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Igiaba Scego: un’intervista a partire da “Figli dello stesso cielo”

Igiaba Scego: un’intervista a partire da “Figli dello stesso cielo”

Igiaba Scego, Internazionale a Ferrara 2008 (festival.internazionale.it)
Foto di Federica Poggi per Internazionale, pubblicata sul profilo Flickr di Internazionale, con Licenza CC BY-NC-SA 2.0

Abstract

Per vedere emergere uno sguardo critico sul passato coloniale dell’Italia si sono dovuti attendere diversi decenni. Tale sguardo sembra tuttavia confinato soprattutto a spazi specialistici, riservati agli studiosi o agli studenti di storia, mentre ancora latita al di fuori di questa cerchia ristretta e fatica a farsi strada nel senso comune. La scuola e il mondo giovanile rimangono, ad esempio, due ambiti nei quali il tema della storia critica del colonialismo italiano emerge con difficoltà. A partire da queste queste riflessioni generali, Novecento.org ha deciso di intervistare la scrittrice e ricercatrice Igiaba Scego, autrice del recente romanzo per ragazzi Figli dello stesso cielo, dedicato proprio alle vicende del colonialismo italiano.

I possedimenti coloniali dell’Italia, frutto di conquiste tra l’epoca liberale e gli anni del regime fascista, sono stati perduti nel corso del secondo conflitto mondiale, con la parziale eccezione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia mantenuta fino al 1960. La conclusione di questa esperienza – maturata per forza maggiore e non per scelta politica consapevole della classe politica nazionale – non ha generato un dibattito critico sull’esperienza passata tanto che una parte della elaborazione storiografica di quel passato è stata inizialmente affidata agli stessi funzionari della passata amministrazione coloniale, motivati a vantare i presunti meriti dell’Italia e a tacere delle sopraffazioni e di ogni altro aspetto scomodo. Per vedere emergere uno sguardo critico su quel passato dobbiamo attendere i lavori di Roberto Battaglia[1] e poi, tra gli anni Sessanta e Settanta, le pluriennali ricerche di Angelo Del Boca e di Giorgio Rochat[2]. È a partire da questi lavori che inizia il lungo percorso di decolonizzazione degli studi sul colonialismo italiano e prende lentamente forza un dibattito pubblico sulle forme e sugli esiti di questa pagina di storia nazionale. Un dibattito che negli ultimi anni è molto cresciuto e si è arricchito di numerose ricerche storiografiche – Nicola Labanca in Oltremare[3] ne ha dato una prima sintesi nel 2002 – ma che fatica ancora ad uscire dagli spazi ristretti degli specialisti e a divenire senso comune. La scuola e il mondo giovanile rimangono due ambiti nei quali il tema della storia critica del colonialismo italiano continua a farsi spazio con difficoltà.

A partire da queste queste riflessioni generali come redazione di Novecento.org abbiamo deciso di intervistare la scrittrice e ricercatrice Igiaba Scego, autrice del recente romanzo per ragazzi Figli dello stesso cielo[4] dedicato proprio alle vicende del colonialismo italiano.

Igiaba, ti sei sempre occupata di colonialismo e di razzismo, in passato hai anche scritto un testo per i più piccoli, la storia di Clara[5], la rinoceronte che fu portata in esposizione nelle principali città europee nel Settecento. Da cosa nasce questo nuovo volume? Quali riflessioni ed esperienze ti hanno spinto a scriverlo?

Figli dello stesso cielo è la storia, un po’ romanzata naturalmente, di mio nonno che è stato interprete coloniale. Tra i vari personaggi con cui ha lavorato ci sono stati Cesare de Vecchi di Val Cismon, Rodolfo Graziani, il principe Umberto, rampollo del Re d’Italia, e tante altre persone, e io già altre volte in passato ho tirato fuori dal mio cilindro questo nonno perché mi ha sempre in qualche modo creato disagio. Infatti parlando del colonialismo uno vorrebbe ritrovarsi i “buoni” ben distinti dai “cattivi” e tutto sarebbe più facile, e invece c’è tutta quella zona d’ombra e di ambiguità che le persone colonizzate hanno attraversato incrociando la violenza coloniale, facendosi comunque portatori di violenza. Penso agli ascari che hanno combattuto le guerre dei colonizzatori, penso ad un interprete che doveva comunque fare da ponte e quindi, in qualche modo, dare al proprio paese attraverso la lingua un contenuto “tossico” che era quello degli invasori.

