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Il glossario delle crisi (1929-1973-2008)

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Abstract

Il glossario raccoglie parole e lemmi delle tre crisi economiche con l’intento di essere uno strumento didattico e divulgativo rivolto a docenti, studenti e cittadini che vogliano, a partire dalle parole, orientarsi e muoversi nella complessità che il tema delle crisi economiche evoca e sottintende.


Cos’è il glossario

Il glossario delle crisi raccoglie le parole-calde (hot words) delle tre crisi economiche che hanno caratterizzato il “lungo Novecento” dal 1929 ai giorni nostri.
A partire dai tre contributi storiografici di Carlo Fumian, La crisi del 1929, di Marcello Flores, La crisi del 1973 e di Giovanni Gozzini, La crisi del 2008, a cui si fa riferimento nei lemmi, si è costruito un glossario che non vuole essere un elenco esaustivo sulle tre crisi, né in termini di completezza di parole enucleate, né dal punto di vista della compiutezza definitoria e terminologica, né per la densità contenutistica di ogni singolo lemma, ma vuole essere uno strumento didattico e divulgativo.

Perché il glossario

Il glossario si rivolge ad un pubblico di insegnanti, studenti e cittadini che vogliano avere a disposizione uno strumento agile, di facile consultazione e di immediata fruizione rispetto ad alcuni nuclei concettuali che costituiscono l’ossatura delle parole scelte.
Mossi da questa finalità, si è lavorato per costruire definizioni adeguate, corrette e precise, ma anche comprensibili e fruibili per un pubblico non specialista o non molto informato sui temi economici. Un lavoro che ha richiesto un’operazione difficile e complessa di ricerca, di paziente riflessione e di sedimentazione non estemporanea dei materiali storiografici selezionati. Ci si è posti sempre quale obiettivo prioritario quello di rendere accessibile e comprensibile il fattore, l’evento, il processo economico o economico-sociale, immettendo, laddove necessario, opportuni riferimenti al quadro politico più generale, per contestualizzare correttamente la voce.

Uso didattico del glossario

Nella società globale in cui i giovani si trovano a vivere una cittadinanza che assume molteplici dimensioni (locale, nazionale, europea, mondiale) e molteplici linguaggi (linguistico, multimediale, iconico,etc..), si ritiene necessario fornire loro uno strumento che rappresenti un vademecum per districarsi nella lettura dei fenomeni e dei processi economici, in atto o appena trascorsi. Dunque partire dalle parole delle crisi per orientarsi nei complessi processi storici ed economici a cui le parole stesse si riferiscono.
Il glossario può essere anche e un utile contributo a mettere in pratica ed esercitare quell’educazione alla cittadinanza che tanti – troppi – invocano, chiamando in causa ora questa, ora quell’altra disciplina, nella convinzione che la storia costituisca il nucleo disciplinare centrale per la formazione di cittadini consapevoli e democratici.
Questo alfabeto delle crisi economiche potrebbe rivelarsi utile anche ai tanti adulti che vogliono analizzare la realtà attraverso alcune parole o lemmi che ne restituiscano la complessità. La poliedricità delle crisi economiche evidenzia molto bene le forti connessioni che legano il proprio spazio di vita e di lavoro, il proprio orizzonte cognitivo e culturale di riferimento, con altre dimensioni più vaste e più ampie che ci circondano e quanto le varie scale geo-spaziali, su cui molti fenomeni socioeconomici si articolano e si diffondono, debbano essere oggi comprese e percorse.

Un glossario in progress

Si è scelto di pubblicare un primo elenco costituito dalle dieci parole più calde di ogni crisi, per un totale di trenta parole scelte, perché più strettamente connesse e più immediatamente evocative di quella determinata crisi, della quale rappresentano, anche nel senso comune, un sensore. Una scelta che risponde ad un preciso criterio didattico e divulgativo: quello di procedere dall’ambito più specifico a quello più generale, implementando via via il glossario con parole o espressioni idiomatiche che, proprio perché più generali e comprensive, rappresentano in realtà “il filo rosso” di un collegamento essenziale fra le tre crisi. Questo arricchimento graduale porterà, a definizioni sempre più ampie di parole o lemmi che risulteranno modulati in modo da comprendere, in senso diacronico, le diverse periodizzazioni, le varie articolazioni e gli usi più o meno correnti che li hanno contraddistinti.

Il glossario delle crisi (1929-1973-2008)

A · B · C · D · E · F · G · H · I · J · K · L · M · N · O · P · Q · R · S · T · U · V · W · X · Y · Z

A

A

Austerity Economica L’espressione indica un periodo coincidente con la crisi economica dei primi anni Settanta, durante il quale molti paesi occidentali furono costretti a varare misure per il drastico contenimento dei consumi di energia. In conseguenza dello shock petrolifero, nel 1973 in Italia il governo presieduto da Mariano Rumor varò un piano nazionale di “austerity economica” per il risparmio energetico che prevedeva i seguenti cambiamenti immediati: il divieto di circolare in auto la domenica e la fine anticipata dei programmi televisivi, la riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale. Insieme a questi provvedimenti con effetti immediati, il governo impostò anche una riforma energetica complessiva con la costruzione, da parte dell’Enel, di centrali nucleari per limitare l’uso del greggio. In Europa Occidentale la crisi energetica portò inoltre alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, fatto che diede anche risultati positivi: la Norvegia trovò sui fondali del Mare del Nord nuovi giacimenti petroliferi, mentre la Danimarca avviò un programma di incentivi e supporto alla nascente industria dell’energia eolica. Ci fu poi un forte interesse verso nuove fonti di energie alternative al petrolio, come il gas naturale e l’energia atomica, per cercare di limitare l’uso del greggio e quindi anche la dipendenza energetica dai Paesi produttori. Si diffuse così la consapevolezza della fragilità e della precarietà del sistema produttivo occidentale, le cui basi si reggevano sui rifornimenti di energia provenienti da zone tra le più instabili del mondo.

Autarchia

Televisione autarchica: pubblicità fascista

Televisione autarchica: pubblicità fascista

Politica finalizzata all’autosufficienza economica attraverso l’incremento della produzione interna per la copertura del fabbisogno di tutti i beni e i servizi, con conseguente riduzione delle importazioni e degli scambi con l’estero. È un orientamento economico che caratterizza prevalentemente movimenti nazionalistici e governi autoritari, spesso in situazione di isolamento internazionale. Politiche autarchiche furono molto diffuse nel periodo fra le due guerre mondiali per salvaguardare l’occupazione interna gravemente minacciata dalla grande depressione conseguente la crisi del 1929. L’autarchia fu invocata da numerosi stati come soluzione ai problemi economici interni, sia in funzione protezionistica (per ridurre la concorrenza esterna su alcune produzioni), sia per far fronte a condizionamenti internazionali. Anche in Italia fu introdotto un regime autarchico nel 1934, inasprito negli anni 1935-36 quale risposta alle sanzioni inflitte al nostro paese dalla Società delle Nazioni in seguito all’aggressione italiana all’Etiopia. Le stesse politiche erano state adottate dalla Germania nazista per sottrarre l’economia nazionale al confronto con l’economia internazionale, rafforzando la produzione interna e l’autosufficienza in vista della dichiarazione di guerra. L’unico vantaggio portato dalle politiche autarchiche fu lo sviluppo della ricerca, soprattutto chimica, per la produzione di nuovi materiali e prodotti. Nel secondo dopoguerra le politiche autarchiche furono abbandonate da quasi tutti i Paesi industrializzati che avevano siglato gli accordi di Bretton Woods (1944). Forme di autarchia sopravvissero più a lungo nell’Unione Sovietica, negli stati del blocco sovietico e in Cina.

B

B

Barriere tariffarie Si tratta in pratica di vere e proprie tasse (dette “dazi”) che devono essere pagate sul valore dei prodotti che vengono importati in un determinato paese. Un paese può adottare una serie di provvedimenti il cui scopo è di limitare la circolazione delle merci e, in particolare, quella di limitare le importazioni. Si parla in questo caso di barriere. Esse possono essere di tipo tariffario, consistere cioè in una misura protezionistica adottata da un paese al fine di favorire l’industria interna e allo stesso tempo assicurarsi l’ottenimento di risorse finanziarie. Tale sistema protezionistico può assumere forme diverse d’imposizione sulle merci importate: ad esempio, l’adozione di dazi doganali, oppure barriere non tariffarie. In questo caso le restrizioni del commercio estero non dipendono dall’adozione di dazi, ma da ostacoli di varia natura – ad esempio un tetto alla quantità – che, di fatto, impediscono la libera entrata delle merci nel paese. Tali misure generano un duplice effetto: a) penalizzano il prodotto straniero o l’azienda che lo produce, poiché il dazio può essere incorporato dall’azienda (e quindi ridurre il suo profitto) oppure “scaricato” sul mercato mediante un incremento di prezzo (e quindi ridurre la competitività del prodotto straniero rispetto a quelli locali); b) incrementano il gettito fiscale del governo locale e comunque favoriscono (o proteggono) lo sviluppo delle aziende “nazionali”.

Blocco della sterlina Insieme degli stati che dopo l’abbandono del regime aureo da parte della Gran Bretagna nel 1931 abbandonarono la parità aurea e allinearono il valore delle proprie monete alla sterlina. Del “blocco della sterlina” facevano parte la maggioranza dei Paesi del Commonwhealt, le colonie inglesi, numerosi stati mediorientali e, in Europa, i Paesi scandinavi e il Portogallo.

Blocco dell’oro Insieme degli stati, soprattutto europei, che condivisero con la Francia il mantenimento fino al 1936 della convertibilità in oro delle proprie monete, dopo che la Gran Bretagna – e con lei i paesi del Commonwealth – dal 1931 l’avevano abbandonata. Fra i principali protagonisti del “blocco dell’oro” ricordiamo la Svizzera, i Paesi Bassi, la Germania e il Belgio.

Bretton Woods (accordi di luglio 1944) Accordi in campo monetario stipulati nella cittadina del New Hampshire (Usa) fra i rappresentanti dei 44 paesi impegnati nella guerra contro l’Asse. Nell’estate del 1944, quando ancora la guerra infuriava in tanta parte del mondo, 44 Paesi risposero all’appello degli Stati Uniti d’America e si trovarono nella cittadina del New Hampshire per discutere del nuovo ordine economico e monetario da costruire sulle macerie della guerra e del vecchio sistema incentrato sul primato della sterlina inglese.

Il "Mount Washington Hotel" (sede degli accordi di Bretton Woods) nel 2003. Foto di Sven Klippel.

Il “Mount Washington Hotel” (sede degli accordi di Bretton Woods) nel 2003.Foto di Sven Klippel.

A Bretton Woods gli Usa conquistarono definitivamente la leadership dei paesi a economia capitalista, stabilendo tre principi fondamentali: un sistema di cambi fissi che contrastasse le pericolose fluttuazioni e speculazioni dell’anteguerra; la convertibilità del dollaro in oro, che trasformava la valuta americana nella moneta guida delle relazioni economiche mondiali; la liberalizzazione degli scambi mondiali, che superasse i vincoli protezionistici della prima metà del XX secolo. A Bretton Woods fu anche decisa la creazione di due organismi di cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo dei paesi membri e agevolare l’equilibrio delle bilance dei pagamenti: la Banca mondiale (o Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo) e il Fondo monetario internazionale. Ispiratore degli accordi fu J. M. Keynes che, in considerazione della negativa esperienza delle politiche di stabilizzazione seguite alla Prima guerra mondiale, aveva proposto nel 1942 la creazione di una Unione di compensazione internazionale che doveva operare come stanza di compensazione per le bilance dei pagamenti degli stati membri e come banca per intervenire con aperture di credito a favore dei paesi in temporaneo disavanzo. L’Unione avrebbe avuto una propria unità monetaria, il bancor, che, col tempo, avrebbe potuto sostituire l’oro come strumento della finanza internazionale. Alla fine della guerra fu il dollaro a divenire la moneta di riferimento per i pagamenti internazionali, mentre l’Unione sovietica e i paesi satelliti si ritirarono dagli accordi. Nel 1971, con la dichiarazione unilaterale statunitense di inconvertibilità del dollaro in oro ebbe fine il regime di cambi fissi instaurato dagli accordi, che nel frattempo aveva consentito uno straordinario sviluppo ai paesi che vi avevano aderito.

Bretton Woods, fine degli accordi di – Nell’agosto del 1971 il Presidente Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro e pone di fatto termine al sistema monetario creato a Bretton Woods nel 1944 come sistema regolatore degli scambi internazionali. Gli Stati Uniti, nel corso degli Anni Sessanta, avevano ridotto le proprie riserve aurifere per sostenere la parità aurea, mentre una quantità crescente di dollari veniva collocata fuori dagli USA – in particolare in Europa – rendendo impossibile accettare la maggiore richiesta di conversione, favorita anche dalla crescente inflazione. Questo progressivo indebolimento del dollaro, nel corso degli Anni Sessanta, era in parte dovuto anche alla crescita del deficit americano quale diretta conseguenza della Guerra in Vietnam. Si era così creata, alla fine degli anni Sessanta, una situazione di doppio mercato, di fluttuazione del cambio con l’oro fra i privati e cambio fisso con la Banche centrali. Il passaggio graduale, e in parte incontrollato a un sistema di cambi fluttuante fra le monete indebolisce il sistema commerciale e monetario internazionale che nel 1973 viene colpito da un secondo – e improvviso – evento (lo shock petrolifero) che ne accelera il processo di trasformazione. La sospensione della convertibilità del dollaro, la sua forte svalutazione e l’adozione di politiche protezionistiche segnano un ridimensionamento del ruolo di nazione-guida dell’Occidente svolto dagli Stati Uniti.

C

C

Catena di assemblaggio o montaggio (assembly-line) Sistema di produzione e assemblaggio di manufatti industriali, costituito da un nastro, definito nastro trasportatore, sul quale scorrono parti componenti o semilavorati secondo tempi prefissati e sincronizzati. L’assemblaggio è compiuto nelle stazioni di montaggio distribuite lungo la catena e presidiate da uno o più lavoratori.

Catena di montaggio della Ford nel 1913 (Foto di Ford company, USA)

Catena di montaggio della Ford nel 1913 (Foto di Ford company, USA)

Le prime catene di montaggio, basate sui principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, furono introdotte da Henry Ford nell’omonima fabbrica di automobili a Detroit, tra il 1913 e il 1914. Si trattò di una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione della produzione e del lavoro, che assicurò notevoli vantaggi per le imprese. Da un lato, per far funzionare la catena di montaggio si rese necessario standardizzare sia il processo sia le parti componenti, con impatti positivi in termini di riduzione dei tempi di produzione; dall’altro, la divisione del processo in fasi molto brevi e la semplificazione delle singole operazioni permisero di ottimizzare il lavoro degli addetti alla catena. Questo sistema di produzione, conosciuto anche con il termine di fordismo, non fu esente da critiche, soprattutto in rapporto all’alienazione che i lavoratori subivano a causa della parcellizzazione e della ripetitività del lavoro. Nel corso della seconda metà del XX sec. sono comparse altre configurazioni tecnico-produttive, quali l’isola di montaggio, la cella di montaggio e la cella di assemblaggio, che tentano di coniugare i vantaggi della standardizzazione del processo con stazioni di lavoro non più attribuite a una sola persona, ma composte da più operai che svolgono una parte significativa del processo produttivo, con maggiore autonomia e maggiori interazioni sociali. Nei moderni impianti industriali tali problemi sono stati ormai superati con l’automazione delle catene di montaggio, cioè affidando le mansioni più pericolose e ripetitive a robot industriali e riducendo così notevolmente gli effetti negativi sugli uomini legati alla produzione in serie. Più in generale la catena di montaggio ha gradualmente perso attrattiva nel corso del secondo Novecento, sia perché sensibile di tecniche di sciopero a scacchiera, per cui l’assenza di pochi addetti provocava un blocco generalizzato della produzione, sia perché interprete di un sistema rigido, in certi settori inadatto ad andare incontro alla segmentazione dovuta alle diverse preferenze dei singoli consumatori.

