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Una faccia una razza? L’occupazione italiana del Dodecaneso

Una faccia una razza? L’occupazione italiana del Dodecaneso

Foto tratta dalla mostra “Le isole del sole”

Debate presentato alla Summer school 2018
dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri
e legato al dossier tematico

Tolleranza e intolleranza. Stranieri e diversi nel mondo contemporaneo

Abstract

Il debate riguarda l’occupazione italiana del Dodecaneso, durata dal 1912 a poco dopo l’armistizio del 1943: il particolare stato politico e sociale dell’arcipelago, abitato da popolazioni “bianche” e cristiane ma al tempo stesso colonia, permette di approfondire l’ambivalenza del dominio italiano, sospeso in questo caso fra occupazione e assoggettamento degli abitanti e un intento riformistico volto a incrementare la povera economia delle isole e a modernizzarle. Il tutto sullo sfondo del diffuso stereotipo di “Italiani e Greci: una faccia, una razza”

Indice

Quadro di sintesi

Volti del colonialismo italiano: l’occupazione italiana nel Dodecaneso. Lo stato dell’arte

A più di settant’anni dalla sua fine, nel dibattito pubblico sul colonialismo italiano perdurano ancora rimozioni e zone d’ombra.

Dal  secondo  dopoguerra,  fino  agli  anni  Ottanta,  la  maggior  parte  delle  pubblicazioni riportava  immagini nostalgiche ed edulcorate delle vicende coloniali. Per anni, nei manuali scolastici, si trovavano stereotipi legati alla “missione civilizzatrice”,  all’esaltazione delle opere realizzate dagli  italiani e alla diversità  del nostro colonialismo rispetto a quello  delle   altre   potenze   europee. Queste interpretazioni hanno consolidato nell’opinione pubblica italiana l’idea che durante l’occupazione dei territori d’“Oltremare” si fossero solo favoriti lo sviluppo e la crescita degli ex possedimenti. A rafforzare l’immagine del “buon italiano” erano poi ulteriormente le pubblicazioni memorialistiche degli ex coloni, cariche di nostalgia per i luoghi della giovinezza. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento i primi studi a mettere in luce i guasti economici, le violenze e i crimini prodotti dal colonialismo italiano, furono quelli di Angelo Del Boca e Giorgio Rochat. Le loro importanti opere critiche iniziarono ad incrinare il mito degli “italiani  brava  gente” ma bisognerà attendere un altro ventennio prima che, come l’ha definita Nicola Labanca, possa essere avviata in maniera definitiva la “tardiva decolonizzazione degli studi coloniali”.

La messa in discussione di quella che era la memoria ufficiale è stata possibile grazie all’affermazione  di una nuova generazione  di studiosi e alla possibilità di accesso a nuovi fondi archivistici, al venir meno del ruolo politico degli ex rappresentanti governativi del periodo coloniale e ad una maggior apertura delle associazioni degli  ex  coloni. Inoltre,  con  le  recenti migrazioni, l’opinione pubblica è stata costretta a interrogarsi e a discutere del razzismo odierno e delle antiche responsabilità italiane.

Alcune questioni, però, sono ancora aperte: in alcuni manuali di storia rimangono esigue le pagine dedicate al colonialismo italiano e alla maggior parte dei docenti non è stata fornita un’adeguata formazione su questi argomenti.  Il tema nei corsi universitari  è ancora  marginale  e sono pochi gli studiosi  che ne hanno fatto il centro delle loro ricerche, di conseguenza il ritardo degli studi permane: nonostante gli indubbi progressi della storiografia, l’ignoranza la disinformazione sulle colpe coloniali sono ancora presenti in ampi strati dell’opinione pubblica. Al contempo le tesi che continuano a riabilitare la fallimentare eredità coloniale sono alimentate dalla propaganda di forze politiche xenofobe.

All’interno del più ampio vuoto di memoria della storia del colonialismo italiano, ancora meno conosciuta e più trascurata dalla storiografia è la storia dell’occupazione del Dodecaneso. Pochi e spesso legati a singoli aspetti sono i saggi dedicati a queste isole dimenticate dell’Egeo. Considerata la scarsità degli studi, rimane non semplice ricostruire la storia politica e sociale di quello che doveva essere un possedimento italiano temporaneo  che invece l’Italia si ritrovò ad amministrare per più di trent’anni, l’unica “colonia  bianca” posseduta.

