Select Page

La Russia tra XX e XXI secolo: una breve ricostruzione storica

La Russia tra XX e XXI secolo: una breve ricostruzione storica

Manifestazione a Londra nell’ottobre del 2022

Abstract

Dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte dell’esercito della Federazione russa, consumatasi il 24 febbraio 2022, si rende necessario da parte del mondo scolastico e universitario l’impegno ad offrire agli studenti e alle studentesse strumenti in grado di favorire la comprensione delle complesse vicende che si dipanano oggi in Europa. Il “ritorno della guerra” nel vecchio continente non è solo un argomento di interesse per gli addetti ai lavori, ma pure uno snodo cruciale nella vita degli europei capace di plasmare il presente e il futuro delle nuove generazioni.
Come siamo arrivati a questo punto? Chi è Vladimir Putin? Cosa pensa la popolazione russa di lui? La Russia è una democrazia? Perché Putin ha deciso di invadere l’Ucraina?
Sono tutte domande che più volte mi sono state rivolte in questi mesi durante le iniziative scolastiche a cui ho partecipato. Domande che meritano risposte non banali in modo da non dare agli studenti una visione edulcorata dei processi storici.
Ecco, perciò, che nel tentativo di andare oltre le semplicistiche narrazioni che dominano il dibattito pubblico italiano si propongono qui alcuni approfondimenti sulla storia della Russia a cavallo tra XX e XXI secolo che gli insegnanti potranno utilizzare qualora lo ritenessero opportuno.
L’articolo è diviso in piccoli paragrafi che possono essere usati per singoli focus oppure in modo snello per un’unica lezione.

Dall’Unione Sovietica alla Federazione Russa

Il crollo del comunismo in URSS fu dovuto all’ingenuo tentativo di Michail Gorbaciov, ultimo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, di realizzare il sogno del “socialismo umanitario”. Egli diede inizio a una serie di riforme via via sempre più ambiziose, convinto com’era che il comunismo potesse essere riformato. Cresciuto nella gioventù comunista, laureato a Mosca e in seguito autore di una folgorante carriera all’interno del partito, Gorbaciov era il prodotto del clima tipico degli anni Sessanta, quando grazie alla destalinizzazione di Nikita Chruščëv andò formandosi una leva di dirigenti meno legati ad una concezione neostalinista del potere. Invece di allontanarli dal comunismo, infatti, la pubblica denuncia dei crimini di Stalin (avvenuta al XX congresso del PCUS nel 1956) alimentò in parte dei giovani sovietici la fiducia nelle possibilità di rinnovare il socialismo. Nel 1985 questo gruppo di politici, specialisti, analisti e intellettuali ebbe con Gorbaciov la possibilità di guidare il paese per tentare di colmare il divario tra socialismo ideale e la sua deludente applicazione reale.

La storiografia più recente ha definito Gorbaciov un comunista riformista. Infatti, egli fu un genuino riformista perché legò il futuro del comunismo alla necessità di rinnovare il sistema dopo anni di stagnazione politico-economica. Allo stesso tempo, fu un convinto comunista visto che cercò all’interno del patrimonio culturale sovietico, e non in qualche altra tradizione politica, il modo per uscire dalla crisi.

In realtà le confuse idee che guidavano i riformisti della perestrojka (ricostruzione) finirono per condurre il paese nel caos. La tanto ventilata via di mezzo tra un’economia pianificata e una ispirata al libero mercato spinse l’URSS in un vicolo cieco. I dirigenti sovietici furono incapaci di elaborare un ordinato percorso di rinnovamento per l’Unione Sovietica, finendo per rimanere vittime delle loro stesse contraddizioni e portando così loro stessi il sistema al crollo definitivo.

Le aspettative suscitate dall’avvento dei riformisti guidati da Gorbaciov erano state immense, e altrettanto immensa fu la delusione nel biennio 1990-91 per il loro fallimento. Pure quei cittadini che per anni, nonostante le privazioni, si erano sentiti ancora genuinamente sovietici decisero che non valesse la pena salvare il moribondo socialismo reale. Di fronte a questa crisi terminale, anche le classi dirigenti locali delle varie repubbliche, che componevano l’Unione Sovietica, ritennero inevitabile la dissoluzione dell’URSS e finirono per favorirla. Così facendo, le singole repubbliche rivendicarono la propria indipendenza e iniziarono un nuovo capitolo della loro storia.

