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Il racconto della Shoah nel XXI secolo

Il racconto della Shoah nel XXI secolo

Donne al lavoro al campo di Ravensbruck.
Di Bundesarchiv, Bild 183-1985-0417-15 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, Collegamento

Abstract

A partire da un’intervista fatta all’autrice Francesca Romana Recchia Luciani sul suo testo Il racconto della Shoah per il XXI secolo. Testi, testimonianze, film, si è realizzato uno studio di caso che mette al centro della proposta didattica l’utilizzo di uno dei filmati proposti nel libro, Le Rose di Ravensbruck, documentario sull’unico campo di concentramento femminile del Reich. Il documentario è stato realizzato da Ambra Laurenzi, figlia e nipote di deportate di Ravensbuck e l’attività è rivolta al biennio della secondaria di II grado.

Testo esperto: intervista di Federica Caniglia Francesca Romana Recchia Luciana autrice di un innovativo percorso di pedagogia della memoria.

Nel 1986 Primo Levi ne I sommersi e i salvati, celebre raccolta di riflessioni sulla propria esperienza di ex-deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, descrive la crescente «spaccatura che esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose come erano “laggiù” e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione e lo stereotipo».[1] Questa “spaccatura” appare contrassegnare la memoria della Shoah del XXI secolo poiché, dal momento che i testimoni diretti stanno scomparendo a causa della loro età anagrafica, essa viene affidata sempre di più alle narrazioni letterarie, cinematografiche e a messaggi iconografici reperiti dal web.  La conoscenza, quindi, dello sterminio degli ebrei d’Europa tra il 1933 e il 1945 per mano dei nazisti e dei fascisti, viene veicolata mediante plurimi linguaggi avulsi dal contesto storico, elemento essenziale per poter esercitare una memoria autentica che non cada nella retorica e nella ritualità. Un antidoto a questa «deriva», come la definirebbe Primo Levi, è il prezioso lavoro contenuto nel libro Il racconto della Shoah per il XXI secolo. Testi, testimonianze, film, scritto da Francesca R. Recchia Luciani con la collaborazione di Raffaele Pellegrino, pubblicato dalla casa editrice Progedit (Bari 2020). Questo testo risponde all’esigenza attuale di fornire le corrette categorie ermeneutiche e decostruttive per conoscere e comprendere il genocidio ebraico dinanzi al corollario di immagini e miti che hanno alimentato la memoria collettiva, a partire dalle sue caratteristiche principali che lo hanno reso “unico” rispetto agli altri stermini e genocidi accaduti nella storia dell’umanità, primo dei quali la violenta e feroce politica propagandistica antisemita ideata dal regime totalitario nazifascista, basata su teorie pseudoscientifiche elaborate intorno al concetto di “razza”. Riportiamo a seguire l’intervista a Francesca R. Recchia Luciani, che farà meglio comprendere la necessità di approfondire storicamente la Shoah, a partire dalle sollecitazioni che i new media ci offrono.

Come nasce l’idea di questo libro, originale nella sua struttura editoriale che alterna “testi, testimonianze, film”?

Questo libro nasce da una lunga esperienza di studi nell’ambito della didattica della memoria avviati nel 2005, approfondendo le interpretazioni della Shoah messe a punto dalla filosofa tedesca Hannah Arendt, e ripresi in seguito con la pubblicazione del libro La Shoah spiegata ai ragazzi nel 2014. Queste esperienze mi hanno condotto a riflettere su due questioni fondamentali, la pedagogia della memoria e l’utilizzo della Shoah come oggetto culturale nella popular culture (cultura pop), focalizzando l’attenzione sulla percezione e la consapevolezza delle giovani generazioni su questo tema storico, veicolato negli ultimi decenni da plurimi linguaggi provenienti dai new media, basti pensare all’enorme quantità di produzioni artistiche, come film, fiction, romanzi, graphic novel, musiche, fotografie e performance teatrali, che sono state dedicate a questo tema. Il libro è un’antologia concepita come un ipertesto, che suggerisce possibili percorsi didattici e un apprendimento interattivo, molto diffuso fra i giovani nativi digitali, partendo proprio dalla memoria collettiva. Questa formula ha permesso di intersecare diverse tipologie di fonti: documenti dell’epoca, testimonianze dirette, saggi storici o scientifici e soprattutto un’ampia sezione è dedicata al cinema, poiché è una delle principali fonti di conoscenza della Shoah.