Sintesi storica dei fatti

Il Dodecaneso è formato da un gruppo di isole delle Sporadi meridionali situate nel mar Egeo sudorientale. Nel 1912 appartenevano all’impero ottomano e durante la guerra di Libia erano una base importante di rifornimento per le guarnigioni turche. Per questa ragione, nel febbraio 1912, l’ammiraglio Thaon di Ravel ne  aveva  chiesto  l’occupazione.  Il  26  aprile  l’ammiraglio  Ernesto Presbitero  occupa  l’isola  di  Stampalia (Astipalea)  e il 4 maggio il corpo di spedizione  italiano comandato  dal generale Giovanni Ameglio sbarca nell’isola di Rodi che verrà interamente occupata il 17 maggio. Un migliaio di soldati turchi si arrende ai circa

9.000 uomini del corpo di occupazione italiano. Per rappresaglia  il  governo turco espulse circa 70.000 italiani dall’impero ottomano, anche se la cifra non è certa e lo stesso Giolitti nelle sue Memorie scrisse che molti riuscirono a rimanere perché impiegati nelle ditte europee che non potevano fare a meno della loro collaborazione.

La sovranità  italiana  sul Dodecaneso, secondo il trattato di pace di Losanna firmato  il 18 ottobre 1912, doveva essere temporanea per garantire lo sgombero delle forze turche dalla Tripolitania e dalla Cirenaica, ma vista l’ambiguità delle clausole del trattato e il protrarsi della “resistenza” in Libia, dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Inghilterra e la Francia con il patto di Londra (26 aprile 1915) riconobbero all’Italia il pieno diritto di tenere le isole. Il dominio italiano fu poi confermato da una clausola del Trattato di Sèvres (10 agosto 1920) e dalla successiva pace di Losanna del 24 luglio 1923.

Nei primi anni dell’amministrazione  militare che durò fino al 7 agosto 1920, ad Ameglio si susseguirono  i generali Francesco Marchi (1913-1914), Giovanni Croce (1914-1919) e Achille Porta (1919-1920). Il primo governatore civile fu Felice Maissa, sostituito nell’agosto del 1921 da Alessandro De Bosdari fino all’arrivo del senatore Mario Lago nel 1923.

Inizialmente gli investimenti nell’arcipelago furono alquanto scarsi, anche a causa dell’incertezza sul futuro, non a caso si scelse di identificare il Dodecaneso non  come colonia ma come possedimento. Il manuale di diritto coloniale dell’epoca recita che la decisione fu presa “per la diversa civiltà delle popolazioni del possedimento rispetto a quelle coloniali”. Nella scelta pesarono anche il fatto di trovarsi di fronte ad una popolazione “bianca” e al locale movimento irredentista che inizialmente non era sfavorevole all’occupazione italiana  sperando, grazie ad essa, di poter raggiungere una certa autonomia. Sogni ben presto infranti perché la politica di italianizzazione provocò l’incarcerazione di diversi irredentisti. Quasi tutte le organizzazioni locali furono soppresse o svuotate di potere. Il commercio dei prodotti locali fu gradualmente sottoposto al monopolio degli italiani. Si tentò anche di controllare la Chiesa ortodossa con i suoi rappresentanti nominati dal governatore. In definitiva, seppure con metodi differenti, la gestione non si discostò molto da quella delle altre colonie, soprattutto nel periodo fascista.

Il governatore aveva poteri molto ampi e dipendeva dal Ministro degli Esteri, non da quello delle Colonie, ed era assistito da cinque direzioni generali e da due sovrintendenze. Il governo del possedimento aveva sede a Rodi, nelle isole era rappresentato da un reggente. Le popolazioni locali erano rappresentate dal Consiglio dei sindaci con poteri solo consultivi su problemi tecnici o amministrativi e sotto la presidenza del governatore si riuniva una volta all’anno. La giustizia era organizzata sul modello italiano con speciali tribunali per gli abitanti di fede ortodossa, musulmana ed ebraica. Nel 1925 la popolazione residente prima del trattato di Losanna ottenne la cittadinanza italiana, la cosiddetta “piccola cittadinanza” perché senza diritti politici e senza obbligo di leva, anche se era possibile richiedere di arruolarsi volontariamente.

Come per le altre colonie furono intraprese opere pubbliche con imprese e maestranze italiane, vennero attuate bonifiche nelle poche zone adatte all’agricoltura ma, nonostante l’incremento produttivo, le isole non furono mai autosufficienti per l’alimentazione. Per incentivare il turismo si costruirono diversi alberghi anche se il flusso turistico non fu in grado di ripagare gli investimenti.

Nel 1930, l’arcipelago è elevato a colonia con il nome di Isole italiane  dell’Egeo. Nel 1936 la situazione cambia con l’arrivo del governatore Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon che sostituisce Mario Lago, governatore delle isole per il periodo più lungo (1922-1936),  in alcune fonti definito “periodo d’oro del Dodecaneso”. De Vecchi, fascista della prima ora, governatore della Somalia nel 1923, Ministro dell’Educazione nazionale (1935-1936) imporrà una forte accelerazione alla fascistizzazione delle isole con politiche repressive.

