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Razzismo coloniale italiano: dal madamato alla legge contro le unioni miste

Corte d’appello di Addis Abeba, sentenza sul madamato

Abstract

Nella storia del colonialismo le forme della sessualità che si affermarono ebbero una stretta connessione con l’esigenza delle potenze colonizzatrici di definire dei confini efficaci tra colonizzatori e colonizzati e di gestire le gerarchie tra di essi.
Il lavoro intende presentare le caratteristiche della fase imperiale del razzismo coloniale italiano attraverso l’analisi dei testi di alcune sentenze pronunciate tra il 1938 e il 1939 contro le unioni miste.

Indice

Testo esperto per docenti

La sessualità «interrazziale» come elemento strategico di politica coloniale

Nella storia del colonialismo italiano, come in quella degli altri colonialismi europei, le forme della sessualità che si affermarono ebbero una stretta connessione con l’esigenza delle potenze colonizzatrici di definire dei confini efficaci tra colonizzatori e colonizzati e di gestire le gerarchie tra di essi.

Seguendo gli studi ormai classici di Ann Laura Stoler, si può affermare che nell’Ottocento negli imperi coloniali olandesi, francesi e inglesi la pratica del concubinaggio si diffuse ampiamente divenendo la forma più consueta di relazione tra coloni e donne o ragazze del luogo. I colonizzatori – militari o funzionari – erano quasi tutti maschi e spesso le norme vigenti vietavano loro di sposarsi per il periodo di servizio nelle colonie. La pratica del concubinaggio quindi prese forma come relazione asimmetrica tra maschi bianchi che rappresentavano il potere coloniale e donne suddite che «fornivano servizi» sessuali in forma domestica, assicurando quindi anche una certa dimensione affettiva e «familiare» che surrogava la relazione coniugale diffusa in Europa. Stoler sottolinea che tali relazioni si diffusero nel periodo in cui la potenza coloniale non era messa in discussione, cioè quando l’identità delle nazioni imperialiste e la loro supremazia erano evidenti e quindi questi avvicinamenti domestici tra rappresentanti delle due comunità non mettevano a rischio le gerarchie affermate.

A partire dai primi decenni del Novecento la politica coloniale delle grandi potenze rispetto alle relazioni interrazziali mutò decisamente. Quando le gerarchie europee cominciarono a percepire più vulnerabile la propria supremazia intervennero dall’alto per modificare anche le forme della sessualità, proibendo il concubinaggio e sostituendolo da una parte dalla prostituzione organizzata e controllata pubblicamente dall’istituzione, dall’altro favorendo l’afflusso in colonia delle mogli dei coloni. In questo modo le élites coloniali cercarono di rafforzare la propria identità di dominatori – in sinergia con la diffusione delle teorie biologiche della «razza» – sottolineando le ragioni culturali del loro predominio e i confini anche sessuali con la comunità dei sudditi.

Sessualità «interrazziale» nelle colonie italiane

Il tema della sessualità «interrazziale» può essere seguito anche nel suo sviluppo all’interno della storia del colonialismo italiano, che ebbe una cronologia ritardata rispetto a quella delle altre potenze europee. Il primo periodo di espansione prettamente militare nel Corno d’Africa, dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino alla battaglia di Adua del 1996, fu caratterizzato da un approccio che potremmo definire soprattutto «predatorio» del rapporto tra gli italiani (quasi solamente militari e impegnati in azioni di conquista) e la popolazione dell’Eritrea. Emblematico delle forme di relazione diffuse in questo periodo è la rivolta anticoloniale di Bahta Hagos, motivata dagli espropri di terra, ma legata nella memoria delle popolazioni locali anche alle molestie sessuali dei colonizzatori nei confronti delle donne locali. In questo periodo, segnala Giulia Barrera, il comando militare incoraggiava gli ufficiali a «prender madama», cioè a forme di concubinaggio che potevano preservare il prestigio del coloniale evitando la frequentazione dei postriboli destinati indifferentemente ai soldati italiani ed eritrei.

Dopo Adua, quando la gestione della colonia Eritrea passò alle autorità civili, la consuetudine del madamato si diffuse anche oltre la sfera dei funzionari di alto grado e degli ufficiali, anche in relazione al fatto che le presenze in colonia erano quasi esclusivamente maschili.