La filosofa tedesca Hannah Arendt definiva la politica antisemita hitleriana «un crimine senza precedenti». Come possiamo assicurare un futuro alla storia della Shoah nell’età della post-memoria?

Dobbiamo continuare ad interrogarci sulla Shoah proprio perché è un «crimine senza precedenti», in quanto riflettere sulle forme in cui si è realizzato lo sterminio degli ebrei d’Europa e indagare sulle sue specificità significa anche conoscere tutti gli altri genocidi accaduti nella storia dell’umanità. Ad esempio, il genocidio degli Armeni è stato riscoperto mediante la comparazione storiografica con lo sterminio nazifascista. Arendt, inoltre, nell’evidenziare la vastità dell’orrore compiuto dai nazifascisti, definisce la Shoah «un crimine metafisico», sottolineando come l’antisemitismo sia stato tra i più grandi delitti ideologici del pensiero occidentale, divenendo un’ipotesi reale di cancellazione di un intero segmento di umanità. Innanzitutto, ritengo che nell’età della post-memoria, ossia quando i testimoni diretti saranno scomparsi, dobbiamo farci carico noi, testimoni indiretti, dell’approfondimento storico delle peculiarità che hanno caratterizzato il genocidio ebraico, che dovrà assumere un ruolo centrale rispetto ad uno sterile esercizio memoriale, poiché solo la conoscenza critica dei fatti è l’antidoto contro ogni forma di revisionismo storico e di negazionismo.

Le prime quattro sezioni del libro ripercorrono le tappe storiche che hanno condotto allo sterminio degli ebrei d’Europa sino al crollo del regime nazista. Che cosa ha significato essere ebrei in Italia e in Germania a partire dal 1933?

