Select Page

Cinque domande sulla didattica della storia

Intervista a
Salvo Adorno[1], Agostino Bistarelli[2], Gianluca Cuniberti[3], Vito Lorè[4], Walter Panciera[5]

Abstract

Il 25 e il 26 ottobre 2018 si è tenuto a Roma il convegno “Gli storici e la didattica della storia. Scuola e Università”. Organizzato dal Coordinamento delle Società Storiche e dalla Giunta Centrale Studi Storici ha contribuito a stabilire i punti fermi della riflessione accademica attorno alla didattica della storia. Abbiamo chiesto a cinque dei relatori presenti – scelti per rappresentare l’intera gamma dei settori scientifico-disciplinari in Italia: dalla storia antica a quella contemporanea, oltre a un collega in servizio nella secondaria di secondo grado – di rispondere ad alcune nostre domande sui temi della formazione docenti, delle competenze, della didattica trasmissiva e di quella laboratoriale e, infine, del rapporto fra didattica e Public History.

Il convegno tenutosi a Roma nell’ottobre scorso ha focalizzato il dibattito attorno alla difficile integrazione fra innovazioni da anni indicate come soluzioni ma mai davvero entrate nelle pratiche – la didattica laboratoriale e quella delle competenze sono gli esempi più noti – e una realtà che fatica a uscire dal modello dell’ora di storia che si costruisce attorno a lezione frontale/lettura del manuale/interrogazione orale di taglio nozionistico.

Da quando il Processo di Bologna del 1999 ha innescato i meccanismi di una transizione verso lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore (EHEA) il sistema universitario e la scuola italiana si sono indirizzati verso pratiche d’innovazione del paradigma educativo che stentano però a rispecchiarsi nell’esperienza quotidiana: di fronte ad una svolta attesa da più parti, l’unica soluzione aperta sembra essere quella di rimandare.

Forse i problemi sul tavolo sono troppi: raramente i docenti che insegnano storia a scuola hanno una laurea in storia o, se ce l’hanno, la scelta dell’insegnamento è, spesso per loro, un ripiego.

Le aule universitarie sono luoghi sempre più affollati dove è difficile far lavorare gli studenti sulle fonti, così da avvicinarli a una didattica laboratoriale.

L’orientamento ministeriale pare più orientato a togliere attenzione alla storia che a dedicarne: situazione che enfatizza precise scelte di politica culturale da cui è difficile emerga la volontà, da parte dei docenti, di lavorare su formazione e aggiornamento.

I manuali di storia sono sempre più spesso poderosi volumi nei quali si esaurisce ogni curiosità, ma in cui mancano gli strumenti per orientare gli studenti al problema storico. Il canone tende all’ipertrofia, la narrazione si riempie di stereotipi, la verifica dei learning outcomes si trasforma in un obiettivo fuori portata.

Le riflessioni della Public History vivificano il dibattito e aprono l’attenzione alla ricaduta didattica pubblica del mestiere dell’insegnamento, ma la questione resta aperta: nelle mani di docenti alle prese, da anni, con classi in cui studenti con i più svariati bisogni educativi speciali non sono più una sparuta minoranza.

Di fronte ad una situazione simile è facile farsi prendere dallo sconforto e tornare a chiudersi nella propria emergenza quotidiana. Il convegno voluto dal Coordinamento delle Società Storiche e dalla Giunta Centrale Studi Storici dà un segnale forte che va in controtendenza e orienta alla necessità di lavorare, il più sistematicamente possibile, sulla didattica della storia per le esigenze di una scuola in trasformazione.

Domanda 1

Appare con chiarezza che la storia a scuola non è questione all’ordine del giorno nell’agenda del Miur o dei dirigenti scolastici. E tuttavia se questo è un problema non si può dire sia l’unico. Lasciando da parte la marginalità in qualche modo subita da chi riflette e lavora su questi temi, durante il convegno romano è arrivata da più parti l’osservazione di una situazione paradossale in cui l’“anno zero” di un mutamento percepito come urgente si replica, quasi senza scarti, da decenni. Il metodo laboratoriale è da più parti indicato come una delle soluzioni più affidabili – anche perché sperimentate da lungo tempo – per avviare un processo innovativo nell’insegnamento della storia a scuola. Ma allora perché non ha avuto maggiore fortuna nella didattica scolastica? Che cosa inceppa il meccanismo di diffusione delle buone pratiche? Manca una riflessione teorica efficace che sostanzi la pratica didattica? Mancano le cinghie di trasmissione del processo?

ADORNO

Luigi Cajani (Laboratorio dell’ISPF, XI, 2014) e Pietro Causarano (Italia Contemporanea, 286, 2018) raccontano le vicende di una riforma dell’insegnamento della storia mai compiuta. Da Berlinguer a Bussetti ogni nuovo Ministero ha rimodulato curricula, programmi, classi di concorso, modalità di formazione, selezione e accesso all’insegnamento. È il segno della centralità di una storia contesa, o di una sua progressiva marginalità nel mondo della scuola?

Difficile dare risposte. Si può solo constatare che mentre recentemente, dopo una lunga pausa, sembra rinascere un nuovo interesse degli storici di professione, attraverso le loro società scientifiche, per la didattica della storia, di contro le istituzioni sembrano navigare verso una progressiva marginalizzazione dell’insegnamento. Ne sono prova la diminuzione delle ore nel curriculum degli istituti professionali, l’esclusione dalla prova di maturità del tema di storia, la competizione con la geografia nella distribuzione delle ore curricolari, oltre l’annunciato colloquio orale di maturità del tema “Cittadinanza e Costituzione” che prevedibilmente aprirà un contenzioso con giuristi ed economisti. L’attuale interesse degli storici per la didattica della storia va in controtendenza rispetto al disinteresse delle istituzioni e per questo fa molto bene alla scuola e alla società italiana. È bene che questa controtendenza si spinga fino a recuperare la didattica laboratoriale.

