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Raccontare la storia del fascismo, tra continuità e rottura. Conversazione con Giovanni De Luna

Raccontare la storia del fascismo, tra continuità e rottura. Conversazione con Giovanni De Luna
Abstract

Il centenario della Marcia su Roma e della presa del potere da parte del fascismo nel 1922 coincide con una fase di storia del presente che vede una campagna elettorale segnata da questioni che riguardano la memoria pubblica del fascismo.

Novecento.org ha incontrato Giovanni De Luna, storico contemporaneista e opinionista che da sempre si è occupato non solo di storia del fascismo e dell’antifascismo ma anche dell’uso pubblico della storia e della storia della memoria nell’Italia repubblicana. Con lui abbiamo ragionato sul significato, sul racconto e sulle interpretazioni del fascismo in occasione dell’uscita dell’Annale della Fondazione Feltrinelli, Fascismo e Storia d’Italia. A un secolo dalla Marcia su Roma. Temi, narrazioni e fonti da lui curato.

Tra i suoi libri recenti, ll partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione (1942-1947), Milano, UTET 2021 e Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani, Milano, UTET 2021, ad attestare una pluralità di metodo e sguardo che si rivolge a fonti e linguaggi di diversa natura. De Luna negli anni ha posto attenzione alla formazione degli insegnanti e agli strumenti del lavoro didattico, come autore di fortunati manuali e come coordinatore di gruppi di lavoro sulla ricerca didattica (tra cui quello de I linguaggi della contemporaneità, https://www.mulino.it/isbn/9788815275462).

Quali sono i problemi che si pone il curatore di un’opera storiografica che intende fare i conti con il fascismo cento anni dopo la sua affermazione?

Il libro è scaturito dalle discussioni in seminari a cui hanno partecipato studiosi e studiose del fascismo, avviate dalla Fondazione Feltrinelli sotto il segno della politica interna, molto legata alla congiuntura politica del presente, in anni caratterizzati dal populismo autoritario e dalla forte presenza mediatica di alcuni leader politici. Si trattava dunque di tenere conto delle urgenze del presente e rivolgersi al passato per capire quali siano gli elementi del fascismo storico presenti nella destra di oggi e decifrarne i caratteri, avendo ben presente che quello che ci interessa mettere a fuoco è il passato del periodo 1919 -1945. L’Annale  vuole, insomma, concentrarsi sulla sostanza storiografica, oltre la logica della ricorrenza e le questioni del presente, grazie alla solidità di un’analisi del passato capace di reagire con efficacia agli stimoli del presente, senza per questo appiattirsi sulla cronaca. I temi del dibattito del presente si riverberano sull’attenzione storiografica e permettono di mettere in luce alcuni temi di ricerca fino ad ora trascurati. Si tratta quindi di approccio sollecitato dalla congiuntura politica che però non parla di quella e che vuole sottrarsi alla tirannia del presente per indagare il passato per quello che è stato.

Nei tuoi studi hai sempre prestato molta attenzione alla storia della storiografia e alla storia della memoria pubblica. Quali novità storiografiche si possono evidenziare sul fascismo in questo centenario?

Per fare degli esempi concreti di questo rapporto tra ieri e oggi, di come gli interrogativi del presente suggeriscano piste di lettura del passato, un tema è quello della biopolitica: veniamo da anni di osservazione diretta di come i corpi dei migranti nel Mediterraneo o ai confini terrestri dell’Europa vengano reificati nelle logiche di certa destra, il che ci conduce a indagare sull’esistenza di un progetto biopolitico fascista nel ventennio, in cui il corpo della nazione si associa alle logiche della ‘razza’, così come della riproduttività e della salute genetica.

Un altro tema è quello della violenza, di cui nell’Annale ha scritto David Bidussa, che porta a chiedersi quanto sia costitutiva la violenza nella destra di oggi e nel suo successo. Rispetto al fascismo, la destra attuale sembra non delineare chiaramente un futuro, per rifugiarsi in un passato mitico utile a una permanente campagna elettorale tesa a sconfiggere la concorrenza nelle urne; se guardiamo al passato, la violenza del fascismo storico non era centrata solo sulla presa del potere come risorsa strategica, ma è stata una violenza che è un tratto identitario del fascismo, una violenza di movimento all’inizio, del regime nel suo consolidamento totalitario e del suo epilogo a Salò.

Ancora per fare un esempio la destra italiana di oggi, a dispetto di molte dichiarazioni e del modo in cui si racconta, si mostra di fatto subalterna al mercato internazionale e non credo che dal punto di vista economico in un ruolo di governo possa proporsi scelte eversive rispetto all’andamento attuale. Il che ci porta a indagare i rapporti tra stato e poteri economici nel ventennio, negli interventi di Alessio Gagliardi e Emanuela Scarpellini. Insomma, il presente sottolinea le urgenze e le urgenze diventano suggerimento per piste di lettura storiografica del fascismo.