Civilian Conservation Corps Programma pubblico di sostegno al lavoro per i disoccupati che dal 1933 al 1942 impiegava i giovani nelle zone rurali sotto la supervisione dell’esercito degli Stati Uniti e forniva addestramento mediante l’impiego in opere volte alla conservazione e allo sviluppo delle risorse naturali degli Stati Uniti d’America (opere di rimboschimento e di controllo delle acque).

Convertibilità del dollaro in oro oroCon il sistema di Bretton Woods – che stabilizza il sistema monetario internazionale nel decennio che va dal 1962 al 1972, in base a meccanismi e procedure rigorosamente definite e fissate dai fondatori dal sistema stesso nel 1944 – le autorità americane sono costrette a convertire in oro le disponibilità ufficiali in dollari degli altri paesi, al prezzo di 35 dollari l’oncia. Nell’immediato dopoguerra la situazione non pone particolari problemi agli Stati Uniti: essendo un periodo caratterizzato da carenza di dollari, i paesi a moneta diversa sono ben disposti a ricostituire le loro riserve in dollari piuttosto che a convertirle in oro. Ben diversamente vanno però le cose negli anni Sessanta. In questo decennio infatti, si verifica una diffusione massiccia e incontrollata di valuta statunitense in circolazione sui mercati esteri, dovuta essenzialmente ai seguenti fattori concomitanti: perdita di slancio del capitalismo statunitense, spese militari aumentate in maniera consistente per sostenere la Guerra nel Vietnam, importazioni cresciute in modo da acuire il deficit della bilancia dei pagamenti, e processi in atto di trasformazione delle grandi aziende in compagnie multinazionali con sedi ed impianti in tutti i continenti. La Federal Reserve (la Banca di Stato degli USA) ignora ormai la quantità e la collocazione dei dollari circolanti all’estero, pur rimanendone garante: il sistema di Bretton Woods la impegnava infatti ad assicurarne in qualsiasi momento la conversione in oro. In questo periodo quindi si ha contemporaneamente una netta riduzione delle riserve auree degli Stati Uniti (per i fattori di crisi nel bilancio statale già citati) e un forte aumento delle disponibilità ufficiali in dollari, potenzialmente convertibili in oro. Il dollaro si sgancia dall’oro domenica 15 agosto 1971, quando il Presidente Richard M. Nixon interviene ufficialmente con un provvedimento governativo a sospendere la convertibilità dei dollari detenuti nelle riserve ufficiali estere in oro e in altre attività di riserva. Il nuovo sistema monetario internazionale, con la sua moneta di riferimento non più convertibile in oro, in realtà non può più chiamarsi sistema di Bretton Woods e in ogni caso – non ispirando fiducia al mercato – provoca forti speculazioni sul dollaro e notevoli fluttuazioni monetarie che producono turbolenze sui mercati dei cambi e nei meccanismi di aggancio a una moneta di riferimento. Tra il 1971 e il 1974 le valute nazionali fluttuano liberamente sul mercato dei cambi a partire dal dollaro che si rivaluta rispetto ad altre monete. Nel 1972 i paesi della CEE si trovano d’accordo nello stabilire un “serpente monetario”: a ogni moneta europea vengono assegnarti dei limiti di oscillazione nel cambio con altre valute (±2,25 del valore al momento dell’accordo). Il “serpente” attesta una volontà dei paesi europei di perseguire un’integrazione con forme autonome rispetto all’alleanza militare con gli Stati Uniti. In Europa “il serpente” e il suo successore, il Sistema Monetario Europeo, sono stati di fatto meccanismi di aggancio alla moneta tedesca. La sospensione della convertibilità del dollaro in oro, la sua forte svalutazione e l’adozione di politiche protezionistiche da parte degli USA sono interpretati come segnali inequivocabili di una debolezza economica in atto per la potenza americana e segnalano un indubbio ridimensionamento del suo ruolo di nazione-guida svolto fino a quel momento per l’Occidente.

Credit crunch In italiano “stretta creditizia”, è un termine del linguaggio politico-economico che rimanda ad contrazione del tasso di espansione del credito, che può anche assumere valori negativi e dunque corrispondere ad una diminuzione della disponibilità complessiva di liquidità. In genere, viene adottata – tramite la variazione del tasso di interesse da parte della banca centrale – quando è necessario moderare la crescita dell’economia in vista di pericoli di inflazione o di deficit esterno, mentre è considerata non opportuna nei casi in cui si manifesti il timore che possa generare una pressione deflazionistica. Storicamente, i credit crunch più acuti hanno comportato una serie di fallimenti, sia di banche che di imprese, nonché numerosissimi casi di insolvenza da parte di singoli debitori, per lo più famiglie. Questi mancati pagamenti si sono spesso tradotti in pignoramenti dei beni ipotecati a garanzia dei crediti, e in un aumento delle proprietà in capo alle banche. La stretta creditizia fu una delle risposte governative alla crisi del 1929. In particolare, le scelte in tal senso operate dagli Stati Uniti aggravarono la situazione, perché finirono per accentuare la recessione. Basti pensare che nel paese si registrò una spettacolare ondata di fallimenti bancari: dal 1929 al 1933, circa 11.000 dei 26.000 istituti di credito chiusero i battenti, deflazionando pesantemente l’economia. E non a caso il New Deal, la politica economica inaugurata dal presidente F.D. Roosvelt per uscire dalla crisi, comportò un allargamento della spesa pubblica e ridiede ossigeno al sistema creditizio. Il credit crunch ha anche caratterizzato la crisi iniziata nel 2008. In particolare, nell’estate 2011, fu riscontrata una limitata capacità degli istituti di credito di prestare a tassi ragionevoli, a causa del virtuale congelamento del mercato delle obbligazioni bancarie. E nel dicembre dello stesso anno, la stessa Autorità bancaria europea (Eba) evidenziò la necessità di una urgente ricapitalizzazione da parte degli istituti di credito del vecchio continente, pena il rischio di un acuirsi della spirale recessiva.

Crisi petrolifera Dopo la quarta guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 (guerra dello Yom Kippur) i paesi produttori di petrolio decidono di alzare il livello dello scontro con i paesi consumatori, utilizzando in maniera spietata l’arma del petrolio, per colpire l’intero sistema occidentale e tentare di disarticolarne funzioni e operatività. Con una micidiale sequenza di decisioni unilaterali, i paesi produttori fanno impennare il prezzo del greggio e, al tempo stesso, come misura ritorsiva per l’appoggio fornito e promesso ad Israele dal governo americano, dispongono ” l’embargo petrolifero arabo” articolato su due piani: limitazioni progressive alla produzione e divieto assoluto di esportazione a Stati Uniti, Olanda, Portogallo, Sud Africa e Rhodesia. L’impennata dei prezzi, alla fine del 1973, è in realtà la fine di un processo, lungo quasi un decennio, di progressivo indebolimento del sistema di governo dei mercati petroliferi costruito dalle Majors dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questo processo era stato innescato da tre fattori: primo, la ricerca da parte dei paesi esportatori di petrolio di un maggior controllo sulle proprie risorse naturali; secondo, la crisi dell’oligopolio delle Majors, provocata dall’ingresso nei mercati petroliferi internazionali di nuovi attori; terzo, il modificarsi dei rapporti tra domanda e offerta sui mercati del greggio. La crisi petrolifera però rispetto alla produzione di petrolio non è così grave né così drammatica; nel corso dei primi anni Settanta c’è una corsa a produrre più petrolio nei paesi non OPEC, perché la paura di rimanere senza petrolio e, quindi, la percezione della crisi è maggiore rispetto alla effettiva capacità produttiva di petrolio fuori dai paesi OPEC. Gli USA, ad esempio, ottengono petrolio dal Venezuela e riescono ad attenuare di molto l’impatto dell’embargo petrolifero dei paesi OPEC. La crisi petrolifera del 1973 è una prima grande paura collettiva di rimanere senza risorse, senza petrolio; poi si metabolizza e ci si adatta: negli anni Ottanta, durante la guerra Iran-Iraq c’è un crollo significativo della produzione di petrolio; ma non si genera questo shock petrolifero. La crisi petrolifera, tuttavia, cambia certamente la mentalità della popolazione su alcuni importanti temi: crea una maggiore consapevolezza dell’instabilità del sistema produttivo, promuove la ricerca di forti energetiche alternative, fa emergere la questione ambientale, spinge i governi ad attuare politiche di austerità per la ricerca di nuovi equilibri del sistema produttivo basato sul fordismo. E’ considerata un punto di rottura nella storia del secondo dopoguerra: gli anni precedenti, infatti, i cosiddetti Trenta Gloriosi (1946-1973), erano stati anni di crescita, con un notevole sviluppo sia dal punto di vista economico che demografico. Al contrario, a questo periodo seguono anni di crisi, rallentamenti nella crescita, disoccupazione e disordini sociali, il prezzo del petrolio che quadruplica e il successivo embargo petrolifero (vedi Embargo) sono vissuti dai paesi occidentali come un vero e proprio shock. La crisi petrolifera segna un’inversione di tendenza nel rapporto di forza tra stati occidentali e paesi in via di sviluppo, che non rimane circoscritta ai soli produttori di petrolio, ma investe, in modo più generale, l’insieme dei rapporti internazionali. Da una parte è questo il risultato delle difficoltà che gli Stati Uniti stanno incontrando con la sconfitta nel Vietnam; dall’altra è invece il segnale di un intreccio sempre più marcato tra questioni economiche e politiche, che l’internazionalizzazione del commercio e l’integrazione delle economie proietta in uno scenario che non è più quello che aveva dominato gli anni della guerra fredda.

D

D

Dazio Imposta indiretta sui consumi che si applica sulla circolazione di beni e prodotti da uno Stato all’altro (dazio esterno o doganale). I dazi esterni, detti anche dogane, gravano sulle merci che entrano nello Stato, ne escono o lo attraversano e si distinguono quindi in: a) dazi d’importazione, che si applicano sulle merci quando entrano nei confini dello Stato e sono economicamente e finanziariamente i più importanti; b) dazi d’esportazione – applicati, al contrario, alle merci che varcano i confini dello Stato produttore – non hanno avuto mai grande diffusione dato il favore con cui sono in genere viste le esportazioni, a meno che non si tratti di evitare l’uscita di materie prime indispensabili allo sviluppo delle industrie nazionali; c) dazi di transito che colpiscono le merci nel momento in cui esse attraversano il territorio dello Stato unicamente per raggiungere il luogo di destinazione ultimo, ma sono aboliti quasi ovunque al fine d’incoraggiare il commercio. I dazi sono detti economici, protettivi e industriali, quando mirano a proteggere dalla concorrenza straniera rami della produzione nazionale o alcuni prodotti; sono invece detti fiscali quando sono applicati in diretta contrapposizione a quelli protettivi e quando mirano esclusivamente ad assicurare un maggior gettito di denaro alle casse dello Stato. Fra i paesi dell’Unione Europea, al fine di raggiungere l’unità economica che ha come necessario presupposto una concreta unione doganale, si è disposta la soppressione dei dazi sugli scambi interni nell’ambito dei paesi comunitari già a partire dal 1968. Una volta venutasi a realizzare l’unione doganale tra i paesi membri dell’UE è stato però necessario creare una tariffa doganale comune per le merci importate da paesi extracomunitari (i paesi terzi).

Default In italiano “insolvenza”, è la condizione per la quale un debitore non può far fronte alle condizioni contrattuali e dunque rispettare le modalità di estinzione del passivo. In genere, l’esito di un default è il fallimento del soggetto debitore, anche se in certi casi la bancarotta può essere pilotata o addirittura evitata attraverso un piano di salvataggio, volto a lenirne gli aspetti più traumatici. Nella crisi del 2008, il termine default è stato inizialmente utilizzato per indicare i rischi corsi da numerose banche d’investimento, ma poi, a partire dal 2011, è stato insistentemente impiegato in riferimento agli stati meno virtuosi. In questa fase, infatti, la recessione è evoluta in direzione di una crisi dei debiti sovrani, vale a dire che vari paesi si sono ritrovati nella difficoltà concreta di rifinanziare il proprio debito pubblico. Infatti, il rapporto debito/pil è cresciuto quasi ovunque a seguito di una contrazione del prodotto interno lordo, e ha costretto i paesi ad un maggiore onere per piazzare i titoli di stato, i cui rendimenti, appunto, sono sensibilmente cresciuti. Di qui il rischio – paventato dalle società di rating e da altri osservatori – dell’incapacità di fare fronte al debito, con il conseguente fallimento dello stato. Il caso più dibattuto fu quello della Grecia, paese modesto dal punto di vista della popolazione e del tessuto economico, ma all’interno dell’eurozona e come tale potenzialmente pericoloso per tutta l’Unione monetaria europea. Gli scenari immaginati in caso di default della Grecia apparivano quasi tutti apocalittici, e non contemplavano solo il ritorno alle divise nazionali, a iniziare dalla dracma, ma anche l’inizio di un vero e proprio caos socio-economico. Si prevedeva un’elevatissima inflazione che avrebbe quasi azzerato i risparmi, una disoccupazione di massa conseguente alla grave contrazione della produzione industriale, nonché disordini e violenze in conseguenza della rabbia popolare. Del resto, i precedenti della Repubblica di Weimar, fallita de facto durante l’iperinflazione del 1923, o quello più recente dell’Argentina, che nel 2002 era andata in default, o ancora quello dell’Islanda, prima (piccola) vittima della crisi del 2008, indicavano che il fallimento dello stato fosse un rischio più che concreto. Per scongiurare un epilogo tragico per la Grecia (e per l’Europa), il paese ellenico fu messo nella condizione di rinegoziare parte dei propri debiti, di ricevere aiuti e di superare la fase più acuta della crisi, al prezzo di una pesante ristrutturazione interna, che produsse licenziamenti nel pubblico impiego, un aumento della tassazione e la parziale perdita della sovranità in materia di politica economica. Il rischio di default si allargò presto ad altri paesi con debiti sovrani preoccupanti, in particolare quelli mediterranei (poi definiti Pigs, in inglese “maiali”, inteso sia in senso dispregiativo che come acronimo di Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) ai quali si aggiunsero poi anche Irlanda e Gran Bretagna (a formare il gruppo dei Piiggs). In tutti questi casi, il rischio di insolvenza fu contrastato a livello governativo con politiche di austerity, che portarono ad un innalzamento della pressione fiscale e a tagli allo stato sociale. Poiché l’effetto collaterale principale fu l’aggravamento della recessione, questo approccio fu fortemente criticato dagli economisti di formazione neokeynesiana, che al contrario indicavano nell’ampliamento della spesa pubblica la misura cruciale per rilanciare l’economia a beneficio di una crescita del prodotto interno lordo che avrebbe conseguentemente ridotto il rapporto debito/pil.

Deflazione vedi Inflazione.

Delocalizzazione

Fotografia aerea dello stabilimento FIAT di Bielsko-Biała, in Polonia, nel 2007. Autore Marek Kocjan; fonte: http://www.kocjan.pl

Fotografia aerea dello stabilimento FIAT di Bielsko-Biała, in Polonia, nel 2007. Autore Marek Kocjan; fonte: http://www.kocjan.pl

Processo di decentramento di interi pezzi o comparti produttivi in zone o aree in cui è più conveniente l’assunzione di lavoratori e la produzione industriale stessa. Spostamento delle attività e degli impianti industriali in aree diverse dei continenti; pertanto dal modello fordista della grande industria che connota e permea un territorio, si passa ad un modello di impresa a rete che assembla spezzoni di produzione e di saperi tecnologici in aree anche distanti fra loro. Fenomeno per cui si sta ridisegnando la geografia produttiva internazionale, in particolare nel Sud-Est asiatico, dove si creano nuovi e dinamici poli di concorrenza. Il capitale va cioè alla ricerca di serbatoi di forza-lavoro a basso costo e non conosce più frontiere, mentre l’intero processo produttivo tende ad articolarsi e a connettersi su scala planetaria grazie alla telematica. La delocalizzazione dei posti di lavoro industriali dalle aree più sviluppate a quelle più povere – dove la manodopera è meno costosa, meno protetta, meno sindacalizzata – è un processo che muove i primi passi negli anni Settanta, ad opera delle maggiori compagnie multinazionali che finalizzano i propri investimenti esteri non più solo al controllo e allo sfruttamento delle materie prime dei paesi del Terzo Mondo, ma veicolano investimenti per impiantare stabilimenti produttivi in loco. Nel 1960 i paesi meno sviluppati detengono il 38% dei posti di lavoro industriali del pianeta; percentuale che sale al 45% nel 1970 e al 53% nel 1980. Negli anni Novanta i paesi meno sviluppati ospitano poco meno dei due terzi della forza lavoro industriale del pianeta.