Ho scelto di raccontare questa figura alle ragazze e ai ragazzi perché mi piaceva l’idea che un nonno potesse raccontare a una sua nipote. Nel libro uso l’escamotage del sogno, cioè io non sono la donna di 48 anni ma una ragazzina di 11, e quindi faccio tutte le domande che avevo nella testa a quell’età sul mio nonno che non avevo mai conosciuto, che vedevo solo nella sua strana fotografia che me lo mostrava bianco, molto chiaro, col turbante, quasi un personaggio di Salgari. Quindi racconto la sua vita; alcune cose sono proprio vere, altre verosimili perché volevo che il nonno in questo libro avesse anche una funzione didattica: lui ad esempio racconta alcuni episodi del colonialismo italiano, la scuola fascista, gli zoo umani, insomma, volevo far fare alle ragazze e ai ragazzi un percorso dentro la storia coloniale italiana che viene raccontata a scuola grazie a voi insegnanti, però solo da pochi anni, perché per molto tempo questo argomento non entrava a scuola.

E ancora oggi l’apparato scolastico è rimasto molto eurocentrico, quindi questo è il motivo che mi ha spinto. Io spero di vedere sempre più libri interculturali, non solo in traduzione, perché ci sono tanti libri bellissimi per ragazzi che vengono dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, ma in traduzione; mi piacerebbe invece che ci fosse una produzione nostra, qui, di multiculturalità e anche di storia, di scavo storico.

Il colonialismo italiano e il razzismo coloniale patiscono anche una scarsa attenzione da parte del mondo della narrativa destinata all’infanzia. Negli ultimi anni il numero di volumi sulla Shoah, sulla Resistenza e sulla Seconda guerra mondiale è cresciuto in modo significativo, offrendo la possibilità ad insegnanti e genitori di disporre di strumenti per arricchire in modo indiretto la conoscenza di quelle tematiche, per farle entrare tra gli argomenti che circolano nell’immaginario delle ragazze e dei ragazzi di età tra la scuola primaria e secondaria di primo grado. La quasi totale assenza tra questi volumi del tema coloniale è veramente emblematica, un vuoto che riassume bene la fatica della cultura nazionale nell’affrontare questa dimensione del passato.
Secondo te si tratta solamente di un corollario del ritardo nella rielaborazione storiografica, oppure ci vedi motivi paticolari relativi al mondo dell’editoria per l’infanzia e al mondo della scuola?

Questa domanda mi permette di approfondire qualcosa già accennato nella prima risposta. Devi sapere che da qualche anno tengo su “Internazionale” una rubrica sui libri per ragazzi e ragazze e i tantissimi volumi che mi arrivano mi permettono di avere il polso di quello che esce in Italia per i giovani. Negli ultimi anni vedo un aumento dei temi interculturali ma soprattutto nei testi tradotti, ad esempio molti testi statunitensi all’indomani dell’omicidio di George Floyd o anche un po’ prima; c’è molto sul razzismo, sulla violenza che si fa ai corpi neri, però è sempre qualcosa che viene da fuori.

Quello che manca è una letteratura per ragazzi dove non ci siano solo testi come quello che ho fatto io con intento pedagogico (anche se non pesante, perché non voglio essere solo pedagogica, volevo anche raccontare una bella storia). A me piacerebbe anche vedere libri per l’infanzia ma anche per gli young adult, dove i personaggi possono avere qualsiasi tipo di origine e però avere storie differenti – che so? storie d’amore, storie di dissidi familiari, entrare diciamo nella quotidianità. Questa dimensione un po’ manca, perché se tu vedi una persona nera in un libro per ragazzi sicuramente è qualcuno che ha subito un episodio di razzismo o di bullismo. Invece manca la storia quotidiana perché molti libri per ragazzi non sono solo sui problemi, ma anche sulla scoperta, sul crescere, sui cambiamenti del corpo, quindi a me preoccupa che il nero, o il cosiddetto “altro” che “altro” non è, sia tematizzato soprattutto come problema.