In seguito – i primi trent’anni del Novecento – mentre il concubinaggio venne fortemente limitato nelle altre colonie delle potenze europee, in Eritrea fu osteggiato solo a tratti e in maniera blanda dalle autorità, ma in sostanza silenziosamente tollerato purché praticato con discrezione, effetto di una situazione priva di rilevanti conflitti anticoloniali che potessero mettere in discussione il dominio italiano. In questo senso il madamato divenne una pratica non eccezionale, una forma ormai consueta della sessualità «interrazziale» nella colonia italiana.

La conquista dell’Etiopia

La guerra di conquista dell’Etiopia costituì un unicum nella storia del colonialismo per almeno due ragioni: venne decisa quando ormai le altre potenze coloniali avevano interrotto da tempo le politiche di espansione militare e fu condotta da un regime già pienamente fascista. Progettata e attuata con grande impiego di uomini (militari e lavoratori militarizzati) provocò un vero sconvolgimento degli equilibri che si erano andati assestando nel periodo precedente nella piccola società coloniale eritrea.

Mussolini espresse precocemente, ancor prima dell’invasione, la propria preoccupazione per il controllo della sessualità in colonia. Il timore era che le pratiche di madamato, che abbiamo visto presenti da decenni, si potessero diffondere senza argini tra i nuovi coloni (militari e operai) e che in pochi anni potesse crescere la presenza di quelli che venivano definiti «meticci», cioè – in un contesto storico convinto della netta suddivisione dell’umanità in «razze» umane – di una comunità di «razza» intermedia tra i coloni italiani e i sudditi. Per questa ragione subito dopo l’entrata delle truppe in Addis Abeba iniziarono a essere emesse circolari ed ordinanze per proibire il madamato, accanto ad altre misure che impostavano la costruzione di un apartheid italiano nell’impero.

In gennaio del 1937 su «La Stampa» venne pubblicato un editoriale del ministro Lessona intitolato Politica di razza in cui veniva anticipata una norma di legge contro le unioni miste, che poi venne approvata dal Consiglio dei ministri il 19 aprile 1937 (Rdl n. 880) che puniva con la reclusione da uno a cinque anni l’italiano che fosse stato colpevole di intrattenere una relazione denominata di «indole coniugale» con una donna locale. Pur nella novità della normativa, che lasciava ai giudici il compito di definire nel tempo i confini della punibilità, era chiaro che rimaneva lecita la sessualità mercenaria (nel frattempo, pur con difficoltà, venivano istituiti postriboli separati razzialmente, anche se sempre insufficienti ad evitare le relazioni dei coloni con donne africane), mentre l’obiettivo era di contrastare il concubinaggio, l’affettività, la procreazione di «meticci».

La pubblicistica su unioni miste e «meticci»

Fino al 1935-36 la donna africana era considerata e presentata sulla stampa italiana come una tentazione esotica facilmente disponibile per il soldato o il colono italiano. Il desiderio sessuale era anche una delle ragioni implicite che spingeva i maschi italiani ad accettare di partecipare alle campagne di guerra coloniale, sognando una terra di opportunità e l’occasione di appropriarsi di donne disponibili.

Dal 1936, una volta decisa la nuova politica di apartheid e la sua declinazione sessuale, il regime intervenne a limitare e contrastare le immagini che alludevano alla disponibilità e alla seduzione delle donne africane, imponendo inoltre alla pubblicistica di presentare ogni relazione mista come deprecabile e di descrivere i nati da relazioni miste, allora definiti «meticci», come soggetti biologicamente tarati e socialmente pericolosi. L’esempio più famoso è la canzone Faccetta nera, osteggiata a partire dal 1936 perché alludeva a relazioni con donne africane. Ma anche nelle semplici vignette di tema coloniale è possibile riconoscere il cambiamento nella politica razzista e sessista del regime verificatosi in quel periodo.