Dominion Comunità autonome appartenenti all’impero britannico, aventi uguale status, ma senza alcun reciproco rapporto di subordinazione nella trattazione degli affari interni o esteri, sebbene unite da un comune vincolo di fedeltà alla corona del Regno unito, e liberamente associate come membri del Commonwealth britannico.

E

E

Embargo Sanzione economica applicata a paesi che si macchiano di azioni o scelte politiche ritenute intollerabili dalla comunità internazionale, quali aggressioni armate ad altri stati, genocidi, privazione della popolazione o di parte di essa dei più elementari diritti umani e civili. Consiste nella sospensione dei rapporti commerciali e, in passato, si concretizzava nel divieto di accesso o di uscita delle navi dai porti del paese sanzionato. Il termine, di origine spagnola, significa, infatti “ostacolo” e indica il divieto di proseguire nella navigazione.

Embargo petrolifero Improvvisa e inattesa interruzione del consueto flusso di approvvigionamento di petrolio perché i governi dei paesi maggiori produttori di petrolio, membri dell’OPEC ( Organization of the Petroleum Exporting Countries) decidono di prendere il controllo della produzione del greggio e, cosa più importante, della gestione dei prezzi per le esportazioni dai loro paesi. Fino a quel momento il petrolio era prodotto ed immesso sul mercato da società petrolifere sotto il controllo occidentale, le quali, riducendo gradualmente il prezzo, avevano lentamente svalutato le azioni che i governi arabi avevano precedentemente acquistato. Questa offensiva commerciale anti-occidentale è inasprita dalla guerra dello Yom Kippur (vedi Yom Kippur) iniziata il 6 ottobre del 1973. La maggior parte dei paesi arabi, produttori di petrolio, appartenenti all’OPEC erano fermamente intenzionati a ridimensionare la politica occidentale in Medio Oriente e ad usare il petrolio come arma, per una guerra commerciale contro l’Occidente industrializzato.

Età dell’Oro, Fine della – La prolungata espansione economica che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra trova un improvviso ostacolo agli inizi degli Anni Settanta: lo sviluppo ordinato e sostenuto dell’ultimo quarto di secolo appare definitivamente concluso, anche se il ritmo degli anni Settanta si rivela ancora positivo. Ciò che comunque termina in modo inaspettato non è solo una fase espansiva senza precedenti, ma la struttura complessiva dell’economia internazionale e il ruolo pienamente egemone svolto in essa dall’Occidente e dagli Usa. Il primo mutamento tangibile si presenta in modo graduale ed è il risultato del progressivo indebolimento del dollaro e della concomitante crescita del deficit americano dovuta alla guerra del Vietnam. Nell’agosto del 1971 Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro e pone fine così al sistema creato a Bretton Woods nel 1944. Il passaggio graduale e, in parte incontrollato, a un sistema fluttuante di cambi fra le monete, già in essere nei primi anni Settanta, indebolisce ulteriormente il sistema commerciale e monetario internazionale che nel 1973 viene colpito da un secondo, improvviso evento- la guerra dello Yom Kippur e il conseguente embargo petrolifero- che ne accelera il processo in atto di trasformazione strutturale e sistemica. Lo sviluppo economico del secondo dopoguerra era di fatto divenuto sempre più dipendente dal petrolio come fonte privilegiata di energia per l’industria, i trasporti e il riscaldamento, senza contare la sua utilizzazione nella produzione di materie plastiche, fibre, detergenti, coloranti, fertilizzanti. Il controllo delle “Sette Sorelle” sul mercato petrolifero aveva indotto alcuni paesi a creare nel 1960 l’OPEC per contrastare il ribasso dei prezzi con cui il cartello delle compagnie petrolifere comprava il greggio. L’orientamento nazionalistico dei paesi arabi, che ne costituivano la maggioranza, premeva per una riappropriazione delle proprie risorse naturali e per un maggior controllo della ricchezza prodotta, anche negli stati più decisamente schierati con l’Occidente. Così la questione economica s’intrecciava al problema politico rappresentato dal permanere della conflittualità tra il mondo arabo e Israele sempre più legato, dopo la crisi del 1956, agli Stati Uniti e all’Occidente. La scarsità di petrolio fa salire i prezzi oltre la soglia dell’aumento del costo del greggio, con le compagnie petrolifere che pagano anche sedici dollari per un barile (159 litri) il cui prezzo ufficiale ha superato gli undici e che prima della crisi era pagato tre dollari ( il cui costo di produzione non era superiore ai trenta centesimi). Non è solamente la benzina a scarseggiare, causando un effetto simbolico che aggrava la percezione della crisi; sono tutti prezzi a lievitare, spesso senza un controllo alimentando una spirale inflazionistica che supera di gran lunga quella che si era già manifestata a fine anni Sessanta. La risposta dei governi occidentali a questo improvviso e forzoso travaso di ricchezza dai paesi sviluppati ai paesi produttori di petrolio è una politica di contrazione della domanda. Una diminuzione dei consumi è però inevitabile, dovendosi pagare maggiormente- e in dollari- un acquisto di petrolio che solo in parte si riesce a controllare o ridurre. La fine dell’Età dell’oro è annunciata in Europa dall’inflazione che la crisi petrolifera ha accentuato, dando vita ad una spirale di rincorsa fra prezzi e salari cui contribuisce anche l’intensa conflittualità sindacale. In Europa occidentale l’inflazione era rimasta sotto il 4% fino al 1969;era cresciuta oltre il 6% negli anni successivi e dopo il 1973 aveva accompagnato gli anni Settanta con un valore attorno all’11%. Questa media tuttavia ci restituisce una forte disparità tra paesi capaci di controllare l’inflazione e mantenerla al 5% ( Germania Occidentale, Olanda, Svizzera, Austria) e altri paesi che raggiungono e superano anche il 15% ( Italia, Spagna, Gran Bretagna, Eire). Tra la metà degli anni Sessanta il panorama internazionale si trasforma sensibilmente mentre “l’età dell’oro” dello sviluppo economico inizia a entrare in crisi. Dopo la paura suscitata da un possibile conflitto nucleare nel corso della “crisi dei missili”, il 1963 si presenta come un anno distensione che sembra preludere alla guerra fredda. L’accordo sulla sospensione degli esperimenti nucleari pare bloccare la corsa agli armamenti e l’ipotesi di una coestistenza pacifica trova il suo simbolo nel capi di stato delle due Superpotenze ( Kennedy e Chruṧḉёv) e nel nuovo pontefice, Giovanni XXIII. Proprio in quell’anno però, tuttavia, muore Papa Giovanni e il Presidente Kennedy viene assassinato; poi l’estromissione di Chruṧḉёv dal potere pone fine alle speranze della destalinizzazione. La distensione prosegue, ma come ingessata e interrotta da nuove crisi, in un contesto segnato dalla recrudescenza dell’intervento in Indocina e dalla dottrina Breznev e che il conflitto sovietico-cinese rende particolarmente instabile. E’ la guerra nel Vietnam a riassumere nel modo più chiaro i pericoli per la pace, la contraddittorietà dei comportamenti delle grandi potenze e il limite alla libertà della loro azione. Infatti la strategia americana della guerra fredda, dopo la fase iniziale del containment, non si fonda su un equilibrio di potenza, non solo perché considera impossibile una situazione di stallo-stante il carattere dell’avanzata comunista nel mondo- ma anche perché la difesa dell’integrazione economica e commerciale presuppone un consolidamento ed una crescita del mondo libero e democratico ( il progetto wilsoniano) che spingono a costruire, in realtà, una “preponderanza di potenza”. Il risultato è da una parte l’intensificazione dei colloqui con l’URSS per i trattati anti-nucleari (1968,1969 e 1971); dall’altra l’abbandono completo dell’opzione democratica per i governi che si intendono appoggiare nella loro lotta contro il comunismo: lo stesso Vietnam del Sud ne è un chiaro esempio, ma sono soprattutto i regimi dittatoriali latino-americani ( dalla Repubblica Domenicana nel 1965 al Cile nel 1973 e all’Argentina nel 1976) a costituire la verifica della svolta avvenuta. Il ritorno al realismo, di cui è un esempio la politica seguita in Vietnam negli ultimi anni sessanta- segnata dal ritiro dei soldati americani e dal concomitante incremento dei bombardamenti- cerca di ridimensionare la sconfitta e di inserirla in una riedizione degli equilibri di potenza che avrà breve durata, per gli effetti dinamici anche in campo internazionale delle vicende interne dell’affare Watergate e delle dimissioni di Nixon. I mutamenti della politica estera dell’Unione Sovietica, anche se speculari in parte a quelli americani, rispondono a dei criteri diversi. Nella seconda metà degli anni Settanta si determina un cambiamento più accentuato che sembra capovolgere gli orientamenti emersi nella prima metà del decennio. La dottrina di Breznev -che aveva scandito l’invasione della Cecoslovacchia- mira a contrastare le tendenze centripete e di disintegrazione del campo socialista, la cui normalizzazione non migliora però i rapporti con la Cina, che si radicalizzano fino a dar luogo a sconti armati di frontiera. L’appoggio ai movimenti di liberazione e ai regimi socialisti del Terzo Mondo si accentua, facendo leva sugli interessi economici per piegarne le velleità autonomistiche e integrarli maggiormente nel proprio campo- come nel caso di Cuba-o sostenendo con forza differenti regimi dittatoriali, con una strategia realistica e cinica, analoga a quella statunitense verso le dittature militari del Sudamerica. Questo orientamento della politica brezneviana si accompagna ad una stabilizzazione delle relazioni con l’Occidente e gli Stati Uniti che, nel giro di pochi anni, ribalta l’atteggiamento di ostilità che l’Urss si era guadagnata con la sanguinosa repressione della Primavera di Praga. Il timore suscitato dal riavvicinamento cino-americano porta al consolidamento della distensione sancito dal vertice Nixon-Breznev del maggio 1972 a Mosca e seguito dall’intensificazione degli scambi commerciali che dal 1971 al 1976 si moltiplicano otto volte.

Eurobond Si tratta di una parola composta da euro- (prefisso col significato di europeo) e bond (obbligazione), a indicare l’ipotetica emissione congiunta di obbligazioni del debito pubblico garantite da tutti i paesi dell’eurozona da parte di una apposita agenzia creata ex novo e deputata a questa specifica funzione. Gli eurobond (chiamati anche stability bond) sono stati immaginati in maniera sempre più pressante nel 2011, in coincidenza della fase di crisi relativa ai debiti sovrani. Tra l’altro, la loro creazione andrebbe nella direzione di operare una maggiore integrazione tra le economie europee, all’insegna di un bilancio unico, ritenuto un obiettivo strategico da parte di varie forze politiche europeiste. Tuttavia, la prospettiva della creazione degli eurobond è stata accolta con reazioni molto diverse dai governi degli stati dell’eurozona. In particolare, sono emerse tre tendenze principali, e cioè un’approvazione entusiastica, un sostanziale scetticismo e una netta contrarietà, con queste ultime due posizioni de facto alleate. Chi si è pronunciato favorevolmente rispetto agli eurobond ha sottolineato come questo strumento contribuirebbe a dare vita a un nuovo grande mercato di obbligazioni, più ampio e più liquido rispetto a quelli nazionali. In questa maniera, il rischio individuale dei singoli paesi verrebbe trasformato in frazioni di rischio collettivo, e l’istituzione di un mercato di dimensioni tanto imponenti dovrebbe mettere al riparo da possibili attacchi speculativi. Le motivazioni contrarie e le posizioni scettiche, invece, traggono forza dalla considerazione che i paesi più virtuosi dovrebbero accollarsi un onere aggiuntivo, in termini di costo del debito, a favore dei paesi meno virtuosi. Vi sarebbe inoltre il rischio che la protezione offerta dagli eurobond incentivi il cosiddetto azzardo morale (o moral hazard), ossia una forma di opportunismo post-contrattuale, che porta a perseguire i propri interessi a spese della controparte, nella consapevolezza che i costi associati a un eventuale esito negativo delle proprie azioni ricadrebbero sulla collettività anziché solamente su sé stessi. In pratica, alcuni paesi sarebbero indotti a scegliere politiche fiscali e di bilancio ancor meno rigorose, esacerbando la discrasia tra nazioni “rilassate” e nazioni “virtuose” e appesantendo gli oneri sopportati da queste ultime. Inoltre, soprattutto a detta degli scettici, la prospettiva degli eurobond incontrerebbe alcune difficoltà oggettive, dal momento che richiederebbe una riforma dei trattati europei e dei ruoli e dei compiti affidati per via statutaria alla Banca centrale europea (Bce), nonché le sopraccitate riforme per l’uniformazione degli standard di rigore delle politiche fiscali nazionali. Tutte novità che avrebbero bisogno della ratifica unanime degli stati membri, un meccanismo la cui messa in atto comporterebbe obbligatoriamente lunghi tempi tecnici di attuazione.

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Federal Emergency Relief Act Legge approvata negli Stati Uniti il 12 maggio 1933 per far fronte ai gravi disagi conseguenti la grande crisi del 1929. Il problema principale era costituito da una diffusa disoccupazione che privava milioni di famiglie delle condizioni minime vitali di reddito creando una emergenza sociale che i sussidi locali erano inadeguati ad affrontare. Solo un cospicuo stanziamento a livello centrale e la cooperazione coordinata dei diversi stati e territori poteva fornire sollievo ai bisognosi e alle persone in difficoltà.

Federal Reserve Bank Costituita da dodici banche regionali dislocate in altrettanti distretti che rappresentano l’organizzazione territoriale del Federal Reserve System. Esse hanno sede a Boston, New York, Filadelfia, Cleveland, Richmond, Atlanta, Chicago, Saint Louis, Minneapolis, Kansas City, Dallas, San Francisco. (vedi Federal Reserve System)

Federal Reserve Board Negli Stati Uniti d’America è l’organo di controllo della banca centrale. È retto da sette governatori nominati da Presidente degli Stati Uniti. (vedi Federal Reserve System)

Federal Reserve System È l’insieme degli organi che formano la Banca Centrale degli Stati Uniti. È un’agenzia pubblica e indipendente dal governo statunitense poiché le sue decisioni non sono ratificate da organi del governo o del parlamento. Costituiscono il Federal System una agenzia governativa centrale retta da sette governatori nominati dal presidente degli stati Uniti (Board of Governors of the Federal Reserve System), dodici banche regionali (Federal Reserve Bank), il Federal Open Market Committee (FOMC, responsabile delle operazioni di mercato aperto che influenza i tassi di interesse sui mercati finanziari e azionari), diverse banche private che acquistano azioni non cedibili delle Federal Bank, diversi consigli consultivi. Fra i compiti principali del Federal Reserve System si segnalano:

  • l’indirizzo fornito alla politica monetaria nazionale: dalla quantità di moneta circolante alle condizioni del credito per supportare l’economia e l’occupazione e controllare i tassi di interesse a lungo termine;
  • il controllo degli intermediari finanziari e delle loro operazioni per assicurare stabilità al sistema bancario e garantire i consumatori. Non tutti gli Istituti di Credito sono tuttavia obbligati ad operare sotto la vigilanza della Fed; essi possono esercitare l’attività bancaria purché controllati anche da altri organismi come l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC) o la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC);
  • il perseguimento della stabilità del sistema finanziario e il contrasto dei rischi indotti dai mercati finanziari;
  • l’attività di tesoreria.
La sede centrale della Federal Reserve, a Washington, DC (foto di Rdsmith4).