Le prime elaborazioni di metodo sulla didattica laboratoriale si affermano nel pieno del dibattito sulla riforma De Mauro. Da allora la riflessione sul tema ha raggiunto livelli teorici raffinati nelle agenzie didattiche associative, ma è pressoché sparita dal dibattito fra gli storici e dalla didattica universitaria. Frattura esiziale perché ha rotto la cinghia di trasmissione dialettica tra università e agenzie, tra Università e scuola. Chi deve insegnare i metodi laboratoriali ai futuri insegnanti? In quale frazione del percorso universitario e/o post-universitario impartire questo insegnamento?

Il periodo migliore per i laboratori è stato quello delle SSIS, per poi decadere progressivamente mentre sparivano, a eccezione di pochi ammirevoli casi, i corsi curricolari universitari di Didattica della storia. Nella presente stagione si è sperato nel ruolo dei FIT post-concorso che il ministro Bussetti, coerentemente con la logica di riformare le riforme precedenti, ha abolito. Restano gli spazi di didattica disciplinare all’interno dei 24 CFU che le Società storiche hanno fortissimamente voluto (e ottenuto), nei quali è necessario recuperare la didattica laboratoriale. Gli storici hanno tutto l’interesse a coprire questi spazi per non lasciarli alle didattiche generali della pedagogia e alle altre didattiche umanistiche.

BISTARELLI
Dal mio punto di vista il problema non è nell’efficacia o meno del metodo laboratoriale, ma piuttosto nel sistema che non è in grado di recepirlo e anzi tendenzialmente lo rifiuta. Le buone pratiche ci sono, mi sembra abbastanza consolidata anche una riflessione metodologica adeguata, ma la formazione dei docenti, la struttura della giornata complessiva di una classe, il quadro orario disciplinare, le sollecitazioni che arrivano a docenti e studenti dall’esterno del puro rapporto didattico, spingono appunto a renderle “esemplari”. Quindi non producono massa critica, entrano in conflitto con la quotidiana “normalità delle altre pratiche didattiche. In questo senso la situazione osservabile rappresenta proprio la cartina di tornasole della premessa alla domanda: nel contesto di una questione (l’insegnamento della storia) non ritenuta meritevole di grande attenzione, l’innovazione rimane marginalizzata, lasciata alla “buona volontà” del singolo docente.
CUNIBERTI

Il laboratorio con le fonti non è certo una novità ma, stranamente, è un’esperienza che fluttua senza mai veramente affermarsi. Penso che occorra un chiarimento: il laboratorio non può essere proposto come esperienza didattica che imita il vero. Non serve fare giocare un bambino o un adolescente in una simulazione guidata, una sorta di fiction nella quale gli si fa interpretare il piccolo storico (o archeologo, archivista…). Si dovrebbe, invece, trattare di un’esperienza didattica reale che ritengo realizzabile, a ogni età in modo diverso, già dagli ultimi due anni della scuola primaria.

Si assiste, invece, spesso alla replicazione di una sorta di teoria dell’esperienza dello storico – contradditoria in sé – come premessa all’esposizione della storia evenemenziale. Si pensi al discorso, spesso affrontato in maniera un po’ grossolana, su fonti dirette e indirette, primarie e secondarie che precede ore e ore di un racconto di fatti storici nei quali mai trapela il lavoro sulle fonti evocato nei ragionamenti preliminari.

Da cosa partire o ripartire? In breve direi che le competenze si formano sulle conoscenze ed è, dunque, prima necessario trasmettere i contenuti minimi. Il laboratorio sulle fonti seguirà e sarà utile ad approfondire un aspetto, un fatto, un personaggio: dovrà essere modulato con cura, secondo la classe, e senza fuggire dalla complessità dell’esegesi storica che va fatta già con i bambini e senz’altro con gli adolescenti.

Il traguardo è riuscire a trasmettere – e a far praticare – che lo spirito critico è l’esercizio dell’intelligenza con metodo per la comprensione. Non è il criticare, il dubitare di tutto, il contestare fine a sé stesso.

LORÈ

Esiste senza dubbio un problema di diffusione delle buone pratiche nella didattica della storia. Credo che ciò dipenda non tanto da una mancanza di riflessione teorica, quanto da un elemento di carattere pratico: le modalità di formazione dei docenti. Chi insegna storia è, nella gran parte dei casi, laureato in Lettere o in Filosofia e ha quindi conoscenze di base normalmente più articolate in quegli ambiti. A mio parere il problema fondamentale è questo: gli insegnanti non sono messi in condizione di acquisire nelle aule universitarie una confidenza con la storiografia e, soprattutto, con le fonti, abbastanza ampia da poter ideare in autonomia percorsi di didattica laboratoriale; e certamente l’assenza quasi totale di insegnamenti universitari dedicati alla didattica della storia non aiuta.

Molto di buono è stato fatto, per esempio in alcune SSIS, e si continua a fare con la formazione in servizio, ma non “fa sistema”, non ancora, almeno, perché, a mio parere, la conoscenza della metodologia didattica produce meno frutti se non si combina con una formazione storica di base abbastanza ampia e qualificata degli insegnanti. La condivisione di buone pratiche didattiche fra colleghi potrebbe essere uno strumento potente di aggiornamento, valorizzando le competenze di chi lavora nella scuola, avendo conseguito una laurea o un dottorato in storia; ma in questo senso la debolezza dei dipartimenti scolastici e una certa, diffusa tendenza a “fare da sé” non aiuta.