Le sentenze sulle unioni miste

La giurisprudenza che progressivamente si affermò nell’applicazione delle norme contro le unioni miste non considerò come reato il «mero» rapporto sessuale di maschi bianchi con donne africane. Esso era ritenuto lecito in relazione al limitato numero di donne bianche in colonia e al principio che l’uomo – nella visione del mondo fascista – avesse «naturalmente» bisogno di un virile sfogo della sua potenza sessuale. Il reato punibile era invece la relazione sessuale che si manifestava collegata ad elementi di affettività che potevano somigliare o ricordare quelli propri dell’unione matrimoniale, come mangiare allo stesso tavolo, dormire nello stesso letto o nella stessa stanza, non allontanarsi dopo l’amplesso, non remunerare la donna per l’atto sessuale. Ovviamente non veniva neppure presa in considerazione l’ipotesi di relazione tra un maschio africano e una donna bianca, considerata un’eventualità impensabile, tanto che nel 1939, durante la discussione della norma sul «prestigio di razza», fu deciso di non introdurre un inasprimento delle pene in casi simili poiché «ripugna allo stesso principio del prestigio di razza il far supporre, attraverso un testo di legge, che si senta la necessità di reprimere un fatto del genere» (Camera dei fasci e delle corporazioni, Atti della Commissione legislativa degli affari dell’Africa Italiana, Discussione 15 giugno 1939, p. 27).

Dal gran numero di sentenze pubblicate sulle riviste di giurisprudenza in quegli anni è possibile comprendere quanto la pratica del madamato fosse stata immediatamente adottata dai nuovi arrivati nell’impero (oltre 50 sentenze pubblicate sulle riviste in poco più di due anni) e quanto investimento mise il fascismo nel tentativo di sradicarla per rafforzare il progetto di costruzione dell’impero secondo i dettami dell’apartheid e quindi scongiurare ogni avvicinamento tra uomini italiani e donne africane che non fosse un mero uso sessuale.

Nelle parole dei giudici che stilavano i dispositivi di sentenza si può cogliere bene dove si assestava il confine tra il comportamento lecito e quello illecito prescritto ai coloni maschi in quanto rappresentanti della «razza bianca». Inoltre emergono chiaramente le caratteristiche ideologiche che contraddistinsero il razzismo coloniale fascista nella sua fase imperiale: netta gerarchia biologica tra bianchi e africani, ossessione del prestigio di chi appartiene alla «razza» reputata superiore, disprezzo per le donne africane. Anche il sessismo di cui era intrisa la società italiana appare in maniera evidente sia nei comportamenti descritti dei coloni che si percepivano come padroni e superiori alla popolazione locale, sia nelle riflessioni dei giudici che intrecciavano il disprezzo per le donne (spesso bambine) africane con la considerazione generale di subalternità della donna rispetto all’uomo.

Testo per gli studenti

Nella storia del colonialismo italiano, come in quella degli altri colonialismi europei, le forme della sessualità che si affermarono ebbero uno stretto collegamento con l’esigenza delle potenze colonizzatrici di definire dei confini efficaci tra colonizzatori e colonizzati e di affermare la superiorità degli europei sui sudditi.

Nelle fasi di conquista la presenza di militari (praticamente solo maschi) fu accompagnata da una sessualità di tipo predatorio, mentre nelle fasi di governo delle colonie gestite da funzionari si affermarono forme di concubinaggio tra maschi bianchi e donne locali. La pratica del concubinaggio era una relazione asimmetrica, cioè tra i due soggetti ve ne era uno che esercitava quasi esclusivamente il potere e l’altro che quasi esclusivamente lo subiva. I maschi bianchi rappresentavano il potere coloniale e dominavano la relazione mentre le donne o bambine suddite «fornivano servizi» sessuali in forma domestica, assicurando quindi anche una certa dimensione affettiva e «familiare» all’europeo, che in questo modo sostituiva temporaneamente la relazione coniugale diffusa in Europa.

Nelle colonie italiane questa relazione prese il nome di «madamato» e la donna o bambina locale veniva definita «madama». E’ evidente come queste forme di concubinaggio si alimentassero della differenza di potere tra i due soggetti, attestata non solo come prevalenza dell’occupante sul suddito, ma anche come superiorità affermata di tipo «razzista» del «bianco» sul «nero» e come primato sessista del maschio sulla donna.

Con la conquista dell’Etiopia il regime fascista scelse di imprimere una svolta alle relazioni con i sudditi, sostituendo queste prime forme di relazioni «interrazziali» diffuse fino ad allora, intrise di razzismo e sessismo, con una forma diversa di razzismo: una rigida politica di apartheid. Una delle dimensioni principali su cui fu applicata la nuova politica razzista furono proprio le relazioni sessuali «interrazziali», il «madamato».