È in questo quadro che va collocata l’ascesa in Russia di Boris El’cin, il «populista»: uomo scaltro, spregiudicato e capace di incantare le folle. Egli si era fatto largo a Mosca attaccando i privilegi, la corruzione e le prepotenze dell’élite comunista; tutte cose ampiamente conosciute dai cittadini sovietici, che presero infatti a simpatizzare per El’cin. Egli divenne sempre più popolare man mano che per colpa della perestrojka aumentava il caos, tanto da stravincere con il 90% di preferenze il seggio al nuovo parlamento sovietico varato nel 1989.[1] Nell’aula parlamentare, che Gorbaciov aveva istituito nella speranza di consolidare l’appoggio alle sue riforme, El’cin riuscì ad accreditarsi come il leader dei radicali e dei democratici, soprattutto dopo la morte del fisico e dissidente Andrej Sacharov avvenuta nel dicembre 1989.

Dal 1990-91 El’cin prese a sostenere riforme di mercato e riforme politiche in senso democratico, seppure di entrambe non sapesse nulla. Maggiore forza e credibilità gliela diede lo stesso Gorbaciov, che nel 1991 istituì la presidenza della Russia sovietica (così come di tutte le altre repubbliche) nel tentativo di decentralizzare il potere e rinnovare l’Unione Sovietica. El’cin vinse le elezioni presidenziali e da subito rivendicò la “sovranità” della Russia, ovvero sostenne l’inutilità de facto di conservare l’URSS. Progressivamente in tutte le repubbliche sovietiche, che componevano la federazione, le élite comuniste optarono per l’indipendenza nazionale. Questo avvenne anche nella Russia sovietica, dove ai radicali e ai democratici che sostenevano El’cin si unirono pure numerosi funzionari sovietici pronti a riciclarsi pur di mantenere il proprio potere dopo la caduta dell’URSS.

L’accelerazione definitiva a questo processo di dissoluzione avvenne la sera del 18 agosto 1991, quando alcuni tra i più importanti uomini al vertice del governo e dello Stato sovietico tentarono un colpo di mano militare allo scopo di preservare l’integrità del paese. Il loro fallimento segnò il destino dell’URSS che venne liquidata nel dicembre 1991 dagli accordi di Belaveža[2] tra il presidente russo El’cin e i suoi omologhi ucraino e bielorusso. La fine dell’URSS fu quindi favorita dal disastro economico creato dalla perestrojka, dalla spinta proveniente dai popoli sovietici di costruire una società più libera, dall’inettitudine degli autori del golpe di agosto 1991 e dalla volontà delle élite nazionali (compresa quella russa) di mantenere il potere accreditandosi come i nuovi “democratici” di paesi indipendenti.

 

Gli anni Novanta: riforma economica e politica

Nel 1990-91, quindi ancora prima che iniziassero le riforme dell’era El’cin, la Russia era precipitata nel caos economico. Con la fine dell’URSS avvenne un ulteriore e drammatico peggioramento della situazione. Del dissesto in cui versava la Russia si approfittarono non pochi ex dirigenti sovietici che saccheggiarono la proprietà statale accumulando immense ricchezze.

La prima fase della privatizzazione, svoltasi tra il 1987 e il 1992, fu condotta infatti per lo più a vantaggio della nomenklatura comunista che si appropriò di una buona fetta di proprietà precedentemente gestite dallo Stato. Dal canto suo la popolazione, che aveva immaginato l’abbondanza all’americana e un sistema di tutele sociali di tipo europeo, si ritrovò a fronteggiare un diffuso impoverimento di massa.