Primo Levi definisce il lager come «una gigantesca esperienza biologica e sociale», in cui il millenario odio antisemita si è coagulato in un grumo di male divenendo una catastrofe. Il criminale e disumano piano di Hitler era l’annientamento (“la soluzione finale”) di un’intera popolazione. Se pensiamo che più di sei milioni di ebrei sono stati uccisi nei campi di sterminio, ciò che sconcerta maggiormente è il pensiero che nella civile Europa, culla della cultura occidentale, si sia prodotto un sistema di conoscenze a sostegno delle tesi nazifasciste, come per esempio le teorie pseudoscientifiche sul concetto di razza. Questi meccanismi, che hanno poi condotto ad una capillare e sistemica macchina concentrazionaria, possiamo meglio comprenderli attraverso il film di Dennis Gansel intitolato L’Onda (Germania, 2008), ripreso nel mio libro, ispirato all’omonimo romanzo di Tod Strasser, che racconta la storia reale di una sorta di esperimento sociale denominato “La Terza Onda”, realizzato nel 1967 in California. Il film, ambientato in una scuola superiore, narra l’esperimento immaginato da un insegnante e basato su disciplina irreprensibile e spirito di solidarietà, capaci di dare luogo a un movimento chiamato “L’Onda”, attraverso il quale egli dimostra ai discenti come si originano e da cosa prendono forma i sistemi sociali e i regimi politici autoritari. L’iniziale scetticismo degli studenti, che ritengono impossibile una dittatura nella Germania attuale dopo l’esperienza del nazismo, viene travolto man mano che sono coinvolti nel gioco, sperimentando essi stessi la facilità con cui le masse sono condizionate e manipolate. Queste stesse dinamiche sociali si sono profilate durante il regime nazifascista. Il nazismo ha prodotto per mezzo della propaganda l’uomo-massa, cioè il protagonista del Novecento, che esegue degli ordini pedissequamente, rendendosi un perfetto complice del regime con la sua indifferenza e la sua ignavia. Inoltre, va ricordato che l’esperienza del lager non ha risparmiato donne e bambini. Essere donne significava subire le stesse umiliazioni, violenze e vessazioni degli uomini, con in più tutte le possibili angherie legate specificatamente alla condizione femminile. Le donne internate sopravvissute alla Shoah raccontano la loro esperienza con un linguaggio, allusivo, simbolico e anaforico. Ricordano la sofferenza di non sentirsi più guardate come donne e come il loro corpo diveniva oggetto di una progressiva disumanizzazione, perché venivano spogliate, depilate, rapate e private dei propri effetti personali, annientando in questa maniera ogni residuo di femminilità. Le donne incinte erano dichiarate inabili al lavoro e subito gasate o fucilate. A Birkenau le donne con i bambini piccoli venivano giustiziate insieme a loro e i neonati erano sterminati davanti agli occhi delle madri. Visite ginecologiche mutilanti, iniezioni di benzina, penetrazioni di ferri infuocati nelle parti intime insieme ad altre torture corporali bloccavano il ciclo mestruale. Molte donne per riaffermare la propria identità femminile si ingegnavano nella cura e nella realizzazione di piccoli oggetti come reggiseni rudimentali, piccole sacche e fazzoletti. Il documentario di Ambra Laurenzi, figlia e nipote di Mirella Stanzione e Nina Tantini, deportate politiche a Ravensbrück, dal titolo Le rose di Ravensbrück, prodotto dall’A.N.E.D. (Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti) e dalla Fondazione Memoria della Deportazione, ricostruisce le tappe della deportazione di oltre novecento italiane dal momento dell’ingresso nel lager di Ravensbrück al giorno della liberazione, mediante le voci narranti di donne che riproducono scritti, testimonianze e fotografie di deportate, ricostruendo le caratteristiche peculiari della deportazione femminile. I bambini fungevano anche da cavie per gli esperimenti pseudo-scientifici del dottor Mengele soprattutto ad Auschwitz, dove oltre a sperimentazioni sul tifo, pidocchi, resistenza e adattamento al gelo, egli cercò di mettere a punto un metodo che consentisse alle donne ariane di procreare gemelli per accrescere la razza. I gemelli venivano denudati, fotografati, sottoposti a trasfusioni di sangue, oltre che ad altre torture. .

L’eugenetica razzista è fondamentale per meglio comprendere il progetto criminale razzista di Hitler e il film del regista tedesco Kai Wessel, dal titolo Nebbia in agosto, del 2016, tratto dall’omonimo libro di Robert Domes (2008), ricostruisce quest’aspetto della politica hitleriana, attraverso la storia del piccolo Ernest Lossa, un tredicenne figlio di ambulante senza fissa dimora e orfano di madre, appartenente alla comunità degli jenisch tedeschi, detti anche “zingari bianchi” e considerati dalla Germania di razza inferiore come tutte le etnie zingare. Il ragazzo, giudicato ineducabile dalle diverse case e riformatori in cui era vissuto, a causa della sua natura ribelle viene confinato in un’unità psichiatrica. Qui si accorge che alcuni internati vengono uccisi sotto la supervisione del dottor Veithausen. Ernest decide quindi di opporre resistenza, aiutando gli altri piccoli pazienti e pianificando una fuga, tentativo che non gli risparmierà di finire vittima di iniezioni letali somministrate dalle infermiere complici del direttore della clinica.

