall’altra l’urgenza di produrre racconti che potessero sopravvivere all’autore. La mostra presenta per la prima volta tre acquerelli realizzati da Belgiojoso durante l’internamento a Fossoli che sono oggi di proprietà dell’ANED, consegnati da Lodovico a Maltagliati prima della partenza da Bolzano. Per la loro natura di espressione intima e immediata[18] i disegni sono quanto di più vicino alla voce dei sopravvissuti ci rimane e, inoltre, costituiscono un documento per le condizioni in cui sono stati prodotti:[19] i piccoli frammenti di carta e i tratti di matita restituiscono la circostanza in cui sono realizzati, spesso grazie alla solidarietà di un compagno, che, come nel caso di Belgiojoso,[20] trafugava e regalava di nascosto mozziconi di matita e avanzi di foglio.

Progettare la memoria dunque propone un modo di fare memoria a partire da un’interpretazione fotografica di luoghi già storicizzati che possa raccontare, insieme ai documenti d’archivio che accompagnano le immagini, come la comunità che ne è stata committente e destinataria, che è oggi responsabile per quei Memoriali e Monumenti, attorno ad essi si sia costituita e si raccolga ancora per ridefinirsi nei valori dell’antifascismo, della collaborazione e del riconoscimento.

Bibliografia di approfondimento

Su Architettura

  • G.L. Banfi, L. Barbiano di Belgiojoso, E. Peressutti, E. N. Rogers, Stile, editoriale Domus, Milano 1936.
  • G. Ponti, Stile di BBPR, in “Stile”, n. 22, pp. 11-18.
  • S. Maffioletti (a cura di), BBPR, Zanichelli, Bologna 1994.
  • M. Pogacnik (a cura di), Il segno della memoria: 1945-1995. BBPR, Monumento ai caduti nei campi nazisti, Electa, Milano 1995.

Sulla deportazione

  • L. Belgiojoso, Non mi avrete, ed. Del Leone, 1986.
  • L. Barbiano di Belgiojoso, Notte, Nebbia. Racconto di Gusen, Hoepli, Milano 2009.
  • A. Carpi, Diario di Gusen, Einaudi, Torino 1993.
  • L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978.
  • V. Pappalettera, Tu passerai per il camino. Vita e morte a Mauthausen, Mursia Editore, Milano 1965.
  • G. Valota, Dalla fabbrica al lager. Testimonianze di familiari di deportati politici dell’area industriale di Sesto San Giovanni, Mimesis, Milano 2015.
  • G. Valota, Streikertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945, Guerini e Associati, Milano 2008.

Sui disegni

  • B. Aldebert, Il campo di sterminio di Gusen II. Mauthausen: via Crucis in 50 stazioni, a cura di E. Hölzl, Mimesis, Milano 2013.
  • Barbieri, Belgiojoso, Carpi, Music, Slama, Artisti italiani nei campi di sterminio nazisti, Electa, Milano 1985.
  • L. Barbiano di Belgiojoso, Dal lager: disegni di Lodovico Belgiojoso, Edizioni delle Raccolte Storiche del Comune, Milano 2008.
  • D. Venegoni, T. Valpiana, E. Iafrate (a cura di), Menestrella nel lager. Disegni e filastrocche di Aura Pasa, Bolzano 1944-1945, catalogo della mostra prodotta da ANED Associazione Nazionale Ex-Deportati, Milano 2023.

Note:

[1] S. Guidarini, L. Molinari, P. Brambilla, Lo Studio BBPR e Milano, in “Itinerari di architettura milanese: l’architettura moderna come descrizione della città” a cura della Fondazione Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Milano, https://ordinearchitetti.mi.it/it/cultura/itinerari-di-architettura/28-lo-studio-bbpr-e-milano/saggio (url consultata il 3 maggio 2023).

[2] G. L. e J. Banfi, Amore e speranza. Corrispondenza tra Julia e Giangio dal campo di Fossoli aprile-luglio 1944, ed. Archinto, Milano 2009, p 13.

[3] Banfi, 2009, pp. 13-14.

[4] G. Banfi, Qualsiasi progetto fatto in 4 è migliore di quello fatto da uno solo. Perché ANED ha voluto così fortemente questa mostra in “Triangolo Rosso”, n 1-3 Gennaio-Marzo 2023, Milano.