Serve un po’ di bilanciamento, serve lo scavo storico, servono libri sull’esperienza coloniale affrontati con un’ottica postcoloniale, e soprattutto servono storie non soltanto italiane classiche ma italiane mondiali, globali, perché veramente si possono raccontare tante cose ai ragazzi e i ragazzi sono sempre molto interessati.

Devo dire però che vedo uno sforzo nella narrativa mentre la cosa che mi preoccupa di più sono i testi scolastici che mi sembrano ancora un po’ arrancare.

 

Scrivere per l’infanzia e l’adolescenza significa immagino fare i conti con il mercato editoriale che individua target ben precisi all’interno dei quali bisogna costruire le proprie proposte. Ma l’età dei lettori e delle lettrici è cruciale anche per l’articolazione dei temi, ad esempio per come trasformare in narrazione e trasmettere quel tasso di violenza che è costitutivo di ogni esperienza coloniale (un problema che si pone anche parlando di Shoah). Come si individua l’ “età giusta” all’incrocio tra targhetizzazione del mercato e declinazione dei contenuti?

Adesso ti faccio ridere. In realtà io quando mi sono messa a scrivere ho pensato alle scuole medie, 11, 12 o 13 anni, infatti il linguaggio che ho usato è semplice ma non semplificato, anche denso. In Clara ad esempio ho usato un tono più da favola, adatto dei bambini di 8 anni, invece qui ho usato un tono un po’ più complesso, però è chiaro che ad una ragazza o a un ragazzo delle superiori forse non è adatto. In realtà poi ho scoperto che anche se io mi ero fatta tutto questo film, questo libro invece è stato poi adottato sia dalle medie che dalle superiori, ha avuto un taglio trasversale, perché mi spiegavano alcune insegnanti delle superiori che era molto esaustivo, quindi parlava di qualcosa che loro non avevano ancora affrontato.

Il tema della violenza è quello che mi ha occupato di più il cervello perché sono convinta che ai ragazzi devi fare vedere la violenza. Ovviamente non è che gli devi fare vedere dei contenuti splatter alla Quentin Tarantino… e poi, tra parentesi, non ci dobbiamo dimenticare che di violenza, nel mondo in cui viviamo, i ragazzi ne vedono tantissima, non soltanto alla televisione ma penso anche ai videogame…

Invece quello che noi adulti dobbiamo porci con intento pedagogico è far capire che la violenza è qualcosa di negativo, che non è cool, che non è lo sparo del videogame che fa diventare lo schermo rosso ma è lo sparo che lacera i tessuti; che c’è anche la violenza che non ti uccide lì per lì ma che ti crea depressione, ansia, problemi fisici, insomma, ci sono tanti tipi di violenza e nel colonialismo si sono sperimentate tutte le forme. Dall’eccidio alla strage (nel libro racconto dello Yecatit 12, il 19 febbraio, dopo l’attentato a Graziani), ma anche le piccole violenze quotidiane che subisce una persona colonizzata, come le umiliazioni (per esempio la scena in cui al nonno misurano il cranio, lo chiamano scimmia, lo trattano come un servo perché purtroppo “era” un servo); quindi tecnicamente nel racconto mostro tante modalità di violenza e non la nascondo perché penso che vada mostrata, però va anche spiegata, cioè non puoi lasciare la scena di violenza mostrandola in modo estetico ma devi spiegare da dove viene, spiegare che cosa c’è dietro la violenza coloniale, l’ideologia suprematista, il dividere il “noi” e il “loro”. Ecco perché ho deciso di includere una scena sugli zoo umani, perché lì plasticamente si può vedere la linea di divisione tra “noi” e “loro”, che poi non esiste né un “noi” né un “loro” ma sono il “noi” e il “loro” creati dal colonialismo. Ecco, io penso che non si deve nascondere ma si deve mostrare, si deve avere anche la delicatezza di usare le parole e il tono giusto e soprattutto spiegare cosa c’è dietro.