PANCIERA

Il modello laboratoriale è certamente una delle modalità didattiche più efficaci per l’insegnamento della storia, ma non l’unica. La riflessione teorica sul tema del laboratorio di storia è stata largamente sviluppata, soprattutto fino agli Anni novanta, ma ha un po’ peccato di astrattezza e non è stata aggiornata in relazione ai nuovi strumenti informatici e telematici. Soprattutto, però, non è praticata ed è addirittura poco conosciuta dalla maggior parte degli insegnanti in servizio, a causa della mancanza di momenti di aggiornamento professionale sulla disciplina, promossi a livello ministeriale, che sarebbero stati assai opportuni come accompagnamento alle Indicazioni Nazionali. L’insegnamento della Didattica disciplinare all’interno delle SSIS, TFA e PAS, e ora nei ‘pacchetti’ per i 24 CFU, ha consentito ai più giovani tra gli insegnanti e agli aspiranti tali un approccio avanzato a diverse metodologie, ma questo è accaduto a macchia di leopardo, nonostante l’intervento delle società storiche per avviare un’uniformità e coerenza dei percorsi.

Resta il problema dell’insufficienza e dispersione degli strumenti a corredo per la didattica laboratoriale, sia in forma breve (su specifici skills) sia come modalità di simulazione della ricerca. Anche in questa direzione sarebbe importante un intervento a livello istituzionale e nazionale per l’implementazione, l’organizzazione e la standardizzazione di percorsi didattici e dei relativi materiali.

Domanda 2

Il processo di Bologna ha contributo a stabilire i confini dello Spazio Europeo dell’Istruzione superiore nel quale è centrale il passaggio dalla trasmissione di conoscenze all’acquisizione di competenze. Passaggio che è stato oggetto della relazione di Walter Panciera nella quale si è ipotizzato un possibile superamento del “paradigma cronologico”. Ma di cosa si parla quando si parla di competenze? Quali sono le competenze che uno studente alla fine del ciclo di studi superiori dovrebbe avere acquisito? L’insegnamento per competenze è davvero praticabile nella scuola italiana o è un mantra utile a immaginare un restyling che rimane sulla carta?

ADORNO

Il tema delle competenze è centrale nel discorso sulla didattica. Insisterei sull’idea che le competenze sono abilità e conoscenze agite. Semplificando si tratta di capacità, acquisite nel percorso scolare, utili ad affrontare la vita di ogni giorno: scrivere, leggere, orientarsi nelle forme di comunicazione artistica, gestire la dimensione spazio-temporale nelle dinamiche globali, gestire la dimensione biologica, fisica e matematica dell’esistenza, avere consapevolezza del proprio ruolo di cittadino.

Per evitare ogni equivoco va sottolineato che le competenze non esistono senza conoscenze e abilità, e dunque nella didattica per competenze non scompare la storia come conoscenza di fatti, problemi, interpretazioni. Inoltre la competenza non è mera tecnica da acquisire, bensì la lenta e progressiva maturazione di un metodo per trasformare un sapere disciplinare in uno strumento per orientarsi nella vita. In questo senso nel bagaglio delle competenze c’è anche il “saper essere”: un insieme di pratiche, valori etici e capacità relazionali che appartengono ai singoli soggetti.

A mio parere la competenza principale che dovrebbe essere acquisita alla fine del ciclo scolastico è quella di sapersi orientare criticamente nella massa d’informazioni e narrazioni storiche oggi proposte, saper porre al passato le domande aperte dai problemi del presente e saper utilizzare il campo dell’esperienza che ci viene dal passato per poter vivere il presente – usando il vocabolario di Koselleck – e disegnare gli orizzonti del futuro. Tutto ciò serve a formare un buon cittadino. Obiettivo che può essere raggiunto lavorando sui due assi portanti del lavoro storico: il tempo e le fonti. In sintesi imparare a periodizzare e maturare l’idea che non può esserci storia senza fonti che la certificano; fonti che vanno lette criticamente (è utile, in tal senso, l’uso didattico della “Prima lezione di metodo storico” di Sergio Luzzatto, Einaudi 2010).

Tutto ciò non significa che l’insegnamento della storia nelle scuole debba mirare a formare piccoli storici: solo pochi dei giovani orientati a una scelta universitaria umanistica approfondiranno lo studio della storia, mentre la maggioranza lascerà ai diciotto anni lo studio della disciplina. L’obiettivo più alto di una buona didattica per competenze è di offrire ai primi lo stimolo per continuare a studiare storia nell’Università e ai secondi dare lo strumento per orientarsi storicamente nella vita quotidiana e collocarsi consapevolmente nel presente.

E, tuttavia, trovo che esistano due debolezze nella didattica della storia per competenze: in primo luogo un eccessivo livello di formalizzazione, tipico della standardizzazione europea, rischia di irrigidire la programmazione e la valutazione; in secondo luogo permane una debole definizione della progressività degli obiettivi da raggiungere nei diversi cicli scolari. Di questo sarebbe utile discutere.

BISTARELLI

Partirei dalla Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente che il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato nel maggio scorso. Quel testo aggiorna il precedente documento del 2006, prendendo atto che ancora non si è realizzato il pieno possesso delle competenze di base nelle giovani generazioni. Noto, per inciso, come nel caso italiano le parti più propositive che auspicano una maggiore connessione tra processi formali, non formali e informali e la necessità di sostenere il personale docente risultano ancora del tutto inapplicate.

Il concetto di competenze si sostanzia come combinazione di tre componenti: le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti (definiti come la predisposizione a reagire o agire di fronte a idee, persone, situazioni). Prendere sul serio tale impianto significa scardinare l’esperienza quotidiana e penso che proprio questo sia il maggiore ostacolo al cambiamento: non tanto per la fatica che i docenti dovrebbero fare per modificare la loro pratica didattica quanto perché presuppone modificare assetti organizzativi, valutativi, impianto metodologico delle Indicazioni Nazionali. Per restare alla domanda, significherebbe fare in modo che il paradigma cronologico sia messo in secondo piano non solo nella nostra disciplina ma anche per le altre materie.

Nelle otto competenze delle Raccomandazioni le due che mi sembrano più legate alla storia sono quelle in materia di cittadinanza (competenze sociali e civiche) e quella in materia di consapevolezza ed espressioni culturali. Per questa seconda si dovrebbe sviluppare la capacità di collocare un fenomeno nel tempo e nello spazio, di capirne le trasformazioni nel breve o nel lungo periodo, di approcciarsi a esso con un atteggiamento critico. Ma se, appunto, non si cambia paradigma e metodo didattico tutto questo risulta impraticabile. Una proposta potrebbe essere quella di sfidare il Ministero: “Accetta che nelle mie ore si sviluppi una pratica rivolta alle competenze? I miei studenti come saranno poi valutati all’esame finale?”

