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A 40 anni dalla strage alla Stazione di Bologna: storia, public history e didattica

Intervista a Cinzia Venturoli
di Gianluca Fulvetti

Bologna, 2 agosto 1980. Vista d’insieme dell’ala Ovest del fabbricato viaggiatori della stazione, poche ore dopo essere stata squarciata dall’attentato dinamitardo a sfondo terroristico che, alle ore 10:25, provocò 85 morti e 200 feriti.
Foto di Di AFP / Getty Images, pubblicata su ilpost.it, 2 agosto 2012., Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

In occasione del 40° anniversario della strage alla Stazione di Boloigna, abbiamo posto alcune alcune domande su questo episodio a Cinzia Venturoli, docente dell’Università di Bologna e studiosa, tra le altre cose, di storia dei terrorismi.
Venturoli ha dedicato molti lavori scientifici e il suo impegno culturale alla ricostruzione della strage di Bologna del 2 agosto, sulla quale ha appena pubblicato presso l’editore Castelvecchi la monografia “Storia di una bomba. Bologna 2 agosto 1980: la strage, i processi, la memoria” (http://www.castelvecchieditore.com/prodotto/storia-di-una-bomba/).

Sentiamo spesso parlare e leggiamo spessi dei “misteri d’Italia”, in relazione alla storia dei terrorismi e della violenza politica nel nostro paese. Per la strage di Bologna invece il quadro, fattuale e interpretativo, pare ormai chiaro.

Sì. Le indagini, ostacolate da numerosi depistaggi, portarono come noto alla condanna degli esecutori materiali, appartenenti al gruppo terroristico neofascista Nar (Nuclei armati rivoluzionari, http://mappedimemoria.it/wiki/nar-nuclei-armati-rivoluzionari) con sentenze passate in giudicato nel 1995 (Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti) e nel 2007 (Luigi Ciavardini) e dei depistatori (Licio Gelli, loggia massonica P2, il tenente colonnello Giuseppe Belmonte e il generale Pietro Musumeci del SISMI e Francesco Pazienza). In alcuni casi verità storica e verità giudiziaria non coincidono, in alcuni divergono, ma nel caso della strage alla stazione non vi è evidenza di contraddizioni tra le due. In questi 40 anni esponenti politici hanno sollevato dubbi, hanno proposto piste alternative, tutte vagliate dalla magistratura, che non ha trovato alcun riscontro: l’enorme mole dei documenti di cui disponiamo, le analisi compiute, non portano a mio avviso a smentire in alcun modo le ricostruzioni fatte fino a qui e confermate dalle sentenze.

Conosciamo ormai, oltre al ruolo dei neofascisti, anche i mandanti, i finanziatori, i protagonisti delle azioni di depistaggio.

Nel marzo 2018 si è aperto presso il tribunale di Bologna un nuovo procedimento a carico di Gilberto Cavallini, un militante dei Nar , per complicità nella strage, e nel gennaio 2020 una sentenza di primo grado lo ha condannato; tuttora non sono uscite le motivazioni della sentenza ma, una volta ancora, non si sono evidenziate discrepanze con ciò che era stato accertato fino a qui, è stato messo in luce il contesto in cui è avvenuta la strage e i legami intercorsi fra diverse organizzazioni neofasciste e uomini dei servizi segreti. Si dovrà naturalmente aspettare la sentenza definitiva. La procura generale di Bologna, inoltre, nel febbraio 2020 ha chiuso l’inchiesta sulla strage notificando quattro avvisi di fine indagine. Tra i destinatari, Paolo Bellini che secondo l’accusa avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti, e inquisiti come mandanti, finanziatori o organizzatori. Il procedimento dovrebbe riprendere a breve e si attende la possibile apertura di ulteriori fascicoli su mandanti e finanziatori.

 

Il conteso della strage rimanda ancora alla strategia della tensione?

“Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974”, scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974, intendendo per strage di Bologna quella avvenuta il 4 agosto, quando un ordigno posizionato sul treno Italicus scoppiò nella stazione di San Benedetto val di Sambro, nei pressi di Bologna. Quella strage segnò, per molti versi, la fine di una prima fase della strategia della tensione, iniziata nel 1969 con la finalità di condizionare l’ordinamento democratico. Nella seconda metà degli anni Settanta vi furono mutamenti nella politica nazionale ed internazionale, nei gruppi neofascisti e nelle loro azioni, così come nelle strategie di alcune organizzazioni strettamente legate all’eversione e alle “minacce alla democrazia”, quali la Loggia massonica P2. Nel 1974 si ebbe l’ultimo piano per un possibile, o un minacciato, colpo di stato, ovvero il golpe bianco ipotizzato da Edgardo Sogno. Dal 1974, poi, divenne sempre più presente il terrorismo di estrema sinistra e il gruppo più strutturato, le Brigate rosse, passarono dalla fase della cosiddetta “propaganda armata” a quella dell’”attacco al cuore dello Stato”.

Inoltre, il 4 agosto 1974 è stato anche l’inizio di un decennio in cui la città di Bologna fu protagonista delle cronache italiane, e internazionali, per le vicende che la colpirono in diverso modo: stragi, seppur di diversa matrice, e violenza politica si susseguirono sul territorio metropolitano o sono state ad esso legate, caratterizzando e plasmando l’identità di una città che ha reagito in modi simili e ad un tempo specifici[1].

La strage di Bologna ha segnato una netta cesura nella periodizzazione della storia repubblicana: conclude gli anni Settanta, un decennio caratterizzato, oltre che dalla violenza politica e dai terrorismi, dal forte impegno politico e dai movimenti collettivi, per aprire gli anni Ottanta, un periodo cui gli individui presero più rilevanza rispetto al collettivo. Gli anni Settanta erano stati una stagione di riforme, molte di queste scaturite da iniziative e richieste che venivano dai cittadini e da elaborazioni politiche e culturali di un Paese che sentiva la necessità di cambiare, riforme forse non organiche, sovente non applicate con il rigore necessario ed in modo omogeneo nella Penisola, ma provvedimenti che coinvolgevano tutti gli ambiti della vita sociale e civile, gli anni Ottanta videro, invece, una prospettiva completamente mutata nel rapporto tra cittadini e la politica.

 

Si può parlare per il tornante di fine anni Settanta di una di una ripresa, degli ultimi “colpi di coda” del neofascismo italiano?

Nella seconda metà degli anni ‘70 nell’estrema destra si andavano perdendo i riferimenti diretti all’esperienza del fascismo del ventennio e della Repubblica sociale, o meglio si mostrava una insofferenza verso la «retorica della nostalgia»[2], e in quell’area mutarono alcune modalità di azione, in un continuo alzarsi dell’intensità della violenza, che trovava le sue vittime anche fra magistrati e forze dell’ordine, conservando la finalità della disgregazione, della disarticolazione, dello sgretolamento o frantumazione dello Stato democratico per la costruzione di un nuovo regime.

Proprio in quegli anni riprese corpo l’azione dell’estrema destra, così come si evince anche dalle indagini del magistrato Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 dai Nar, sui quali stava indagando, e dall’enorme mole di documenti ora a disposizione della ricostruzione storica. Nacquero organizzazioni i cui militanti si autodefinivano «spontaneisti» e, secondo il giornalista Sergio Zavoli, lo spontaneismo armato fu «una sorta di dichiarazione di guerra indiscriminata al sistema borghese con ossessivi inni all’impegno e alla lotta, al sacrificio e alla morte»[3] con una interpretazione, fortemente influenzata dall’auto-narrazione dei protagonisti stessi, che rischiava di mettere in ombra la loro matrice politica. Si faceva quindi largo un modo un po’ diverso di vivere la militanza nell’area neofascista e, anche per ragioni anagrafiche, nacquero nuovi gruppi che non persero, però, i contatti, strategici e operativi, con uomini e leader appartenenti alle precedenti organizzazioni, così come restarono immutati riferimenti a certi aspetti dell’esperienza del fascismo mussoliniano.