 

La crescita di giovani generazioni di scrittrici e scrittori come te e ancora più giovani, con una genealogia composita, ricca di storie extraeuropee, forte di radici plurali, è la grande novità di questi anni in Italia, specchio di una scuola italiana nella quale ci sono sempre più nonne e nonni nati in Africa, in Asia, nell’Est Europa, in Sudamerica. Può essere questa la chiave per fare entrare questi temi tra le letture delle giovani generazioni? E la questione della decolonizzazione dell’immaginario forse ci spinge ad allargare lo sguardo anche agli altri colonialismi, come parte di un rapporto sopraffattorio di cui è responsabile l’intera Europa e con cui occorre fare i conti senza erigere steccati nazionali che hanno poco senso? In fondo il racconto del colonialismo incrocia le discendenze plurali dei nuovi cittadini italiani e dunque diventa un modo di fare una world-history che permetta forme di riconoscimento senza vittimizzazione nè retorica.

Io quando penso al colonialismo italiano penso che siano soltanto episodi della stessa serie TV, veramente, è una storia lunghissima, che ha avuto varie fasi, ha coinvolto varie geografie qui in Europa, lì in Africa e in Asia, una storia lunghissima. È chiaro che sarebbe ottimo se questa storia entrasse a scuola sempre di più perché tutto quello che viviamo oggi nella nostra contemporaneità segue quelle linee coloniali di un tempo, e questo aspetto va compreso per capire il mondo in cui viviamo. Più che vittimismo io direi conoscenza.

Ho scritto questo libro per tutte le ragazze e i ragazzi che frequentano le nostre scuole a prescindere dalle origini, dalla religione, da dove sono nati i loro genitori, da dove sono nati loro. Il libro è veramente rivolto a tutte e a tutti perché il colonialismo è qualcosa che ha attraversato tutti. Gli antenati di alcuni sono stati colonizzati, gli antenati di altri sono stati colonizzatori, a volte in alcune famiglie si sono trovati sia colonizzatori che colonizzati, a volte i colonizzati hanno collaborato con i colonizzatori e a volte i colonizzatori si sono ribellati a un sistema che li voleva tali. Quindi veramente tutti quanti abbiamo in qualche modo attraversato questa storia, non noi direttamente ma sicuramente i nostri parenti lontani.

Io per esempio mi rendo conto dalle domande che mi fanno le ragazze e i ragazzi a scuola che, per esempio, ci sono persone afrodiscendenti che sono nate qui, ma conoscono molto poco la storia del colonialismo, la conoscono come nome generale, la rivendicano come rivendicano anche la Tratta atlantica, però alla fine non ne sanno molto neppure loro, non solo di quello italiano, ma anche di quello britannico, di quello francese, quello belga, cioè di questi colonialismi che hanno devastato intere zone dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. Quindi io cerco di farli riflettere sulle loro dinamiche, su cosa è successo ai familiari, e la cosa che è interessante a volte è vedere alcuni ragazzi che sono molto consapevoli. Una volta ero in una classe e c’era un ragazzo i cui genitori erano marocchini mentre lui era nato in Italia, e quando nessuno dei suoi compagni sapeva cosa significava la parola colonialismo gliel’ha spiegata lui, perché lui la conosceva. Quindi è interessante anche vedere come in classe possono circolare i saperi che qualcuno ha e altri no. Questo libro credo che possa veramente far connettere i ragazzi e i loro saperi, c’è chi sa e chi non sa, chi sa poco, chi sa molto poco, chi sa moltissimo, quindi si può facilitare la connessione dei saperi e si possono creare interessanti dibattiti, la speranza è che la lezione non diventi statica ma qualcosa di dinamico.

Io sono figlia di una persona che è stata colonizzata, che ha vissuto dentro il sistema coloniale, però i giovani no,… Penso che lasciare traccia di questa esperienza, lasciare queste testimonianze, sia fondamentale. Penso che questo per me sia un lavoro che mi occuperà tutta la vita perché continuo a scoprire pezzi nuovi di aspetti che non sapevo della mia famiglia, della mia genealogia.