Vennero prodotte nuove leggi (la prima nel 1937) che proibivano le unioni miste. La propaganda presentò le relazioni di madamato (ora definito spregiativamente «madamismo») come una degenerazione da proibire per due ragioni: da una parte venivano considerate pericolose occasioni di avvicinamento tra i maschi bianchi italiani (i dominatori) e le donne nere africane (dominate); dall’altra venivano ritenute la causa della generazione di figli «meticci», che in anni di razzismo conclamato erano demonizzati e presentati come «ibridi razziali» carichi di caratteristiche negative.

Tali leggi contro le unioni miste punivano il «bianco» che tradiva la propria appartenenza «razziale» superiore perché nella relazione sessuale si «abbassava» al livello della donna indigena. Rimanevano invece permessi i rapporti sessuali misti nell’ambito della prostituzione, giustificati dal regime come un indispensabile sfogo fisiologico dell’«uomo virile fascista» in una colonia in cui la presenza di donne bianche era ancora molto limitata.

Anche le semplici vignette di tema coloniale registrarono il cambiamento nella politica razzista e sessista del regime. Fino al 1935-36 la donna africana era considerata e presentata come una tentazione esotica facilmente disponibile per l’italiano, dopo questa data le indicazioni del regime spinsero i vignettisti a presentare l’inopportunità delle relazioni «interrazziali» e presentarono i cosiddetti «meticci» come soggetti aberranti e quindi indesiderabili.

I testi delle sentenze emesse contro queste unioni miste tra il 1937 e il 1939 spesso venero pubblicati sulle riviste di diritto per mostrare come si adava sviluppando il nuovo diritto razzista. Esse sono fonti particolarmente interessanti per comprendere molte delle caratteristiche razziste e sessiste di questo capitolo della storia del razzismo coloniale italiano.

Documenti

Documento 1

 