Nell’ ultimo scorcio degli anni Settanta ripresero gli attentati dinamitardi[4], ne ricordiamo solo alcuni: il 7 marzo 1979[5] fu collocato un ordigno davanti al Circolo culturale femminista nel quartiere Prati; il 20 aprile venne fatta deflagrare una carica esplosiva vicino al portone della sala consiliare del Campidoglio; il 15 maggio cinquantacinque chili di esplosivo scoppiarono nei pressi del carcere di Regina Coeli; il 20 maggio un’auto imbottita di esplosivo venne collocata nei pressi del Consiglio superiore della Magistratura, mentre il 24 maggio un altro ordigno esplose nei pressi del ministero degli Esteri[6] e il 16 giugno vennero lanciate bombe a mano all’interno di una sezione del Pci all’Esquilino dove erano in corso due assemblee[7]. I Nar furono particolarmente attivi in questo periodo: colpirono militanti della sinistra, membri delle forze dell’ordine[8], fecero attentati e rapine di autofinanziamento in cui molto spesso ferirono e uccisero persone: fra il 1969 e il 1980 il 68% delle violenze politiche perpetrate contro le persone erano da attribuire all’estrema destra[9]; fra il 1975 e il 1980 i terroristi uccisero in Italia 270 persone e di questi 115 assassinii erano da attribuire alla destra. In quello stesso periodo gli attentati contro cose o persone furono 8.400 e su questi 3.000, poco più del 35%, erano sicuramente attribuibili alla destra eversiva[10]; questo terrorismo fu però, in quella seconda metà degli anni Settanta, per lo meno sottovalutato.

 

Hai fatto cenno a procedimenti ancora in corso: ha ancora senso una giustizia a così tanti anni di distanza? E comunque in questo lungo percorso verso la verità è stato fondamentale, per la strage di Bologna come per altre, il ruolo dei familiari delle vittime.

La strage di Bologna, che chiude la stagione delle stragi iniziata nel 1969, è stata la prima ad avere sentenze passate in giudicato che condannano esecutori materiali e depistatori, mentre per avere un procedimento che indaghi finanziatori e mandanti; come detto, sono serviti oltre trent’anni e ancora la magistratura è impegnata su questo fronte. Ci si può domandare come si sia arrivati a queste inchieste e se abbia davvero senso celebrare un processo ad oltre 40 anni da quel 2 agosto quando, fra l’altro, molti degli indagati sono deceduti. La giustizia ritardata è giustizia negata, si afferma non senza ragione, nonostante questo credo che pur tarda essa sia necessaria per le vittime, per i loro familiari, per i cittadini italiani e anche per gli storici, visto che i procedimenti giudiziari permettono di acquisire nuovi documenti, nuove fonti e possono mostrare ai cittadini la volontà di procedere nei confronti di chi, in quegli anni, ha tentato di modificare, condizionare, stravolgere l’ordinamento democratico del nostro Paese. La necessità di ottenere “con tutte le iniziative possibili la giustizia dovuta” è anche alla base della nascita, nel giugno 1981, dell’Associazione fra i familiari delle vittime, la prima di questo tipo in Italia, che nacque non casualmente dopo la sentenza che in quell’anno aveva mandato assolti tutti gli imputati della strage di piazza Fontana: alcuni familiari di vittime sentirono impellente la necessità di associarsi per tentare di impedire che anche per la strage di Bologna non si arrivasse a scoprire i colpevoli.  Un impegno, a cui si collega quello sulla memoria e la divulgazione storica, che non è venuto meno anche dopo le sentenze ottenute nel 1995 e nel 2007: nel 2011, e poi nel 2015, l’Associazione fra i familiari delle vittime ha infatti presentato alla procura di Bologna delle memorie che, nell’intenzione dei redattori, avrebbero potuto approfondire le conoscenze processuali sulla strage ed arrivare a individuarne i mandanti e i finanziatori; memorie frutto di un particolare lavoro di ricerca che prendeva le mosse dalle carte del processo sulla strage di Brescia, dalla rilettura dei procedimenti giudiziari che negli anni hanno coinvolto personaggi vicini ai condannati per la strage e dai processi per stragi e attentati terroristici avvenuti in Italia dal 1969 e per altri reati compiuti dai gruppi terroristici di estrema destra, un lavoro reso possibile dalla digitalizzazione di un gran numero di documenti processuali e dall’utilizzo di strumenti informatici per la ricerca all’interno di quell’insieme così considerevole di pagine. Il  lavoro di digitalizzazione dei documenti processuali era iniziato fin dal 2003, grazie allo stimolo delle Associazioni dei familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi in collaborazione con altre Associazioni, primo fra tutte l’Archivio Flamigni, al fine di tutelare fascicoli che in molti casi rischiavano di andare perduti perché mal conservati, e che comunque risultavano non consultabili a causa di problemi organizzativi degli archivi dei tribunali; un lavoro che poi è proseguito, non senza difficoltà e con alterne vicende, coinvolgendo gli archivi dei Ministeri, del Parlamento, dei Servizi segreti.