Nella seconda Guerra mondiale il Dodecaneso rimase marginale nelle strategie militari dell’esercito italiano. Gli anni dal 1940 al 1945 nel Dodecaneso furono segnati dalla fame e dalle tragedie legate alla resistenza dei soldati ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e dalla deportazione della locale comunità ebraica; senza dimenticare la vergognosa collaborazione  con i tedeschi del vicegovernatore Igino Faralli che fece giurare fedeltà alla Rsi a tutto il personale del governo.

Il 9 maggio 1945 con lo sbarco delle truppe inglesi, l’Italia perse la sua sovranità sulle isole, sancita il 10 febbraio 1947 con la firma del trattato di pace a Parigi e la consegna delle isole alla Grecia.

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I brani precedenti sono tratti da Costantino Di Sante, Postfazione, in Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, Kalymnos la ribelle. I 31 anni di occupazione italiana del Dodecaneso (1912-1943), prefazione  di Luciana Ziruolo, Genova- Recco, Isral-Le Mani, 2013, pp. 255-261.

Il debate e l’insegnamento della storia

Sottoporre  a “processo” un evento, una fase, un tema storico, analizzare criticamente i vari aspetti del problema e soppesare la legittimità storiografica di tesi contrastanti, consente allo studente, impegnato nella controversia, di cogliere la complessità e problematicità della questione presa in esame, non riducibile a banali schematizzazioni o a generici giudizi.

Il debate, applicato alla storia, non deve mirare a incentivare abilità retoriche negli studenti o a sviluppare una vis polemica fine a se stessa, ma ripromettersi di far crescere in loro la capacità critica, l’attitudine all’analisi dei documenti e al dibattito storiografico.  Un obiettivo da perseguire tramite un’attività didattica stimolante, innovativa e coinvolgente.

Sequenza didattica

  • l’insegnante introduce una differente interpretazione sull’occupazione italiana nel Dodecaneso tramite la lettura di due brevi brani dalla tesi opposta.
  • dopo aver brevemente introdotto e inquadrato l’argomento oggetto della discussione, l’insegnante propone un piccolo dossier, composto da una decina/quindicina di brevi documenti, preceduti da sintetiche note esplicative sull’autore. All’occorrenza il docente può fornire rapide informazioni o ulteriori delucidazioni sugli autori dei brani, sul contesto storico ecc.
  • divisa la classe in due gruppi, si estrae a sorte (oppure decide il docente) il compito, apologetico o critico, affidato ad ognuno di essi: il gruppo A dovrà quindi “difendere” la tesi dell’occupazione autocratica, tesa a distruggere le tradizioni e le istituzioni del luogo; il gruppo B sostenere invece quella di un’occupazione dai molti aspetti benefici e positivi per la comunità e la popolazione.
  • i due gruppi avranno un tempo assegnato per esaminare il dossier e prepararsi al proprio compito, apologetico o critico.
  • il giorno convenuto – o la stessa mattina, qualora il tempo a disposizione per il debate sia di almeno 2 ore consecutive – si terranno le due “orazioni”, che dovranno risultare ben impostate e convincenti.
  • dopo aver ascoltato le due relazioni, ogni gruppo farà le obiezioni alle tesi dell’altro; la discussione dovrà vertere sulla bontà e fondatezza degli argomenti portati a sostegno della propria tesi. Si dovranno citare i documenti, si potrà criticare la lettura che di questi è stata fatta dal gruppo avversario, si potrà rispondere alle critiche. Sarà cura del docente garantire l’ordinato svolgimento della discussione.
  • la “giuria”, composta dall’insegnante, affiancato eventualmente da altri colleghi disponibili a prendere parte al progetto didattico, prenderà nota delle obiezioni e delle risposte, ai fini di una valutazione storiografica. Il docente può assegnare un punteggio alle argomentazioni delle due squadre in base alla loro maggiore o minore attendibilità. Nel caso di un debate multidisciplinare si terrà conto, ovviamente, anche degli aspetti linguistici, letterari ecc.
  • l’insegnante alla fine della discussione comune potrà stabilire il punteggio finale e decretare il gruppo vincitore. Questa opzione, demandata alla libera scelta del docente, riveste un carattere puramente strumentale ai fini della riuscita dell’attività didattica: si può anche decidere di non decretare la vittoria di un gruppo sull’altro per puntare invece alla individuazione dei punti forti e deboli delle argomentazioni dei due gruppi.
  • alla fine – in realtà è questo il momento decisivo del laboratorio – il docente presenterà agli studenti un testo da lui ritenuto tra i più aggiornati, autorevoli e significativi sull’argomento. Entrambi i gruppi, a prescindere dal punteggio ottenuto e dalle argomentazioni svolte, si confronteranno con questo testo. Lo scopo è quello di osservare se e in quale misura gli studenti riescono a cogliere differenze e analogie tra il ragionamento professionale dello storico e le argomentazioni portate nel dibattito a sostegno o detrimento di determinate tesi.