La sede centrale della Federal Reserve, a Washington, DC (foto di Rdsmith4).

La Federal Reserve System fu istituita con una legge denominata Federal Reserve Act approvata dal Congresso degli Stati Uniti il 23 dicembre 1913 e cominciò ad essere operativa nel 1916. In seguito alla crisi finanziaria del 1907 si era evidenziata la necessità di un organo di indirizzo e di controllo dei mercati finanziari americani per prevenire e contenere i danni di altre eventuali crisi. Il lungo dibattito fra i diversi orientamenti politici e le differenti teorie economico-finanziarie, oltre all’analisi dei sistemi adottati dagli altri paesi, sfociò nell’istituzione di un organismo molto complesso che mantenne una struttura federale per essere grado di ricevere impulsi da tutte le parti del paese. Le azioni delle banche della Federal Reserve System non possono essere cedute o impegnate ed i loro dividendi non possono superare il 6%. Le quote eccedenti sono depositate presso il Dipartimento del Tesoro.

Finanziarizzazione Predominio della finanza che, con veloci movimenti di grandi capitali, anche grazie all’informatica e alla mondializzazione dei mercati, sposta quotidianamente enormi quantità di denaro. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, la crescita del fenomeno ha portato numerose imprese industriali a preoccuparsi più dei ricavi derivanti dal ricorso a strumenti finanziari che degli utili del proprio core-business. Il fenomeno trae altresì origine dalla concentrazione di ricchezza accumulata, che però non si è necessariamente tradotta in maggiori investimenti produttivi, ma ha imboccato la strada degli impieghi di natura speculativa. Il volume dei capitali dirottato nelle transazioni finanziarie si è dilatato fino a superare di 50 volte quello dell’economia reale e ha coinvolto ampi strati sociali, fino ai piccoli e piccolissimi risparmiatori. Verso la fine del degli anni Settanta, alle trasformazioni profonde avvenute nel settore delle comunicazioni e ai cambiamenti nella trasmissione delle informazioni introdotti dalle innovazioni tecnologiche si sono intrecciati intensi e rilevanti cambiamenti del mondo economico e finanziario, anche in conseguenza della fine del sistema di Bretton Woods. Il passaggio verso una regolazione dell’economia in cui il mercato avesse un ruolo sempre più centrale, a scapito di quello avuto in precedenza dallo Stato, ha trovato nelle scelte di politica economica di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher e nelle teorie monetaristiche – predominanti in quella fase – gli agganci più immediati e diretti. L’effetto di maggior rilievo è stato l’aumento progressivo della circolazione di capitali, sottratta al controllo dei governi e delle autorità monetarie, che è andata ad alimentare un flusso di investimenti indirizzati in misura crescente alla speculazione. È proprio a metà degli anni Ottanta che riprese con forza, su scala molto più ampia e con modalità e intensità maggiori, quel processo di apertura del mondo intero al commercio e agli investimenti che aveva caratterizzato i decenni fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che si era interrotto con la prima guerra mondiale. E così si andò costruendo un mercato unico del denaro con un trasferimento massiccio di capitali dagli Stati Uniti all’Europa e con una crescita degli investimenti esteri delle grandi compagnie e delle maggiori aziende. Il debito pubblico dei paesi avanzati passò, in poco più di dieci anni, dal 20% al 40 % del prodotto complessivo. Verso la metà degli anni Ottanta, in Europa e in Giappone caddero i controlli statali sui cambi e si determinò un’accelerazione della mobilità del denaro e dell’autonomia della finanza dal mondo della produzione e del commercio. Ci furono scelte politiche dei governi atte a incrementare una tendenza che col passare degli anni andò sempre più a vantaggio del mercato e sempre più a indebolire gli stati. Crebbe l’emissione di obbligazioni internazionali, le banche d’investimento acquistarono interi mutui immobiliari suddividendoli e rivendendoli, i crediti bancari divennero titoli negoziabili. La diffusione della partecipazione alla vita finanziaria, sia a livello individuale sia tramite nuovi istituti di gestione privata del risparmio collettivo, ha portato, insieme alla liberalizzazione dei mercati dei capitali e alla possibilità di investire in ogni parte del mondo, a un aumento delle persone interessate all’andamento della finanza e al nascere di una nuova categoria di professionisti in competizione fra loro. Tutto ciò ha costituito la necessaria premessa alla crisi del 2008, le cui origini (la questione dei mutui subprime) e i cui sviluppi (la criticità dei debiti sovrani) sono evidentemente legate alla finanziarizzazione sregolata ed eccessiva dell’economia. Anche per questo, gli interventi riparatori hanno tentato – non sempre con successo – di introdurre vincoli e limitazioni a questa tendenza, per prevenire future ulteriori problematiche analoghe.

Flusso di approvvigionamento Scorrimento condizionato e costante di fluido, in questo caso petrolio, volto a soddisfare le richieste e ad assicurare l’efficienza di sistemi complessi organizzati in settori produttivi strutturati e interdipendenti. Lo sviluppo dell’industria petrolifera procede tra tensioni politiche e alterne vicende, con brusche oscillazioni dei prezzi, scoperte di nuovi ed importanti giacimenti (come quello di Kirkuk in Iraq nel 1926), espansione delle aree di utilizzo del petrolio e caduta mondiale della domanda, ad esempio con la crisi del 1929 e con quella dovuta allo shock petrolifero del 1973. Negli anni Venti, ad esempio, la crescita dei mercati petroliferi avviene in modo irregolare, con forti oscillazioni nella produzione e forti variazioni dei prezzi. Nel 1927-28 si determina una vera e propria guerra dei prezzi su scala internazionale tra le maggiori compagnie dell’epoca; ma anche tra i piccoli produttori texani la situazione si profila drammaticamente incerta fra aspettative di rapidi arricchimenti e paure di fallimenti devastanti.

texas railroad commission

Logo della Texas Railroad commission. Credit .epbusinessjournal.com

La struttura olipolistica di controllo del settore petrolifero si assesta, in questa fase, nel giro di pochi anni e poggia su due pilastri principali: da un lato il dispositivo di Prorationing per la produzione di greggio interna agli Stati Uniti, dall’altro due accordi di cartello tra le maggiori compagnie riguardanti il controllo del greggio mediorientale e la spartizione dei mercati di sbocco fuori dagli Stati Uniti. Il Prorationing è un dispositivo che riesce a far funzionare i pozzi petroliferi, a rotazione, solo per un certo numero di giorni al mese. Viene applicato sistematicamente dagli Stati Uniti per evitare un eccesso di offerta e di conseguenza il crollo del prezzo, specie dopo la scoperta di grandi giacimenti texani di greggio. Nel 1935, dopo qualche anno di sperimentazione, con il Connally Hot Oil Act il Prorationationg viene legalizzato e la sua gestione è affidata ad un organismo pubblico, la Texas Railroad Commission. Mentre all’interno degli Stati Uniti i meccanismi di controllo debbono essere affidati alle autorità pubbliche – per sfuggire alla legislazione monopolistica – sui mercati internazionali le maggiori compagnie procedono direttamente fra loro a fare accordi di cartello. I due accordi – che restarono segreti per lungo tempo – risalgono al 1928.

Accordo della Linea Rossa

Accordo della Linea Rossa. La linea è stata disegnata ricalcando quella tracciata in: United States. Federal Trade Commission, The International Petroleum Cartel (Washington, U. S. Govt. Print. Off., 1952), p. 66

Il primo, detto Linea rossa, è definito a Ostenda tra quattro delle Sette Sorelle, più i francesi della Compagnie Francaise des Petroles e un mediatore armeno. L’accordo prevede che dentro i territori delimitati da una linea rossa (che include Turchia, Iraq, Arabia Saudita, Iran e Kuwait) tutte queste compagnie possano operare solo congiuntamente per la ricerca e l’estrazione del greggio. Le norme che regolano il funzionamento di questi consorzi, e che restano in vigore fino alle nazionalizzazioni – conseguenza diretta della crisi Petrolifera del 1973 – sono estremamente complesse e prevedono una pianificazione pluriennale della produzione e della sua ripartizione tra i soci. Il secondo accordo stipulato in segreto è detto As-Is (o “accordo di Achnacarry”, dal nome della località scozzese dove fu definito) e impegna le Sette Sorelle a collaborare per mantenere le quote di mercato del 1928, espandendosi solo proporzionalmente all’ampliamento del mercato oppure ai danni delle compagnie rimaste fuori dall’accordo. Questo accordo resta secretato per lungo tempo e verrà diffuso solo in seguito alle indagini della autorità statunitensi sul “cartello petrolifero”. I flussi di greggio dunque si muovono all’interno delle maggiori compagnie, dalle affiliate che sono addette alla produzione a quelle che sono impegnate nella raffinazione e nella distribuzione dei prodotti. Il sistema oligopolistico, affermatosi agli inizi degli anni Trenta, manterrà saldo il suo controllo del mercato nei decenni successivi, raggiungendo il culmine del suo potere negli anni Cinquanta, quando le Otto Compagnie maggiori –le Sette Sorelle e la francese CFP – arriveranno a controllare il 99,4 % del greggio prodotto fuori dal Nord America e dai paesi comunisti. Quello che accade nel 1973, cioè un’improvvisa ed inaspettata interruzione del consueto flusso di approvvigionamento, è dovuto al fatto che i governi dei maggiori produttori di petrolio – tutti membri dell’OPEC – decidono di prendere il controllo della produzione del greggio e della gestione dei prezzi per le esportazioni dai loro paesi. Fino a quel momento il petrolio era prodotto ed immesso sul mercato da società petrolifere che erano sotto il controllo occidentale. Queste, riducendo gradualmente il prezzo del petrolio, avevano deprezzato considerevolmente le azioni che i governi arabi avevano precedentemente acquistato. I prezzi del petrolio cominciarono così a crescere fino a quadruplicarsi. Questo rialzo dei prezzi fu portato avanti dai paesi arabi, con il tacito consenso dei grandi interessi petroliferi americani (le Sette Sorelle) e forse anche dallo stesso governo statunitense, interessato a rendere economicamente competitive alcune risorse energetiche da lui stesso controllate, come il petrolio dell’Alaska, il carbone indigeno e l’energia nucleare. Si pensava, anche, di trarre vantaggio dalle difficoltà che gli altri paesi occidentali avrebbero dovuto affrontare, essendo molto più dipendenti dai rifornimenti OPEC.

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Una stazione di servizio durante la crisi del petrolio del 1973 (Foto di Evening Standard/Getty Images)

La crisi petrolifera, dunque, è iniziata di fatto molto prima della Guerra del Kippur e considerarla come un atto di rottura improvviso e convulso da parte dei Paesi Arabi per sostenere finanziariamente Siria ed Egitto nella guerra contro Israele è non solo semplicistico, ma di certo erroneo. Già i tentativi portati avanti dall’Arabia Saudita precedentemente, cioè a partire dal 1960, per modernizzare e cambiare il paese erano stati soggetti a interpretazioni fuorvianti e pregiudizievoli. La crisi petrolifera degli anni Settanta non è pertanto direttamente concatenata alla Guerra del Kippur, anche se il petrolio è stato usato in questo conflitto come un’arma, ma deriva dalle pressioni esercitate da circa un decennio dai Paesi del Terzo Mondo in via di sviluppo. Questi infatti stavano lottando per ottenere l’indipendenza economico-politica e affrontando la difficile transizione verso la decolonizzazione. Si possono individuare quattro elementi alla base di questo shock petrolifero: 1) la richiesta dei produttori di una maggiore partecipazione nelle concessioni petrolifere; 2) l’affiorare su scala mondiale di segnali di esaurimento delle risorse petrolifere; 3) il conflitto Arabo-Israeliano che alimenta il nazionalismo arabo nella zona mediorientale; 4) la cooperazione fra i Paesi produttori di petrolio e i Paesi in via di sviluppo nel Terzo Mondo. Risulta quindi importante sottolineare che l’embargo (cioè l’arresto del flusso di approvvigionamento di petrolio) e l’aumento dei prezzi sono due fenomeni che non hanno un legame di concatenazione diretta ed immediata, anche se entrambi entrano come elementi caratterizzanti e concomitanti in questa crisi petrolifera del 1973. Infatti l’embargo messo in atto dai Paesi Arabi ha effetti abbastanza limitati, dal momento che è stato in parte bilanciato dall’aumento della produzione nei Paesi non-Arabi, come la Nigeria, e in parte da una progressiva diminuzione del consumo mondiale, soprattutto nel caso dei Paesi Europei. Nonostante l’embargo in quanto tale non ottenga pienamente i risultati sperati, esso è comunque cruciale per il metodo con cui viene applicato: è attuato solo verso i Paesi che sostengono Israele nella Guerra del Kippur, in modo particolare contro gli Stati Uniti. L’altro elemento invece – cioè l’aumento generalizzato del prezzo del petrolio – ha importanti conseguenze a livello mondiale. I motivi alla base di questo fenomeno sono, anche in questo caso, molteplici: il deprezzamento del dollaro, la fine degli accordi di Bretton Woods, l’aumento del prezzo delle materie prime, la nazionalizzazione di una serie di risorse (tra cui il petrolio), la paura di un esaurirsi delle stesse, e di nuovo soprattutto del petrolio, il culmine della produzione di greggio da parte degli Stati Uniti, l’emergere della questione ecologica e ambientale, le trasformazioni socio-economiche nei Paesi produttori, l’inflazione galoppante. Da parte loro, i paesi aderenti all’OPEC sperimentano un improvviso e massiccio afflusso di denaro che viene utilizzato in vari modi. In qualche caso è impiegato per sviluppare l’industria nazionale (Iraq); in altri casi in ambiziosi progetti di armamento (Libia e Iraq) o progetti agricoli tesi a trasformare il deserto in terreni in cui applicare e sperimentare un’agricoltura intensiva e capitalistica. Alla vigilia della crisi, nell’ottobre 1973, i prezzi del greggio del Golfo Persico erano aumentati di circo l’80% in più rispetto al 1970; quelli del petrolio libico di più del 100%. L’impennata dei prezzi alla fine del 1973 è in realtà l’apice di un processo di progressivo indebolimento del sistema di governo dei mercati petroliferi costruito dalle Majors dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tre sono i fattori principali di questo processo, che registra un’incubazione lunga quasi un decennio: 1) la ricerca, da parte dei paesi produttori ed esportatori di petrolio, di un maggior controllo sulla propria risorsa naturale; 2) la crisi dell’oligopolio della Majors, provocata dall’ingresso nei mercati petroliferi (specialmente in Medio Oriente) di nuovi attori (Compagnie statunitensi fuori dalle Sette Sorelle o altre compagnie nazionali di altri paesi importatori); 3) il modificarsi del rapporto tra domanda e offerta sul mercato del greggio. Così come la caduta del profitto è stata la causa profonda della crisi del lungo boom post-bellico nei paesi del sistema capitalistico occidentale, anche l’industria petrolifera registra una crisi di profittabilità quale causa della fine dell’Età dell’Oro, cioè della continua espansione a bassi prezzi. La fine della Golden Age è dunque la conseguenza di una generale caduta del tasso di profitto a seguito della saturazione dei mercati e, soprattutto, del cambiamento degli equilibri di potere tra capitale e lavoro generato dalla piena occupazione. I paesi importatori di petrolio – l’Europa occidentale, il Giappone e molti stati del Terzo Mondo – vengono pesantemente danneggiati dalla decisione di embargo petrolifero presa dai Paesi Arabi appartenenti all’OPEC che bloccano le proprie esportazioni di petrolio verso questi Paesi fino al gennaio 1975. L’aumento del prezzo del petrolio – ripetuto negli anni successivi e ulteriormente accentuato nel corso della Guerra fra Iran e Iraq nel 1979 che provocherà un secondo Shock petrolifero – manda completamente in crisi i bilanci dei paesi obbligati a ricorrere al mercato per gli approvvigionamenti di petrolio, ma li costringe anche a migliorare le proprie prestazioni energetiche. La lunga crisi degli anni Settanta e la profonda ristrutturazione industriale – avvenuta nel decennio successivo – hanno una causa fondamentale proprio nel mutato prezzo del petrolio e dei flussi di approvvigionamento. Questa crisi, infatti, ha indotto anche a ripensare la questione energetica, introducendo i temi del risparmio, della ricerca di energie alternative e di una limitazione dei consumi nell’industria, nell’illuminazione, nel riscaldamento e nella circolazione degli autoveicoli. “Seguire l’andamento del prezzo del petrolio – sostiene Marcello Flores – può essere utile da diversi punti di vista: ambientale, energetico, economico, ma anche politico. L’URSS, ad esempio, negli anni Settanta “regge” perché vende petrolio e acquista tecnologia. La stagnazione di questi anni – in cui è Brežnev a guidare la potenza sovietica – viene affrontata aumentando le esportazioni di petrolio e le importazioni di tecnologie. Invece, dalla metà degli anni Ottanta fino agli anni Novanta, la politica economica di Gorbaciov si rivelerà un fallimento pesante. Il prezzo del petrolio è molto diminuito in questi anni ed è addirittura uno dei costi più bassi registrati, e questo è allo stesso tempo anche il segnale di una crisi politica interna lacerante per l’URSS”. (Marcello Flores, La crisi del 1973, 10 settembre 2013 – rielaborazione di un passaggio chiave della relazione tenuta alla SUMMER SCHOOL INSMLI, Le grandi crisi del mondo contemporaneo: 1929-1973-2008, San Marino 9-11 settembre 2013).