Quindi sarebbe bello riuscire a costruire una conversazione globale. Ma già per me lo possiamo fare attraverso la letteratura, ad esempio. Penso a Salman Rushdie, penso a Amitav Gosh, Chinua Achebe, Chimamanda Ngozi Adichie – se li mettiamo insieme e li facciamo leggere ai ragazzi e alle ragazze, è chiaro che si fanno un’idea propria di quello che è successo, soprattutto alle superiori dove andrebbe incentivata la lettura di testi extraeuropei, e soprattutto questi testi andrebbero messi in antologia. Non possiamo avere ancora le antologie scolastiche super bianche che avevo io quando ero piccola, e già in quegli anni non andava bene. Quindi si deve fare un grande sforzo per cambiare la nostra editoria scolastica.

 

Il confine tra storia e letteratura è un tema sensibile: la storiografia ha bisogno di fonti per affermare ogni cosa, la letteratura invece può spaziare nel verosimile arrivando a giocare con l’immaginazione. I lettori cui è destinato Figli dello stesso cielo hanno un’età in cui si acquisisce consapevolezza del confine tra i due mondi, imparando ad apprezzare sia la storia che la letteratura, e a discriminare ciò che è vero da ciò che è verosimile. Mi pare che nel romanzo questa attenzione sia stata alla base di alcune scelte interessanti, ad esempio la postfazione.

La postfazione per me era come una chiamata alle armi, questa è la mia vena di ricercatrice mancata, o, come mi chiamano i miei amici, ricercatrice freelance, perché non sono potuta entrare in accademia ma mi è rimasta in qualche modo la voglia di ricercare, di spiegare, e tutti i miei libri hanno postazioni, making-of, questo è tipico mio.

Effettivamente, quello che volevo fare era spingere le ragazze e i ragazzi a parlare con i loro nonni, se hanno i nonni, o comunque con le fotografie del passato. È chiaro che non sono tutte storie coloniali, potrebbero saltare fuori storie di immigrazione, per esempio immigrazione sud–nord, centro-nord o sud-centro. È molto interessante capire cos’è successo alle famiglie, perché io penso che la storia, la grande storia ha attraversato le famiglie italiane e non solo italiane. Questo è un tema su cui sto lavorando molto e su cui farò un corso in Nord Carolina. A me colpisce, quando vado a fare le presentazioni, che le persone arrivano da me (questa volta mi è successo con le professoresse) e mi raccontano sempre qualche fatto familiare, del nonno, dello zio, che è stato in Africa: quindi c’è una storia da mettere in comune; molte persone si stanno interrogando sulle proprie famiglie e trovo questo aspetto molto positivo.

Io volevo far fare questa storia anche alle ragazze e ai ragazzi. Chiaramente i ragazzi scopriranno altre storie: gli anni Settanta, l’immigrazione, la guerra fredda, quindi sarebbe molto interessante fare uscire fuori quello che i ragazzi hanno dentro casa e magari non conoscono, perché la storia attraversa tutti noi.

 

Rimango ancora su questo argomento. Mi ha colpito l’uso narrativo che hai fatto della foto del nonno. La fotografia è una fonte tra le più delicate e allo stesso tempo ricche di potenzialità per gli storici contemporaneisti. Anche nella pratica didattica della storia non è facile fare un uso delle foto che non cada nell’idea semplicistica di esse come immagini della realtà, ma è altrettanto vero che costituiscono un elemento di grande forza evocativa e generatrice di immaginazione. Tra l’altro ad un certo punto citi altre fotografie, alcune verosimili (quelle con le prede della caccia grossa, un vero genere della autorappresentazione colonialista dell’Africa) e altre immaginarie prodotte dal flusso narrativo (quella dell’incontro del nonno a Roma nel 1937 con la piccola Lia Levi). La fotografia dei colonialisti italiani poi viene definita dal nonno protagonista come un furto: “ad ogni foto non richiesta sentivo un pezzettino di me che si staccava dal corpo” (p. 78). Altrove sei partita da un quadro (penso a Prestami le ali, alla rinoceronte ritratta da Pietro Longhi). Quanto è importante l’immagine nel fare una letteratura che sia rispettosa della storia?

La foto di Lia Levi e del nonno in realtà è l’evocazione di una foto reale, una foto di Giacometta Limentani, grande scrittrice ebrea romana. Lei, molti anni prima che morisse, mi ha fatto vedere questa foto, me la ricordo ancora, di lei piccola, nove anni, e di tre ascari, di cui due erano somali e uno eritreo, a Roma al quartiere Prati: era una roba pazzesca, veramente una foto incredibile.