Per iniziare. Due tesi a confronto

Tesi #1

“Era un regime autocratico, che introdusse leggi miranti a distruggere la cultura locale e un sistema amministrativo finalizzato ad annientare la popolazione dell’isola. Mario Lago e Cesare Maria De Vecchi, fidi propugnatori delle idee fasciste, una volta nominati governatori cercarono di italianizzare completamente gli  abitanti, oppressero l’economia, la Chiesa e l’istruzione greca, e minarono le istituzioni pubbliche e locali.”

[Alekos Markoglou, Koakó panórama, 1900-1948, Kos, 1992, p. 35]

Tesi #2

“Pur considerando sempre illegittima la presenza italiana nel Dodecaneso, gli abitanti di quelle isole avrebbero  ricordato  l’occupazione come una miscela di “cose buone e cattive”,  e gli intervistati hanno spesso dichiarato di voler parlare sia delle une sia delle altre. Essi hanno menzionato molti aspetti a loro avviso negativi della dominazione italiana, come la chiusura forzata delle scuole greche alla fine degli anni Trenta, ma hanno ricordato anche l’epoca italiana come un periodo caratterizzato da opportunità d’impiego, ordine pubblico e sviluppo economico. Il dichiarare la propria avversione verso alcuni italiani, specialmente verso i fascisti, non ha impedito loro di definire gli italiani come “brave persone” (kalí ánthropi), dotate stereotipicamente di buon carattere, calore e umanità. Hanno anche impiegato formule sintetiche che ponevano decisamente in discussione la versione ufficiale sulla dominazione italiana: per esempio la frase, ripetuta spesso nel Dodecaneso, secondo cui sotto gli italiani si “viveva bene” (pernoúsame kalá)”.

[Nicholas Doumanis, Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 23]

“Tutti gli anziani dell’isola  (Kalymnos/Calino,  ndr) da me interrogati genericamente sugli anni dell’occupazione italiana e sulla vita e sulle difficoltà dell’epoca, hanno espresso un’opinione positiva sull’operato in generale degli amministratori e dei delegati dei governatori: ‘Ci hanno insegnato a lavorare, fornendoci delle regole utili e una disciplina, erano organizzati e avevano competenza nelle varie attività del settore pubblico e privato, le successive gestioni greche, dopo la liberazione non erano alla loro altezza, non hanno dimostrato la stessa capacità organizzativa’”.

[Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, Kalymnos la ribelle. I 31 anni di occupazione italiana del Dodecaneso (1912-1943),prefazione di Luciana Ziruolo, Genova-Recco, Isral-Le Mani, 2013, nota 1, p. 75.]

Dossier per il debate

È evidente che ogni docente potrà individuare i documenti che riterrà più opportuni per il lavoro con la propria classe: il presente dossier ha quindi un valore puramente indicativo e presenta un numero rilevante di documenti che certamente potrà essere ridotto a seconda delle specifiche esigenze didattiche; anche il singolo documento può essere eventualmente accorciato.

Documenti

 

La rappresentazione del dominio del Dodecaneso attraverso l’Istituto Luce

“Per le vie dell’aria verso l’isola delle rose”

[Archivio Istituto Luce, Cinegiornale Luce, Rodi. Splendori di civilità italica nell’Isola dei cavalieri. Le terme di Galitea e l’albergo delle rose, 1933]

“L’Italia fascista, seguendo l’esempio romano, conquista costruendo”.

[Archivio Istituto Luce, Cinegiornale Luce, Una visita alla capitale delle isole egee, 1940]

“L’Italia fascista, apportatrice di civiltà, nel segno del Littorio”

[Archivio Istituto Luce, Cinegiornale Luce, Un rapido viaggio nella capitale dei nostri possedimenti nell’Egeo, giugno 1940]

Mario Lago VS Cesare Maria De Vecchi

1. “Se De Vecchi veniva associato al ‘fascismo’ il suo più popolare predecessore era associato all’’italianità’. Era considerato come un uomo benevolo, cordiale, e al tempo stesso un abile politico, scaltro, diplomatico e persuasivo. Proprio per questo coloro che erano dotati di maggiore sensibilità politica lo consideravano più pericoloso di De Vecchi. Lago, ha ricordato Ioannis Alahiotis, poteva disarmare chiunque con un sorriso. Quando gli è stato chiesto di descrivere De Vecchi […], secondo lui Lago era un migliore politico perché cercava di assicurarsi prestigio e consenso popolare, e una volta ottenuto il consenso poteva fare come gli pareva. La sua eleganza e il suo fascino mostrano fino a che punto fosse ‘italiano’:

[] arrivò un certo Mario Lago [] Era senatore. Aveva esperienza politica, perciò lo avevano mandato qui. Venne molte volte a Kos. Era alto, con grandi baffi rossi, di compagnia, e quando passava, fossi anche ebreo o turco, ti salutava con un sorriso caldo pieno di buonumore. Sua moglie faceva lo stesso Una volta al governo era un uomo colto cer d’introdurre litaliano piano piano. La gente laccettò prontamente. Urrà, ci vuole dare un’istruzione dicemmo. Era visto di buon occhio da tutti. Mario Lago per me era ppericoloso [di De Vecchi] perché era molto intelligente, buon diplomatico, buon manipolatore. Sapeva convincere chiunque che il bianco era nero. Pensavamo persino di essere fortunati ad avere lui, eppure era nostro nemico”.