Il regime da un’iniziale politica discriminatoria e di espulsione e privazione dei diritti ha poi avviato una politica di deportazione di massa della popolazione, nell’intento di realizzare la “soluzione finale” per l’eliminazione degli ebrei. La struttura piramidale dei lager pone la questione della collaborazione dei prigionieri con i propri aguzzini; una condizione anomala ed estrema, che Primo Levi definiva con il termine “zona grigia”. Perché questa espressione?

Nel lager nazista era presente una struttura di potere gerarchizzata, incentrata sul terrore e sulla violenza, che vedeva al vertice le SS, ma anche tante figure di contorno che esercitavano, spesso con estrema aggressività e sadismo, ruoli secondari o marginali a stretto contatto con i deportati. Questa struttura piramidale pone la questione della collaborazione dei prigionieri con i propri aguzzini, una condizione estrema derivata dall’esperienza disumana vissuta nel lager che costringeva gli internati a compiere scelte sul piano morale talvolta altrettanto estreme, che comportavano la compromissione con i detentori del potere di vita e di morte. I prigionieri-funzionari, chiamati “prominenti” o Kapòs, erano coloro che popolavano la cosiddetta «zona grigia», secondo la definizione di Primo Levi con la quale si intende quell’area morale «dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare». Il potere che un gruppo ristretto, o anche un solo individuo, esercita nei confronti degli altri si basa, in parte, sulla disponibilità alla collaborazione degli oppressi, in tal senso la “zona grigia” ha diverse radici: terrore, adescamento ideologico, desiderio di emulare il vincitore, voglia cieca di potere, viltà e debole struttura morale. Dinanzi a queste compromissioni lo stesso Primo Levi parla di impotentia judicandi, cioè della necessità di sospendere ogni forma di giudizio su cosa muova gli esseri umani a compiere scelte apparentemente gravissime rispetto a costrizioni come quelle cui l’esperienza disumana del lager obbligava. Il riferimento è a quegli internati che occupavano posizioni strategiche o di comando: i SonderKommandos, squadre speciali formate da addetti ai forni crematori nei campi di sterminio; o ambigui personaggi come il presidente del ghetto di Lòdz, Chaim Rumkowski; oppure come il regista e attore ebreo Kurt Gerron, recluso nel campo di concentramento di Terezìn, costretto dai nazisti a girare il film di propaganda intitolato Il Füher dona una città agli ebrei.

La pellicola cinematografica, unica nel suo genere, che meglio rappresenta la condizione della «zona grigia» è il film del regista ungherese László Nemes, Il Figlio di Saul (Ungheria, 2015), che racconta la storia di Saul Ausländer, prigioniero ebreo ungherese e membro del Sonderkommando che svolge la terribile occupazione di “avvoltoio del campo”, cioè si occupa di bruciare nei crematori i corpi gasati di individui appartenenti al suo stesso popolo, situazione che lo esporrà ad un tragico dilemma morale.

Dinanzi all’orrore del regime nazifascista la dimensione morale dell’individuo assume un ruolo centrale. Potrebbe approfondire quest’aspetto?

Queste considerazioni ci permettono di riflettere su una questione fondamentale, di cui la filosofa tedesca Hannah Arendt si è ampiamente occupata nei suoi studi, ossia la dimensione morale del giudizio e della responsabilità personale dinanzi alle atrocità compiute dalla macchina concentrazionaria nazifascista. La Arendt, inviata a Gerusalemme per conto della rivista “The New Yorker” a seguire e raccontare il processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann nel 1961, approfondisce la questione del male e la problematica del giudizio ad essa correlata. L’idea di “male radicale”, maturata al tempo delle Origini del Totalitarismo, viene superata dal concetto di “banalità del male”: Eichmann non le appare uno stupido, né un criminale, ma un individuo ordinario, incapace di pensare in maniera indipendente e carente di capacità di giudizio. Il male incarnato da questo nazista non pentito viene dunque a configurarsi come “banale” nel suo coincidere con azioni a cui non corrispondono riflessioni, comportamento connotato da una sostanziale “assenza di pensiero”. Come scrive la Arendt, «il male non è mai radicale, ma soltanto estremo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere le profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene può essere profondo e può essere radicale». Per la filosofa il pensiero si accende a partire dalla costruzione dell’identità personale nel dialogo socratico di sé con sé stessi. Eichmann, dinanzi a chi gli chiedeva conto dei suoi crimini, avanza la tesi “di aver obbedito agli ordini”: Arendt pone la questione della dimensione morale del giudizio. Esso ci apre alla relazione con gli altri esseri umani mediante l’immaginazione, la nostra “bussola interiore” che ci permette di vedere le cose nella giusta prospettiva. Quando viene meno la nostra natura duale, cioè il dialogo con la nostra coscienza, si annullano le possibilità di pensiero critico e le capacità empatiche di comunicazione che strutturano la dimensione morale dell’Io e della comunità.