Fu Egor Gajdar, giovane professore di economia di 35 anni, a guidare inizialmente il paese attraverso la cosiddetta shock therapy, già applicata per sommi capi in Cile negli anni Settanta e in Polonia dal 1990. La realtà russa però, alla luce dell’eredità sovietica, fu incapace di dare seguito a una profonda riforma sistemica. L’enorme e obsoleto comparto industriale da un lato e l’attitudine dei funzionari pubblici al ladrocinio dall’altro resero impossibile l’ordinata transizione verso un’economia di mercato. La mancanza di una tradizione liberale e l’assenza di regole chiare fecero il resto. Infatti, l’URSS non disponeva né di leggi né di tradizioni politiche in grado di fungere da retroterra per la costruzione di rapporti economici tra privati orientati al libero scambio. Il crollo del comunismo aveva lasciato, dunque, un vuoto normativo e culturale che favorì nella Russia post-sovietica l’arbitrio, nonché il saccheggio caotico e generalizzato del patrimonio russo.

Nel luglio 1991 era stato Gorbaciov a varare una importante legge sulla privatizzazione che si rivelò controproducente. L’idea era quella di permettere l’uso di certificati azionari, detti vouchers, a tutti i lavoratori delle imprese pubbliche che potevano così partecipare alla loro privatizzazione dividendone la proprietà; la logica dietro questa misura era quella di rendere i collettivi dei lavoratori proprietari delle fabbriche. In realtà i vouchers, non essendo certificati nominali, vennero venduti o scambiati con estrema facilità da una popolazione che non aveva alcuna cultura in campo economico e non sapeva cosa farsene. Gli amministratori delle industrie statali, gli unici ad aver accumulato alla fine degli anni Ottanta dei piccoli capitali, poterono racimolare a prezzi vantaggiosi un gran numero di vouchers, mettendo così le mani sugli asset industriali più importanti e remunerativi del paese.

A sua volta El’cin non riuscì a fare nulla per fermare questo processo e anzi lo favorì con le successive ondate di privatizzazioni; queste ultime, in particolare quelle iniziate dopo il 1995, portarono alla formazione di una nuova élite economico-finanziaria riconoscente o comunque legata al presidente. Questo piccolo gruppo di persone, definiti anche “oligarchi”, finì per condizionare oltre che la vita economica anche quella politica del paese, risultando decisivo nel garantire a El’cin la rielezione nel 1996.

Pure le riforme politiche si dimostrarono in parte deludenti. Le misure adottate da El’cin cercarono di dare stabilità al potere presidenziale, riducendo e contenendo l’influenza del parlamento in un braccio di ferro risolto solo con l’uso della forza da parte del presidente nel 1993.[3] A ciò seguì l’approvazione dell’attuale costituzione della Federazione russa,[4] che ha reso il potere presidenziale molto simile a quello posseduto nei decenni precedenti dal segretario del PCUS. Per prerogative costituzionali, infatti, il presidente può governare per decreto senza conferma parlamentare, ha il potere di designare il capo del governo e i suoi ministri, nonché di sciogliere la camera dei rappresentati (la Duma) a determinate condizioni ecc.

Del resto, a guidare la democratizzazione russa furono uomini con scarsa o nulla cultura democratica, preoccupati principalmente di stabilizzare il loro potere piuttosto che di creare una società libera e plurale. Come è stato giustamente notato da Robert Dahl, senza democratici non si costruisce la democrazia. Mantenendo in parte le negative eredità pratiche e culturali illiberali tipiche del regime sovietico, El’cin e colleghi hanno dato vita a un regime in cui il potere nelle mani del presidente e della sua cerchia è preminente rispetto a qualsiasi altra istituzione dello Stato.

Ciononostante, negli anni Novanta il vertice politico non riuscì a creare un sistema realmente centralizzato. La disgregazione dell’URSS, infatti, aveva lasciato una serie di problemi per la tenuta stessa dell’integrità della Russia post-sovietica. Il caso più eclatante è quello della Cecenia, dove fin dal 1991 El’cin introdusse lo stato di emergenza contro i tentativi delle élite locali di ottenere l’indipendenza da Mosca. Nel 1994 l’esercito russo lanciò un’offensiva per riprendere il controllo della regione, ma l’operazione militare si risolse in un flop visto lo stato miserevole in cui versava l’armata russa.[5] Nel 1996 venne stabilita, perciò, una prima tregua che lasciò irrisolto il problema. La Cecenia non era l’unico problema per il Cremlino; a ben vedere, infatti, Mosca fece fatica ad affermare la propria autorità su tutti quei soggetti amministrativi più o meno autonomi che componevano la Federazione russa durante l’ultimo decennio del XX secolo.