CUNIBERTI

La riflessione sulla didattica per competenze è ormai molto avanzata. Nel convegno ho evidenziato due questioni che per me rimangono aperte e da risolvere.

La prima riguarda la progressività: nelle attuali definizioni dei programmi e dei documenti ministeriali le competenze sono sempre identiche – in ogni grado d’istruzione dalla primaria all’università – e altissime. Fondamentalmente descrivono da subito ciò che ci si potrebbe aspettare da uno storico “professionista”. Inviterei a ripensare questi descrittori in termini di progressione e modulazione, anche e anzitutto nei documenti ufficiali.

La seconda riguarda la questione cronologica che va letta non limitandosi alla questione del racconto in ordine cronologico. Le discipline storiche in Italia – e non solo in Italia – hanno seguito un percorso di altissima specializzazione che ha portato a risultati altrimenti irraggiungibili. Si tratta di risultati che dovrebbero trovare spazio nella didattica che non può rinunciare a evocare la dimensione disciplinare; ciò che permette di distinguere la storia secondo la periodizzazione tradizionale (naturalmente una periodizzazione vale l’altra, almeno in una certa misura, ma è evidente che ne esiste una che ci appartiene per tradizione culturale). Fatto salvo il dialogo fra le discipline storiche – oggi senz’altro attivo – e fatta salva la sottolineatura delle intersezioni fra i diversi periodi, la didattica della storia attende ancora una declinazione che coniughi tale dimensione disciplinare con quella trasversale. Penso che occorra lavorarci ancora un po’.

E tuttavia è evidente che una didattica laboratoriale per competenze può essere strumento per recuperare specificità disciplinari valorizzando contemporaneamente le esperienze formative sul metodo storico.

LORÈ
A mio parere è meglio non porre la questione in termini di “passaggio” da un modello a un altro di didattica. Le competenze possono essere acquisite soltanto attraverso le conoscenze; per questo motivo, il punto fondamentale mi pare salvare il “paradigma cronologico”, che è l’elemento proprio della conoscenza storica, in una dimensione problematica e critica. Per conseguire l’obiettivo, trovo necessario rimettere al centro dell’attenzione la lettura delle fonti, in relazione al loro contesto specifico. Anche la definizione delle competenze si salva dal rischio di risultare generica solo se è condotta con riguardo allo specifico della nostra disciplina, cioè le operazioni sulle fonti in relazione ai contesti storici. Che fonti possiamo sottoporre a uno studente di dieci e a uno di diciannove anni? Che livelli e che qualità di analisi e di inferenze possiamo aspettarci, nei vari momenti del percorso scolastico e alla sua fine?
PANCIERA
Direi che non si tratta affatto di una questione pretestuosa, ma, come ho già più volte sottolineato, di un cambiamento epocale nei paradigmi educativi, non solo per la storia ovviamente. Possiamo continuare a fingere che nella società contemporanea sia importante accumulare nozioni e memorizzare contenuti, ma sappiamo bene che non è così e che ciò che importa è saperli trovare, capirne validità e limiti, sapere infine come, quando e con chi utilizzarli. La disciplina storica può certamente servire per fornire ai cittadini dei paradigmi per orientarsi nel presente e alcuni fondamentali strumenti critici per la ‘lettura’ della realtà in chiave diacronica. Semplificando, potrei dire che la competenza finale relativa alla nostra disciplina a livello di scuola superiore potrebbe essere così definita: sapersi accostare criticamente ai fatti e alle informazioni ed essere in grado di ricostruirne un senso a partire dalla fonti a disposizione. Naturalmente resta ancora da compiere quasi per intero il percorso per declinare coerentemente le competenze relative in connessione ai diversi gradi di scuola, alle singole classi e ai traguardi finali (fine primaria, assolto obbligo, esame di stato) perché quanto esposto nelle Indicazione nazionali risulta troppo generico e astratto. Inoltre rimane anche da definire, con una seria e approfondita riflessione, il rapporto che deve sussistere tra le competenze da costruire e i contenuti fondamentali di riferimento.

Domanda 3

La storia a scuola è, per la maggior parte dei docenti e degli studenti (nella relazione di Adalberto Magnelli si è parlato di un 80% circa), legata a un modello trasmissivo che si compone di una lezione frontale, spesso accompagnata dalla lettura e dallo studio del manuale, seguita da un’interrogazione orale. Un modello che contribuisce a perpetuare un canone (di metodo, ma anche di contenuti) resistente alla trasformazione. Si può dire che la marginalizzazione (percepita e/o reale) della storia a scuola sia il prodotto di questa consuetudine trasmissiva? Il manuale è ancora uno strumento adeguato alla trasformazione in atto? Può ancora identificarsi come strumento di lavoro? Esiste una questione legata alla sua qualità e alla valutazione che se ne dovrebbe fare prima di adottarlo?

ADORNO

La didattica trasmissiva non aiuta ad acquisire competenze, quella laboratoriale sì. E’ un po’ la differenza che fa Edgar Morin tra la “testa ben piena” e la “testa ben fatta” (utile la lettura di un suo classico della pedagogia ancora attualissimo: “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”, Cortina, 2001). E tuttavia non va identificata una corrispondenza univoca tra didattica trasmissiva e uso del manuale. La didattica deve essere una pratica creativa e programmata, flessibile ma capace di certificare gli obiettivi raggiunti, in grado di utilizzare la molteplicità di strumenti che ha a disposizione. Narrazione e spiegazione devono convivere, costruzione di cronologie e linee del tempo devono far parte delle pratiche laboratoriali di decodificazione delle fonti e di ricostruzione in vitro dei processi storici. I film di finzione, i documentari storici, i giochi da tavolo e i giochi di ruolo devono entrare nella didattica a fianco del manuale.