L’ultima sezione del libro è dedicata alle riflessioni teoriche e concettuali sul genocidio. Può approfondire questi aspetti?

L’ultima sezione è dedicata alle riflessioni filosofiche proposte da alcuni pensatori e pensatrici intorno a ciò che hanno significato il nazifascismo, il razzismo e la Shoah, fornendo lucide interpretazioni sul tragico evento storico e sulle condizioni di umanità/disumanità emerse duranti gli anni bui del regime. Con Karl Jaspers si indaga la dimensione morale e giuridica e della responsabilità politica della Germania attraverso il nesso tra responsabilità personale e colpa collettiva, tentando di rispondere alla domanda: come è stato possibile tutto ciò in un paese europeo altamente civilizzato? Le quattro tipologie di colpe individuate da Jaspers, ossia criminale (o giuridica), politica, morale e metafisica sono le chiavi-interpretative per comprendere il rapporto tra il singolo cittadino e il regime hitleriano. Le riflessioni di Theodor W. Adorno, invece, ruotano attorno al ruolo della filosofia, dell’arte e dell’educazione rispetto all’esperienza dell’“estremo” incarnata da Auschwitz. Nel saggio Meditazioni sulla metafisica, Adorno chiarisce una sua dichiarazione del 1949, in cui aveva sostenuto che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», precisando in seguito che, piuttosto che la rappresentazione dell’orrore, è la stessa sopravvivenza del sopravvissuto ad essere stata messa in questione da Auschwitz. Ed è per questo che egli ritiene obiettivo prioritario, affinché la barbarie nazifascista non cada nell’oblio, promuovere un’azione educativa e al contempo politica, basata sull’autoriflessione critica, la stessa che, per Hannah Arendt, fonda l’agire umano rendendo chiunque, attraverso il “due-in-uno” socratico, responsabile delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Con Hans Jonas, poi, si pone la questione del dilemma religioso dinanzi al male assoluto dei lager, mettendo in discussione il concetto di Dio. Jonas sostiene, dopo aver considerato le possibili varianti del Dio concepite dall’essere umano (Dio Sofferente, Dio che si prende cura, Dio diveniente), la tesi secondo cui Dio non ha impedito la tragedia del lager non perché non lo volle, ma perché non fu in condizioni di farlo, in quanto Auschwitz si è realizzata nella sfera umana. Le riflessioni di Philippe Lacoue-Labarthe e di Jean-Luc Nancy esplorano il legame esistente tra la “teoria della razza” e la costruzione del mito nazionalsocialista, avviando l’analisi su due presupposti: 1) il nazismo è un fenomeno specificamente tedesco; 2) l’ideologia del nazismo è l’ideologia razzista, sostenendo che il “il mito nazi” è intessuto di razzismo e di preconcetti circa la superiorità della razza ariana. Il male estremo e gli eccessi di disumanizzazione sono analizzati, invece, da Günther Anders, attraverso i processi di ri-personalizzazione attraverso la rappresentazione. Infine, mi soffermo sulla testimonianza di una giovane intellettuale, Etty Hillesum, scomparsa prematuramente ad Auschwitz, che fornisce gli strumenti per continuare a ricercare l’umano nell’abisso dell’inumano, immaginando “un mondo completamente nuovo”.  La lettura delle sue testimonianze evocano la sua tenace resistenza dinanzi all’orrore e al male all’interno del lager, attraverso tutto ciò che può salvaguardare l’umanità: l’amicizia, che comprende sia le conoscenze più recenti, che i legami stretti fuori dal campo; la fede che la spinge a misurarsi con la sofferenza in tutte le sue forme con la missione di portare conforto; la natura come sorgente della bellezza del creato; la lettura, perché grazie ai libri di letteratura, di poesia, di filosofia, ella trova, anche in quel orrendo contesto, le risorse per operare la resistenza e continuare ad avere e ad infondere fiducia nell’avvenire.