Nonostante le difficoltà economiche e politiche appena elencate secondo alcuni studiosi, come Gudkov e Zaslavsky, la Russia riuscì comunque a orientare la propria economia verso il libero mercato e a trasformare le proprie istituzioni politiche in senso democratico. In effetti, i cittadini russi potevano finalmente viaggiare all’estero o investire i propri risparmi in beni di consumo di qualità; potevano inoltre scegliere i propri rappresentanti o sottoscrivere un abbonamento per uno dei tanti giornali in vendita nelle edicole. Insomma i russi erano sia economicamente sia politicamente più liberi di quanto non fossero mai stati i cittadini sovietici.

Tuttavia, anche per colpa della caduta degli standard di vita in coincidenza con il crollo del rublo nell’estate del 1998, la popolazione russa non ritenne sufficienti i miglioramenti ottenuti negli anni Novanta. L’aspettativa riposta nella transizione post-comunista era stata altissima: la speranza era quella di poter vivere finalmente come i vicini occidentali senza troppa fatica. Al contrario, gli enormi sacrifici e i risultati scadenti non riuscirono a soddisfare quella speranza. Del resto, come abbiamo visto, fu principalmente la burocrazia sovietica ad arricchirsi grazie alle privatizzazioni, creando presso la società civile russa una certa sfiducia verso il libero mercato e la legittimità della proprietà privata.

I russi hanno così elaborato una narrazione traumatica della transizione post-comunista e si sono per buona parte convinti di essere stati raggirati e imbrogliati, di essere cioè stati vittime di un’enorme truffa perpetrata ai loro danni da una cricca di banditi legata, secondo molti, agli occidentali. Da qui un vero e proprio disgusto generalizzato verso la democrazia e i suoi promotori, ritenuti spesso filo-occidentali e quindi estranei alla Russia.

È in questa dinamica che si inserisce l’avvento di Vladimir Putin. Il presidente russo, eletto per la prima volta nel 2000, ha politicamente capitalizzato questo diffuso sentimento di sconforto e smarrimento. Egli ha fin da subito condiviso e rafforzato l’idea che la fine dell’URSS sia stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo, e che gli anni di El’cin debbano essere definiti come un periodo negativo. In altre parole, Putin è stato capace di dare alla narrazione traumatica degli anni Novanta uno sbocco politico, attraverso una proposta accattivante in grado di rilanciare alcuni tratti identitari ereditati dal periodo sovietico e ancora diffusi tra la popolazione russa.

 

Il regime di Putin

Il putinismo è un regime politico illiberale che si basa su pratiche e idee neo-staliniste, e sulla conseguente gestione neo-patrimoniale del potere. Non esiste un effettivo stato di diritto oggi in Russia ed è piuttosto il leader a fungere da “giudice” per la distribuzione delle cariche e delle ricchezze alla cerchia dei suoi sodali. Di conseguenza, il capitalismo e la proprietà privata esistono ma sono al servizio dello Stato che è in mano ad una ristretta élite legata al presidente. Infatti, gli oligarchi che per un motivo o per un altro sono entrati in conflitto con Putin hanno perso le loro proprietà, le quali sono state statalizzate e vengono amministrate da uomini del Cremlino. La formazione del regime di Putin si è perciò basata sulla creazione di un blocco di potere, più o meno solido, con interessi politici, economici e finanziari interdipendenti. Inoltre, a favorire il consolidamento del putinismo hanno concorso due dinamiche: i successi economici e la gestione in senso illiberale del potere.