Il merito del manuale è per me quello che per altri è il suo demerito: dare un ordine sequenziale e una periodizzazione, offrire un linguaggio, proporre un’interpretazione.  Essere l’utile, persino il necessario, filo conduttore di un percorso che orienta lo studente. Il nodo da sciogliere è l’uso che se ne fa. Il suo studio può essere trasmesso meccanicamente o essere sottoposto a critica, a verifica, a controllo attraverso tecniche di smontaggio e di confronto su base laboratoriale. In tale prospettiva il manuale entra nel laboratorio al pari di ogni altro testo, per proporre quadri di contesto in cui inserire altre narrazioni con altri strumenti e con altre pratiche didattiche.

È uno scenario in cui entrano in gioco due fattori: la creatività del docente e la qualità del manuale. Sono questi i due fronti su cui bisogna investire in ricerca e formazione.

BISTARELLI
Non torno sulle risposte precedenti, anche se spiegano la mia posizione: per sintetizzare penso che il manuale sia ancora utile se lo si considera uno tra gli strumenti della didattica e questo vale anche per la lezione frontale. Da questo punto di vista la sua valutazione mi sembra un problema secondario: da un lato ormai esiste un processo informale di selezione del testo per le adozioni, dall’altro se è considerato come uno degli strumenti può essere e deve essere “criticato” come gli altri, dalla rete ai prodotti multimediali.
CUNIBERTI

Abbiamo buoni manuali e alcuni ottimi. A mio avviso la questione (se si esclude la parte minoritaria di testi non adeguati) non sta qui, ma nella formazione di chi insegna storia.

È certamente vero che andrebbe interrotta l’esclusività del modello trasmissivo, ma è necessario comprendere che non lo si debba fare per sostituirla integralmente. Qui, però, si apre una specifica questione dei programmi scolastici italiani: l’irrisolto rapporto fra innovazione e contenuti tradizionali. Non si può pensare di aggiungere contenuti ai programmi senza chiedersi che cosa sia irrinunciabile ed essenziale in termini di conoscenze e dove, invece, si possa optare nel dare spazio ad approfondimenti e laboratori che sviluppino competenze. È necessario selezionare, nel senso di approfondire conoscenze a fronte della riduzione di altre.

LORÈ

Distinguerei due aspetti della questione. Il ricorso alla lezione frontale e lo studio del manuale non sono in sé un problema: sono, a mio parere, una prassi didattica non solo legittima, ma anche necessaria, che si sclerotizza e diviene insufficiente solo quando si pone come esclusiva, prescindendo sistematicamente dal ricorso alle fonti, in forma laboratoriale o no, e da operazioni didattiche che prevedano un ruolo attivo degli studenti, anche attraverso l’esercizio della scrittura. Che il ruolo sociale della storia sia in crisi è indubbio, ma “destrutturare” il manuale, o addirittura prescindere da esso, non mi pare possa aiutare; per me il manuale resta uno strumento essenziale.

Sarebbe invece davvero opportuno ristrutturare i manuali, facendo nuovamente spazio alle fonti; non in maniera decontestualizzata o episodica, ma sistematica e mirata. Voglio dire che alcuni argomenti o temi (penso, per restare nel mio campo, a punti caldi come il sistema curtense, le identità barbariche, o i rapporti di fedeltà personale) si prestano benissimo a essere affrontati a partire da un documento, o da un piccolo dossier di documenti, espressivo di un fenomeno generale.

Un altro problema, a questo proposito, è che a fronte di alcuni testi ottimi o eccellenti ve ne sono molti, troppi di livello scadente da un punto di vista scientifico; né i ripetuti interventi editoriali giovano alla chiarezza dell’impianto. Sulla questione è necessaria una maggiore attenzione reciproca fra università, mondo editoriale e scuola, in modo che il livello medio possa elevarsi e la scelta dei testi da parte dei docenti sia più consapevole. Mi pare che qualche segnale positivo in questo senso ci sia, ma il campo è ancora apertissimo.

 

PANCIERA

Il manuale è uno strumento ancora utile a scopo didattico, ma certamente non può rimanere lo strumento esclusivo per l’insegnamento della storia perché altrimenti si perpetua quel sistema spiegazione/studio/interrogazione che deprime l’interesse dello studente, ne mortifica l’iniziativa e consente all’insegnante di deresponsabilizzarsi riguardo all’azione didattica. Per questo è necessario costruire un discorso con gli stessi docenti su ‘come’ va usato il manuale, quali sono i limiti della didattica trasmissiva e quali altri metodi si possono utilizzare. Soprattutto va necessariamente chiarito che il contenuto del manuale non è “LA” Storia e che occorre comunque operare delle scelte sui contenuti e sulle metodologie di approccio ai diversi temi.

Infine: oltre alla grossa questione della ‘validazione’ dei contenuti dei manuali medesimi (a volte ci sono semplificazioni sconcertanti, quando non veri e propri errori), sarebbe importante pensare a strumenti manualistici di nuovo tipo, che possano dialogare con le risorse in rete e davvero suggerire e facilitare percorsi didattici partecipati e non di tipo meramente trasmissivo.

Domanda 4

Nel panorama accademico la didattica della storia sembra essere declinata in molteplici forme: a seconda del corso di laurea all’interno del quale è inserita, del docente e/o di altre variabili. Sono rintracciabili, all’interno di tali oscillazioni, alcune linee di indirizzo comune? È possibile pensare a una ricaduta, nella scuola, della didattica su cui si lavora all’università? Nella relazione di Gianluca Cuniberti, ad esempio, è stata dimostrata l’efficacia di un’azione di studenti universitari che sperimentano pratiche direttamente nei percorsi di tirocinio. Questa continuità virtuosa può essere pensata anche fuori dai corsi di Scienze della formazione?