 

Grazie a questo impegno la strage di Bologna, e la sua memoria, appartengono al calendario civile, e dell’impegno civile, del nostro paese. Anche nel recente volume curato da Alessandro Portelli (Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Donzelli, 2017) c’è un lemma dedicato al 2 agosto.

Per la città di Bologna, e non solo, la data del 2 agosto è inserita nel calendario civile e per ciò un momento estremamente importante per la comunità  è quello della commemorazione ufficiale che si ripete, pressoché immutata nel suo schema, dal 1981: un corteo parte la mattina del 2 da piazza Maggiore, dopo un incontro in sala del Consiglio fra i famigliari delle vittime e le istituzioni locali, si dirige verso la stazione in una composizione che segue sempre lo stesso  schema, aprono il corteo i famigliari delle vittime, seguono i gonfaloni delle città italiane che portano simbolicamente la partecipazione delle comunità e quindi i cittadini. Da sempre è richiesta l’assenza di bandiere e simboli di partito, condizione fondamentalmente rispettata, se non per sporadiche eccezioni. Sul piazzale della stazione, a fianco del luogo dell’esplosione, avvengono i discorsi ufficiali: quello del presidente dell’Associazione dei famigliari delle vittime, seguito da un minuto di silenzio, poi il discorso del Sindaco e quello del rappresentante del governo: nessun fischio da parte dei manifestanti fino al 2000, quando fu contestato il presidente del Consiglio, contestazioni che proseguirono negli successivi fino a quando nel 2010 fu deciso che il rappresentane del governo non parlasse più nel piazzale della stazione ma tenesse il suo discorso all’interno del palazzo comunale, anche per evitare che stampa e mass media si concentrassero sui fischi e sulle polemiche, facendo così passare in secondo piano la strage e il rinnovare della memoria che l’anniversario dovrebbe portare con sé. La manifestazione non è però mai stata turbata da violenze, scontri o forti tensioni, mentre le polemiche, le strumentalizzazioni e l’abuso partitico di storia e memoria della strage hanno, invece, sovente accompagnato il racconto della manifestazione fatto dai mass media: quella che viene colta, evidenziata, rilanciata, ingigantita e a volte creata è la polemica, la ricerca della notizia a tutti i costi; al contrario, difficilmente si trovano riflessioni pacate, approfondimenti e, soprattutto, lo spazio dedicato alla commemorazione è direttamente proporzionato all’intensità delle discussioni e delle lacerazioni, in mancanza delle quale la memoria non trova spazio sui quotidiani, e alla televisione, se non a livello locale.

Le celebrazioni sono quindi un momento essenziale per la memoria, per fissare il ricordo nel calendario civile, e quelle di Bologna sono in effetti organizzate affinché così avvenga: si tengono in spazi pubblici e deputati alla condivisione dei momenti collettivi importanti come la piazza, il Palazzo comunale, e sono nel luogo di memoria, si ripetono di anno in anno. O meglio, si sono ripetute fino al 2019: in questo quarantesimo anniversario, infatti, a causa della situazione sanitaria legata alla pandemia di Covid 19, le autorità non permetteranno il corteo e la stazione non accoglierà né i discorsi né il minuto di silenzio che da sempre omaggia il ricordo delle vittime, mentre i discorsi ufficiali si terranno in piazza Maggiore. O almeno questo è ciò che è dato sapere nel momento in cui scriviamo.

