Guida critica alla Casa della Storia Europea
By Guy Delsaut – Own work, CC BY-SA 4.0, Link
Abstract
La Casa della Storia Europea è il nuovo museo voluto dal Parlamento europeo. Inaugurato nel 2017, si vuole presentare come il luogo della memoria degli europei. Per il momento non sembra riuscirci.
Avrei avuto ragione io, fautore di un museo della storia europea naturalmente aperta o chi, come mia figlia e mia moglie, pensavano che l’Europa c’era e non aveva bisogno di niente che la solennizzasse e la imbalsamasse come una mummia? Con questo spirito, lunedì 26 marzo dell’anno del Signore 2018, ci siamo diretti alla Casa della storia europea, a Bruxelles. Già questa inaspettata intitolazione mi aveva suggestionato, “casa”: luogo dell’anima, del focolare, Heimat condiviso, spazio di accoglienza ma familiare, in cui certo si litiga, ci si guarda in cagnesco ma poi, alla fin fine, ci si vuole bene tutti nonni, figli, nipoti, fratelli e cugini. Con questo spirito comunitario mi avvio all’ingresso: bellissimo. In un giardino che stava appena appena riscoprendo la primavera, pieno di giovani che stavano uscendo da scuola. Con un sussurro mia moglie mi lascia guardare l’enorme cubo di porfido, regno, in passato, del signor George Eastman, non l’attore (pseudonimo italiano dell’attore Giorgio Montefiori), ma l’imprenditore-filantropo americano: uno che preferì lasciare i suoi soldi perché si costruissero cliniche odontoiatriche per bambini piuttosto che spenderli in bunga bunga.
Una guida galattica per la storia europea?
Vabbè. Entriamo nel cubo. Anche qui, scolaresche che sciamano. Gruppi di tanti paesi. Gite scolastiche o quant’altro. Mi sembra un buon inizio. Cuore mio che batti per l’emozione, portami su: al primo piano. Personale gentilissimo che, letteralmente, ti barda. Lasci il tuo documento d’identità e appare la prima sorpresa. Nuova, almeno per me, che non sono un grande visitatore di musei: ti danno un tablet e ti spiegano che lì c’è tutto lo scibile che permetterà di muoverti all’interno delle sale. Una guida galattica dell’autostoppista della storia d’Europa. Conoscendo le mie abilità tecnologiche rabbrividisco ma ho accanto a me la mia famiglia e una solerte signorina che capisce le mie difficoltà e comincia a seguirmi come un’ombra.
Entriamo nella prima sezione. Il nome è tutto un programma: l’Europa prende forma. Una buona overture, accattivante. Armato del mio tablet, comincio ad armeggiare: la procedura è un po’ farraginosa ma nel passare di teca in teca, di sezione in sezione puoi vedere immagini e film, leggere e sentire brani, tutti di una durata che, naturalmente, non supera di molto il minuto. Davanti a me si parano tre grosse teche. In quella di sinistra c’è il mito: Europa, la classicità, il rapporto Oriente-Occidente, la memoria di un passato culturale millenario. Al centro, la rappresentazione: com’è cambiata la configurazione dell’Europa dalla Tabula Peutingeriana fino alla carta Peters e alle più recenti rilevazioni, quelle, per intenderci, col mondo a testa in giù, col centro nel Pacifico: benissimo, penso, è un concetto che condivido, che cos’è una carta geografica se non una prospettiva ideologica?
Oggetti e equivoci di una storia controversa
Ma è la terza teca la più interessante: in una dozzina di piccolissime vetrine trovi oggetti che simbolizzano temi rappresentativi dell’Europa o di che cosa possa essere nell’immaginario comune: terra di schiavismo o di tolleranza? Di illuminismo e rinascenza o di dittatura? Di supremazia militare e tecnologica o filosofico-culturale? Domande fondamentali, non dico per capire l’identità europea – brutta parola – ma almeno per comprendere gli elementi della nostra diversità rispetto al mondo. Quesiti di base fondamentali da cui partire per una discussione per tabulas del nostro passato che è anche nostro presente. Tuttavia mi fermo. In una delle vetrine c’è un archibugiere portoghese, presentato come simbolo negativo della preminenza militare e del colonialismo e dell’oppressione europea. Il peggio che l’immaginario anticolonialista possa partorire. Solo che c’è un piccolo errore filologico: la statuina era stata realizzata per omaggiare i soldati venuti dall’Europa, che avevano aiutato il sovrano del Benin a liberarsi di un suo rivale, ostacolo fastidioso alla sua attività di procacciatore di schiavi. Così era, al principio del ‘500 … Ahi, ahi. Ma tant’è. I temi ci sono. Le domande anche. E i denominatori di appartenenza pure. E mi pare una buona base di partenza. Cominciamo da qui, dai fondamentali per capire se questa Europa è qualcosa che nei secoli è andata più in una direzione che non in un’altra. E su cosa essa sia stata costruita.
Secondo piano. Ormai siamo una vera e nuova famiglia. Mia moglie, mia figlia, i tablet, io e la signorina che mi segue come un’ombra perché ha concluso definitivamente che tra me e la tecnologia non è che ci sia un gap ma un vero e proprio scontro di civiltà. E qui non capisco più niente. Mi trovo infatti proiettato davanti a un grande schermo sul quale passano immagini che si susseguono l’una dopo l’altra, che vanno dai fumi e gli schianti delle pallottole della Bastiglia a Carlo Marx e Federico Engels che inalberano il Manifesto. Continuo a camminare e mi trovo fra le turbine di una fabbrica: la rivoluzione industriale. Giro l’angolo e mi spunta davanti la pistola di Gavrilo Princip e un altro schermo che riassume in due-tre minuti la prima guerra mondiale.