Prendiamo i dati economici.[6] Dalla fine del 1999 fino al 2007, al termine dei primi due mandati di Putin, il valore del mercato azionario russo è cresciuto da 60 a oltre 1.300 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, gli stipendi sono aumentati del 10% l’anno in termini reali con un costante calo della disoccupazione. Si è andata, insomma, costituendo l’attuale classe media russa. Questi risultati sono avvenuti durante una congiuntura internazionale favorevole, dato che all’inizio del XXI secolo c’è stata una vera e propria svolta nella crescita della domanda mondiale, in particolare di quella proveniente dalla Cina, che unita alla debolezza del rublo ha permesso di rivitalizzare la capacità produttiva russa. Non bisogna dimenticare, inoltre, l’aumento progressivo e vertiginoso dal 2002 del prezzo del petrolio che ha contribuito a consolidare l’economia della Federazione russa.

A questo si è aggiunta la ricerca della stabilizzazione politica attraverso misure centralistiche miranti a rafforzare la cosiddetta “verticale del potere”, in una visione fortemente paranoica dei pericoli interni ed esterni corsi dalla Russia. Il putinismo ha basato il suo potere sull’utilizzo di strumenti autoritari e illiberali, rendendo gradualmente la società russa meno libera di quanto non fosse negli anni Novanta. A ben vedere, già prima dell’arrivo di Putin al Cremlino era iniziata questa tendenza illiberale, visto che El’cin aveva cooptato ai vertici dello Stato uomini provenienti dagli “ambienti della forza”. I cosiddetti siloviki (uomini della forza) sono uomini che hanno fatto o fanno parte dei servizi segreti, dell’esercito e/o del ministero alla difesa. Molti di loro, proprio come Putin, hanno dimestichezza con le pratiche e le idee tipiche dello stalinismo, perché le hanno apprese nel KGB. In particolare sono uomini legati all’epoca di Leonid Brežnev (1964-82) che, pur rinunciando alla promessa di costruire il comunismo, aveva tentato di rafforzare la posizione geopolitica dell’Unione Sovietica rivendicando la dimensione imperiale del paese raccolta in eredità da Stalin.

Reinterpretando in chiave moderna il lascito neo-staliniano di Brežnev, Putin da dato continuità ad alcune idee e pratiche sovietiche: la repressione del dissenso e il monopolio dei mezzi di informazione, la sistematica manipolazione degli strumenti elettorali, la celebrazione del passato russo e delle vittorie militari, il russo-centrismo imperiale e, per ultimo, le politiche familiari di tipo tradizionalista.

Oltre a ciò, il putinismo ha lavorato per la costruzione di una nuova identità collettiva post-sovietica capace di legittimare il regime e renderlo più solido. Questa identità si basa sulla concezione tipicamente neo-stalinista della Russia in quanto Stato dalla dimensione imperiale con il compito storico di esercitare il proprio controllo sull’area euro-asiatica.

Secondo il putinismo, la Russia è un Impero storicamente costruito dai governanti russi che sono stati capaci di unire in un’unica organizzazione statale popoli diversi. Tutti questi popoli, storicamente dominati dai russi, hanno a pieno titolo partecipato all’espansione e alle vittorie dello Stato russo, diventando a loro volta parte del popolo imperiale. Ecco perciò che, secondo Putin, il popolo russo è una costruzione storico-culturale e si basa sulla condivisione da parte di milioni di persone della stessa lingua, cultura e tradizione.

In altre parole, il regime ha giocato su alcuni tratti storico-culturali caratteristici dei cittadini russi, elevandoli a punti essenziali dell’identità russa post-sovietica, per consolidare il proprio potere. Siamo di fronte ad una forzatura, perché è stato il vertice politico a decidere cosa includere e cosa escludere dal discorso pubblico per legittimare le proprie politiche identitarie. In ogni caso, ad esempio difendendo i veterani di guerra o i valori cristiano-ortodossi, Putin è riuscito a ottenere un certo consenso nel paese.

Oltre a ciò, il presidente ha puntato sui sentimenti di orgoglio per la dimensione internazionale ricoperta durante la sua storia dalla Russia. Quest’ultima sarebbe, secondo il Cremlino, sempre stata capace di raggiungere grandi successi grazie alle proprie specificità storiche, nonostante i ripetuti tentativi dei nemici esterni e interni di distruggerla. Oggi in Russia vengono perciò celebrate le vittorie di Alexander Nevskij, dei generali russi contro Napoleone, dell’Unione Sovietica contro il nazi-fascismo ecc. Adottando una chiave interpretativa imperial-patriottica, Putin è arrivato a riabilitare pure Stalin, a cui viene riconosciuto il merito storico di aver guidato i russi alla vittoria nella Grande guerra patriottica (come viene chiamata la Seconda guerra mondiale in Russia).