[5] Per un approfondimento della vicenda: P. Livi e D. Venegoni (a cura di), Arte testimonianza memoria, ed. Poliartes, Milano 2020.

[6] “I nomi sono stati tratti, secondo un criterio casuale e non di scelta nominale, tra quelli che compongono le liste ufficiali dei deportati del nostro Paese, fornite al Comitato promotore del Museo dell’Associazione Nazionale ex Deportati e dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea.” (M. Luppi e P. Tamassia (a cura di ), Il Museo Monumento al Deportato Politico e razziale di Carpi e l’ex campo di Fossoli, Bonomia University Press, 2016,  p. 153.

[7] Definito per la prima volta da James E. Young, questo termine raccoglie tutte le rappresentazioni che a partire dal lavoro degli artisti tedeschi sul tema della responsabilità e della memoria, contestano i codici tradizionali di simbolizzazione del potere, ribaltando punto di vista e sviluppo formale.

[8] A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli editore, Roma, 2014, p 91.

[9] Articolo 3 del primo Statuto dell’ANED (1945).

[10] Articolo 3 del primo Statuto dell’ANED (1945).

[11]  Italo Tibaldi già nel 1950 iniziò la ricerca dei quarantanove uomini deportati nel suo stesso vagone del treno (confluita nel libro Compagni di viaggio, FrancoAngeli, Milano 1994), per proseguire con il completamento della ricostruzione dei duecentosessantasette trasporti che lasciarono l’Italia e le isole greche per la Germania. La lista completa dei deportati politici italiani si trova invece in G. D’Amico, G. Villari e F. Cassata (a cura di), Il libro dei deportati. Ricerca diretta da B. Mantelli e N. Tranfaglia. Volume I – I deportati politici 1943-1945, Ugo Mursia Editore, 2009.

[12] Presutti e Rogers nel frattempo erano deceduti.

[13] L’elenco e le schede complete si trovano in G. Valota, Streikertransport. La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni (1943-1945), Guerini e associati, Milano 2007.

[14] Copia della lettera dei ragazzi è conservata presso l’archivio di ANED Sesto San Giovanni – Monza.

[15] V. Pisanty, Guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani ed., Milano 2020.

[16] Tuttavia, solo i disegni di Lecoq sono riferiti e rappresentano la vita a Ravensbrück. Un possibile ripensamento per un allestimento che non sia prevalentemente composto da disegni di altri lager (e realizzati da uomini) è al momento interrotto a causa del recente restauro voluto dal Museo.

[17] Armando Maltagliati era stato immatricolato col numero 101 a Fossoli e trasferito a Bolzano con la liquidazione del campo emiliano, in quanto capocampo svolse una mansione di collegamento tra i compagni e le SS, aveva per esempio l’incarico di leggere le liste e gli elenchi di quanti destinati alle partenze. Personaggio controverso proprio per la sua posizione (fu liberato nel novembre 1944), riuscì però a salvare i suoi disegni e quelli a lui affidati da Lodovico Belgiojoso, che sono stati oggetto della mostra prodotta da ANED Volti nei Lager. Ritratti eseguiti nel 1944 a Fossoli e Bolzano, gennaio 2019, Casa della Memoria, Milano.

[18] Il termine “immediata” non si riferisce al piano temporale (alcuni dei disegni sono stati realizzati a seguito della liberazione) bensì a una dimensione dell’espressione di sé più diretta diversa dalla comunicazione verbale o pittorica.

[19] Si veda G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, ed. Cortina Raffaello, Milano 2005.

[20] Ci si riferisce qui a Germano Facetti (1926-2006), deportato a Mauthausen e Gusen e art director della Penguin Book dal 1960 al 1972. Durante la prigionia Facetti aveva confezionato clandestinamente un archivio in forma di taccuino di disegni del campo e ritratti dei compagni, indirizzi, pensieri e poesie a quattro mani con Lodovico Belgiojoso. Il taccuino è stato oggetto della mostra Non mi avrete. Disegni da Mauthausen e Gusen. La testimonianza di Germano Facetti e Lodovico Belgiojoso, a cura di Marzia Ratti e Luigi Piarulli, La Spezia, Palazzina delle Arti, 29 settembre – novembre 2006, Torino, Museo Diffuso, 2007.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni
DOI: 10.52056/9791254693872/14
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Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Progettare la memoria. Lo studio BBPR: i monumenti, le deportazioni, Novecento.org, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/14

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