Io lavoro continuamente sulle immagini, sulle foto, perché comunque le foto sono evocazione di qualcosa che c’è, che ti racconta una storia non completa, ad esempio in questo libro c’era la foto del nonno; e devo dirti che lavoro sulle foto anche perché nella mia vita sono mancate: con la guerra civile somala noi abbiamo perso gli archivi familiari. Quindi le foto che ho sono indelebili nella mia testa, me le tengo molto strette, e mi hanno comunque educato a guardarle bene, quasi tatuandomele dentro l’anima, perché so che potrei perderle.

E poi la fotografia ci racconta molto del colonialismo. Le foto private, le foto che troviamo al mercato di Porta Portese, ma anche le immagini che troviamo nei quadri, penso alle presenze nere nei quadri del Rinascimento. Quindi per me è sempre un modo di evocare la storia più che ricostruirla, cioè la foto ti permette in qualche modo di entrare nell’anima di quella persona ma non del tutto, ti dice qualcosa ma non tutta la storia. Da una foto puoi partire e poi inventare. Nel mio caso, io non uso solo un approccio storiografico ma uso anche un approccio da scrittrice, quindi una foto è veramente evocazione.

La foto del nonno era pazzesca, per me è sempre stato un mistero, quindi volevo partire da lì e risolvere insieme ai ragazzi questo mistero… e un po’ credo di esserci riuscita. Perché poi io al nonno ho dedicato un altro libro, Adua[6], anche se la sua figura non è proprio sovrapponibile a quella del protagonista perché il protagonista di Adua è una persona più problematica, mio nonno non era così problematico da come me lo raccontano; però io volevo lavorare su Adua e sull’interpretariato che è una cosa che mi ha sempre molto colpito: tu parli una lingua e devi tradurla nella tua lingua madre, ma la lingua che ascolti ti è anche nemica, una cosa che mi ha sempre molto affascinato e anche inquietato.

Nel libro troviamo molti temi che hanno catalizzato le dispute storiografiche più calde sulla mancata rielaborazione del nostro passato coloniale. L’uso dei gas, il razzismo, la politica del divide et impera, la violenza della propaganda, da ultimo la battaglia memoriale. La cosa che forse rattrista è vedere quanto sia ancora debole la conoscenza nell’opinione pubblica di queste tematiche. Oltre alla storia, la narrativa è uno strumento per ridurre questo gap di conoscenza? Oltre ad essa quali altre strade ritieni siano da percorrere?

Negli ultimi anni c’è un grosso interesse per la storia coloniale, soprattutto lo vedo nelle arti visuali, lo vedo in letteratura. Quello che secondo me manca, e me lo sento nelle ossa, è un racconto popolare nel senso della fiction, della serie TV. Oggi è molto più difficile fare un racconto popolare come si faceva negli anni Settanta quando bastava che si facesse uno sceneggiato: lo guardavano tutti e effettivamente facevi della pedagogia. Oggi è tutto molto più veloce, molto più estemporaneo, evanescente, quindi puoi fare anche un film fantastico ma potrebbero guardarlo in due. Però io penso che il linguaggio filmico potrebbe in qualche modo aiutare, soprattutto se fosse un film fatto da noi, qui. Perché un film in effetti arriverà, sarà tratto dal libro di Maaza Mengiste e secondo me sarà un bellissimo film, ma sarà sempre qualcosa che viene da fuori, e invece secondo me l’Italia ha bisogno di prodursi una propria storia, partendo dai propri fantasmi e partendo dai propri genitori fascisti.

Ci sono stati due libri che mi hanno molto colpito, infatti li insegnerò in North Carolina, sono quello di Francesca Melandri, Sangue giusto[7], e di Davide Orecchio, Storia aperta[8], con questi padri che sono stati fascisti, che hanno “peccato” in qualche modo, che hanno lacerato le loro famiglie e mi colpisce che la storia dei padri sia così poco raccontata. Invece sarebbe molto interessante fare – che so? – un film a partire dal libro di Davide Orecchio su un uomo che diventa da fascista a comunista: come si fa da colonialista, dopo il colonialismo, che non è un post-colonialismo,… Io sento che manca quel racconto popolare.