Studio di caso

di Elena Mastretta

«L’antologia è costruita come un ipertesto. Essa si articola prendendo le mosse da una documentazione stratificata (testimonianze dirette e indirette, analisi storiografiche, introduzioni critiche e schede filmiche ragionate) che consente specifici approfondimenti, percorsi didattici ad hoc e un apprendimento interattivo»[2].A partire dalla visione e dall’analisi di una delle pellicole esaminate nel volume IL RACCONTO DELLA SHOAH NEL XXI SECOLO, Le rose di Ravensbrük, proponiamo di costruire uno studio di caso, utilizzando l’opera di Francesca R. Recchia Luciani come testo esperto.

Metodologia: studio di caso

Alunni cui è rivolta: biennio scuola secondaria di II grado

Testo per alunni

Nel 1933 Hitler prese il potere in Germania, dando il via ad una politica persecutoria nei confronti di quanti si opponevano al nazismo e alle sue idee, oltre che verso gli ebrei e coloro che venivano considerati inferiori da un punto di vista razziale.

Il campo di concentramento di Ravensbrück, situato un centinaio di Km a Nord di Berlino, venne creato nel 1938 e aperto nel 1939. Il campo era destinato alle donne. Vi furono subito rinchiuse oltre 2.000 tra austriache e tedesche, provenienti dal campo di concentramento femminile di Lichtenburg. Le prime deportate ad esservi internate erano comuniste, socialdemocratiche, testimoni di Geova, antinaziste e ariane accusate di avere violato, con il loro comportamento di vicinanza a razze considerate inferiori a quella tedesca, i principi di “purezza razziale” delle Leggi di Norimberga. Nato come campo di “rieducazione”, Ravensbrück conobbe diverse fasi, in cui fu ampliato e iniziò a ricevere prigioniere da tutta Europa. La società Siemens & Halske fece costruire al di fuori del perimetro del campo venti ateliers in cui le prigioniere, dal 1942, furono impiegate come schiave. Vennero installati anche camera a gas e crematorio. Tra il 1939 e il 1945 sono stati registrati in questo campo circa 120.000 donne, 20.000 uomini e 1200 bambini e ragazzi provenienti da oltre 30 differenti paesi, tra cui ebrei e rom. La maggior parte di essi ha perso la vita nel campo in seguito alle pesanti condizioni di vita e lavoro, alla fame, agli esperimenti medici che qui venivano condotti, agli assassinii. Prima della liberazione, circa 20.000 prigioniere furono avviate alle marce della morte.

Ravensbrück fino all’aprile del 1945, quando venne liberato dai russi, rimase il principale FKL Frauen Konzentrationslager (campo femminile) della Germania nazista. La sua specificità, il luogo in cui è collocato e i successivi riutilizzi hanno contribuito alla scarsa conoscenza che a lungo si è avuta di questo luogo, così come per molto tempo le testimonianze delle donne che vi furono rinchiuse hanno trovato difficoltà ad essere ascoltate.