Alessandro Lessona (Ministro delle Colonie), Politica di razza, «la Stampa», 9 gennaio 1937.
Nei primi giorni dello scorso luglio, in un convegno coloniale tenuto a Trieste, interpretando le direttive del Duce, richiamavo l’attenzione dei camerati sul problema della razza: dovevamo imporci una rigida politica di razza con l’esclusione di ogni indulgenza verso la promiscuità pur praticando una politica di larga umanità e comprensione verso gli indigeni. Se l’Italia aveva aspettato per oltre mezzo secolo la sua vera ora coloniale, se aveva conquistato col sacrificio del sangue dei suoi figli e con quello della sua modesta ricchezza il diritto all’espansione e al necessario respiro, non era per favorire o tollerare il sorgere di un popolo di meticci. Occorreva prevedere e provvedere finché era tempo. La nuova, breve e ristretta esperienza non manca di ammonimenti a questo riguardo: un missionario cappuccino, ben noto per il suo apostolato tra i meticci, assicura che entro gli antichi confini della colonia primogenita, essi superavano il migliaio, abbandonati o curati solo dalla madre, e ciò in un tempo in cui il numero degli italiani, militari e civili, non ha mai superato i 3500. Se queste cifre, ancorché modeste in sé stesse, dovessero adattarsi all’Impero, vi sarebbe motivo di gridare l’allarme. […] Non si nega la difficoltà e la complessità del problema per la cui coraggiosa e sana soluzione troveremo inciampi e dissenzienti. Tra questi sono due gruppi che è opportuno individuare: quelli che chiameremo i semplicisti della fisiologia che tutto scusano e tutto giustificano in nome di questa. Le necessità fisiologiche esistono ed è logico che si impongano in organismi sani e giovani, ma ammettere come giusto e inevitabile il loro assoluto predominio, significa troppo ignorare o abbassare le funzioni più nobili ed elevate della specie. Nel caso pratico le difficoltà fisiologiche al mantenimento di una severa disciplina sessuale, se esistono, non sono da esagerare né debbono, in ogni modo, servire a mascherare i pericoli gravissimi per la sanità e per la integrità della razza.
Altro gruppo di oppositori potrà essere quello dei sentimentali. Tutte le nature, anche quelle più dure e corazzate, hanno un «ripostiglio» sentimentale: ma il sentimentalismo ha molto spesso colpevoli e assurde deformazioni, come quelle per esempio che hanno spinto in tempi recenti, coppie italiane infeconde a sollecitare dal Ministero delle Colonie, la facoltà di adottare dei bambini etiopici abbandonati. Nel problema che ci preoccupa, i sentimentalisti sono i peggiori nemici della popolazione indigena a cui credono di rivolgere le loro tenerezze mentre incoraggiano la formazione in seno di essa di focolai di disordini e di umiliazioni.
Ai popoli indigeni si gioverà incoraggiando il fortificarsi e il consolidarsi di una razza loro e lo svilupparsi delle più belle qualità fisiche e morali che allo stato potenziale esistono, cosicché possano armonicamente svolgersi secondo le loro capacità, verso più alte forme civili e divenire preziosi collaboratori nostri per il comune vantaggio.
I nostri principii, che desidero riaffermare perché non vi siano dubbi, sono:
a) separazione netta e assoluta tra le due razze;
b) collaborazione senza promiscuità ;
c) umanità nella considerazione degli errori passati;
d) severità implacabile per gli errori futuri.
Lo Stato fascista, ispirandosi alle sue finalità etiche, sociali e nazionali, sta per emanare leggi severe perché nessuno ignori le responsabilità a cui va incontro, ma soprattutto conta sulla preparazione e sulla maturità spirituale dell’italiano di Mussolini. Il Fascismo gli ha ridato il senso storico della sua superiorità, della sua nobiltà, la coscienza del glorioso patrimonio di cui è erede, la convinzione di una capacità e superiorità morale che prima gli mancava. Dovrà avere l’orgoglio della propria razza e la volontà di difenderla per tutto ciò che essa rappresenta nel mondo e nei secoli e per quello che l’avvenire le riserva.
L’accoppiamento con creature inferiori non va considerato solo per la anormalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deleterie conseguenze che sono state segnalate, ma come scivolamento verso una promiscuità sociale, conseguenza inevitabile della promiscuità familiare nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice. Per dominare gli altri occorre imparare a dominare se stessi. Questo devono ricordare e devono volere gli italiani tutti, dai più umili ai più alti. Roma fu dominatrice e moderatrice fra le stirpi più diverse elevandole a sé nella sua civiltà imperiale. Quando si abbassò per mescolarsi ad esse, cominciò il suo tramonto.
L’avvenire prossimo e immancabile sarà per una rigogliosa colonizzazione familiare, quale è consentita e garantita, con privilegio sopra tutti gli altri popoli, dalla fortunata esuberanza demografica nazionale, dalle secolari tradizioni di sanità, di compattezza e di fecondità della famiglia italiana, dalle favorevoli condizioni ambientali che attendono i nuclei di domani. Questo avvenire non sarà compromesso.

Documento 2

 

RdL n. 880 del 19 aprile 1937, Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi.

Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da 1 a 5 anni.

Documenti 3-5

 

Enrico De Seta, Ufficio postale, Edizioni d’Arte V.E. Boeri, [1936-36], cartolina «ad uso delle truppe italiane dell’Africa Orientale» (da La menzogna della razza 1994, Casalecchio di Reno: Grafis).
http://www.unicaen.fr/recherche/mrsh/archives/irefi/expos0.php?id=2it/etiopia/&page=sat02

Gaiba, Niente meticci, «Il 420» Firenze, XXII, 1129, 2 agosto 1936, p. 7 (da La menzogna della razza 1994, Casalecchio di Reno: Grafis).

Giovannino Guareschi, Quando i colori non si fondono bene, «la Stampa», Torino, 19 ottobre 1938 (da La menzogna della razza, Grafis, Casalecchio di Reno, 1994).