Fonti energetiche alternative La crisi del 1973 acuita dallo shock petrolifero ha avuto effetti profondi e duraturi sull’economia mondiale fra i quali anche la ricerca di risorse energetiche alternative. Questo settore è cresciuto in modo costante e consistente nei decenni successivi, orientando la ricerca di risorse alternative a minore dispendio energetico.

Centrale solare

Centrale elettrica solare da 11 MW vicino a Serpa, in Portogallo

Gli investimenti e gli sforzi in questo settore si sono tradotti nell’individuazione di nuove risorse rinnovabili e in un forte sviluppo della chimica. Quanto all’energia, gli esiti più accreditati delle ricerche sono state quelli relativi all’energia solare e a quella nucleare: la prima costosa e difficilmente generalizzabile; la seconda, con grandi potenzialità, ha posto e continua a porre gravi problemi sul piano della sicurezza e dell’impatto ambientale. Infatti, anche negli impianti dell’industria elettro-nucleare si sono verificati numerosi incidenti. I più gravi si sono avuti nel 1979 a Three Mile Island, in Pennsylvania (USA), nel 1986 a Chernobyl, in Ucraina (URSS) e nel marzo 2011 a Fukushima, in Giappone.

Futures Sono contratti di compravendita di beni (commodity f.) o di attività finanziarie (financial f.) in base ai quali chi compra o vende si impegna a prelevare o consegnare una data quantità di un dato bene economico ad un prezzo predefinito e ad una scadenza prefissata. Il prezzo concordato è il prezzo futures, la data della transazione concordata è la data di regolamento o consegna.  Fanno parte dei cosiddetti strumenti derivati e svolgono un’importante funzione per proteggersi dai rischi di negoziazione e per diffondere il rischio di mercato presso una platea più vasta di operatori. Inizialmente diffusi soprattutto negli USA e in Gran Bretagna, oggi lo sono in tutti i mercati.

G

G

G6 (Group of Six)

Helmut Schmidt e Valéry Giscard d’Estaing

Il Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing (a sinistra) e il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt a Bonn durante i colloqui franco-tedeschi il 16 giugno 1977 (Foto: Archives Ouest-France)

Nel novembre 1975 viene convocato, su iniziativa del Cancelliere tedesco Helmut Schmidt e del Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, un incontro senza precedenti fra i Capi di Governo dei sei maggiori Paesi Occidentali (Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Giappone) per concordare strategie unitarie capaci di rifondare gli equilibri internazionali messi a dura prova dall’offensiva innescata dai paesi Arabi dell’OPEC con lo “shock petrolifero” . I rappresentanti di governo si riuniscono a Rambouillet, vicino a Parigi, e questo incontro viene subito definito dalla stampa internazionale Group of Six (G6). In realtà, in questo primo vertice si confrontano orientamenti di politica economica e visioni del modello capitalistico profondamente divergenti: i paesi europei e la Germania insistono sull’attuazione di una politica deflattiva per contenere un’inflazione ormai galoppante e auspicano, contestualmente, una ripresa del sistema monetario a cambi fissi, sotto il controllo della Federal Reserve. Assolutamente contrari invece a una politica deflattiva sono gli Stati Uniti, che cercano di scongiurare i costi sociali derivanti da eventuali aumenti delle imposte o da tagli alla spesa pubblica ed optano per una politica economica di ri-conquista dei mercati esteri, tramite un rilancio delle esportazioni favorito dai prezzi bassi conseguenti alla svalutazione del dollaro. Lo scopo prioritario della politica economica degli USA si proietta verso una liberalizzazione dei mercati internazionali. Al contrario il Giappone, che attraversa una fase di sviluppo fondata essenzialmente sulle esportazioni, cerca di contrastare con ogni mezzo un’eccessiva svalutazione del dollaro e, di conseguenza, protegge il proprio mercato interno dalle importazioni straniere. A livello di sistema monetario dunque, il G6 si risolve in un nulla di fatto, facendo registrare divergenze profonde fra capitalismi nazionali diversi e improntati a filosofie di sviluppo e a politiche economiche differenti. Né ottenne qualche risultato la proposta di Henry Kissinger di rompere il fronte dei paesi produttori di petrolio creando un asse privilegiato con l’Iran il quale, peraltro, di lì a poco sarebbe stato investito dalla rivoluzione Khomeinista che avrebbe spazzato via ogni possibile alleanza con l’Occidente industrializzato e avrebbe provocato nel 1979 – anche a causa della guerra con l’Iraq di Saddam Hussein – un secondo shock petrolifero. Questo vertice di fatto rese evidente la profondità della crisi che negli anni Settanta aveva investito il sistema dei rapporti economici e politici internazionali, così come si era andato consolidando e stabilizzando nei decenni precedenti. Tuttavia, inaugurando una prassi che verrà replicata negli anni successivi – quella di promuovere incontri al vertice dei Capi di Stato dei maggiori paesi occidentali – questo G6 si può interpretare come un primo tentativo di ricerca di nuovi assetti nei rapporti fra stati e nelle relazioni economiche e produttive fra l’Occidente e il resto del mondo.

Guerra, economia di Misure di politica economica adottate dai vari governi al fine di adeguare il sistema economico nazionale alle esigenze che derivano dalla partecipazione dello Stato a un evento bellico.

Economia di guerra

1914 circa: una donna al lavoro in una fabbrica d’armi (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

Uno Stato in guerra ha necessità di adeguare e riconvertire il proprio sistema produttivo per garantire, da un lato, il rifornimento di materiale bellico, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti e dall’altro un livello produttivo di beni di consumo che assicuri l’approvvigionamento della popolazione. Poiché i beni di consumo primari destinati alla popolazione non possono superare un determinato livello per non compromettere la capacità produttiva di materiale bellico, il problema più rilevante diventa quello di comprimerli e indirizzare la capacità d’acquisto delle famiglie verso altri impieghi. Tuttavia, questa manovra è resa difficile dal fatto che nel corso degli eventi bellici, data la scarsità di manodopera disponibile, si raggiunge una situazione di piena occupazione con l’afflusso di un reddito maggiore alle famiglie, rispetto al tempo di pace, che tuttavia non può essere utilizzato per l’acquisto di beni di consumo. L’introduzione di politiche di razionamento dei beni è adottata dai vari governi nazionali proprio per rispondere alla spinta inflazionistica originata da un eccesso della domanda di beni e servizi in rapporto alla loro offerta. Un altro strumento spesso utilizzato per assorbire l’eccessiva capacità di spesa delle famiglie è rappresentato dall’emissione di titoli di Stato che permette di limitare la quantità di moneta in circolazione. Tale manovra pone, tuttavia, dei seri problemi al termine degli eventi bellici quando lo Stato deve provvedere al rimborso dei titoli senza poter contare su adeguate riserve monetarie e con il rischio di provocare fenomeni inflazionistici, qualora provveda al rimborso mediante l’emissione di banconote.

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Hedge funds Denominati anche “fondi speculativi”, sono investimenti che vengono effettuati per coprire altri investimenti, mediante operazioni finanziarie tecnicamente complesse. In genere si tratta di fondi comuni amministrati da una società di gestione professionale e hanno l’obiettivo di produrre rendimenti mediante investimenti ad alto rischio finanziario, che quindi possono portare a perdite consistenti ma anche a ritorni molto fruttuosi. Un’altra loro caratteristica è la bassa correlazione rispetto ai mercati di riferimento, per cui sono generalmente sganciati dall’andamento complessivo dell’economia. Nati nel secondo dopoguerra, gli hedge funds furono a lungo di scarso interesse per gli investitori, per via della loro aleatorietà, finché nel 1997 i matematici Myron Scholes e Robert Merton non furono insigniti del premio Nobel per averne messo a punto uno che in due anni era cresciuto dell’80%, salvo poi precipitare successivamente fin verso il quasi azzeramento della liquidità. Gli hedge funds sono diventati un simbolo della crisi del 2008, in quanto forma di investimento speculativa, completamente scissa dal contesto produttivo e che rimanda idealmente allo strapotere delle lobby finanziarie in materia economica. Allettate dalle grandi possibilità di guadagno offerte da questi fondi, varie imprese di medie e grandi dimensioni hanno optato per ampliare il proprio portafoglio con titoli di questo genere, anziché investire in innovazione o comunque nel proprio core-business. La crisi finanziaria originata dalla vaporizzazione di alcuni hedge funds si è quindi rapidamente ripercossa sull’ambito produttivo vero e proprio.

Helsinki, Conferenza di – (1975)

Il cancelliere della Repubblica fedeale Helmut Schmidt (a destra) e il presidente del Consiglio di Stato della DDR Erich Honecker (a sinistra) alla conferenza di Helsinki del 1975. Attribuzione: Bundesarchiv, Bild 146-1990-009-13 / CC-BY-SA

Il cancelliere della Repubblica fedeale Helmut Schmidt (a destra) e il presidente del Consiglio di Stato della DDR Erich Honecker (a sinistra) alla conferenza di Helsinki del 1975. Attribuzione: Bundesarchiv, Bild 146-1990-009-13 / CC-BY-SA

Una conseguenza diretta della convergenza realistica in politica estera fra USA e URSS dei primi Anna Settanta e del relativo periodo di maggiore distensione vissuto tra Occidente e campo socialista è l’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE) approvato a Helsinki il primo aprile 1975. In cambio del riconoscimento definitivo dello status quo europeo, compresi i territori e i confini all’interno dell’Europa Orientale, l’URSS s’impegna, alla stregua dei paesi occidentali, a rispettare i diritti umani e la libera circolazione delle idee e degli uomini. Le rispettive politiche estere sembrano ormai dettate più che da ideologie universalistiche dall’interesse a ridare slancio allo sviluppo economico all’interno di sistemi che rifuggono dalla forza per garantire il loro espansionismo. E’ proprio a partire dalla Conferenza di Helsinki del 1975 che si avvia un fenomeno di lunga durata e di grande impatto socio-politico e culturale: una grande ripresa del tema dei diritti umani.

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Inflazione/Deflazione Con il termine inflazione si indica un aumento progressivo del livello dei prezzi, in genere accompagnato ad una perdita del potere di acquisto delle retribuzioni. Se l’inflazione è costante nel tempo e di pochi punti percentuali è definita strisciante, mentre se è caratterizzata da veri e propri picchi è chiamata galoppante. In pochi casi storici, l’aumento dei prezzi è stato così esorbitante da prendere il nome di iperinflazione; quello più noto si verificò nel 1923 nella repubblica di Weimar ed ebbe una gravità tale da portare al sostanziale azzeramento del valore della moneta e, dunque, dei risparmi. Le cause dell’inflazione possono essere molteplici e non c’è una concordanza di fondo tra economisti di scuole differenti. I sostenitori della teoria monetarista imputano il fenomeno all’aumento della quantità di valuta in circolazione, i keynesiani, invece, all’eccesso della domanda globale sull’offerta globale in una situazione di piena occupazione, altri, infine, all’aumento dei costi di produzione o del costo del lavoro. Ad ogni modo, l’impatto dell’inflazione è generalmente considerato negativo, perché porta ad un deprezzamento della moneta, alla diminuzione del potere d’acquisto e al calo di competitività dell’export. Dagli anni Novanta, si è osservata una significativa convergenza fra i tassi d’inflazione nelle diverse aree geografiche. Questa tendenza è riconducibile a un complesso insieme di fattori. Il principale è imputabile alle politiche fiscali e monetarie meno inflazionistiche che in passato per cui gran parte delle banche centrali ha fatto del controllo dell’inflazione una delle proprie priorità e ha operato avendo come obiettivo primario la stabilità dei prezzi.

Il fenomeno opposto, invece, prende il nome di deflazione; è contraddistinto da una contrazione dei prezzi ed è quasi sempre correlato ad una congiuntura economica negativa, quindi di stagnazione o di recessione vera e propria. Se dopo il calo dei prezzi si ha un rilancio dell’economia in grado di invertire la tendenza, si parla allora di reflazione.

Informatizzazione – rivoluzione informatica Si può definire questo processo di informatizzazione una vera e propria rivoluzione per la velocità esponenziale della sua diffusione, per la profondità dei cambiamenti indotti nelle comunicazioni, nella trasmissione delle informazioni in settori economici fondamentali quali quello industriale e commerciale e soprattutto nel terziario, per l’irreversibilità delle trasformazioni provocate nel sistema produttivo, nel tessuto sociale e culturale di comunità, anche molto diverse fra loro, e per la penetrazione massiccia e capillare in società e sistemi in ogni parte del mondo. L’analisi di questo fenomeno ha prodotto teorie secondo le quali la società industriale fondata sul lavoro cede il passo ad una società “postmoderna” basata sull’informazione e sulla conoscenza. In realtà all’interno delle teorie della globalizzazione un posto fondamentale è riservato proprio all’informatizzazione come fattore determinante per la “mondializzazione” di tutti i processi e la forte interconnessione di paesi, società economie e culture. Marshall McLuhan per primo definisce il nostro pianeta “un villaggio globale” nel quale “i frammenti meccanizzati” della precedente “civiltà specialistica” si riorganizzano e si strutturano “in un tutto organizzato”. Marcello Flores afferma che “alla base di questo processo sta la pervasività e rapidità con cui le innovazioni tecnologiche nel campo dell’informazione si affermano, progrediscono, innestano ulteriori trasformazioni: trovando nel campo della comunicazione l’ambito di maggiore visibilità, il terreno in cui si compie una vera e propria rivoluzione” (M. Flores, Il Secolo-Mondo. Storia del Novecento”, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 475).