Questa situazione ha turbato molti cittadini, spaesati e contrariati dall’impossibilità di ripetere il rito laico del 2 agosto, preoccupati che la rottura del modello seguito di anno in anno possa portare ad una memoria meno salda, più sfumata. Preoccupazioni che si sono già avvertite quando, per diversi motivi, qualcuno proponeva dei mutamenti nella cerimonia o nei segni di memoria presenti in stazione.

 

Negli anni, attorno alla strage sono fiorite iniziative di sensibilizzazione della cittadinanza, che possiamo ricondurre alle pratiche della Public History.

Se la celebrazione del 2 agosto ha, e credo debba continuare ad avere, un carattere codificato,  ripetitivo, è indubbio che si avverta la necessità di accompagnare memoria e conoscenza della strage, e del suo contesto, con progetti che possano coinvolgere una larga parte di cittadini durante tutto l’anno, ed è per questo che ormai da qualche tempo associazioni e istituzioni si impegnano ad organizzare iniziative di diverso tenore con l’intento di scongiurare la sacralizzazione e la banalizzazione, che sono due pericoli eguali e contrari per chi intenda conservare e trasmettere la memoria del passato.

La prima domanda a cui si cerca di rispondere è: come raccontare una strage, come far comprendere il significato profondo di quell’evento e come suscitare un interesse che solleciti ad approfondire il tema. Ritengo che una risposta a questa domanda possa stare nella ricostruzione e narrazione delle storie di vita delle vittime; se infatti riusciamo a ricostruirne il ritratto comprenderemo che quelle persone erano come noi, capiremo che potevamo essere noi, e l’empatia con la quale ci mettiamo in ascolto e in sintonia con quei giovani, quelle donne, quegli uomini ci permette di raccontare a chi non c’era cosa significa far saltare in aria una stazione il primo sabato di agosto. Le loro storie sono nella biografia collettiva del nostro paese, conoscerle e raccontarle aiuta a ricostruire una storia non monolitica e astratta e permette di capire qual era la strategia dietro alle stragi, ci permette quindi di far avvicinare i cittadini alla conoscenza della storia di quella strage e di quel periodo storico.

Su questo si basano, fra gli altri, due progetti realizzati con il sostegno dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna. Nel 2016 il progetto “Una vita, una storia”, grazie al quale sono state elaborate, e poi distribuite durante il corteo della mattina del 2 agosto, cartoline ognuna recante una breve biografia delle 85 vittime. Ho redatto io le biografie, utilizzando i documenti conservati nell’archivio dell’Associazione fra i famigliari delle vittime, dove troviamo certificati di nascita e di famiglia, lettere, relazioni di assistenti sociali, articoli di giornale, attraverso i quali è possibile ritrovare moltissimi dati; a volte però le notizie erano molto scarne e quindi è divenuto indispensabile l’aiuto dei famigliari grazie ai quali sono state ricostruite e rese pubbliche, in alcuni casi per la prima volta, alcune delle vite spezzate[11].

Da questo progetto nacque, l’anno successivo, il “Cantiere di narrazione popolare 2 agosto”, ancora con l’intento di restituire la “parola” alle persone e di portare la memoria, e la storia, fra i cittadini che si facevano narratori e ascoltatori. Il regista e attore Matteo Belli, a cui era stata sottoposta questa esigenza, ha pensato di affidare a persone comuni il compito di costruire, partendo dai documenti, un testo che narrasse la vita delle vittime, che essi stessi avrebbero raccontato dalle ore 11 alle 23 del 2 agosto in differenti luoghi della città di Bologna.