Parlare di deportazione attraverso un documentario 

Per un lavoro di approfondimento sul campo di Ravensbrück e per una esemplificazione dell’utilizzo di una fonte audiovisiva per lo studio della Shoah, proponiamo la visione del documentario Le Rose di Ravensbrück.

Il filmato, attraverso le immagini e le voci narranti di donne che vi furono internate, ripercorre le tappe della deportazione dal momento dell’ingresso in Lager al giorno della Liberazione, ricomponendo i tratti specifici della deportazione femminile in un quadro complessivo, in cui viene data voce alle deportate italiane e alla loro particolare condizione, ma si cita anche la presenza di detenute di altre nazionalità.
L’impostazione storica e originale del DVD, consultabile anche come ipertesto, rende possibile un suo utilizzo funzionale agli aspetti della prigionia che si vogliono approfondire di volta in volta.
I capitoli dell’ipertesto comprendono:

  • Nota storica
  • Testi delle testimonianze presentate nel DVD
  • Elenco dei nazisti responsabili del campo
  • Cenni biografici delle testimoni di riferimento
  • Fonti delle testimonianze utilizzate e Bibliografia.

Ambra Laurenzi, regista del documentario, è figlia e nipote Mirella Stanzione e Nina Tantini, deportate politiche a Ravensbrück.

Dossier dei documenti

Documento 1

Il documento 1 è la riproduzione fotografica di uno dei monumenti presenti nel campo e ricordati da una delle intervistate nel documentario. La portatrice, realizzata da Will Lammert, un artista tedesco inviso al nazismo, a lungo perseguitato ed esiliato per le sue idee politiche. Quando lo scultore morì, stava ancora lavorando all’opera, che fu posta in sede nel 1959. Dopo il ritorno in Gemania, si dedicò quasi esclusivamente alla creazione del sito memoriale di Ravensbrück. Questa scultura rappresenta la solidarietà femminile che merge da molti dei racconti delle deportate.

Foto 1

By FlechtheimOwn work, CC BY-SA 3.0, Link

Su una sponda del lago di Schwedt, il lago su cui affacciava il campo, si erge una scultura intitolata “Tragende” (“La portatrice”) realizzata da Will Lammert. Essa rappresenta una donna, con lo sguardo puntato verso l’orizzonte, che tiene tra le braccia un’altra donna, visibilmente magra e in fin di vita.

Qual è secondo te il significato dell’opera?

Ricostruisci la biografia di Will Lammert.

Rifletti su quanto a proposito di questa statua dice la testimone che lo cita nel documentario, dopo avere rintracciato lo spezzone esatto.

Foto 2

Immagine tratta dall’inserto fotografico di Sarah Helm, Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton Compton editori, 2015.

Guardando il monumento da questa prospettiva cosa ti viene in mente? (tratto dall’inserto iconografico del volume Sarah Helm, Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton Compton editori, 2015)

Rintraccia nel documentario i passi in cui le deportate parlano del lago.

Documento 2

Il documento 2 è una cartolina della zona prima della costruzione del campo.

L’area del campo

immagine tratta dall’inserto iconografico del volume Sarah Helm, Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton Compton editori, 2015.

Veduta aerea di Fürstenberg, di Ravensbrück e del lago Schwedtsee in una cartolina della fine degli anni ’30. Il campo venne costruito nell’area non edificata che si vede sulla sponda opposta del lago.

Che considerazioni si possono fare sul fatto che il campo di concentramento è stato costruito proprio di fronte ad un centro abitato?

Cosa dicono in proposito le testimonianze del documentario?

Documento 3

Foto

Il documento 3 è una foto di un rullo, presente nel campo, usato come strumento di tortura ai danni delle prigioniere

Immagine tratta dal sito di Ambra Laurenzi, regista del documentario

Foto

Disegno dello stesso rullo fatto dalla prigioniera belga Felicie Mertens “Le rouleau” (Il rullo) (tratto dall’inserto iconografico del volume Sarah Helm, Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton Compton editori, 2015)

4 testimonianza letteraria

Il documento 4 è la testimonianza relativa alla presenza di un rullo usato per il “lavoro inutile” delle prigioniere, presenza citata anche nel documentario, tratta da un volume di memorie.

