Select Page

Hanna non chiude mai gli occhi. Un libro per appassionare i ragazzi

Hanna non chiude mai gli occhi. Un libro per appassionare i ragazzi
Abstract

Il libro di Luigi Ballerini, Hanna non chiude mai gli occhi, è stato pubblicato nella collana Narrativa San Paolo Ragazzi nel dicembre 2015, raccogliendo da allora consensi di pubblico e critica, oltre a importanti premi[1]. Il testo si caratterizza per essere un romanzo di formazione a tema storico, la Shoah, adatto a giovani ed adulti.

Salonicco 1943

Hanna e Yosef, due ragazzi ebrei, devono confrontarsi con i progressivi divieti che vengono imposti agli israeliti. Per via di queste disposizioni, la famiglia di Yosef va a vivere in casa della famiglia di Hanna. Dopo un’iniziale diffidenza, i due sviluppano un forte senso di amicizia, che li aiuterà ad affrontare i mutamenti alle loro vite, imposti dalla discriminazione razziale, e – al tempo stesso – i momenti difficili della crescita personale. Le loro storie, scopriranno imparando a conoscersi, sono corse parallele fino a quel momento, quando la reclusione nel ghetto di Kalamaria li ha messi uno accanto all’altra. Ad esempio, hanno entrambi assistito al raduno di uomini, tra cui i loro fratelli maggiori, avvenuto l’11 luglio 1943 in piazza Libertà. Allora reagirono in modo diverso. Mentre Yosef si allontana abbastanza presto non riuscendo ad assistere al terribile spettacolo, Hanna resta fino alla fine. Yosef ammette, infatti, tradendo un senso di vergogna «Appena hanno iniziato a picchiarli io sono scappato via»[2].L’atteggiamento di Hanna in quella situazione invece, restare senza risparmiarsi la vista degli uomini umiliati e sopportando il caldo, chiarisce da subito il titolo del libro, Hanna non chiude mai gli occhi.

Guelfo Zamboni e Lucillo Merci: la scelta di essere umani

Il libro rende bene la progressione delle difficoltà degli ebrei e delle violenze cui sono sottoposti. Inoltre mette in risalto due personaggi poco conosciuti: il console Guelfo Zamboni e il capitano Lucillo Merci,  che lavorava in consolato in qualità di interprete. Zamboni, compresa la gravità della situazione, si adoperò, avvalendosi anche dell’appoggio e delle capacità di Merci, per salvare quante più vite possibile attraverso i mezzi che l’incarico di console gli metteva a disposizione.

Quando si rese conto di che cosa davvero stesse accadendo agli ebrei arrestati dai tedeschi, il console chiese ai suoi superiori in Italia la possibilità di “largheggiare” nell’attestare la cittadinanza italiana. Risultarono così in possesso di un certificato anche persone che avevano un cognome italiano o che potevano in qualche modo dimostrare un legame con l’Italia. Il tutto nel rispetto di una legge, che il console non violò mai, tutelandosi, per non perdere di credibilità di fronte ai tedeschi, con l’aggiunta dell’aggettivo “provvisorio” sui certificati rilasciati in quei mesi[3].

Questo non sarebbe stato possibile, se chi lavorava a stretto contatto con Zamboni in consolato non avesse approvato questa scelta. In particolare, nel corso della narrazione si cita spesso la scrittura di un diario da parte di Merci, diario effettivamente redatto dal capitano in quei mesi, di cui nel corso degli anni sono stati pubblicati alcuni stralci e oggi conservato a Yad Vashem. Proprio di questi materiali si è servito Ballerini per rendere al lettore la forte collaborazione dei due uomini nel salvataggio degli ebrei, resa in uno scambio tra i due:

«Dobbiamo fare di più». Il proposito di Zamboni gli uscì di bocca perentorio.

«Si. Dobbiamo portare in salvo tutti gli ebrei italiani, senza perderne nemmeno uno»

«Gli italiani, certo, ma non solo…»

Merci lo guardò con profonda ammirazione. Aveva capito perfettamente.

«Sono con lei signor console, ritengo anch’io che non possiamo stare a guardare. Abbiamo un’unica arma nelle nostre mani, la burocrazia! Ci proveremo con i nostri certificati di cittadinanza e i lasciapassare verso Atene. Lei sa di avermi al suo fianco, in piena fedeltà…»[4]

Sono due figure, quelle dei diplomatici italiani, ben delineate e fedelmente riprodotte, accanto a quelle – altrettanto vivide, anche se inventate dei due ragazzi – collegate proprio dal rilascio dei documenti che le loro famiglie chiedono al consolato italiano. [5].

Il racconto si conclude con la partenza dell’ultimo treno di ebrei italiani da Salonicco verso Atene. Un viaggio diverso da quello che molti altri ebrei dovettero affrontare in quel periodo, perché significava la messa in salvo. Un treno sul quale, però, Hanna sale senza Yosef. La mancanza di lieto fine mette i lettori di fronte alla drammaticità delle vicende storiche che fanno da sfondo alla narrazione.