Il Cantiere è stato per noi anche un esperimento di public history, ossia il tentativo di portare la storia fra i cittadini, di narrarla al pubblico restando rigorosamente legati alle ricostruzioni storiche. Un doppio esperimento di coinvolgimento: cittadini che narrano e cittadini che ascoltano, sentendosi entrambi parte del processo di conoscenza, cittadini attivi in una città anch’essa protagonista, in qualche modo trasformata.

Le storie di vita, le biografie, la parola narrata sono state, quindi, al centro di questi progetti. Un altro percorso si è poi proposto di portare all’attenzione del pubblico una ricerca effettuata all’Archivio storico comunale di Bologna, per ricostruire come la città, e la nazione, avessero reagito alla strage. I faldoni del fondo “Gabinetto del Sindaco”, recanti la segnatura “Strage del 2 agosto 1980”, conservavano infatti telegrammi, lettere, cartoline, resoconti, articoli di giornale, ed ognuno era una storia, era la volontà di esserci, di fare qualcosa, di mostrare vicinanza, di non essere indifferenti di fronte al massacro; centinaia e centinaia di carte, ognuna particolare e unica, anche quando si trattava, ad esempio, di ordini del giorno di Consigli comunali in cui si affermava solidarietà, umana e concreta, alle vittime e alla città di Bologna. Sono passati sotto i miei occhi grandi città e piccoli paesi, italiani ed europei, messaggi ufficiali da numerosi Paesi, dagli Stati Uniti al Vietnam alle nazioni europee, le autorità italiane, i sindacati, le associazioni professionali, gli studenti greci e iraniani che avevano avuto accoglienza a Bologna negli anni precedenti, così come i cileni e gli argentini. E poi lo sport, dilettanti e professionisti che offrivano un impegno concreto. Viste le molte richieste di poter inviare denaro, l’Amministrazione comunale decise di creare un fondo di solidarietà in cui fare confluire le somme, piccole o consistenti, che arrivavano.

Tutte queste fonti potevano essere utilizzate per un saggio storico[12], ma l’idea era quella, ancora una volta di portare le fonti, e la loro analisi, fuori dai testi per specialisti, fra le persone, per mettere in luce un importante momento che si era affiancato ai soccorsi veri e propri, già raccontatati con l’utilizzo di  testimonianze in diversi progetti, quali il documentario “Il 37, memorie di una città ferita” realizzato da Roberto Greco nel 2005, e con foto e testimonianze nella mostra fotografica I volti del soccorso, 2 agosto 1980-2005, organizzata dall’Azienda Usl di Bologna. È quindi nato, sempre grazie al sostegno dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e dell’Associazione fra i familiari delle vittime, lo spettacolo Sinfonia di soccorsi. La solidarietà e il dolore del mondo al sindaco Zangheri, in cui dieci allievi attori, sotto la guida di Matteo Belli, hanno “messo in scena” quei documenti.

La buona riuscita di queste iniziative ha mostrato ancora una volta come l’interesse delle persone sia sempre alto quando la memoria, ma ancor più la storia, riesce a trovare approcci e canali di divulgazioni alternativi a quelli tradizionali[13].

 

Un’ultima domanda, quali sono le esperienze didattiche a partire dalla strage e del suo contesto? La storia di un dramma come questo, e delle soggettività delle viste spezzate, cosa racconta dell’Italia di quegli anni?

Per la scuola è fondamentale riflettere sulla storia della Repubblica a partire da episodi così drammatici e complessi, soggetti a continue discussioni e strumentalizzazioni, a quelli che si chiamano usi (e oblii) pubblici (e politici) della storia e della memoria. Questo perché come afferma De Luna, “senza un solido ancoraggio al passato diventa molto difficile costruire un senso di condivisione, di cittadinanza e di appartenenza”[14]. Dal 2007, inoltre, è stato istituito il Giorno della Memoria “dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”, che ha promosso “momenti comuni di ricordo dei fatti e di riflessione, anche nelle scuole di ogni ordine e grado” ponendo, nuovamente, l’accento sulla memoria e mettendo un po’ in ombra la storia. Questa legge ha fornito una cornice in grado di raccordare le differenti commemorazioni dei singoli eventi fatte a livello locale, e ha riconosciuto alla memoria la funzione di preservare l’identità della nazione. Nello stesso senso si muove anche la convenzione che il Miur ha firmato con le differenti Associazioni fra i famigliari delle vittime del terrorismo italiano. E in questo contesto, da circa sette anni, nell’ambito del protocollo d’intesa tra Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, vengono realizzati corsi e laboratori per studenti e docenti, fra i quali il percorso Educare attraverso i luoghi: Bologna e la strage del due agosto 1980.