L’imposizione pubblica di questa narrazione è avvenuta attraverso vari canali: la riscrittura dei manuali scolastici, il cinema, i musei, la televisione ecc. In particolare dal 2012, è aumentata la pressione sulla società civile russa che ha subìto un processo di irrigidimento e di militarizzazione. Sono state ad esempio prima osteggiate e poi chiuse le ONG che avevano lavorato dalla fine degli anni Ottanta in difesa della democrazia e dei diritti umani. Esplicativo in questo senso è il caso di Memorial.

L’associazione nacque durante la perestrojka in parte come discendente del dissenso e soprattutto come spazio per raccogliere testimonianze e documenti sulle vittime del Grande terrore in un’opera di riattivazione delle memorie traumatiche del periodo staliniano, contribuendo a ricostruire le vicende di milioni di russi deportati o morti nel gulag. All’inizio degli anni Novanta venne fondato il Centro per i diritti umani Memorial, che ha ricoperto un ruolo importante, ad esempio, durante le due guerre in Cecenia. Dal 2012, a seguito dell’entrata in vigore della legge sulle organizzazioni non governative, è iniziata una vera e propria guerra dello Stato contro Memorial e le altre ONG. Queste ultime oggi se ricevono fondi dall’estero sono obbligate a etichettarsi in quanto “agenti stranieri”. Inoltre, l’autorità giudiziaria è autorizzata a perseguire penalmente ogni associazione, e ogni suo membro, ritenuta arbitrariamente “indesiderabile” per motivi di sicurezza nazionale. Ecco, perciò, che Memorial è stata chiusa nel 2022, lo stesso anno in cui ha ricevuto il premio Nobel per la pace per la sua attività a difesa dei diritti umani.

Del resto, il lavoro svolto da Memorial è incompatibile con il putinismo e con l’uso politico della storia messo in atto dal regime.[7] Secondo Putin, infatti, la storia russa deve essere “valorizzata” in quanto specifica e gloriosa strada percorsa nei secoli dallo Stato russo. Tutto quello che non contribuisce a questa narrazione celebrativa ed elementare del passato deve essere oscurato o censurato; è questo il caso delle repressioni staliniane che nel tempo, ad esempio, hanno trovato sempre meno spazio nei manuali scolastici e universitari.

In conclusione, Putin ha basato la sua intera carriera politica sulla riaffermazione del carattere imperiale della mentalità e della cultura politica della Russia e ha legato la stabilizzazione del regime alla necessità di restaurare l’autorità del paese in quanto grande potenza. Per farlo ha militarizzato la società e ha iniziato una serie di guerre all’estero per reclamare prestigio e influenza geopolitica in virtù di una concezione imperiale e neo-stalinista del ruolo della Russia nel mondo.

 

La politica estera del putinismo

Guidato da una lettura sempre più paranoica e catastrofista delle relazioni internazionali, Putin ha cercato di costruire un regime politico in grado, a suo dire, di difendere il paese da presunti pericoli provenienti dall’interno e dall’estero. In particolare dal 2012 in poi, il presidente russo si è convinto di dover agire, con la repressione e l’intraprendenza militare, in maniera sempre più decisa per garantire la sicurezza della “fortezza russa” messa in discussione dall’anarchia prodotta dall’Occidente. Si tratta di un percorso che deve essere periodizzato, per evitare semplificazioni non utili a comprendere l’evoluzione del putinismo in politica estera.