[Nicholas Doumanis, op. cit., p. 227]

2. “I ricordi della gente, dei pochi superstiti del tempo, dei loro figli e parenti che di quell’epoca hanno conservato memoria, si sono tutt’altro che spenti, e la figura di Mario Lago, almeno nelle conversazioni da me avute con gli anziani di Kalymnos, ha lasciato impressioni positive, al punto di far dire al novantacinquenne E. Voiatzakos, kalymniota, che ‘se fosse rimasto Mario Lago governatore il possedimento sarebbe rimasto italiano’”.

[Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, op. cit., p.93]

3. “Un altro anziano amico di famiglia, Mihalis Bahiramis, nato in Francia nel 1923 e trasferitosi a Kalymnos da bambino, mi ha narrato nell’ottobre del 2012 la storia della sua vita dicendomi, a proposito dell’odiato distintivo fascista del dopolavoro, di aver perso il posto di impiegato comunale per essersi rifiutato di portarlo […] L’istituzione del cosiddetto dopolavoro, che riguardò soprattutto l’epoca del governatore De

Vecchi, fu causa ulteriore e più grave di laceramento nella rete di rapporti all’interno della comunità. L’obbligo di iscrizione all’associazione era tassativo per chiunque volesse esercitare un mestiere autonomo, una professione o un’attività privata, ed era correlato all’obbligo di girare col distintivo ben in vista sul petto, un marchio infamante per una comunità assai ristretta e chiusa. Il dopolavoro era sinonimo di collaborazione col potere dominante, con l’occupante, quindi di traditore della patria.”

[Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, op. cit., p. 23]

4. “Volendo offrire un bilancio complessivo dell’amministrazione di quella che ha chiamato “la colonia bianca”, vale a dire il possedimento del Dodecaneso, Nicola Labanca ha scritto che le riforme di Mario Lago alterarono “in maniera significativa l’economia, la società e le politiche locali”, consentendo agli italiani di monopolizzare le attività produttive e il commercio e di entrare in possesso delle migliori proprietà. Indubbiamente però, tra luci e ombre, gli anni di Lago rappresentarono una fase di prosperità e di lavoro abbondante per tutti, dal momento che cercando di valorizzare l’economia locale per poterla sfruttare a loro fini, gli italiani finirono per apportare benefici anche alla popolazione indigena in termini di occupazione, maggiore ricchezza e di stabilità di prezzi.”

[Andrea Villa, Nelle isole del sole. Gli italiani nel Dodecaneso dall’occupazione al rimpatrio (19121947), prefazione di Giorgio Vecchio, Torino, SEB 27, 2016, p. 27]

Il Petropolemo (La guerra dei sassi). Una storia a sé

Il Petropolemo è un episodio di rivolta contro l’occupazione italiana avvenuto nell’isola di Kalymnos nell’aprile del 1935, in occasione delle festività pasquali. L’evento rappresenta il culmine di un crescendo di tensione causato dalla progressiva imposizione dell’italiano come prima lingua nell’insegnamento scolastico e dal tentativo dell’amministrazione italiana di rendere la Chiesa ortodossa dell’arcipelago “autocefala”, ovvero di staccarla dal Patriarcato di Costantinopoli da cui dipendeva e renderla, di fatto, più debole e controllabile. Soprattutto questo attacco all’autonomia religiosa del Dodecaneso è vissuta dalla popolazione di Kalymnos come un’interferenza inaccettabile che sfocia in aperta ribellione durante le cerimonie religiose della Pasqua del 1935.

Lo studio più serio e analitico sull’argomento, secondo Nikolas Doumanis, è di Themelina Kappellà che, con una significativa raccolta di interviste fatte a molte dimostranti, è riuscita a mettere in evidenza la centralità, interpretando efficacemente i sentimenti e le emozioni corali, delle donne di Kalymnos in subbuglio in difesa della propria religione e del proprio ministro del culto. Qui sotto si riporta, grazie alla traduzione in italiano di Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, la rievocazione che Kappellà tenne presso l’Anagnostirio (Centro Culturale) I Musae di Kalymnos il 12 aprile 1985, in occasione del cinquantenario della rivolta. È un documento lungo che val la pena leggere per la particolarità e la complessità di una vicenda emblematica delle relazioni tra occupanti e occupati.