Questo progetto si propone di attivare un percorso sulla strage di Bologna e sugli anni Settanta attraverso il quale gli studenti possano conoscere gli avvenimenti e il contesto storico in cui sono avvenuti, acquisendo consapevolezza di come la memoria della strage si sia strutturata e riflettendo sui temi della cittadinanza attiva.

Attraverso una vista a Bologna, si realizza un tragitto presente-passato-presente che parta dagli studenti e dai loro interessi. Il percorso inizia alla Stazione, quindi si sposta in piazza Maggiore, dove si trovano i simboli della memoria pubblica cittadina; presso la sede dell’Associazione dei famigliari delle vittime, si incontrano testimoni della strage e viene fornita una contestualizzazione storica. La proposta è rivolta alle classi della scuola superiore di primo e secondo grado, ma potrà essere programmata anche per la scuola primaria. Le adesioni in questi anni sono cresciute in modo esponenziale e nell’anno scolastico 2018/2019 hanno partecipato oltre 4.400 studenti. Nell’anno scolastico appena trascorso abbiamo dovuto tentare di rendere a distanza questo progetto, utilizzando foto e incontrando i testimoni su una piattaforma informatica, e i risultati sono stati comunque incoraggianti.

Cerchiamo di stimolare un uso critico del territorio, fornire strumenti per decodificare l’uso politico di storia, memoria e oblio; rafforzare la consapevolezza dell’essere soggetti sociali attivi in grado di accogliere le diversità in un saper fare collettivo; riflettere sulle modalità di trasmissione della memoria e sulla sua complessità; analizzare le pratiche sociali di memoria (monumenti, lapidi e cerimonie commemorative) che non rispondono solo all’esigenza di oggettivare e istituzionalizzare una data immagine del passato, ma anche a quella di renderla credibile e legittima.

Il luogo al centro del progetto è la stazione di Bologna, ad un tempo luogo-evento, ovvero dove è accaduto il massacro, luogo-rappresentazione e, per certi aspetti, monumento. Non è però, evidentemente, un museo e quindi non è dotato di apparati esplicativi né è uno spazio completamente dedicato all’evento, ma è un luogo trafficato, fonte di possibili distrazioni, e quindi il lavoro degli insegnanti e dello storico che accompagnano gli studenti è quello di rendere chiaro lo scopo e la valenza del lavoro che si sta per iniziare. La prima attività che viene fatta è proprio quella di “interrogare il luogo”; l’osservazione dei segni di memoria, il racconto, sul luogo, delle storie dei feriti e la presenza della lapide con i nomi degli 85 uccisi permettono di focalizzare l’attenzione sulle vite delle vittime: è questo il momento in cui l’attenzione e l’emozione degli studenti sono più intense.

Inoltre, il lavoro in stazione permette di coinvolgere anche i passanti; spesso coloro che siedono in sala d’aspetto, incuriositi alla presenza di un gruppo, si uniscono all’ascolto, per cui l’esperienza didattica si fa pratica di public history, evidenziando il potenziale didattico e divulgativo del luogo di memoria.