ADORNO

Il convegno di Roma ha mostrato alcune importanti esperienze pilota di didattica della storia attivate nei corsi di Scienze della formazione, dove il target dell’utenza è ben definito: insegnanti di scuola primaria. Nei corsi di laurea in Storia, in Filosofia, Filologia, e più in generale in quelli umanistici, la situazione è più incerta.

Forse si stenta a prendere consapevolezza che la maggior parte degli studenti iscritti ha come obiettivo l’insegnamento, solo una minima parte ambisce alla ricerca, mentre molti immaginano un futuro nel campo del mercato dell’editoria, del giornalismo e della comunicazione pubblica. Altri, forse la maggioranza, lavoreranno in settori che nulla hanno a che fare con la formazione universitaria umanistica. In sintesi formiamo prevalentemente giovani che nelle ambizioni e/o nei fatti insegneranno a scuola.

Formare gli studenti universitari alla didattica disciplinare significa innescare ab origine un circuito virtuoso tra università e scuola, e in questa prospettiva il tirocinio universitario presso le scuole deve rappresentare un tassello essenziale.

BISTARELLI
Linee d’indirizzo comuni nella didattica della storia prodotte dalle Università mi sembrano rintracciabili solo nella loro scarsità. Per il ciclo secondario pare ancora lontana un’organicità tra il momento della formazione accademica e la sua applicazione nell’insegnamento. Non credo si tratti solo di un problema legato alla scarsa presenza di accademici con una preparazione adeguata, ma anche della distanza che si realizza tra i piani di studio, i settori scientifico-disciplinari e le classi di concorso per i diversi cicli.
CUNIBERTI
Il carattere professionalizzante del percorso di laurea quinquennale in Formazione Primaria ha certamente una sua specificità. Molto diversi sono l’articolazione e gli obiettivi di un percorso formativo (laurea triennale + magistrale + specializzazione) che prepara al mestiere di docente di scuola secondaria. La questione, però, potrebbe essere intesa anche diversamente: sperimentare concretamente il metodo storico non dovrebbe essere questione relativa solo alla formazione degli insegnanti, ma essere parte integrante di ogni intervento formativo sulla storia. In questo senso una concezione allargata del ruolo dei tirocini – funzione anch’essa laboratoriale – potrebbe portare lo studente universitario a misurarsi precocemente e positivamente con i diversi mestieri della ricerca e della comunicazione storica.
LORÈ

Nella didattica universitaria esiste da sempre una formula eccellente per costruire competenze spendibili in ambito scolastico, per ideare e condurre esperienze laboratoriali. È il seminario: il docente pone un problema specifico, imposta le linee della ricerca e divide in gruppi gli studenti, che lavorano in autonomia direttamente sulle fonti, per poi riferire agli altri, incrociando i risultati ottenuti.

Le costrizioni attuali della didattica universitaria hanno reso questa formula meno praticata che in passato, ma il punto essenziale è un altro: i seminari sono di norma praticati nei corsi di laurea specialistica, mentre per i crediti in storia necessari all’insegnamento sono sufficienti gli esami della triennale. È il problema che segnalavo in apertura.

L’esperienza riportata nel convegno da Cuniberti è interessantissima quanto, credo, eccezionale. L’idea di diffonderla al di fuori dei corsi di Scienze della formazione è ottima e varrà sicuramente la pena provare a realizzarla.

 

PANCIERA
Non c’è dubbio che almeno in alcuni dei nostri atenei vi sia chiara consapevolezza dei limiti e dell’insufficienza di un tipo di didattica puramente trasmissiva, per quanto altamente qualificata. Uno dei problemi è costituito però dal numero degli studenti, tendenzialmente crescente e per taluni corsi di laurea triennale francamente incompatibile con forme più partecipate o addirittura cooperative di insegnamento. Non credo che l’università sia particolarmente avanzata sul piano dell’innovazione didattica, né mi pare siano stati elaborati modelli efficaci e condivisi, per quanto la consapevolezza in merito sia negli ultimi anni sicuramente molto cresciuta. Certo, soprattutto a livello dei corsi magistrali, la tradizionale modalità seminariale o la possibilità di avviare percorsi di approfondimento personale costituiscono esempi sempre positivi e sui quali si può ancora lavorare e migliorare. Mi pare che manchi anche, per quanto riguarda la storia, un’auspicabile integrazione delle nuove tecnologie e delle risorse di rete nei percorsi didattici universitari.

Domanda 5

La forza, la presenza e l’efficacia della Public History sono in crescita e non sono in discussione. Negli ultimi cinque anni è cresciuta l’offerta di Master universitari dedicati e dal 2017 l’Italia ha una sua associazione nazionale (AIPH) che ha introdotto un dibattito di grande interesse e rilievo. D’altro canto la sempre maggiore visibilità della Public History sembra segnare, accompagnandola, la crisi del ruolo sociale dello storico di professione, soprattutto in ambito accademico. Ma esiste un problema specifico della didattica della storia che possa dirsi prescindere i destini della storia come scienza sociale? Può la Public History costituire il modello per la didattica nella scuola o funziona, piuttosto, proprio in opposizione a una modalità – percepita come “polverosa” – di insegnare e comunicare storia? Nell’ipotesi che l’efficacia didattica dipenda in gran parte dallo stile comunicativo ha senso pensare che l’acquisizione di nuove strategie sia di per sé la soluzione per un rinnovamento della storia a scuola? E, posto che ciò possa avvenire, è davvero pensabile che possano essere gli insegnanti, senza alcuna mediazione, a “dovere” acquisire tali metodi? Chi li aiuterà a lavorare su tali competenze?

ADORNO

Public History e Didattica della storia sono differenti, direi che si muovono per raggiungere obiettivi diversi, anche se ne hanno alcuni in comune. La prima si pone l’obiettivo di costruire narrazioni storiche per/e con il coinvolgimento attivo di un pubblico vasto, non accademico, con la finalità di promozione diffusa della conoscenza storica; la seconda di fornire, attraverso un lavoro pluriennale, competenze storiche che permettano di destreggiarsi tra le narrazioni del passato che l’odierna società globale ci propone.