1. Maria Elisa Pirattoni Koukoulis, op. cit., p. 79-84

2. “La visione ufficiale della ‘guerra dei sassi’ come rivolta ‘nazionalista’ è l’unica che si trovi nei testi scritti. Ma di fronte a questa versione dominante basata sul patriottismo sta un duraturo serbatoio di controricordi… Gli anziani meno istruiti, in particolare, non socializzati nell’ideologia nazionale, hanno mantenuto un’interpretazione radicalmente differente della ‘guerra’. Le loro testimonianze confermano che non si trattò di una ribellione nazionalista ma di una protesta delle donne in difesa dell’ortodossia […] Gli studiosi di Kalymnos, quasi tutti di sesso maschile, hanno sostanzialmente ignorato le manifestanti […] La gente del luogo aveva da tempo compreso che gli italiani avrebbero difficilmente sparato alle donne e che questo accadeva perché essi non erano sufficientemente ‘barbari’ o spietati […] L’evidenza disponibile indica che le proteste furono avviate, orchestrate ed eseguite da donne. Ma per gli uomini di Kalymnos la ‘guerra dei sassi’ è un mito troppo importante per poterlo cedere alle donne del popolo […] gli autori locali hanno lavorato sul presupposto che le proteste fossero state pianificate dalle elite maschili che si sarebbero trovate ‘dietro le quinte’ e avrebbero orchestrato il corso degli eventi […] gli uomini di Kalymnos difficilmente potevano affermare la loro virile immagine di sé riconoscendo il vero ruolo delle donne nella ‘guerra dei sassi’, perché altrimenti sarebbero stati derisi come vigliacchi ed effeminati dalla gente delle altre isole.”

[Nicholas Doumanis, op. cit., pp. 99-103]

Una faccia una razza

L’espressione, ancora usata e dall’origine incerta, rimanda a una comunanza di valori e di atteggiamenti fra italiani e greci che va al di là delle contingenze storiche. Una sorta di legame umano che consente di “capirsi” e “andare d’accordo” per un senso più profondo di condivisione.

1. “[…] I locali [nello specifico dell’occupazione italiana del Dodecaneso] percepivano una corrispondenza di valori tra loro e gli occupanti. Essi ritenevano che gli italiani condividessero le loro stesse idee sul matrimonio, la famiglia e l’onore, avessero analoghi gusti culturali, amassero la musica, il canto e l’amore romantico. La popolare frase ‘una faccia, una razza, udita spesso anche nella sua versione greca (mia fátsa, mia rátsa), non si limitava a suggerire una somiglianza esteriore di tipo razziale ma evocava un senso di affinità”.

[Nicholas Doumanis, op. cit., pp. 202-203]

Nel 1991, il regista Gabriele Salvatores ha realizzato il film Mediterraneo che narra le vicessitudini di un gruppo di soldati italiani sbarcati nel 1941 in un’isola greca imprecisata (il film è girato nell’isola del Dodecaneso Castelrosso) e il loro rapporto con la popolazione locale. Il film ha vinto nel 1992 il premio Oscar per il miglior film straniero. Nel film sono frequenti i riferimenti all’espressione ‘una faccia, una razza, secondo una visione fortemente stereotipata.

2. Mediterraneo “Il cattivo tedesco e il bravo italiano”

3. Mediterraneo, “Il turco furbo, l’italiano credulone”

L’espressione diventa simbolo attuale di una fraternità fra diverse sponde del Mediterraneo che accomuna diversi destini.

4. NUJU, Una faccia, una razza, 2018.

Le responsabilità degli italiani e gli stereotipi

5. “Cattivo tedesco. Barbaro, sanguinario, imbevuto di ideologia razzista e pronto a eseguire gli ordini con brutalità. Al contrario, bravo italiano. Pacifico, empatico, contrario alla guerra, cordiale e generoso anche quando vestiva i panni dell’occupante. Sono i due stereotipi che hanno segnato la memoria pubblica nazionale e consentito il formarsi di una zona d’ombra: non fare i conti con gli aspetti aggressivi e criminali della guerra combattuta dall’Italia monarchico-fascista a fianco del Terzo Reich. A distinguere fra Italia e Germania era stata innanzitutto la propaganda degli Alleati: la responsabilità della guerra non gravava sul popolo italiano ma su Mussolini e sul regime, che avevano messo il destino del paese nelle mani del sanguinario camerata germanico. Gli italiani non avevano colpe e il vero nemico della nazione era il Tedesco. Gli argomenti furono ripresi e rilanciati dopo l’8 settembre dal re e da Badoglio e da tutte le forze dell’antifascismo, prima impegnati a mobilitare la nazione contro l’oppressore tedesco e il traditore fascista, poi a rivendicare per il paese sconfitto una pace non punitiva. La giusta esaltazione dei meriti guadagnati nella guerra di Liberazione ha finito così per oscurare le responsabilità italiane ed è prevalsa un’immagine auto assolutoria che ha addossato sui tedeschi il peso esclusivo dei crimini dell’Asse, non senza l’interessato beneplacito e l’impegno attivo di uomini e istituzioni che avevano sostenuto la tragica avventura del fascismo”.