Altair 8800 Computer with 8 inch floppy disk system

Altair 8800 (sopra) con l’unità floppy disk da 8 pollici (sotto)

Il punto di partenza simbolico di tale rivoluzione può essere collocato nel 1975 quando entra in commercio negli USA il primo Personal Computer (Pc) denominato Altair 8800. Fino a quel momento, i calcolatori erano macchine costose e di grandi dimensioni che, per gli elevati costi, potevano essere impiegate solo da Agenzie Governative, Università, Centri di Ricerca o grandi imprese. Altair invece viene immesso sul mercato in scatola di assemblaggio, per 400 dollari e si diffonde subito in modo massiccio nelle comunità di giovani che si considerano gli eredi della precedente rivoluzione giovanile del Sessantotto. All’interno di queste comunità anticonformiste, come la Home Brew Computer Club nella Silicon Valley, seguendo gli ideali di una libera circolazione e di un libero uso delle nuove tecnologie, muovono i primi passi giovani inventori come Steve Jobs e Steve Wozniak, che nel 1977 mettono a punto Apple II, il progenitore di Macintosh: un personal computer in grado di scrivere, comporre immagini ed immagazzinare dati in memoria, utilizzando codici digitali. Nel 1976 uno di questi giovani, Bill Gates, rifiutando la logica del no profit, fonda una società per elaborare programmi in codice per i nuovi computer: la Microsoft, che nel 1981 stipula un accordo con l’IBM per realizzare il linguaggio dei suoi Pc. I computer hanno avuto un’enorme diffusione modificando radicalmente le modalità di archiviazione ed elaborazione delle informazioni per la velocità, la potenza e la capacità di memorizzazione degli elaboratori elettronici. Negli anni Novanta si verifica un’altra tappa di questa rivoluzione informatica: la diffusione della rete internet. Internet ha collegato tra loro un numero crescente di computer, rendendo accessibili gigantesche quantità di dati in tempo reale. I diversi media sono stati infine collegati ed è nata la cosiddetta telematica, termine che indica appunto un insieme integrato di telefonia, Tv e Computer. Ancora Marcello Flores osserva: “La diffusione quantitativa del nuovo sistema dei media, al cui centro rimane una televisione che si modifica e si aggiorna in continuazione, favorisce il superamento di temporalità nettamente separate e la convergenza delle diverse esperienze di tempo in una sorta di presente continuo, caratterizzato da un flusso ininterrotto di informazioni permanentemente accessibili da ogni parte del mondo” (ivi, p. 477)

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Mercantilismo Dottrina economica elaborata in Europa alla fine del XVI secolo e prevalente dal XVI al XVIII secolo come sistema di politica economica delle grandi monarchie assolute.

Seaport: Claude Lorrain, 1638

Seaport: Claude Lorrain, 1638. Quadro di Le Lorrain che raffigura un porto francese nel 1638, nel momento culmine del mercantilismo.

Obiettivo dell’intervento è l’arricchimento dello stato, come condizione essenziale per la sua difesa ed espansione territoriale in un mondo in cui le guerre sono divenute sempre più costose. Suggerendo l’opportunità di un più organico intervento statale nell’economia, si tende a consolidare l’unità statale e a incrementarne la ricchezza per accrescere la forza dello Stato nei suoi rapporti con l’estero. La ricchezza è in prima istanza identificata con la quantità di metalli preziosi (oro e argento) esistente all’interno dei confini e lo strumento essenziale per accrescere lo stock di metalli era ritenuto la creazione di un saldo attivo della bilancia commerciale, che per definizione avrebbe dovuto essere pagato dai partner commerciali in moneta metallica. Per conseguire tale attivo sono adottate in primo luogo misure di controllo degli scambi: restrizioni delle importazioni (soprattutto di manufatti) e incentivazione delle esportazioni. In secondo luogo, i paesi mercantilisti tentano con molti mezzi di sviluppare la produzione nazionale (specialmente di manufatti) per sostituire le importazioni e garantire l’offerta di beni da esportare. Tipico è il ricorso alla concessione di monopoli temporanei (privative) per la produzione di determinati beni e/o l’applicazione di determinati processi produttivi. Molti paesi tentano, con vari incentivi, di favorire l’immigrazione di manodopera, soprattutto specializzata, dall’estero e, con pene severe, di impedire l’emigrazione di quella nazionale. Tale approccio si rivela oggi inefficace, poiché nella maggior parte dei casi le politiche mercantiliste e dirigistiche danneggiano l’economia e solo in alcuni casi svolgono un limitato ruolo di stimolo per lo sviluppo economico. Ciò non toglie che in passato abbiano invece avuto esiti molto più convincenti.

Monopolio Forma di mercato in cui un determinato prodotto, bene o servizio, è offerto da una sola impresa che può influenzare unilateralmente il prezzo di vendita, modificando a proprio piacimento la quantità offerta. Il monopolista, essendo al riparo dalla concorrenza proveniente da altre imprese, è infatti libero di alzare i prezzi e non è costretto a mantenere bassi i costi; per questo motivo, le posizioni di monopolio sono oggetto di controllo antitrust, o antimonopolio, e vengono contrastate da un complesso di norme giuridiche poste a tutela della concorrenza sui mercati economici. Il monopolio pubblico è riconducibile a uno strumento giuridico attraverso il quale la legge riserva, in via esclusiva, a un soggetto o ente pubblico l’esercizio di una determinata attività economica al fine di una più efficiente realizzazione dell’interesse generale. Nell’ampia categoria dei monopoli pubblici rientrano anche quelli di Stato, che riguardano la produzione, l’importazione e la vendita di determinati prodotti, dei quali lo Stato si è riservato l’esclusiva per motivi tributari.

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Neoliberismo Concezione politico-economica che mira alla deregolamentazione e alla riduzione del peso dello stato nell’economia pubblica. Teorizzato da vari economisti, fra i quali si ricorda Friedrich von Hayek, fu meglio messo a punto da Milton Friedmam e dalla scuola di Chicago, principale consulente in materia economica del Cile di Pinochet. Successivamente fu propugnato in Gran Bretagna da Margaret Thatcher, che guida la vittoria del partito conservatore negli Anni Ottanta. Il neoliberismo sostiene che lo stato deve astenersi da interventi in campo economico e deve limitarsi a governare l’offerta di moneta e ad equilibrare i bilanci, liberando l’attività imprenditoriale dalle strettoie burocratiche senza interferire con il mercato. Si concretizza in una serie di privatizzazioni di imprese statali (le aziende dei telefoni e dei trasporti) e nella riduzione della presenza pubblica nei settori tradizionali della sanità, delle pensioni, dell’istruzione. Il rilancio dell’individualismo, prevalentemente sotto il segno di un consumismo elitario, è il risultato più stabile sul piano ideologico, cui si accompagna una frontale contrapposizione al sindacato, ritenuto il principale responsabile della deriva inflazionistica e della crescita della spesa pubblica. La priorità assegnata al mercato, nella sfera dell’economia, che si accompagna ad una accentuazione delle disuguaglianze sociali e ad un ampliamento delle disparità salariali, ha come contropartita il rafforzamento dell’autorità dello stato. Nazionalismo e individualismo, autorità dello stato e crescita dei profitti privati sono gli ” ingredienti ” principali di una ” Rivoluzione Conservatrice” che provoca trasformazioni importanti, ma la cui radicalità è più forte sul piano ideologico e sul sistema dei valori che trasmette e su cui ottiene consenso.

New Deal Programma di politica economica interna (“nuovo corso, nuovo indirizzo”) attuato negli Stati Uniti dal neoeletto presidente Franklin Delano Roosevelt dal 1933 al 1939 per porre rimedio ai disastrosi effetti della grande depressione, che tra il 1929 e il 1932 aveva investito dapprima il sistema capitalistico statunitense per estendersi poi rapidamente anche in Europa, e per promuovere la riforma dell’intero sistema economico, in modo da permettere una più equa distribuzione della ricchezza e una maggiore stabilità.

14 Agosto 1935: il Presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt firma il Social Security Act

14 Agosto 1935: il Presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt firma il Social Security Act

Il N.D. puntava a rompere il circolo vizioso della recessione di domanda-produzione-salari-domanda partendo dal presupposto che questo potesse avvenire solo grazie a una forte accentuazione dell’intervento dello Stato nell’economia, senza peraltro giungere a compromettere i principi fondamentali del sistema capitalistico: un principio generale che trovò nel 1936 la sua definitiva consacrazione teorica da parte dell’economista inglese J.M. Keynes. Furono quindi adottate misure a sostegno della domanda delle masse popolari e dei ceti più deboli e normative volte a limitare gli effetti negativi e le forme estreme di capitalismo oligopolistico e finanziario-speculativo. Furono prese misure contro la povertà e a difesa dell’occupazione, come la settimana lavorativa di 40 ore, la garanzia di minimi salariali, un vasto programma di opere pubbliche. Furono inoltre varate una legge limitativa del potere dei trust, una ristrutturazione del sistema creditizio, una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale che garantì la pensione di vecchiaia alla maggior parte dei lavoratori. Il programma, che mirava a realizzare forme di economia diretta e socializzata, incontrò notevoli resistenze. La Corte Suprema espresse giudizio di incostituzionalità su due delle principali disposizioni, il National Industrial Recovery Act (NIRA) nel 1935 e l’Agricultural Adjustment Act (AAA) nel 1936, ma tutte le opposizioni furono superate, grazie anche a un grande sviluppo del movimento sindacale che, soprattutto dopo la nascita nel 1935 del Committee for industrial organization (CIO), fornì un energico appoggio al “nuovo corso” di Roosevelt. Il N.D. ottenne importanti successi riuscendo a ridurre la disoccupazione di oltre il 50% e rimettendo in movimento l’economia americana sulla base di una nuova consapevolezza del ruolo dell’intervento pubblico nell’economia capitalistica, anche se il Paese uscì dalla depressione economica solamente con lo sviluppo della produzione bellica durante la Seconda guerra mondiale.

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Obbligazioni Uno dei principali strumenti d’investimento di facile accesso per tutti i risparmiatori, insieme alle azioni. Un’obbligazione è un titolo di credito al portatore: acquistandone una, l’investitore presta dei soldi all’emittente, che si impegna a restituire il capitale e gli interessi entro la scadenza prevista dal contratto. Nella maggior parte dei casi, la rendita viene corrisposta periodicamente nel corso di tutta la sua durata; queste “rate” vengono dette “cedole”, un termine che deriva dall’ormai desueta usanza di staccare un tagliando al momento del pagamento. Le obbligazioni possono essere messe in vendita da enti pubblici, da banche, da aziende private o da istituzioni sovranazionali. Gli elementi essenziali di un’obbligazione, dunque, sono il suo valore nominale, l’ente emittente, la durata, la cedola, il prezzo di mercato, la liquidità, le eventuali garanzie a tutela del credito e le opzioni aggiuntive che possono essere inserite con warrant e opzioni. Tutti questi elementi dovrebbero essere presi in considerazione al momento dell’investimento, per poter scegliere con cura l’obbligazione che offre il giusto rapporto tra rendimento e rischio in relazione alle aspettative del risparmiatore.

OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries)

Bandiera dell'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio

Bandiera dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio

Cartello dei paesi produttori di Petrolio che risolvono di prendere il controllo della produzione del greggio e della gestione dei prezzi per le esportazioni dai loro paesi. A seguito della Guerra del Kippur questo nuovo soggetto politico irrompe sulla scena politica internazionale perché nel 1973 le loro decisioni sono per lo più finalizzate a danneggiare l’economia dei paesi filo-israeliani e dunque il prezzo del petrolio risulta quadruplicato. La forza contrattuale dei paesi arabi è accresciuta, le risorse provenienti dalla vendita del petrolio aumentano concretamente le loro possibilità di sviluppo e i loro legami con le industrie dei paesi avanzati; ma l’offensiva dell’OPEC si risolve ugualmente in un nulla di fatto. Una pace stabile nel Medio Oriente rimane lontana: i superprofitti realizzati dagli stati arabi non mettono in moto progressi socio-economici rilevanti o significativi; il divario che separa i paesi poveri non produttori di petrolio dal resto del mondo si accentua e si aggrava. In sintesi nemmeno l’arma del petrolio riesce di fatto a spezzare l’equilibrio bipolare del mondo.

Ostpolitik

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Il Cancelliere tedesco Willy Brandt con il Presidente degli USA Richard Nixon nel 1970

Si definisce con questo termine un nuovo corso della politica estera europea, agli inizi degli anni Settanta. La Germania di Willy Brandt e altri paesi occidentali aprono un fitto dialogo con le cosiddette democrazie popolari e comincia a delinearsi “dall’Atlantico agli Urali” il progetto unitario di un’autonomia – ancora relativa perché relegata al piano diplomatico – dal blocco contrapposto Usa-URSS. In particolare sono fissati alcuni principi fondamentali fra i quali: l’inviolabilità dei confini, la non-ingerenza negli affari interni, la rinuncia all’uso della forza nelle controversie internazionali. Questa politica estera autonoma, inaugurata dal Cancelliere tedesco Brandt, è tuttavia la premessa fondamentale dell’atto finale della Conferenza di Helsinki, quando 33 paesi europei dell’Est e dell’Ovest sottoscrivono una serie di principi comuni, di cui sopra si sono ricordati soltanto i principali. La Ostpolitik segnala anche un ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti come nazione-guida dovuto anche alla sospensione della convertibilità del dollaro, alla conseguente sua forte svalutazione, all’adozione di politiche protezionistiche e ad una chiara e precisa volontà politica europea di essere un soggetto politico autonomo e non il semplice teatro di scontro della Guerra Fredda.

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Pareggio di bilancio La condizione contabile di un ente economico che si verifica quando, nel corso di un anno, le uscite finanziarie sostenute eguagliano le entrate conseguite, evitando situazioni di deficit e indebitamento. Nell’ambito della contabilità di Stato il pareggio di bilancio comporta un equilibrio fra l’ammontare delle spese pubbliche sostenute dallo Stato e dagli altri enti pubblici e quello delle entrate; in questo modo lo Stato evita di incorrere nell’indebitamento, ossia nel deficit di bilancio pubblico. L’ammontare complessivo dei disavanzi pubblici accumulati ogni anno comporta la formazione del debito pubblico. Nell’Italia degli anni settanta dell’Ottocento, il ministro delle finanze Quintino Sella si pose l’ambizioso obiettivo di raggiungere il pareggio del bilancio, come effettivamente avvenne nel 1875, quando era stato avvicendato nella medesima funzione da Marco Minghetti. La cultura liberale di quegli anni percepiva tutto ciò come una scelta virtuosa, senza considerare l’incidenza negativa sui consumi e sullo sviluppo economico. Questi aspetti sarebbero stati poi messi in luce da John M. Keynes, principalmente dopo la crisi del ’29. Più di recente, l’idea di un contenimento dei deficit è tornata d’attualità. Nell’Unione Europea il vincolo del pareggio di bilancio è uno dei parametri fissati all’interno del Patto di bilancio europeo, un accordo approvato il 2 marzo 2012 e sottoscritto da 25 dei 27 stati membri dell’Unione europea. In Italia, con la legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1 il parlamento nazionale ha introdotto un principio nell’ordinamento giuridico italiano secondo il quale tutte le amministrazioni pubbliche devono assicurare l’equilibrio tra entrate e spese del bilancio e la sostenibilità del debito, nell’osservanza delle regole dell’Unione europea in materia economico-finanziaria.

Piano Marshall Progetto di aiuti economici per la ricostruzione dei Paesi europei devastati dalla Seconda guerra mondiale, messo in atto dagli Stati Uniti e conosciuto anche sotto la sigla ERP, European Recovery Program.