Ciò non toglie che ci siano elementi che accomunano Public History e didattica. Il primo è la ricerca di un linguaggio accessibile, semplice ma non semplificatorio, capace di agevolare la comunicazione. Il secondo è il contrasto alle pratiche di mistificazione del passato in funzione del presente che appartiene sia allo statuto originario della Public History, basato su narrazioni metodologicamente corrette della storia, sia alla matrice primaria della didattica per competenze. Ne deriva che ambedue puntano al tema della formazione di una consapevole cittadinanza: la didattica della storia come principale competenza trasversale da fare acquisire, la Public History come risultato di buone pratiche.

In questa prospettiva la didattica potrebbe lavorare su produzioni di Public History sottoponendole a smontaggi laboratoriali e, viceversa, potrebbe essere un buon esercizio didattico costruire esempi di Public History. Un giovane ben formato alla didattica per competenze ha più facilità di diventare un buon public historian di uno ben formato con una didattica trasmissiva: il primo sarà in grado di decostruire e costruire narrazioni storiche, il secondo solo di ricordarle.

BISTARELLI

Credo che vada affrontato questo tema con grande attenzione. Esiste una tendenza alla semplificazione che porta a identificare la Public History come la soluzione alla marginalizzazione della storia, sia dentro che fuori l’istituzione scolastica. In questo senso si equivoca anche la definizione stessa di Public History, considerandola solo come una forma di comunicazione innovativa, che sia digitale, narrativa, multimediale e così via. Certamente le sue pratiche potrebbero offrire una risorsa per la coesione se riuscissero a smontare le contrapposizioni identitarie; ciò può accadere in classe ma ancora meglio fuori dalle aule.

I docenti di per sé non sono public historian e questi ultimi non è detto che sappiano insegnare. Va detto, poi, che nelle scuole ci sono già tanti agenti di nuove pratiche di comunicazione sul passato, di testimoni, di eventi che lavorano sulla memoria o sul calendario civile. Infatti non è questo il vero nodo. Il Manifesto della Public History italiana si conclude con questa frase: “Per i public historian è imprescindibile considerare i pubblici, specialisti e non, sia come interlocutori privilegiati sia come possibili protagonisti di originali pratiche di ricerca, contribuendo a restituire agli storici e alla storia un ruolo centrale nell’interpretazione della società contemporanea”. Il problema, dunque, è consolidare azioni capaci di trasformare gli studenti in questi interlocutori: capaci di proprie pratiche di ricerca e non semplice pubblico da affascinare. È evidente che questo significherebbe ridiscutere i modelli della formazione di tutti coloro che si occupano della trasmissione del sapere storico.

CUNIBERTI

A mio giudizio esiste una questione preliminare che sintetizzerei così: la storia è disciplina “democratica” e a noi storici piace che lo sia. Che cosa intendo? Intendo che la storia è fatta da tanti e in tanti modi e per questo può essere difficile definirla in termini professionali.

Sarò, forse, condizionato dall’essere un antichista e soprattutto “tucidideo”, ma penso che prima di affrontare il nodo “comunicazione” – oggi più che mai decisivo e certo multidisciplinare – occorra ribadire e re-interiorizzare come esista un unico fattore che accomuna tutti gli storici: il metodo storico, e in particolare il rigore critico nell’uso delle fonti.

Solo su questa base – che deve essere solidissima – possiamo sovrapporre metodi e tecniche che sono nate e si sono sviluppate in altre discipline; il rischio, altrimenti, è di chiamare storia un’esposizione di contenuti su un “qualche” passato, in assenza della condizione metodologica che permette di riconoscere come storica una considerazione.

Solo così è possibile comunicare la storia usando la forza del racconto storico; e del resto così è nata la storia come ricerca e racconto. Solo la storia, parlando degli uomini di epoche lontane o vicine, permette di spiegare in modo comprensibile a un pubblico ampio trasformazioni e concetti complessi, ma conservando la complessità che spesso si perde nella semplificazione dei modelli teorici.

Come ricordo spesso alle mie studentesse e ai miei studenti non so se derivi dal fatto che io sia uno storico, ma ritengo che conoscere la storia sia un passo indispensabile per comprendere gli uomini, le loro paure, i loro entusiasmi, la loro vita in comunità e così prepararci a fronteggiare i problemi del presente e quelli del prossimo futuro. Non perché i fatti storici si ripetono, ma perché essi hanno un’unica costante: le donne e gli uomini appunto (l’avevo detto, vero, che sono “tucidideo”?).

LORÈ

Gli storici accademici non si curano abbastanza di comunicare con un pubblico più vasto dei loro soli colleghi, ma è anche vero che l’evoluzione recente della disciplina ha portato con sé una distanza ampia fra ricerca e divulgazione, come del resto è da sempre vero nell’ambito di scienze come la fisica, o la biologia. La nostra capacità di analisi è molto superiore che in passato, ma il tasso di specialismo rende oggi difficile scrivere di alcuni temi fondamentali in maniera chiara e piacevole; d’altra parte, per gli stessi motivi, fare quadri di sintesi è un’impresa veramente ardua.

In questo senso, la Public History può essere utile a colmare un vuoto di comunicazione che è nelle cose; non può, invece, a mio parere, costituire una scorciatoia in ambito didattico. Studiare storia, che è altra cosa dal leggerla o rievocarla, può essere molto divertente, ma comporta una certa fisiologica dose di fatica e, anche, di ineliminabile frustrazione: fare ipotesi, vagliarle, scartare molte false piste per conservarne solo una. È il prezzo necessario per raggiungere la grande soddisfazione di levigare ipotesi plausibili, conoscendone esattamente i limiti, e per impadronirsi di strumenti critici la cui utilità supera di molto l’ambito specifico in cui sono stati elaborati.