Sconcerto.
Ero ancora con la testa legato al mito d’Europa, alle carte di rappresentazione dell’Europa, alle domande su miti fondanti l’Europa e ora mi trovo d’emblée, spinto a forza nell’Ottocento patriottico e industriale, nella Belle Epoque dei fratelli Lumière e nei duelli aerei e nei rumori dei tank tra le trincee della I guerra mondiale. E quei due, tremila anni che ci sono stati prima? E il tardoantico-medioevo-etàmoderna-pacediWestfalia-secolodeilumi-settecentoriformatore? Dove sono? Non appartengono anch’essi alla casa della storia europea? Mi giro verso la signorina – ormai siamo un tutt’uno indissolubile – e le dico: – cara signorina, ma tutto questo salto cronologico perché?
Tutto quello che c’è in mezzo tra l’età classica e l’Europa contemporanea dov’è?; – Non c’è – mi risponde. – E’ deludente -, incalzo. – Lo dicono in molti -, conclude.
Una vulgata manualistica
A questo punto la mia visita prosegue ma con un forte imbarazzo. Ho lasciato perdere il tablet che si è rivelato impiccioso più del dovuto. Ma, orrore, non ci sono targhette alle teche. Quindi chi si vuole vedere il museo senza tablet gira come un cieco dove è possibile solo guardare degli oggetti che non hanno nomi, né storia, né memoria. Ma posso garantire che non ho visto niente di particolarmente originale, provocante, accattivante, rievocativo. Mi sembrava di passeggiare all’interno di un manuale di terza media a grandezze cubitali – anche fatto con sufficienza.
Perché il percorso segue un bell’itinerario evenemenziale, che va dall’inizio del Novecento ad oggi. La storia d’Europa, della casa europea, della sua famiglia è solo contemporanea, racchiusa in cento anni, con questa scansione: la I guerra mondiale, il totalitarismo contro la democrazia, la seconda guerra mondiale, ricostruire un continente diviso (la guerra fredda), i trenta gloriosi, un piccolo spazio per la Shoah, il sogno dell’Europa infranto, la nuova cartina dell’Europa e – una dopo l’altra – le pietre miliari dell’integrazione europea e la memoria comune. Con alla fine uno spazio dove ti siedi e guardi il Cielo, dove scorrono immagini d’Europa e dici che bello che bello senza che riesci a capire dove si andrà, dove si vorrà andare e, soprattutto, che cosa significa essere europei e cosa distingue noi dal resto del mondo. Un percorso in conclusione freddo, rigido, poco originale, senza guizzi. In una parola: noioso.
Un museo che non aggiunge, ma sottrae
Alla fine qual è il mio giudizio? Soprattutto il giudizio di chi da questo museo dovrebbe ricavare almeno un’impronta, cioè mia figlia, che ha tredici anni? Che questo museo non va visto per quello che contiene ma per quello che sottrae. Dentro non c’è il mondo. Il mondo europeo. Ma teche imbalsamate che, come in ogni buon museo, non rappresentano la vita ma la cristallizzazione dell’esistenza. Insomma, questo museo cos’è? Una montagna che ha partorito un topolino, istituzionale, ingessato, politically correct, da Commissione europea. E dunque soporifero e monotono che non affronta la storia ma la sfugge e preferisce alla discussione un pedissequo compitino. Ben fatto, ma un compitino.
Un museo allora che non aggiunge ma sottrae. Ed è interessante proprio per questo.
Manca ad esempio un’idea d’Europa che non sia centro-Europa, fondata sull’asse Bruxelles-Berlino-Parigi, cioè l’Europa mediterranea o quella orientale, che entrano nel discorso solo di sguincio.
Manca un’idea dell’Europa di lungo periodo, quella sì davvero apportatrice di diversità: che parli della rinascita delle città, delle università, della cultura scientifica, del mercato e dei suoi fondamenti, dei diritti dell’uomo, e, perché no, anche di eserciti brutali, di Pizarro e di Cortes, di schiavismo e di abbrutimento.
Manca l’Europa dei migranti: quale altro tema è più toccante per la memoria europea, dalle invasioni barbariche fino a Lampedusa?
Mancano gli universalismi.
E manca – ed è un paradosso – la religione, le sue tensioni, le sue guerre, le sue contrapposizioni la cui presenza tocchi con mano, nel vivo, in ogni chiesa poco distante dal museo, lì a Bruxelles, laddove il racconto parla di cattedrali costruite con sforzo nel medioevo, di tensioni controriformistiche negli occhi lacrimosi delle Madonne, di distruzioni iconoclaste riformiste o rivoluzionarie, di ricostruzioni neogotiche frutto del nuovo spirito romantico.
Manca in definitiva tanto.
Ed è questa, lo ripeto, la nota più bella del museo. Perché lo potete visitare. E, mentre lo percorrete, immaginarvene un altro. Ricco, bello, invitante, seducente. Lungo nei temi e nella progressione cronologica. Che propizi riflessioni. Che alimenti discussioni. Dove ci sia davvero dentro l’Europa, la sua storia e la sua memoria.