Parlare di fascismo è anche un tema di interesse civile e democratico che coinvolge gli storici nell’analisi e chiama in causa gli strumenti metodologici della disciplina, a cominciare dalla coppia interpretativa continuità/rottura. In diversi recenti interventi hai affermato che l’esperienza storica concreta (il 1919 e il 1945) del regime mussoliniano è indissolubilmente legato al Novecento e alla sua violenza e che non ci sono più le condizioni strutturali per quel tipo di regime. Permane tuttavia una eredità pesante, tra cui la massificazione della politica che quel secolo ha proposto come proprio segno distintivo: emerge qui uno sguardo politico-culturale, della storia della mentalità e delle sopravvivenze di lungo periodo, che implica anche l’inerzia simbolica e i riferimenti mitici che configurano la continuità.

Ecco, il secondo caposaldo metodologico dell’Annale, oltre alla focalizzazione stretta sul fascismo storico, è tenere il fascismo confinato nel Novecento, ovvero inserito nel contesto della partecipazione politica di massa e dei mezzi di comunicazione di massa, allora nuovi e rivoluzionari. Il fascismo va inoltre consegnato a quella congiuntura economica, sociale e culturale caratterizzata da dinamiche epocali come quelle che si generano tra la Grande guerra e la crisi del 1929. Le categorie di continuità e rottura ci aiutano a capire quali elementi transitino dal passato al presente e si possano trovare nella destra di oggi, per evitare tanto gli allarmismi anacronistici quanto le sottovalutazioni superficiali.

Nella scelta dei lemmi e nella configurazione dell’Annale siamo stati guidati da precise scelte nella triplice interpretazione del fascismo proposte dagli antifascisti: quella liberale-crociana che vede nel fascismo una “parentesi”, quella del regime come reazione di classe, prodotta nella cultura comunista e socialista e quella del fascismo come “autobiografia della nazione”, in quel filone gobettiano e giellista che mi è sempre sembrata la lettura più felice. Da questo punto di vista, andare a vedere gli elementi permanenti, e non solo congiunturali, del fascismo è un esercizio utile. Per esempio nel saggio di Valentina Pisanty sulla risata fascista emerge una antropologia italiana di lungo periodo, greve, pesante, maschilista. La categoria di autobiografia della nazione funziona nel mostrare nella storia della mentalità quel sedimento permanente a cui i fascisti attingevano a piene mani ma che erano degli stereotipi che risalivano alla commedia dell’arte, indietro nel tempo, o che giungono fino a noi in alcuni stili di linguaggio e comportamenti.

In questi anni spiegare il fascismo – genesi, sviluppo, fine, sopravvivenza – è sempre più delicato e importante per diversi motivi che hanno a che fare con la percezione dei regimi di storicità e il rapporto, viziato, con l’uso pubblico della storia. Il che ci porta anche a un interesse di tipo didattico che coinvolge in modo particolare i docenti, coinvolti nell’insegnamento della storia e dell’educazione civica: il volume che hai curato è articolato in tre sezioni rispettivamente dedicate a Temi, Narrazioni e Fonti.  A quale esigenza risponde questa tripartizione?

Come hai anticipato l’articolazione del volume prevede saggi di autori e autrici diversi, dedicati ai temi (i lemmi di cui si parlava prima), alle narrazioni, cioè al modo in cui il fascismo è raccontato, e alle fonti, che ci riportano in modo diretto alla ricerca storica. Io credo che oggi nella grande arena dell’uso pubblico della storia il modo in cui qualcosa è raccontato sia strategico, perché in gioco c’è la trasmissione del sapere storico per la costruzione di una memoria culturale negli anni a venire: se non c’è una adeguata strategia narrativa, qualsiasi progetto culturale è destinato a soccombere di fronte alle centrali narrative seduttive ed efficaci della macchina comunicativa del mercato e della politica.

Le narrazioni portano l’attenzione sul modo in cui il fascismo, prima e dopo il fascismo, è stato raccontato, nelle mostre come nel cinema e nella cultura pop, il che rappresenta il tentativo di mettere a fuoco il rapporto tra realtà e rappresentazione, un fattore strategico anche per capire la destra di oggi, che gioca una partita politica sul piano della rappresentazione, come la destra fascista del passato lo faceva sul piano della propaganda totalitaria, che si trattasse di bonifiche o di colonialismo o di guerra.

 Quale spazio ha il web in queste narrazioni?