Documenti 6-13

 

Sentenze

13 gennaio 1938, Tribunale di Addis Abeba, sentenza Puccinelli e Ascalė [«Razza e civiltà», 1, 1940, pp. 125-128]

A seguito del verbale del 2 novembre u.s. con cui i CC. RR. della locale stazione scali riferivano di aver proceduto all’arresto di Puccinelli Giuseppe perché avevano accertato che costui, da più tempo, teneva una relazione di indole coniugale con l’indigena Ascalė Zaudié […]

All’odierno dibattimento [è risultato] che il Puccinelli dopo aver passata una nottata d’amore con la Ascalė, le fece proposta di rimanere presso di lui, oltre che al fine di continuare ad avere rapporti carnali con lui, anche per quello di assisterlo e di accudire alle cure della casa, e che da quel giorno, fino a che la relazione non venne scoperta dai Carabinieri, e quindi per un periodo di tempo che dovette avere la durata di tre mesi circa indicata dalla seconda, e non già di una quindicina di giorni indicati dal primo, i due convissero nella medesima casa, more uxorio, dormendo nel medesimo letto, mangiando nella medesima mensa il medesimo cibo, e per giunta nel medesimo piatto. È risultato altresì che nessun compenso ebbe mai l’Ascalé per le sue prestazioni carnali, e per le altre sue prestazioni di assistenza e di servizio, e che anzi fu vittima di una appropriazione indebita di quaranta lire dal parte del Puccinelli […]

L’articolo unico del più volte citato Regio Decreto Legge considera e commina sanzioni soltanto per il cittadino, che tenga relazioni di indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera ad essa assimilabile per l’appartenenza a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici analoghi ai suoi. […] Il divieto di tenere simili relazioni fa parte di quella serie di provvedimenti che sono tutti intesi e diretti ad attuare la nuova politica coloniale del Governo Nazionale Fascista, che avendo per primo, e per il genio del suo Capo, compresa l’alta missione e funzione che la storia assegna alla civiltà Italiana nel mondo, non poteva non imporre ai portatori di detta civiltà tutti quei limiti e quelle restrizioni che li mantenessero nello stato di superiorità fisica e morale, che deve possedere ogni razza conquistatrice e dominatrice, e che può aversi e conservarsi solo coll’evitare qualsiasi promiscuità familiare con le razze soggette e inferiori. Tale promiscuità infatti oltre ad avere come conseguenza la creazione di un popolo di meticci, e quindi di un popolo fisicamente e moralmente inferiore, perché è noto che il meticcio riunisce in sé le tare ed i difetti delle razze diverse cui appartengono i suoi genitori, senza ereditarie i pregi, avrebbe anche l’altra inevitabile e non meno deleteria conseguenza di una promiscuità sociale, che accomunerebbe e metterebbe allo stesso livello popolo conquistatore e popolo conquistato, con la perdita di ogni autorità e prestigio del primo e nella quale, come ebbe ad avvertire e ad ammonire il ministro dell’Africa Italiana, annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice. […]

3 gennaio 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Melchionne [«Razza e civiltà», 5, 1940, p. 548]

Si verifica madamismo se un nazionale per circa cinquanta giorni tenne in casa propria un’indigena, mangiando e dormendo con lei, e trattandola non già come una domestica, ma come compagna, sia pure provvisoria, di vita. I congressi carnali perdono perciò il carattere di incontro a mero sfogo fisiologico e assumono quello di relazione di indole coniugale.

3 gennaio 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Giuliano [«Razza e civiltà», 5, 1940, p. 550].

Qualora un nazionale confessi alla polizia che una notte su due si faceva venire la stessa donna indigena in letto e che talvolta andava da lei e tale confessione sia confermata dall’indigena che aggiunge che essendo stata essa malata il nazionale si era spesso recato a visitarla, si verifica il delitto di madamismo perché all’elemento materiale, di per sé grave e costituente un vero concubinato, si aggiunge anche un elemento affettivo con il quale si integra appieno il reato configurato che richiede una relazione di indole coniugale.

31 gennaio 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Seneca [«Razza e civiltà», 5, 1940, p. 548].

Nel caso di un nazionale quale confessi di aver preso con sé un’indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre a mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie affinché potesse avere un figlio, di avere preso un’indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l’autorizzazione a sposare l’indigena o almeno a convivere con lei, si verifica un fenomeno quanto mai macroscopico di insabbiamento, perché qui non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l’animo dell’italiano che si è turbato ond’é tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe ed ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita. È pertanto opportuno comminare la pena, sebbene sia un incensurato, in misura che non renda possibile la condanna condizionale perché è tale e tanta l’ubbriacatura del colpevole che tornerebbe a convivere con l’indigena ove lo si scarcerasse. In concreto va inflitto un anno e un mese di reclusione, bastevoli a snebbiare il cervello dell’italiano e a disperdere la femmina in cento altri contatti che la diminuiscano di pregio per il nazionale e la vincolino a nuovi interessi e forse a nuovi interessati affetti.