George Catlett Marshall ritratto durante l'incarico di Capo di stato maggiore dell'esercito degli U.S.A. (1 Settembre 1939-18 Novembre 1945) - Foto  dell'US Army's Center of Military History

George Catlett Marshall ritratto durante l’incarico di Capo di stato maggiore dell’esercito degli U.S.A. (1 September 1939-18 November 1945) – Foto dell’US Army’s Center of Military History

Il 5 giugno 1947, all’Università di Harvard, il segretario di Stato statunitense George Catlett Marshall annuncia la decisione del Paese di intraprendere il piano che da lui prende il nome e invita i paesi europei a presentare un programma di ricostruzione economica che gli Stati Uniti si impegnano a finanziare. La proposta intende favorire, con reciproco vantaggio, una strategia effettiva per promuovere la ripresa economica del continente europeo e, in particolare, la ripresa degli scambi commerciali nei paesi colpiti dal secondo conflitto mondiale; tende inoltre all’obiettivo di porre un freno alla minaccia rappresentata dall’espansione sovietica. Inizialmente pensato per l’URSS e per i Paesi dell’Europa orientale, il piano di aiuti si avvia nella primavera del 1948 limitatamente ai Paesi dell’Europa occidentale e alla Germania Ovest, dato il rifiuto sovietico, e si conclude formalmente nel giugno 1952. Il piano, che sotto il profilo quantitativo comporta uno stanziamento di 17 miliardi di dollari erogati nell’arco di un quadriennio, riesce a realizzare molti dei suoi obiettivi, in particolare a favore del rilancio dell’iniziativa imprenditoriale, del consolidamento di una logica concorrenziale, dell’apertura commerciale, nonché della promozione dell’integrazione tra le economie europee. In Italia, i fondi sono utilizzati, più che in impieghi direttamente produttivi, per far fronte al forte disavanzo della bilancia commerciale e di quella dei pagamenti. Sul piano geo-politico ha avuto una chiara funzione anticomunista.

Prodotto Nazionale Lordo (PNL) È il valore monetario di tutti i beni e servizi finali prodotti da un paese in un determinato periodo. Il PNL si ottiene dal PIL (Prodotto Interno Lordo), cioè dal risultato finale dell’attività produttiva dei residenti di un Paese in un dato periodo, aggiungendovi il reddito percepito da soggetti residenti nel paese per investimenti all’estero ed escludendo la produzione all’interno del Paese da parte degli operatori esteri. Quindi, per meglio specificare, il PNL si differenzia dal PIL per il fatto che si configura come un aggregato nazionale e non interno, dunque sono prese in considerazione le attività delle imprese nazionali che operano fuori dal paese con l’ammontare di redditi che queste imprese o i loro dipendenti versano nel paese, mentre non è contabilizzata l’attività delle imprese straniere che operano sul territorio interno, almeno per la parte di questa attività che genera versamenti di reddito all’estero.

Protezionismo Teoria e indirizzo di politica economica tesi a proteggere le attività produttive nazionali dalla concorrenza estera mediante interventi economici statali che ostacolano o impediscono la circolazione di prodotti stranieri sul mercato nazionale attraverso dazi e altri strumenti: divieti, ostacoli all’esportazione di materie prime che possano essere utilizzate da industrie nazionali, facilitazioni e franchigie all’importazione di materie prime e semilavorati esteri, premi all’esportazione di prodotti nazionali. La pratica protezionistica commerciale ha come obiettivo l’aumento dell’esportazione e la diminuita dipendenza dalla produzione estera; la protezione dei settori industriali nascenti per impedirne il soffocamento da parte di economie estere più progredite; l’indipendenza economica in alcuni settori produttivi dello Stato che, tutelati e stimolati, progredirebbero nella ricerca di perfezionamenti tecnici industriali. Anche se nella storia economica dell’Occidente protezionismo e liberoscambismo si presentano intrecciati fra loro, è innegabile che per molti secoli la politica economica, in particolare quella commerciale, di tutti gli Stati rimane fondamentalmente ispirata al protezionismo. Le tendenze protezionistiche caratterizzano, infatti, l’economia europea e americana fino alla vigilia della Prima guerra mondiale e anche le guerre mondiali contribuiscono a favorire scelte protezionistiche, con l’imposizione di dazi alla cui ombra si sviluppano nuove industrie. La Prima guerra mondiale dà grande impulso al protezionismo, costringendo a moltiplicare gli ostacoli al commercio internazionale e accrescendo l’intervento dello Stato; il dopoguerra non permette il ritorno alla collaborazione internazionale precedente, anzi si accentuano alcuni orientamenti autarchici e il protezionismo si rafforza nel periodo tra le due guerre quando la crisi di Wall Street nel 1929 spinge le singole economie nazionali a una rigida chiusura che nell’Italia fascista prende le forme dell’autarchia. La grande depressione del 1929-32 determina nuovi e maggiori interventi dello Stato a sostegno delle attività produttive e la Seconda guerra mondiale accentua ulteriormente il carattere protezionistico e interventistico della politica economica in tutti i Paesi. Dagli anni Settanta, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973-74, la difficile congiuntura economica ha spinto i Paesi, nonostante il carattere di globalizzazione e di internazionalizzazione assunto dagli scambi mondiali, a chiudersi in un atteggiamento più protezionista che si è spesso manifestato nella forma di barriere non tariffarie.

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Rating, società di – Dette anche “agenzie di rating“, sono organizzazioni che si incaricano di valutare i rischi dei vari investimenti, attribuendo a ciascuno di essi un voto (quasi sempre espresso in lettere e altri simboli, come AAA, BB+, ecc.). In pratica, viene valutato il grado di affidabilità e solidità finanziaria di una società o di uno stato sovrano, per cui si intende dare un giudizio al cosiddetto merito di credito, cioè alla capacità di rimborsare tempestivamente i propri debiti. Quindi, se una società di rating attribuisce il voto AA+ all’Italia significa che reputa il paese in grado di far fronte al proprio debito pubblico, e dunque giudica essenzialmente privo di rischi l’acquisto di titoli di stato come i btp o i bot. Viceversa, se il voto è CCC significa che l’Italia viene giudicata in forte difficoltà e a rischio di insolvenza o addirittura di fallimento. Il giudizio, naturalmente, ha un forte impatto sugli investitori, che nel primo caso sono incoraggiati a comprare i titoli di stato, mentre nel secondo sono invitati alla prudenza. Dunque, in conseguenza di quest’ultima eventualità, lo stato italiano dovrà alzare i tassi di interesse (cioè incrementare i propri oneri in termini di rendita dei titoli di stato) per invogliare gli investitori ad acquistate btp e bot, per la regola secondo la quale più un investimento è rischioso, più deve essere redditizio. A livello mondiale, tre grandi società di rating oligopolizzano il mercato: Moody’s, Fitch e Standard&Poor’s, tutte e tre nate negli Stati Uniti rispettivamente nel 1909, nel 1913 e nel 1941. Il loro ruolo è stato storicamente importante per combattere le cosiddette asimmetrie informative, cioè la presenza di operatori sul mercato degli investimenti che avevano più informazioni di altri, e che quindi potevano trovarsi in una posizione di vantaggio. Attraverso le società di rating, invece, gli investitori si sono potuti affidare ai giudizi emessi da queste agenzie per decidere quali titoli comprare e in che misura, a seconda della propria predisposizione al rischio. Data la delicatezza di questa funzione di carattere pubblico, le società di rating sono soggette a forme di vigilanza. Tuttavia, anche prima della crisi del 2008, le agenzie di rating erano state investite da pesanti accuse, che traevano tutte origine dalla constatazione del fatto che si trovavano in una evidente posizione di conflitto di interessi. Infatti, oltre alla funzione di valutazione, erano esse stesse proponitrici indirette di forme di investimento, in quanto collegate a gruppi finanziari multinazionali. Così come in molti nutrivano sospetti sui rapporti tra valutatore e valutato, con quest’ultimo in grado di “comprare” un giudizio positivo per i propri prodotti finanziari. Nel 2003, il crack Parmalat – il più grande scandalo di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio perpetrato da una società privata in Europa – era reso ancor più sbalorditivo dal giudizio positivo di Standard & Poor’s nei confronti di questa società agroalimentare. Ma soprattutto, è stata la crisi del 2008 a sottolineare tutti i limiti della società di rating, ree di aver assegnato la tripla A (cioè il voto massimo) a società poi fallite (come Lehman Brothers) e a prodotti finanziari poi rivelatisi “spazzatura” (come i mutui subprime). Ciò non solo ha parzialmente screditato questi sistemi di valutazione, ma ha anche prodotto l’apertura di varie inchieste per accertare ipotesi di reato da parte delle principali agenzie di rating.

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SALT (strategic armaments limitation talks), I e II

Ford e Brehznev November 1974

24 novembre 1974: Il Presidente degli USA Gerald Ford (a sinistra) e il Segretario generale dell’URSS Leonid Brezhnev firmano un comunicato congiunto in seguito ai colloqui denominati SALT I, nella sala conferenze dell’Okeansky Sanitarium, a Vladivostok.

Il SALT I, stipulato nel maggio 1972, è un trattato USA-URSS per contenere le spese militari e ridurre gli armamenti strategici. Prevede la definizione di un periodo preciso – cinque anni – di blocco degli arsenali nucleari delle due superpotenze. Dopo un preambolo, che richiamava le ragioni della coesistenza pacifica, questo trattato prevede degli accordi fondamentali per la riduzione degli armamenti strategici ed anche una serie di accordi minori, fra i quali uno per assicurare la fornitura di grano statunitense all’URSS. Nel novembre 1974 un nuovo trattato, il SALT II, perfeziona i termini dell’accordo fissando il principio dell’uguaglianza concordata dei rispettivi armamenti. I colloqui per il SALT II, iniziati a Vladivostock nel 1974 fra Ford e Brežnev, si concludono nel 1979 con la firma del trattato, questa volta però ad opera di Carter e di Brežnev. Le trattative USA-URSS si protraggono, non solo per la difficoltà nel regolamentare le nuove armi messe a punto nel frattempo da entrambe la potenze (i missili americani cruise e il bombardiere sovietico backfire), ma anche per una forte virata nella politica estera sovietica impressa proprio da Brežnev che, volendo approfittare dell’indebolimento statunitense, cerca di modificare a favore dell’URSS i rapporti di forza internazionali dispiegando interventi sovietici diretti e massicci sia in Africa sia in Asia, cui gli USA non possono rispondere in modo adeguato per motivi di stabilità interna e per una minor forza internazionale.

Sgravi fiscali Esoneri, diminuzioni o agevolazioni d’imposta di cui possono usufruire determinate categorie di contribuenti; perciò gli sgravi fiscali assolvono una funzione, seppure indiretta, di finanziamento. Essi, infatti, consentono di stimolare la formazione del risparmio, di favorire nuovi investimenti e di incentivare l’occupazione e il consumo di determinati beni.

Società delle nazioni Organizzazione internazionale istituita dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale allo scopo di mantenere la pace – intesa soprattutto come conservazione dell’assetto politico-territoriale sancito dai trattati di pace – e sviluppare la cooperazione internazionale in campo economico e sociale.

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Cartolina commemorativa sulle origini della Società delle Nazioni (al centro il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson)

L’idea di creare un sistema politico e giuridico capace di prevenire i conflitti internazionali si afferma ad opera soprattutto del presidente statunitense T. W. Wilson, che si fa interprete delle tesi internazionaliste e pacifiste sostenute in particolare nei Paesi anglosassoni. Fondata nell’ambito della Conferenza di Pace di Parigi del 1919-1920 – formalmente il 28 giugno 1919 con la firma del Trattato di Versailles del 1919 – opera a partire dal 1920. Suoi principali organi sono l’Assemblea, costituita dai rappresentanti degli Stati membri; il Consiglio, inizialmente formato da 14 Stati, di cui 5 a titolo permanente; il Segretariato, con funzioni amministrative. Membri della Società delle Nazioni sono inizialmente gli Stati firmatari del Trattato di Versailles del 1919 con l’esclusione della Germania e degli Stati Uniti. La Germania inizialmente non è ammessa perché ritenuta non meritevole di tale riconoscimento politico e mancante di capacità diplomatiche essendo stata uno degli Stati responsabili dell’avvio della Prima guerra mondiale; gli Stati Uniti non diventano membro della Società perché non ratificarono il Trattato di Versailles del 1919. In base al Patto costitutivo gli Stati membri si impegnano a rispettare e mantenere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dei membri della Società contro ogni aggressione esterna e a non ricorrere alle armi in caso di controversie prima di avere esperito mezzi di soluzione pacifica, compreso il deferimento agli organi societari; per le violazioni è prevista l’applicazione di sanzioni economiche ed eventualmente militari, rispetto alle quali il Consiglio esercita un potere di raccomandazione. Per le sue debolezze intrinseche, in particolare dovute alla regola dell’unanimità e al predominio delle grandi potenze, la Società non sa fronteggiare le crisi internazionali che negli anni Trenta conducono allo scoppio della Seconda guerra mondiale e si scioglie il 19 aprile 1946 in seguito al fallimento rappresentato dalla Seconda guerra mondiale e all’entrata in vigore, nel 1945, dello statuto di un’organizzazione nata con identico scopo, l’ONU.

Sovrapproduzione Squilibrio tra offerta e domanda, derivante da un eccesso della prima sulla seconda. La sovrapproduzione porta a una discesa dei prezzi e alla difficoltà di vendere la merce ed è generalmente considerata una conseguenza dell’eccessivo investimento di capitale da parte dei produttori, ma può anche essere spiegata come risultato della limitata disponibilità di reddito da parte dei consumatori (nel secondo caso si parla più spesso di sottoconsumo). La prima grande crisi mondiale di sovrapproduzione è quella del 1873-1895; a differenza delle precedenti crisi economiche, dove si assiste a delle carestie con diminuzione dell’offerta e a un aumento dei prezzi per surplus di domanda, ci si trova di fronte ad un crollo dei prezzi. La Grande depressione è considerata il tipico esempio di crisi da sovrapproduzione in cui l’aumento della disoccupazione riduce la domanda e di conseguenza mette in crisi la produzione, generando nuovi disoccupati.

Spread In italiano tradotto a volte con “differenziale”, indica genericamente una distanza tra due valori, uno dei quali è assunto come riferimento. Nel corso della crisi del 2008, è diventata una delle parole chiave, in particolare nel corso del 2011 e in riferimento alla situazione italiana. Con il termine spread, infatti, si era soliti indicare la differenza di rendimento fra titoli di stato decennali italiani e quelli tedeschi, presi come parametro di riferimento. Se un buono del tesoro poliennale (btp) aveva un rendimento per il possessore del 6,3% annuo e il corrispettivo bundesanleihe tedesco del 4,1%, lo spread si attestava sui 220 punti [(6,3 – 4,1) x 100)]. Naturalmente, l’aumento dello spread indicava una crescente difficoltà dell’Italia a far fronte al proprio debito, in confronto al simmetrico onere della Germania. Dunque, lo spread divenne una sorta di indice per misurare la capacità dello stato di rifinanziare il proprio debito pubblico tramite l’emissione di nuovi titoli obbligazionari. Infatti, maggiore è lo spread, minore è questa capacità in virtù dei tassi di interesse più elevati, che possono portare il sistema a non essere più sostenibile. Nel giugno del 2011, lo spread si attestò attorno ai 200 punti, per salire a 350 ad inizio luglio e a 400 ad inizio agosto. L’intervento della Banca centrale europea (Bce) a comprare titoli di stato italiani scongiurò un innalzamento ulteriore nel mese di settembre. Ma si trattò di un palliativo, perché a novembre lo spread raggiunse il record dei 575 punti. In pratica, lo Stato era costretto a indebitarsi a tassi di interesse molto elevati, perché il rischio di insolvenza era notevolmente aumentato. In questo caso, come in altri analoghi, lo spread elevatissimo avrebbe potuto condurre al fallimento dello stato e quindi alla sua incapacità di far fronte alla propria funzione economica, dal pagare gli stipendi pubblici e le pensioni al fornire i servizi di welfare, dal saldare le spettanze delle aziende creditrici al garantire i risparmiatori in caso di fallimento bancario. Ecco perché, di fronte a questo rischio, le misure per portare alla riduzione dello spread sono generalmente varate anche se drastiche e impopolari. Nel caso italiano, il governo Monti ha optato per politiche di bilancio fortemente restrittive, con la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della tassazione a carico dei contribuenti. In pratica, di fronte all’elevato debito, si sono ridotte le uscite e implementate le entrate. Ciò ha effettivamente portato lo spread a scendere al di sotto del livello di guardia, ma ha acuito la crisi economica sul versante occupazionale e della produzione. Ossia, il taglio dei servizi e l’aumento delle tasse hanno impoverito le famiglie e ha diminuito i loro consumi. Questo si è negativamente ripercosso sulle imprese produttrici, che hanno risposto al calo della domanda ricorrendo alla cassa integrazione e al licenziamento, e si è così alimentata la spirale della recessione.