Sul web si gioca senz’altro la partita più importante e delicata in questo momento proprio per la sua pervasività, per come coinvolge un pubblico che è fatto anche di attori, tra cui in particolare, il mondo studentesco. È un tema ampio e complesso che riguarda il più generale processo di disintermediazione che coinvolge anche il sapere storico a più in livelli. In generale, per il cinema e la televisione, dunque i linguaggi tradizionali della comunicazione visiva, abbiamo validi strumenti di analisi: sappiamo decodificarli o piegarli alle nostre esigenze in un rapporto didattico efficace ormai consolidato; invece nel rapporto con il web non disponiamo ancora di strumenti concettuali adeguati per un solido confronto. Esistono esperienze virtuose per quanto riguarda la storia pubblica e importanti analisi sul digitale, negli ultimi anni si è lavorato molto sulla funzione critica che gli strumenti del metodo storico possono offrire per la conoscenza anche nel web. Soprattutto, possiamo mettere in guardia dai rischi della rete, che rispetto al fascismo sono enormi per la semplificazione e la banalizzazione del dato storico, in quando comportano uno svuotamento di complessità e un appiattimento su luoghi comuni che fa paura; nell’Annale, il saggio di Carlo Greppi affronta proprio la narrazione del fascismo in rete, dove il tradizionale uso pubblico della storia si fa pulviscolare, transita dai vecchi ai nuovi media e si rifrange in una molteplicità di spazi comunicativi, in cui, alla fine il racconto del fascismo tende a essere non solo quello apologetico o nostalgico delle destre militanti ma a scivolare verso una normalizzazione rassicurante e consolatoria, che ignora la storiografia e i principi del metodo storico-critico. Dal punto di vista di uno storico, dobbiamo constatare come non si riesca ancora dunque a costruire un rapporto virtuoso tra web e storia, con la forte divaricazione tra storia professionale e conoscenza pubblica, caratterizzata più da miti, stereotipi e semplificazioni che conoscenza.

Più volte hai sostenuto la necessità di recuperare un approccio che potremmo sintetizzare nella frase “più storia meno memoria”. Qual è in sintesi la via più efficace per spiegare la storia, e in particolare quella del fascismo a scuola?

La sezione dell’Annale dedicata alle fonti è quella più attenta ai temi della ricerca, che mostra cantieri aperti in ambiti poco visti o trascurati. Il caso clamoroso è ad esempio quella della Segreteria particolare del duce, studiato da Linda Giuva, il carteggio ordinario – trascurato rispetto al carteggio riservato della segreteria privata – da cui emerge una enorme consapevolezza del ruolo progettuale di costruire un “uomo nuovo”, attraverso la proiezione del culto di Mussolini nella religione politica del fascismo che nessuno aveva visto chiaramente. Si tratta di una segreteria particolare che esisteva già in epoca liberale con Giolitti, ed esisterà in quella repubblicana con De Gasperi, che con Mussolini cambia statuto radicalmente: da fonte di elargizione di prebende e di clientelismo diventa uno strumento di costruzione del culto mussoliniano, era presentissima e curava con attenzione estrema ogni dettaglio minuziosamente, dalle grafiche agli aspetti formali, tra cui la grandezza del logo del fascio littorio che doveva apparire sempre nelle stesse dimensione di quello di casa Savoia.

Se da un lato la segreteria di Mussolini curava ogni aspetto della comunicazione, dalle risposte ai testi delle lapidi o sui monumenti, da queste lettere emerge una quotidianità di interazione con gli italiani, fatta anche di racconti di virilità e prolificità che possono far sorridere ma che sono vere e proprie spie del successo di un progetto di antropologia fascista. Il culto del duce così come viene costruito dall’alto nella mitologia, il condottiero, l’antico romano o l’uomo della provvidenza, è sempre svincolato dalla materialità e lo pone sempre in sfera lontana e elevata al di sopra della quotidianità: qui emerge invece una dimensione prosaica e dal basso del mito all’interno del quale Mussolini è un benefattore, quello a cui ci si rivolge come a un buon padre per un consiglio, un aiuto, un sussidio, una preghierina.

Il saggio di Leonardo Mineo e Dario Taraborelli sulle sentenze della magistratura e dei processi contro i fascisti in relazione agli eventi del 1919-1922, mostra poi un materiale inedito che illustra dei nodi storiografici interessanti, in continuità e rottura tra Italia liberale e fascista, con una magistratura in bilico tra l’una el’altra e consapevole che il fascismo stia aprendo una nuova fase. C’è poi il censimento degli atti violenti fatto dalle forze dell’ordine, e non dagli antifascisti, che è rivelativo perché è una fonte meno coinvolta nella denuncia ma è anche molto inquietante nel far emergere le complicità istituzionali. Nell’unico caso in cui le forze dell’ordine, insieme alla resistenza della comunità, sono intervenute contro lo squadrismo, come a Sarzana nel luglio 1921, i fascisti sono scappati, a dimostrare che all’ascesa di Mussolini si poteva resistere se ci fosse stata la volontà di farlo.

Quanto all’uso didattico delle fonti, la distanza dello storico dall’oggetto della ricerca e l’insegnamento del metodo storico-critico sono certamente fondamentali ma continuo a pensare che in questo momento la partita prioritaria sia quella delle narrazioni, di un racconto storico che sappia parlare alle persone usando anche un registro emotivo che renda la comunicazione efficace. La vera questione, nelle classi come sui media, è dunque quella di saper usare le fonti dentro una narrazione del sapere storico che sappia anche avvincere.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Raccontare la storia del fascismo, tra continuità e rottura. Conversazione con Giovanni De Luna
DOI: 10.52056/9791254693162/16
Parole chiave: ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Raccontare la storia del fascismo, tra continuità e rottura. Conversazione con Giovanni De Luna, Novecento.org, n.18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/16

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