7 marzo 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Russo [«Razza e civiltà», 8, 1940, p. 676].

Per aversi gli estremi del delitto di madamismo, non sono bastevoli contatti carnali, ma occorre un quid di convivenza che in certo modo rappresenti esternamente un matrimonio di fatto, colorato da un certo tal quale honor matrimonii.

Non può assurgersi al rango di sopra disegnato quando si tratti di un umile serva, che tale sia considerata dal principale e tale sia costantemente tenuta, sulla quale, per avventura, il principale stesso sfoghi ogni tanto le proprie libidini.

Nella specie è risultato dalle dichiarazioni dell’indigena di essere stata assunta dal nazionale come donna di servizio, che il nazionale forniva il vitto, che non mangiava allo stesso tavolo di lui, che era retribuita con L. 50 al mese e in più il nazionale le faceva qualche regalo. Vero è che dinanzi ai carabinieri la donna parlo anche di essere trattata molto bene e considerata come moglie, ma questa dichiarazione che è in sostanza l’espressione di un giudizio subiettivo, può costituire un elemento probatorio, ma che altrimenti contraddetto, non può avere altro effetto che quello di un proscioglimento con formula dubitativa.

14 marzo 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Re [«Razza e civiltà», 5, 1940, p. 553].

Non si verifica madamismo nel caso di un nazionale che, assunta come domestica una donna indigena, la tenga in casa con un centinaio di lire mensili per salario, e se ne serva sessualmente, giacendo con lei tutte le volte che ne senta il bisogno, raccomandandole di non concedere altrui favori, ad evitare contagi lei, contaminazioni lui, ma dopo quaranta giorni circa, sente di sbandare da quelli che sono i doveri razziali di ogni buon italiano e si disfa della donna. Non vi fu comunanza di letto, non di mensa, sebbene prestazioni sessuali continuate ed esclusive, ma non per un periodo di tempo che autorizzi si dica formata una costanza e duraturità di rapporti tale da tramutare l’uso fisiologico del sesso in relazione coniugale.

11 luglio 1939, corte d’Appello di Addis Abeba, imputato De Gioia [«Razza e civiltà», 8, 1940, p. 673].

Nel caso di una prostituta indigena, impiegata in un bar, sorpresa nella casa e nel letto del suo datore di lavoro, cittadino italiano, non si verifica il delitto di madamismo, quando risulti che il nazionale aveva un semplice lettino, il che ribadisce che al massimo doveva trattarsi di congressi carnali sporadici, perché se fossero continuativi richiederebbero un’attrezzatura più rispondente. Inoltre l’indigena continuava a fare la prostituta, sicché non risulta l’esclusività dei congressi carnali, necessaria per la relazione di indole coniugale, e la sera lasciava il bar, sicché non vi era convivenza, non vitto in comune, ma solo una prestazione di lavoro debitamente compensata. Solo si deve riconoscere che segni esterni di confidenza ed affetto potevano forse segnare l’inizio della via che al madamismo avrebbe potuto condurre, giacché un maresciallo di P.S. vide una volta l’indigena accarezzare il volto del nazionale, ciò che lo indusse a eseguire una sorpresa nell’abitazione del nazionale dove trovò l’indigena coricata con esso.

5 settembre 1939, Corte d’Appello di Addis Abeba, imputato Fagà [«Razza e civiltà», 5, 1940, p. 547].

Ricorre il delitto di madamismo quando sia accertato che un nazionale abbia fatto abitare presso di sé una nativa dell’A.O.I. in qualità di domestica, con la retribuzione di L. 150 mensili, la quale talora consumava i pasti alla tavola del padrone, e in certo periodo si coricava col nazionale ogni notte, e poi forse insospettiti dalle indagini della polizia, solo saltuariamente, tanto che un ospite del nazionale preferì allontanarsi per non compromettersi nell’eventualità di sorprese della polizia, che l’indigena la faceva da padrona e il nazionale ne subiva al fascino tanto da farle regali anche di profumi, e che essendo la ragazza scappata per sposarsi con un individuo della sua stessa razza, egli andò a rintracciarla, e con il pretesto di averle già pagato in anticipo il mese ottenne di riaverla in casa e la fece passare come serva di una sua commessa nella fiaschetteria di cui era proprietario, e che ne era così sensualmente preso da vantarne le qualità con i conoscenti.