[Dalla presentazione del volume di Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Bari, Laterza, 2013]

Il film Mediterraneo è liberamente ispirato alla raccolta di racconti di Renzo Biasion Sagapò (Ti amo) del 1953: nel libro, ambientato a Creta durante la seconda guerra mondiale, l’esercito italiano è rappresentato in una dimensione poco eroica e marziale, con i soldati e gli ufficiali dediti a coltivare relazioni amorose e a occuparsi della vita quotidiana che scorre tra noia e una certa nostalgia di casa. Ciò non toglie che tutto assuma una connotazione drammatica allorché le circostanze della guerra irrompono a distruggere l’apparente normalità. Uno dei racconti s’intitola proprio Sagapò.

6. “La casa era in fondo al paese, un po’ isolata dalle altre. Era una delle solite case greche dipinte di bianco, a un solo piano […] Sui muri, incise con la punta del coltello, figure oscene in atteggiamenti scomposti e iscrizioni in omaggio alla bellezza di Ketty. Un’iscrizione gigantesca, fatta col carbone, diceva: KETTY SAGAPÒ che vuol dire ‘amore’[…] Le donne erano tre, e si chiamavano Ketty, Jojo e Nausica. Di giorno le andavano a trovare i soldati, di sera gli ufficiali. Al mattino facevano il bagno al mare […] Le ragazze erano aggregate al battaglione come un qualsiasi reparto di truppa, e prelevavano i viveri alla sussistenza. Naturalmente erano trattate con larghezza maggiore dei soldati […] La sera era riservata esclusivamente agli ufficiali. Erano pochi, nel caposaldo, e quasi tutti meridionali. La loro vita nell’isola, che durava uguale da oltre due anni, senza mai una licenza, aveva poco per volta assunto un carattere particolare […] Alloggiavano nelle case greche, e avevano adornato le loro stanze in vario modo, alcuni con fotografie ritagliate dai giornali illustrati, di artiste del cinema in costumi succinti, altri con mobilio tolto ai greci e i piccoli oggetti raccolti qua e là, e con iscrizioni che non avevano nulla di guerriero. Seguendo l’usanza greca tenevano in casa la bottiglia della grappa e dell’anice, si facevano visita tra loro e mantenevano ciascuno un cane. Erano piccoli cani da signora e rispondevano a nomi del genere: Flossie, Carla, Maria Grazia, Pippo, ecc. E ci si preoccupava più della salute di Pippo, di Carla o di Maria Grazia, che del servizio e del bollettino di guerra. La guerra andava male e se ne attendeva la fine apaticamente […] Il comando piantava le tende nella conca, gli ufficiali erano dislocati nelle compagnie. C’era allora una gara a chi sistemava meglio la tenda, a chi abbelliva di più lo spazio per le adunate e chi era più fornito di bottiglie e di frutta. Non sembrava un esercito di soldati ma di giardinieri.”

[Renzo Biasion Sagapò, Milano, Mondadori, 1975, pp. 26-30]

“La difesa della razza”

7. “Furono l’interesse inglese […] e l’interesse francese […] che istituirono, contro tutte le osservazioni fatte da gran tempo, la credenza nell’identità razziale tra greci antichi e greci moderni. Basterebbe l’epiteto di levantini, di cui i greci moderni sono gratificati, epiteto che li accomuna ad altre popolazioni del levante e che deriva da un’accentuata somiglianza fisica che hanno con esse, a mostrare quanto fosse falsa quella credenza. […] Del resto ciò che da molto tempo si vede e che altri importantissimi fatti confermano, oltre che per il fisico anche per il morale (cioè, in primo luogo, la caratteristica mancanza di spirito militare e, in secondo luogo, l’impossibilità di raggiungere un’altra volta, come invece fu possibile per l’Italia, un alto livello nella creazione artistica), può essere seguito passo passo, fino da età molto remote. L’inizio della trasformazione, subita dai greci nella loro razza, è già evidente fino dagli anni della guerra del Peloponneso. […] In Grecia rimangono i rifiuti della razza: gli elementi inferiori, che per lunghi secoli, a causa della vicinanza dell’Asia Minore, vi si sono insensibilmente infiltrati; e che ora, essendo in prevalenza numerica, alterano ovunque il carattere della civiltà. La conquista dell’Impero persiano, avvenuta mezzo secolo dopo, dà l’ultima mano a questa distruzione. […] predomina il tipo levantino. Con questo si incontrano i romani: nel suo assoluto difetto di spirito guerriero, nella sua mancanza di scrupoli, nella sua ipocrisia, nel suo amore per le sottigliezze e i cavilli. A questo attribuiscono l’appellativo, rimasto poi famoso, di ‘grechetti’: come per dire, i veri, i grandi greci, non ci sono più […]. Ebrei, egizi, siriaci, frigi, prendono il sopravvento. Nella Grecia quasi spopolata, il predominio levantino è ormai assoluto. […] Già nell’VIII secolo l’immigrazione è tale che spariscono gli antichi nomi del luoghi […] La lingua greca, molto alterata e corrotta, rimane solo per l’influenza della Chiesa […] Nemmeno una goccia, dopo il sangue levantino già assorbito nell’antichità, e dopo quello di tante altre invasioni, assorbito nei secoli di mezzo, si può dire con certezza che è rimasta, di sangue classico. Con il quale gli odierni greci non hanno assolutamente nulla a che vedere”.