Fin dal 2000, appena arrivato al Cremlino, Putin ha sostenuto la necessità di riaffermare il ruolo da protagonista della Russia negli affari internazionali, in particolare attraverso una ritrovata intesa con i paesi post-sovietici, guardando con attenzione ai partner orientali (Cina e India su tutti) e senza più accettare i presunti diktat provenienti da Occidente. A ben vedere, è questa una linea politica che era già stata inaugurata qualche anno prima da Evgenij Primakov (ministro degli Esteri e poi primo ministro dal 1996 al 1998). Putin l’ha quindi ripresa accentuando la propria vena polemica verso i vicini occidentali, accusati con sempre maggiore veemenza di non tenere sufficientemente conto delle richieste in termini di sicurezza della Russia.

Questo tipo di posizione, presente già dal 2000, si è poi irrigidita soprattutto in seguito ad almeno tre eventi percepiti dalla dirigenza russa come momenti di svolta nelle relazioni tra Mosca e il mondo esterno: la guerra d’agosto contro la Georgia nel 2008, le proteste nelle piazze russe nel 2011-12, l’Euromaidan in Ucraina nel 2014. Vediamo questi tre episodi e il loro impatto sulla mentalità politica dell’élite stretta intorno al presidente Putin.

1) A seguito di una serie di diatribe territoriali, nell’agosto del 2008 la Federazione russa intraprese una breve ma significativa campagna militare contro la Georgia, con l’intenzione più generale di scongiurare una possibile adesione del piccolo paese post-sovietico del Caucaso alla NATO.[8] Infatti, già nel 2007 Putin aveva posto al centro dei propri discorsi i pericoli provenienti da un eventuale allargamento dell’Alleanza atlantica a paesi che Mosca riteneva parte della sua sfera di influenza, Georgia e Ucraina su tutti. L’intervento in Georgia testimoniò, dunque, la risolutezza del Cremlino nel far valere i propri interessi nell’area post-sovietica, se necessario anche con lo strumento militare. La fulminea vittoria conseguita contro Tbilisi, inoltre, rafforzò al Cremlino la sensazione di potersi opporre ai piani della NATO con successo e maggiore vigoria rispetto al passato, per via di una ritrovata stabilità economico-politica.

2) Nel biennio 2011-12 si svolsero in Russia imponenti manifestazioni di piazza contro il regime, alla luce dei brogli elettorali commessi dalle forze governative nelle elezioni parlamentari (2011). Migliaia di manifestanti si ritrovarono nelle strade della capitale e non solo al grido di «La Russia senza Putin!». La reazione del governo fu durissima, con migliaia di arresti, seppure le proteste si fossero svolte per lo più nelle grandi città sfiorando solo in parte la provincia russa, cuore del consenso putiniano.[9] Le manifestazioni ebbero però un fortissimo impatto simbolico su Putin, impegnato nella campagna presidenziale, e agirono come un monito. Secondo il presidente russo, infatti, i manifestanti sarebbero stati eterodiretti dall’Occidente per favorire un regime change. Imbevuto di una mentalità paranoica tipica degli agenti segreti, Putin favorì in risposta alle proteste il varo di una legislazione punitiva verso ogni presunto oppositore interno e iniziò un maggiore impegno militare nelle aree di influenza del Cremlino per rafforzare la posizione della Russia contro le influenze occidentali. Siamo di fronte ad uno snodo cruciale nella storia del putinismo, perché sono questi gli anni in cui al Cremlino si fa largo una visione catastrofista delle relazioni internazionali che sarà al centro dei successivi sviluppi.

3) Nel 2014 la rivolta di Euromaidan o “rivoluzione della dignità” in Ucraina, con la conseguente cacciata del presidente Viktor Janukovič, rafforzò al Cremlino la certezza che gli USA stessero lavorando per sottrarre alla Russia la propria sfera di influenza. Secondo Putin, infatti, gli ucraini sarebbero stati vittime delle macchinazioni occidentali, diventando marionette della Casa Bianca. Per questo motivo decide di occupare la Crimea, ritenuta da Mosca storicamente russa, e di alimentare e sostenere il separatismo di alcune province del Donbass. L’invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022 è perciò l’ennesimo capitolo di una guerra iniziata dal putinismo nel 2014.