Comunanza di tetto, di mensa, di letto, confidenza e tenerezza, reciproca gelosia, doni con carattere di civetteria più che di rimunerazione supplementare dell’opera lecita, rintraccio della ragazza allorché si allontanò e riconduzione sotto il tetto domestico convertono la servetta in compagna di vita, quale è appunto la moglie.

Sequenza didattica

Si suggerisce un primo intervento introduttivo di presentazione delle coordinate geografiche e storiche del colonialismo italiano nel contesto dell’imperialismo otto-novecentesco, seguito dalla lettura autonoma da parte degli studenti del breve testo loro indirizzato e dalla discussione di confronto e chiarimento.

Il secondo momento può essere di lavoro diretto degli studenti, a piccoli gruppi, sul cambiamento di politica coloniale del regime. I documenti sono l’editoriale del 1937 del ministro Lessona e le tre vignette che possono considerarsi emblematiche di due diversi momenti di propaganda sui rapporti «interrazziali» in colonia. Il compito-guida è l’individuazione degli elementi di linguaggio e di contenuto razzisti e sessisti, ma ovviamente oltre a questi obiettivi espliciti sono valorizzate anche le riflessioni che escano da questo schema, specie quando richiedano chiarificazioni o offrano degli stimoli di riflessione imprevisti.

Il terzo step, quello più propriamente laboratoriale, mette i gruppi di fronte a documenti storici come le sentenze. Si consiglia di assegnare ad ogni gruppo non più di quattro sentenze, comprendendo tra esse comunque la sentenza Puccinelli-Ascalè e la sentenza Seneca, particolarmente emblematiche. Il compito guida è ancora l’individuazione degli elementi di linguaggio e di contenuto razzisti e sessisti, nella consapevolezza che la voce del giudice-estensore della sentenza ha diverse finalità e peso di quella dell’imputato italiano e di quella della donna africana.

Analisi dei documenti e restituzione al gruppo-classe.

Questionario-guida step 2

  1. Cosa annuncia l’editoriale del ministro Lessona?
  2. Quali sono le caratteristiche della nuova legge?
  3. Quali sono le motivazioni della nuova politica «razziale»?
  4. Quali elementi razzisti e sessisti individui nel testo?
  5. Le tre vignette hanno una diversa datazione. Sapresti individuare la vignetta che esprime una tipologia di razzismo e sessismo precedente l’emanazione della nuova politica razziale? Sapresti esplicitare gli elementi ideologici trasmessi da ciascuna delle vignette?

Questionario guida step 3:

  1. Quali elementi fanno propendere il giudice per la condanna o per l’assoluzione?
  2. Vi sono nel contenuto della sentenza elementi di ideologia sessista e razzista?
  3. Vi sono nel lessico elementi razzisti o sessisti?
  4. Cosa ti colpisce in questi testi?

Bibliografia di riferimento

  • Barrera G. 2008, Sessualità e segregazione nelle terre dell’Impero, in Bottoni R. (acd) 2008, L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), Bologna: il Mulino.
  • Gabrielli G. 1997, La persecuzione delle unioni miste (1937-1940) nei testi delle sentenze pubblicate e nel dibattito giuridico, «Studi piacentini».
  • Stoler A. L. 2002, Carnal Knowledge and Imperial power: Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley: University of California Press.
  • Sorgoni B 1998, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Napoli: Liguori.
  • La menzogna della razza 1994, Casalecchio di Reno: Grafis.
  • In generale sul colonialismo italiano il riferimento è:
  • Nicola Labanca N. 2007 (2002), Oltremare, Bologna: il Mulino.

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Dati articolo

Autore:
Titolo: Razzismo coloniale italiano: dal madamato alla legge contro le unioni miste
DOI: 10.12977/nov300
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.12, agosto 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Razzismo coloniale italiano: dal madamato alla legge contro le unioni miste, Novecento.org, n. 12, agosto 2019. DOI: 10.12977/nov300

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