[Giuseppe Pensabene, Greci classici e Greci moderni, in “La difesa della razza”, Anno IV, novembre 1940, n. 1]

Testi di riferimento

“È  forse  utile  ricordare  che  troppo  spesso  circoli  colonialisti,  opinione  pubblica  e  persino  studiosi  non troppo  informati  si  sono  incontrati  nel  rivendicare  un  carattere  di  particolare  mitezza  del  colonialismo italiano, se non proprio degli italiani in generale […]. Il carattere aprioristico, auto assolutorio e ideologico di tali immagini,  per quanto smontato  da ricostruzioni  storiche più critiche, ritorna spesso e appare ancora oggi difficile da sradicare […].

Su tale questione, Doumanis […] dimostra e ribadisce due aspetti importanti.

Il  primo  riguarda  la  circolazione  degli  stereotipi:  modellati  dai  colonizzatori,  essi  vissero  a  lungo  anche presso i colonizzati. L’eccezionale lunga vita degli stereotipi attorno al carattere nazionale è dimostrato dal fatto che Doumanis  li trova ancora operanti  oggi fra i suoi testimoni:  per essi, per gran parte di essi, gli italiani  sono  ancora  “brava  gente”.  In  realtà  tale  affermazione  fatta  da  testimoni  oggi  in  età  avanzata, chiamati a narrare di momenti in cui essi avevano un’età poco più che infantile e al massimo adolescenziale, non sorprende: può avvenire che una simile memoria collettiva possa aver ricoperto di qualche angelicata lamina la più difficile e complessa realtà […].

Il secondo  e più importante  aspetto  riguarda  la ricezione  stessa  degli  stereotipi  sul carattere  nazionale. [Questi] non nascono in una spazio astratto e in un vuoto pneumatico  ma si formano – e si tramandano nella memoria collettiva e nella fonte orale – per logiche differenziali, per comparazioni, per confronti […] tali stereotipi [Italiani brava gente] furono indotti e si rafforzarono nei dodecanesini soprattutto attraverso il confronto  dell’azione  degli  italiani  rispetto  all’operato  di altri occupanti,  di altre  nazionalità.  E quindi  gli italiani non furono civili, ordinati, organizzati in sé: ma furono più civili, ordinati e organizzati soprattutto rispetto ai precedenti occupanti ottomani. Non furono socievoli e rispettosi in sé: ma furono più donnaioli e meno brutali soprattutto rispetto ai tedeschi nazisti. Non furono calorosi e passionali in assoluto: ma non furono freddi e disinteressati quanto gli inglesi dell’occupazione transitoria dopo la sconfitta italiana […] se gli italiani anche furono “brava gente” lo furono più per demerito altrui che per merito proprio”.

[Nicola Labanca, Un altro Mediterraneo, Prefazione a Nicholas Doumanis, op. cit., pp. 11-12]

Bibliografia

  • Biasion R. 1975, Sagapò, Milano: Mondadori
  • Doumanis N. 2003, Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Bologna: Il Mulino
  • Focardi F. 2013, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Bari: Laterza
  • Labanca N. 2002, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna: Il Mulino
  • Pirattoni Koukoulis M. E 2013, Kalymnos la ribelle. I 31 anni di occupazione italiana del Dodecaneso (1912-1943), Genova- Recco: Isral-Le Mani
  • Villa A. 2016,  Nelle  isole  del  sole.  Gli  italiani  nel  Dodecaneso  dall’occupazione  al  rimpatrio  (1912-1947), Torino: SEB 27

Filmografia

  • Madden J. 2001, Il mandolino del capitano Corelli
  • Salvatores G. 1991, Mediterraneo

Sitografia

  •  Febbraro F., Villa A. Le isole del sole. Guerra, resistenza e amori degli italiani nel Dodecaneso, Novecento.org, n. 8, agosto 2017

Dati articolo

Autore: and
Titolo: Una faccia una razza? L’occupazione italiana del Dodecaneso
DOI: 10.12977/nov283
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
and , Una faccia una razza? L’occupazione italiana del Dodecaneso, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov283

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