Mi preoccupo, come vuole il sistema, del pettine e invidio Cesi Carletti a cui hanno tagliato i capelli per punirla delle ingiurie che ha rivolto a una Aufseherein; mi chiedo come farò senza pannolini, come potrò lavarmi i denti e soffiarmi il naso, e intanto non rifletto su tutto quel mondo assurdo e disumano che ho davanti agli occhi, non mi domando perché le donne hanno un numero e alcune tirano il rullo mentre altre con una fascia rossa sul braccio le guardano lavorare e le picchiamo quando si fermano

Dalla testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi in Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, 1978 e 2003, pag. 27.

5 Visione video minuti 11.10-11.53

Questo gigantesco rullo viene citato da alcune prigioniere nelle loro testimonianze, che puoi rintracciare nel video o nei testi. Riesci a comprendere e spiegare qual era il senso del suo utilizzo nell’ottica di “rieducazione” praticata a Ravensbrück?

Osserva il disegno fatto dalla prigioniera belga: inserisce una serie di particolari e una scritta interessante. Quali riesci a individuare?

Sequenza didattica

Rapporto tra tema e contesto

  • Osserva le tre carte geografiche della Germania del 1939,1979,2019. Individua su di esse la posizione di Ravensbrück.
  • Adesso che hai trovato la posizione di Ravensbrück, prova a immaginare in quanto tempo, all’epoca del funzionamento del campo, poteva essere raggiunto da Berlino. Come pensi fosse possibile che un campo dove avvenivano fatti come quelli descritti nel documentario potesse essere così vicino ad una grande città? Quale potrebbe essere la ragione di questa vicinanza?

Cerca adesso una carta dell’Europa e ricostruisci l’itinerario di viaggio di Rolfi Beccaria Livia andata e/o ritorno casa/ Ravensbrück

Rapporto tra testo espositivo, documentario e documenti

Trova i collegamenti fra i passi delle testimonianze che vengono letti nel video e le immagini da cui sono accompagnati. Quali di queste immagini definiresti documenti?

Lavoro sulle testimonianze

  • Nelle testimonianze riportate nel documentario trova le parole che si riferiscono al campo e alle sue abitanti. Fai un elenco dei termini e degli aggettivi che vengono utilizzati per descrivere l’uno e le altre.
  • Fai un glossario con il significato dei termini individuati
  • Trova dei titoletti per le citazioni riportate nei vari documenti.

Lavoro sulle immagini

  • Scrivi delle didascalie per una o più immagini a tua scelta tra quelle proposte nel dossier.

Lavoro sui documenti

Nel dvd sono presenti non solo immagini, ma anche dei testi

  • Individua nei documenti le informazioni aggiuntive rispetto al documentario: di che tipo sono? Ci permettono di conoscere meglio le biografie delle deportate? Cosa aggiungono sulle condizioni di vita nel campo?
  • Costruisci una linea del tempo su cui inserire i fatti 1939-1945 relativi all’Europa e al campo di Ravensbrück.
Bibliografia
  • L. Beccaria Rolfi e A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978 e 2003.
  • S. Helm, Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton Compton editori, 2015.

Note:

[1] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2007, p. 128.

[2] F.R. Recchia Luciani, Il racconto della Shoah per il XXI secolo. Testi, testimonianze, film, Bari 2020, p. 4.

Dati articolo

Autore: and
Titolo: Il racconto della Shoah nel XXI secolo
DOI: 10.52056/9791254693872/19
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.19, giugno 2023
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
and , Il racconto della Shoah nel XXI secolo, Novecento.org, n.19, giugno 2023. DOI: 10.52056/9791254693872/19

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