PANCIERA

Ho già detto e scritto che l’insegnamento della storia a scuola è la forma per eccellenza di Public History perché raggiunge la totalità dei cittadini e soprattutto i cittadini in formazione: «Gli obiettivi, i metodi e le finalità con cui la nostra disciplina viene veicolata dal sistema d’istruzione determina in larga misura la ‘coscienza storica’ del cittadino» (editoriale LaSisem, aprile 2018). Il problema è invece lo scopo: la scuola dovrebbe fornire gli strumenti e le capacità per comprendere e utilizzare il discorso storico; l’arena pubblica dovrebbe servire per esercitare e approfondire queste capacità, a tutto beneficio della formazione di un’opinione pubblica informata e consapevole. Si tratta cioè, nel caso della Didattica della storia e della Public History, di due vasi comunicanti e lo stile comunicativo, a mio avviso, varia semplicemente in relazione sia agli scopi suddetti, sia agli ambienti in cui la trasmissione della storia avviene: quotidianamente intriso di prossimità e affettività quello scolastico; massificato e tendente alla spettacolarizzazione, ad esempio, quello televisivo.

Per questo non è pensabile che i docenti di scuola debbano necessariamente far proprie le modalità di trasmissione della storia divulgata; piuttosto mi sembra essi debbano aver bene acquisito i fondamenti epistemologici e operativi propri della disciplina e le metodologie didattiche opportune per il suo insegnamento. Finora la realtà è purtroppo che la grande maggioranza degli insegnanti di storia conosce molto poco entrambe queste cose perché proviene da percorsi universitari centrati su altre discipline (letteratura, filosofia) e perché non ha avuto modo o non ha voluto aggiornarsi o auto-aggiornarsi adeguatamente riguardo alla disciplina storica. Tutto questo naturalmente senza escludere a priori che nella scuola e da parte della scuola non ci possa essere un coinvolgimento diretto nelle forme e nelle occasioni definite di Public History (come del resto già avviene, ad esempio, in occasione della Giornata della Memoria e in altri contesti).

SALVO ADORNO [torna su]
Insegna Didattica della storia presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche (Disum) dell’Università di Catania; fa parte della Commissione didattica del Coordinamento delle società storiche.AGOSTINO BISTARELLI [torna su]
Fa parte della Giunta Centrale per gli Studi Storici di cui è delegato nella Commissione didattica del Coordinamento delle società storiche; insegna filosofia in un liceo romano.GIANLUCA CUNIBERTI [torna su]
Insegna Storia Greca presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino di cui è attualmente Direttore; fa parte della Consulta Universitaria per la Storia Greca e Romana (CUSGR).VITO LORÈ [torna su]
Insegna Storia Medievale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre; fa parte della Commissione didattica del Coordinamento delle società storiche.WALTER PANCIERA [torna su]
Insegna Storia Moderna presso il Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità dell’Università di Padova; già responsabile per i PAS e TFA delle classi di concorso A043 e A050, fa parte del Comitato scientifico del progetto “Formazione degli insegnanti”; presiede la Commissione didattica del Coordinamento delle società storiche.

Per approfondire…

Programma e video delle relazioni del Convegno del Coordinamento delle Società Storiche.
Roma, Auditorium dell’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, Via Caetani 32

giovedì 25 ottobre 2018
15.00-15.30
Saluti
Andrea Giardina, Presidente della Giunta centrale per gli studi storici
Maria Assunta Palermo, MIUR – Direzione generale Ordinamenti scolastici

15.30-18.30
La trasmissione del sapere storico
Presiede: Stefano Gasparri, Presidente SISMED

1) Walter Panciera, Università di Padova
Il quadro delle competenze riferito al sapere storico

2) Vito Loré, Università Roma Tre
Il problema dei manuali scolastici

3) Ivo Mattozzi, Associazione Clio ’92
La metodologia didattica del laboratorio di Storia

4) Flavio Febbraro, Ist. piemontese per la storia della Resistenza
Le nuove tecnologie e l’insegnamento della Storia

Discussione

venerdì 26 ottobre 2018
9.30-13,00
Il percorso scolastico e la docenza
Presiede: Lucia Criscuolo, Presidente CUSGR

1) Agostino Bistarelli, Giunta centrale per gli studi storici
Il curriculum scolastico di Storia

2) Gianluca Cuniberti, Università di Torino
La storia nella scuola primaria: formazione degli insegnanti e didattica per competenze.

3) Nicola Mocci, Università di Sassari
Insegnare le storie di area e la storia internazionale

4) Adalberto Magnelli, Università di Firenze
L’insegnamento della Storia nelle scuole e i rapporti con le altre discipline

5) Eisabetta Serafini, Università di Roma ‘Tor Vergata’
L’aggiornamento in servizio dei docenti

Discussione

15,00-17,00
L’impegno degli Atenei
Presiede: Fulvio Cammarano, Presidente SISSCO

1) Andrea Zannini, Università di Udine
Gli storici accademici e l’insegnamento della Storia

2) Paola Bianchi, Università della Valle d’Aosta
L’offerta dei corsi di Storia nelle università italiane

3) Salvatore Adorno, Università di Catania
Insegnanti di scuola e formazione universitaria

Discussione

17,00-18,00
Conclusioni
Luigi Mascilli Migliorini, Presidente SISEM

Autore:

Agnese Portincasa ha conseguito Laurea in Storia e Dottorato di ricerca in Storia d’Europa presso l’Università degli Studi di Bologna. Abilitata all’insegnamento è docente di ruolo nella Scuola Secondaria di Primo Grado dal 2005. Docente in distacco presso l’Istituto Storico Parri - Bologna Metropolitana (2012). Ha conseguito attestato di Archivistica Contemporanea presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, con un percorso di perfezionamento nella didattica con le fonti d’archivio (2013). Responsabile dello staff di Teachers trainer nel progetto Erasmus+ "E-Story" dedicato alla didattica digitale (2018), è stata docente a contratto presso l’Università di Parma (2016) dove ha insegnato Storia del Cibo e dell'Alimentazione.