Stagflazione Stagnazione combinata ad un’irresistibile inflazione; segnale di una crisi economica dei paesi industrializzati destinata a durare a lungo, a incidere profondamente modificando i consumi, abitudini e la stessa qualità della vita delle popolazioni costrette, all’improvviso, a misurarsi con il ritorno di inaspettate emergenze che spesso hanno comportato, anche nel vissuto quotidiano, nuovi sacrifici e molte rinunce grandi e piccole. Congiuntura inedita e rovinosa per le economie occidentali dovuta ad un prolungato periodo di stagnazione accompagnato da inflazione. Seguita da forte disoccupazione come conseguenza diretta. I due meccanismi messi insieme ( alti tassi di disoccupazione + alti livelli inflattivi) condizionano, nella percezione collettiva, la gravità e l’intensità della crisi che è avvertita come tale soprattutto dalle classi medie, quelle cioè che vedono vacillare il proprio patrimonio che è costituito in genere da risparmi, da obbligazioni, da titoli, da case.. Pertanto è possibile affermare che è stata in gran parte una crisi delle classi medie, cioè di quei segmenti o parti della popolazione che avevano la speranza di continuare nella loro ascesa sociale e si trovavano bloccati immediatamente. In realtà, fu maggiore la percezione collettiva della crisi rispetto alla sua effettiva realtà e portata storico-sociale. Però corrisponde sicuramente a realtà il fatto che gli anni Settanta sono caratterizzati da un’inflazione che è la più alta dal dopoguerra ad oggi. Il declino comunque è forte ed è percepito come tale perché il confronto viene fatto immediatamente con gli anni Sessanta, i Formidabili Anni del boom economico. Per esemplificare: nel 1974, l’aumento medio dei prezzi al consumo nel paesi dell’OCSE è pari al 13% e in alcuni paesi, come la Gran Bretagna e l’Italia, sfiora il 20%. Questa impennata dei prezzi ha un effetto depressivo sulla domanda interna e sulla produzione industriale: il ritmo di crescita del prodotto nazionale lordo crolla dal 4,9% in media all’anno del 1950-73 al 2,2% in media all’anno nel 1974-83. L’inflazione dunque si accompagna ad una prolungata stagnazione delle economie occidentali: una congiuntura inedita e negativa per la quale gli economisti coniano il neologismo “stagflazione”. La stagflazione determina due fenomeni destinati a segnare in profondità i decenni successivi:

  1. L’inflazione abbassa il prezzo reale delle materie prime con drastico peggioramento delle ragioni di scambio sul mercato internazionale dei paesi in via di sviluppo, produttori di materie prime. Molte economie dei paesi più poveri ne sono seriamente danneggiate e il divario fra Nord e Sud del mondo si accentua.
  2. Contrazione dei posti di lavoro nell’industria, largamente compensata dallo sviluppo del Terziario e in particolare del settore dell’informazione.

Subprime, mutui – Detti più semplicemente subprime (ma chiamati anche b-paper, near-prime o second chance) sono prestiti concessi a un soggetto che in passato si è già dimostrato un debitore insolvente. Riguardano quasi esclusivamente il contesto statunitense, e rappresentano un mix ad alto rischio sia per il creditore che per il debitore. Infatti, mentre il primo corre il pericolo di non rientrare della cifra prestata, il secondo è vessato da elevati tassi di interesse per compensare la probabilità che si dimostri impossibilitato a pagare. Tuttavia, i mutui subprime considerano anche l’aspettativa di una crescita del valore dell’immobile, per cui – qualora la rata risulti eccessivamente onerosa – il debitore ha la possibilità, in ultima istanza, di vendere la residenza o di consegnarla all’erogatore del prestito, consentendo a quest’ultimo di rientrare della cifra sborsata. Inoltre, chi erogava i subprime spesso cedeva il credito a terzi, all’interno di prodotti finanziari compositi, che quasi sempre erano ad alto rischio e dunque ad elevato rendimento. In questa maniera si scaricava su altri soggetti – investitori istituzionali, banche e risparmiatori – il pericolo corso concedendo tali mutui.

Offerta mutui subprime nel 2008

Offerta di mutui subprime negli Stati Uniti (luglio 2008).Fonte: Profilo Flickr dell’autore Autore: The Truth About

La crisi del 2008 è iniziata proprio a seguito di un crack finanziario originato dai subprime nel corso del 2007, dovuta alla concomitanza di vari fattori, tra i quali se ne segnalano due. Innanzitutto, molti contraenti avevano scelto mutui a tasso variabile, effettivamente convenienti negli anni precedenti, che però produssero progressivamente rate con importi impossibili da soddisfare. Inoltre, scoppiò una bolla immobiliare, con un crollo importante dei prezzi delle abitazioni, e quindi, contrariamente a quanto era accaduto in passato, l’insolvenza dei contraenti non fu compensata dall’acquisizione dei loro immobili, perché questi si erano svalutati. A cascata, ciò ha provocato il crollo del valore di tutte quelle forme d’investimento che contenevano crediti legati ai subprime, tanto che queste vennero presto ribattezzate “titoli tossici”. Fu l’inizio della crisi, con il fallimento di varie banche, il salvataggio pubblico di molte altre, e la rovina economica di tantissimi piccoli risparmiatori; tutto ciò si ripercosse negativamente sull’economia reale, provocando una contrazione dei consumi e dunque dell’occupazione.

Surplus Eccedenza della produzione rispetto alla domanda. Nel linguaggio economico si riferisce a un eccesso di crediti sui debiti nella bilancia dei pagamenti (saldo attivo). Quando parliamo di surplus lordo o netto del consumatore ci riferiamo all’utilità derivante dal consumo di una determinata quantità di beni al lordo o al netto della somma spesa per l’acquisto dei beni; quando facciamo, invece, riferimento al surplus lordo o netto del produttore, indichiamo l’utilità derivante dalla produzione di una determinata quantità di beni al lordo o al netto del costo variabile sostenuto per la produzione dei beni. Nell’economia marxista il surplus è la fonte ultima del profitto capitalista e ha origine nel surplus di lavoro, cioè in quella quantità di lavoro svolta dal lavoratore in eccesso rispetto al lavoro necessario a produrre i mezzi di sussistenza per il lavoratore stesso. In tal senso, il surplus si identifica con un residuo da distribuire ai capitalisti che hanno anticipato le risorse produttive ed eventualmente ai lavoratori per un compenso (salario di surplus) in eccesso rispetto al valore della sussistenza.

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Tariffe protezionistiche Tariffe doganali imposte a merci provenienti dall’estero di cui si desidera disincentivare l’importazione per la concorrenza che creano sul mercato interno a materie prime o prodotti nazionali. Le tariffe protezionistiche sono di norma fissate autonomamente da un dato paese prescindendo da accordi e trattati commerciali internazionali.

Too big to fail La locuzione, traducibile in italiano con “troppo grande per fallire”, fa riferimento alla presenza di società – in primo luogo di carattere creditizio – che sono così cruciali nel sistema economico attuale che un loro ipotetico fallimento equivarrebbe ad una vera e propria catastrofe, per cui è compito della mano pubblica (cioè dello stato, o degli stati) farsi carico del loro eventuale risanamento. L’espressione venne certamente usata nel 1984 da un membro del congresso statunitense a proposito di una società di assicurazioni, ma è stato documentato come anche in precedenza vari giornali avessero usato questo modo di dire.

Dettaglio della locandina del film per la TV "Too big to fail" (2011, regia di C. Hanson, basato sul libro omonimo di Andrew Ross Sorkin)

Dettaglio della locandina del film per la TV “Too big to fail” (2011, regia di C. Hanson, basato sul libro omonimo di Andrew Ross Sorkin)

Ad ogni modo, too big to fail entrò a pieno titolo nella terminologia della crisi del 2008, a proposito del salvataggio pubblico di vari istituti di credito. L’espressione venne spesso impiegata in modo polemico, a indicare lo strapotere di alcune grandi organizzazioni, corresponsabili della crisi attraverso l’erogazione di mutui subprime o l’emissione di titoli tossici, e poi aiutate in maniera decisiva dallo Stato per evitare disastri ancora peggiori. In questo senso, too big to fail rimanda anche alla critica nei confronti di un sistema capitalista bravo sia a privatizzare i profitti che a socializzare le perdite. Nel 2011 il concetto è stato per così dire istituzionalizzato dalla stesura di un elenco di 29 banche e istituzioni finanziarie too big to fail. Il Systemically important financial institutions (Sifi) ha infatti indicato quelle società di “interesse sistemico”, il cui fallimento avrebbe effetti incontrollabili e certamente molto negativi sul sistema economico-finanziario nel suo complesso. Queste sono state quindi soggette ad una legislazione di tutela, con alcuni vincoli patrimoniali e di operatività, ma anche garantite dell’aiuto pubblico in caso di rischio di fallimento. Tra queste ricordiamo Bank of America, Bank of China, Barclays, Bnp Paribas, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche bank, Goldman Sachs, Jp Morgan Chase, Lloyds banking group, Morgan Stanley, Santander e – unica italiana – Unicredit group.

Troika Parola russa che significa “triumvirato”, impiegata in alcuni paesi del socialismo reale per indicare la struttura composta dal capo del Partito comunista, dal capo del governo e dal capo dello Stato. Negli anni dello stalinismo, poi, il termine è stato utilizzato per il triumvirato formato dal membro dell’Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni), dal membro dell’ufficio della procura e dal segretario locale del Partito comunista, che si occupava di sostituire la normale attività giudiziaria per reprimere in maniera più rapida ed efficace – e spesso arbitraria – le forme di dissidenza o presunte tali. In maniera ironica o polemica, durante la crisi del 2008 il termine troika è stato utilizzato, in primo luogo in ambito greco, per indicare la Banca centrale europea (Bce), il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Unione europea (Ue), ossia le tre istituzioni deputate a stabilire le condizioni del salvataggio dello stato ellenico, schiacciato dal suo debito sovrano. Siccome molte delle misure adottate furono ampiamente impopolari – dal licenziamento di molti dipendenti pubblici all’aumento delle tasse – e soprattutto furono scarsamente concertate con il governo greco, tali provvedimenti finirono per apparire come delle imposizioni dall’alto, e quindi si fece ricorso alla parola troika per indicare i tre organismi responsabili della stesura del piano di salvataggio, nella deliberata volontà di accostare il loro comportamento al volto più rigido e meno umano delle dittature comuniste. Anche se chiamato in causa da una visione profondamente antieuropeista, il termine troika – dopotutto semplice e immediato – ha finito per essere adottato anche dalla stampa di altri paesi, non necessariamente schierata su posizioni politiche di quel tipo.

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Valore nominale Valore “teorico” di un bene, titolo o valuta, in contrapposizione al valore reale o “di mercato” che tiene conto dell’influenza della domanda e dell’offerta del bene sul suo valore. In particolare, il valore nominale di una moneta è quello che le viene attribuito dalla cifra su di essa stampata o impressa, indipendentemente dal suo effettivo potere d’acquisto, o valore reale, e dal valore intrinseco del metallo in cui è coniata.

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Watergate

Watergate complex

Il Watergate Complex (foto esibita come prova – Exhibit #1 – al processo del gennaio 1973).

Si tratta dello scandalo che nel 1974 travolge il Presidente americano Richard M. Nixon, provocandone le dimissioni nell’agosto dello stesso anno. Lo scandalo, originatosi in seguito alle rivelazioni di due giornalisti del “Washington Post”, prende il nome dall’albergo nel quale erano avvenuti gli episodi di spionaggio ai danni di avversari politici dello stesso Nixon. L’affare Watergate porta alla luce una condotta gravissima da parte del Presidente, con la raccolta sistematica, illegale, fraudolenta di informazioni sui propri rivali politici. L’esplosione del clamore suscitato dalla notizia e l’inizio del processo nel gennaio 1974 coincidono, anche a livello internazionale, con un forte indebolimento del prestigio degli Stati Uniti. Nixon opta per le dimissioni, temendo di essere messo in stato di accusa da parte del Congresso (impeachment). Nixon era stato riletto, alla fine del 1972, alla guida di un paese già in condizioni di difficoltà per la complessa e profonda recessione internazionale, aggravata dal quarto conflitto arabo-israeliano nell’ottobre 1973 e dall’impennata dei prezzi del petrolio. Per fronteggiare la crisi economica americana, nel corso del precedente mandato Nixon, aveva avviato una politica di protezionismo doganale sulle merci importate e di blocco dei prezzi e dei salari, giungendo nell’agosto del 1971 a sospendere la convertibilità del dollaro in oro. Esponente del partito repubblicano e di quella “maggioranza silenziosa” che auspicava un ritorno all’ordine, Nixon era stato eletto una prima volta nel novembre 1968, dopo una sanguinosa e violenta campagna elettorale che aveva visto, fra aprile e giugno 1968, gli assassinii sconvolgenti di Martin Luther King e Robert Kennedy. Una volta al potere, Nixon aveva guidato gli Stati Uniti fuori dalla Guerra nel Vietnam, fortemente osteggiata dalla maggior parte della popolazione americana perché era costata al Paese un numero di vite altissimo e un aumento delle spese militari così esorbitante da acuire la crisi dell’economia americana già vistosamente in rallentamento, dopo una forte espansione produttiva conseguente alla ricostruzione, soprattutto europea, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. A Nixon succede Gerald Ford, vicepresidente soltanto da pochi mesi, che assiste alla fuga precipitosa degli ultimi civili e militari americani ancora presenti a Saigon, nel Vietnam del Sud. La politica americana però, a seguito dello scandalo Watergate, vede un processo di trasformazione radicale che accentua il personalismo e un’autonomia reciproca fra Congresso e Presidenza.

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Yom Kippur, guerra dello –

7 ottobre 1973: forze militari egiziane attraversano il Canale di Suez  (foto scattata da un agente CIA)

7 ottobre 1973: forze militari egiziane attraversano il Canale di Suez (foto scattata da un agente CIA)

Il 6 ottobre del 1973, giorno dello Yom Kippur, ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell’espiazione, l’esercito egiziano invadeva lo Stato di Israele da Sud, cioè dalla penisola del Sinai, insieme a quello siriano che attaccava, in concomitanza, da Nord, sulle alture del Golan. Israele si trovava inizialmente in gravi difficoltà e nei primi giorni di guerra viveva uno stato di sbandamento; ma poi l’esercito israeliano risultava vittorioso su entrambi i fronti e arrivava a minacciare il Cairo. La Guerra finiva così dopo una ventina di giorni con la proclamazione del cessate il fuoco tra i contendenti. Durante i combattimenti Egitto e Siria erano stati aiutati ed appoggiati dalla quasi totalità dei paesi arabi e anti-americani; mentre Israele era stato sostenuto dagli Stati Uniti e dai Paesi Europei. Ed è per questa ragione che i Paesi Arabi appartenenti all’OPEC bloccano, come ritorsione, le proprie esportazioni di petrolio verso i Paesi Europei e gli Stati Uniti fino al gennaio del 1975. Povera di effetti duraturi sugli assetti della regione, la Guerra del Kippur portava però alla ribalta un nuovo soggetto della politica internazionale: l’OPEC, il cartello dei paesi produttori di petrolio dalle cui esportazioni dipendevano quasi tutti i paesi industrializzati.

Biblio-sitografia

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    Dati articolo

    Autore: , , and
    Titolo: Il glossario delle crisi (1929-1973-2008)
    DOI: 10.12977/nov32

    Numero della rivista: n. 2, giugno 2014
    ISSN: ISSN 2283-6837

    Come citarlo:
    , , and , Il glossario delle crisi (1929-1973-2008), Novecento.org, n. 2, 2014. DOI: 10.12977/nov32

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