Però oggi vedo comunque una disseminazione di racconti di cui mi sento anche partecipe perché in qualche modo si tratta di una conversazione globale di cui anch’io faccio parte.

 

Di monumenti coloniali e in generale di risignificazione della memoria pubblica ti sei occupata insieme al fotografo Rino Bianchi nel volume Roma negata[9] sul passato coloniale disconosciuto presente nella città. Il tema in generale negli ultimi anni è divenuto sempre più caldo ed ha alimentato un dibattito molto interessante che non è rimasto confinato nella cerchia degli specialisti. Nel racconto riprendi alcuni elementi di questa storia della rappresentazione pubblica del colonialismo, quali? Perché secondo te è importante che anche le giovani e i giovani conoscano e siano consapevoli di questo vero e proprio conflitto sulla memoria?

Per quanto riguarda lo spazio urbano, devo dire che è un tema ormai molto gettonato, grazie a Dio da questa parte di mondo si sta riflettendo molto sullo spazio urbano. Poi ci sono ovviamente anche delle cose molto esagerate, lo stiamo vedendo adesso nei teatri di guerra dove si stanno buttando giù reciprocamente le statue con un atteggiamento non certo ragionato ma molto di pancia.

Però tecnicamente quello che volevo fare con Roma negata era favorire la consapevolezza di questi spazi ma devo dire che (il libro è del 2014, oggi siamo nel 2022) sono un po’ delusa dal risultato: dopo tante conferenze la stele di Dogali – che è uno dei monumenti di cui parlo nel libro – sta ancora lì nella piazza come io l’avevo descritta, cioè non è cambiato nulla, per il momento. Ogni tanto qualcuno va lì a fare una manifestazione, ma si tratta di episodi rari. Quindi non si è avviato nessun processo di risignificazione: l’abbiamo raccontato, io sono contenta di averlo fatto, però oggi posso dire che chi si occupa delle nostre città è stato completamente sordo ad una risignificazione degli spazi. Questo è un vero peccato.

Quello che volevo fare con Figli dello stesso cielo è un po’ quello che ho fatto con Roma negata, cioè creare nei ragazzi la consapevolezza dello spazio pubblico, e poi discutere insieme a loro, caso per caso, cosa fare. Cosa fare con la statua di Montanelli, un monumento recente a un intellettuale conservatore di cui si rimuove la biografia coloniale, che è diverso dalla stele di Dogali, monumento ai “martiri” del colonialismo italiano, che è diverso ancora da Affile, un mausoleo a un criminale di guerra ed “eroe” del colonialismo fascista come Graziani.

Io non ho certo una ricetta unica per tutti i monumenti e le statue, ma penso che si debba sempre procedere caso per caso: alcune volte una rimozione, altre volte una risignificazione, altre volte una discussione accesa, cioè dobbiamo capire caso per caso. Io in questi due libri che ho scritto volevo soltanto creare consapevolezza, che è già molto. Purtroppo però devo dire che con tutti i dibattiti che facciamo manca la consapevolezza nella classe dirigente, infatti le nostre città rimangono con tutte le cose che c’erano, nessuno ha pensato di resignificarle.


Note:

[1] R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1958.

[2] G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973.
Di Del Boca ricordiamo La guerra d’Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano, 1965 e l’opera “monumentale” in quattro volumi (Gli italiani in Africa orientale, 1976, 1979, 1982, 1984) e due volumi (Gli italiani in Libia, 1986 e 1986) edita da Laterza.

[3] N. Labanca in Oltremare, il Mulino, Bologna2002.

[4] I. Scego, Figli dello stesso cielo, Piemme, Casale Monferrato 2021.

[5] I. Scego, Prestami le ali. Storia di Clara la rinoceronte, Rrose Sélavy, Macerata 2017.

[6] I. Scego, Adua, Giunti, Firenze 2015.

[7] F. Melandri, Sangue giusto, Rizzoli, Milano 2017.

[8] D. Orecchio, Storia aperta, Bompiani, Milano 2021.

[9] R. Bianchi, I. Scego, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Futura, Roma 2014.