La guerra russa condotta oggi in Ucraina è perciò il frutto di una concezione catastrofista delle relazioni internazionali: Putin è in altre parole convinto che le mosse politiche occidentali creino il caos ai confini della Russia, mirino irrimediabilmente a danneggiarla e a sottrarle la sua sfera di influenza. In questo quadro, Mosca sarebbe obbligata ad agire in modo unilaterale per garantire i propri interessi, pena la rovina. Seguendo questo ragionamento, la guerra in Ucraina sarebbe per il Cremlino una guerra difensiva, una guerra resa inevitabile dalle mosse della NATO.

In conclusione, come abbiamo visto, la politica estera del putinismo si è sempre più caratterizzata negli anni per l’utilizzo dello strumento militare allo scopo di rafforzare la posizione geopolitica russa. La postura rigida assunta dal Cremlino verso l’Occidente è stata il risultato di una crescente paranoia dei vertici politici russi verso presunti piani orditi a Ovest per distruggere la Russia, e ha portato al consolidamento delle relazioni con i partner orientali, nel tentativo di compensare la rottura sempre più marcata con quelli occidentali.

Oggi la dirigenza concentrata intorno a Putin è convinta che la cosiddetta “superiorità occidentale” sia al tramonto, cioè è convinta che il mondo si divida ormai in numerosi centri di poteri e che la Russia possa legittimamente essere uno di questi. La Federazione russa nella sua politica estera non si sente isolata, dato che può contare su relazioni strette, ad esempio, con Cina e India. Non crede di essere in una posizione di svantaggio rispetto agli USA, perché ritiene quello americano un impero in declino che non riuscirà a difendere le proprie posizioni in Europa. Oltre a ciò, Mosca non considera l’Unione Europea un competitor credibile e ritiene Bruxelles completamente subordinata alle scelte di Washington, senza perciò una sua politica autonoma. La dirigenza putiniana non ha neanche fretta di concludere “l’operazione speciale”, come viene chiamata l’invasione dell’Ucraina dal regime, visto che è convinta di non avere alternativa all’impegno militare per garantire gli interessi russi nello spazio post-sovietico.

In questo senso il ritorno della pace in Europa appare un processo lungo e complesso, difficilmente compatibile con gli obiettivi geopolitici della Russia di Putin se non al prezzo di soddisfare le sue richieste. Molto più probabile è immaginare una progressiva de-escalation del conflitto, basata su concordati vantaggi reciproci tra i contendenti; una tregua fragile ma in grado di fermare forse il dramma umanitario in corso oggi nella martoriata Ucraina.

  

Bibliografia consigliata
  • F. Benvenuti, Russia oggi. Dalla caduta dell’Unione sovietica ai nostri giorni, Carocci, Roma, 2013
  • A. Borelli, Nella Russia di Putin. La costruzione di un’identità postsovietica, Carocci, Roma, 2023
  • L. Gudkov, Victor Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, il Mulino, Bologna, 2010
  • S. Kotkin, A un passo dall’Apocalisse. Il collasso sovietico, 1970-2000, Viella, Roma, 2010
  • M. Morini, La Russia di Putin, il Mulino, Bologna, 2020

Note:

[1] http://archive.ipu.org/english/parline/reports/arc/2263_89.htm

[2] https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL(1994)054-e

[3] https://www.rferl.org/a/russia-players-1993-crisis/25125000.html

[4] http://www.constitution.ru/en/10003000-01.htm

[5] https://www.msf.org/sites/default/files/pdf_inter_tchetchenie_va.pdf

[6] https://data.worldbank.org/country/RU

[7] https://fondazionefeltrinelli.it/la-storia-ad-uso-e-consumo-i-discorsi-di-vladimir-putin/

[8] https://www.ispionline.it/en/publication/georgia-war-ten-years-21096

[9] https://www.etd.ceu.edu/2017/sennikov_egor.pdf

Dati articolo

Autore:
Titolo: La Russia tra XX e XXI secolo: una breve ricostruzione storica
DOI: 10.52056/9791254695371/02
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.20, dicembre 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La Russia tra XX e XXI secolo: una breve ricostruzione storica, Novecento.org, n.20, dicembre 2023. DOI: 10.52056/9791254695371/02

Didattica digitale integrata