Il secondo passaggio del progetto prevede l’incontro con un testimone, un ferito, un famigliare di un deceduto o un soccorritore: dopo aver discusso sui luoghi i segni di ciò che è avvenuto e della memoria che si è stratificata, proporre agli studenti una testimonianza significa continuare a contrastare la percezione della storia come materia astratta e inerte che si occupa di un passato concluso e lontano, intangibile. Prima di questo momento, sotto forma di lezione dialogata, la strage è contestualizzata, richiamando le motivazioni e le conseguenze della “strategia della tensione”, la storia del terrorismo neofascista della seconda metà degli anni Settanta, quella della vicenda giudiziaria della strage di Bologna. Cosi gli studenti comprendono che il testimone è una fonte. L’incontro suscita in loro una reazione empatica, rilevabile da tutti gli scritti e i pensieri redatti dai ragazzi coinvolti (di cui si può trovare traccia nel sito mappedimemoria.it), e la dimensione emozionale, importante in una società in cui pare smarrita questa capacità sia a livello personale sia collettivo, e in cui sempre più frequente si nota la tendenza a «prendere le distanze da tutto ciò che inquieta la coscienza rifugiandosi nell’indifferenza»[15] , attiva considerazioni e domande volte ad approfondire l’evento e le ripercussioni sulla vita delle persone coinvolte, sulle reazioni dei cittadini e sul rapporto con la giustizia e le istituzioni[16], e fa emergere atteggiamenti quali la capacità di indignarsi nei confronti dell’uso della violenza, di riflettere sulla legalità e sulla giustizia e di interrogarsi su come si possa reagire, ieri e oggi, al terrorismo in una dimensione personale e, soprattutto, collettiva alla luce della necessità di salvaguardare i valori democratici[17]. Competenze e capacità queste ultime che rientrano nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza attiva e democratica, uno dei principali obiettivi della Strategia europea per la gioventù (2010-2018).

 


Note:

[1] C. Venturoli, “Bologna sa stare in piedi per quanto colpita” Le reazioni della città di Bologna alle stragi nel decennio 1974/1984, in “Storia e futuro, Rivista di storia e storiografia on line”, n. 49, marzo 2019, http://storiaefuturo.eu/bologna-sa-stare-in-piedi-per-quanto-colpitai-le-reazioni-della-citta-di-bologna-alle-stragi-nel-decennio-1974-1984/.

[2] F. Ferraresi Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995, p. 290.

[3] S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 2017, p. 51

[4] N. Rao, Il piombo e la celtica, Sperling & Kupfer, Milano 2009,  pp. 214 e ss.

[5] L’ordigno fu collocato da appartenenti ai NAR, F. Raugei, Bologna 1980 vent’anni per la verità, Prospettiva, Reggello (Fi), 2000, p. 57.

[6] Gran parte di questi attentati fu rivendicata dal Movimento rivoluzionario popolare; cfr. Rao, Il piombo e la celtica, 2014, pp. 217 -226.

[7] M. Caprara, G. Semprini, Destra estrema e criminale, Newton Compton, Roma 2008, p. 151.

[8] F. Raugei, 2000, pp. 54-62.

[9] M, Galleni, Rapporto sul terrorismo, Rizzoli, Milano 1981.

[10] R. Minna, Il terrorismo di destra, in D. Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, il Mulino, Bologna 1984, p. 63.

[11] Venturoli, Il Cantiere di narrazione popolare 2 agosto, “E-Review”, 5, 2017. DOI: 10.12977/ereview128

[12] Venturoli, 2019.

[13] Gabriele Amadori, Sinfonia di soccorsi: le buone pratiche di un progetto memoriale di public history, Master Universitario di II livello in Public History, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, Relatore Professor Lorenzo Bertucelli, aa. 2017-2018.

[14] G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011, p. 13.

[15] L. Mortari, Educare alla cittadinanza partecipata, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 4.

[16] Venturoli, La strage alla stazione di Bologna: dall’evento traumatico all’esperienza didattica, in Didattica della storia – Journal of Research and Didactics of History, 2020, 2(1S), 475-486. doi:https://doi.org/10.6092/issn.2704-8217/11044.

[17] Venturoli, Educare attraverso i luoghi: un percorso di educazione alla cittadinanza partendo dalla strage alla stazione di Bologna, in C. Panciroli (a cura di), Educare nella città: percorsi didattici interdisciplinari nei contesti socio culturali, Franco Angeli, Milano 2019.