Una narrazione equilibrata

Uno dei pregi del testo, oltre alla scrittura particolarmente piacevole, è “l’equilibrio” con cui la vicenda della persecuzione ebraica viene trattata: sono rappresentati vittime, carnefici, spettatori, ma anche giusti. Questo, accanto all’ambientazione a Salonicco con continui riferimenti alla situazione italiana permette di affrontare, nella lettura con i ragazzi, la complessità della Shoah.

Vengono infatti presentate nel dettaglio due delle numerose famiglie che cercano di salvarsi dalla deportazione tramite i certificati di cittadinanza italiana, quelle di Hanna e Yosef, ma anche la folla di coloro che si accalcano ogni giorno davanti al consolato italiano dopo che si è sparsa la voce della possibilità di essere qui aiutati.

Sono numerosi i passi del testo in cui si descrivono le persone in attesa di entrare al Consolato Italiano per la richiesta di cittadinanza:

«Anche in quella mattina d’inizio aprile, come faceva ormai da tempo, il capitano Merci salì le scale del Consolato che erano appena le sette. Fuori, davanti al cancello, alcune persone si erano già concentrate in attesa. Appena lo avevano visto arrivare, si erano precipitate su di lui. Aveva faticato a tenerle a bada, a convincerle di attendere che Villa Olga, sede del Consolato, aprisse anche per loro »[6].

L’alto numero di certificati di cittadinanza rilasciati dal consolato italiano non passa inosservato e sono descritti anche i tentativi messi in atto dai tedeschi, in questi passaggi descritti a tutti gli effetti come “carnefici”, per vanificarne l’esistenza:

«Il console Zamboni convocò con urgenza Lucillo Merci, di primo mattino. Era stato informato che le autorità militari tedesche non permettevano la partenza verso Atene di un gruppo di ebrei italiani. Eppure era stato tutto predisposto per tempo e con cura. I certificati di cittadinanza erano stati emessi, i tedeschi avevano ricevuto la lista come da protocollo e la tradotta militare era arrivata dall’Italia in orario». […] «Diventerà sempre più dura, si disse Merci mentre procedeva verso la stazione con sottobraccio tutti i fascicoli relativi al gruppo di italiani in partenza. Fra un po’ non ce lo permetteranno più, pensò con dispiacere e un pizzico di preoccupazione, anche per sé»[7].

Allo stesso modo diverse delle figure che lavorano in consolato, non solo quella di Zamboni e Merci, vengono descritte e si mette il luce il ruolo di ognuno di essi[8]. Per la ricostruzione del “sentire” dei personaggi storici presenti nel romanzo, Ballerini si è servito come già accennato delle parti già pubblicate del diario di Lucillo Merci, dell’intervista rilasciata da Zamboni su questi fatti nel 1992, delle parole di suo nipote Luigi Zazzeri ed ha avuto un lungo colloquio telefonico con Dritta Giorno, residente a Salonicco, che nel 1943 lavorava al consolato italiano come interprete[9].

Un episodio poco conosciuto: la strage di Meina

La lettura di questo testo è utile anche per affrontare un episodio particolare della Shoah in Italia: quella dell’Olocausto del Lago Maggiore. Tra coloro che sfuggirono alla persecuzione razziale a Salonicco, infatti, ci sono alcuni di coloro che nell’autunno del 1943 vennero assassinati in quella che è la prima strage di ebrei in Italia.

Nella parte del diario di guerra di Lucillo Merci già pubblicata da Marco Nozza[10] si apprende Merci lasciò la Grecia per l’Italia con

«gli ebrei Dottor Modiano Luigi, la moglie Ernestina, il figlio Claudio, il signor Torres Raul e signora Valeria, l’ing. Elia Modiano, l’avvocato Mosseri, la signora Picollo e altri, complessivamente dodici, compreso (dimenticavo) Elia Saias e famiglia, due signore italiane ariane. […] Accompagnai i miei ospiti fino a Venezia, meta del treno. La famiglia Modiano partì per Firenze, gli altri per il Nord.»

Dopo la chiusura del Consolato Generale d’Italia di Salonicco, avvenuta nel dicembre 1943, il capitano continuò a interessarsi della sorte delle persone che aveva cercato di salvare, per quanto non riuscisse, spesso, a recuperare loro notizie o a verificarle[11].  Scrive ancora nel suo diario

“Gli ebrei italiani o dichiarati tali, da me accompagnati in Italia il 1 agosto 1943 fino a Venezia capolinea del treno, si salvarono. La famiglia del Dott. Luigi Modiano medico (moglie e figlio Claudio), proseguì per Firenze, dove si stabilì. Gli altri nove andarono a Meina sul lago di Como. Con l’occupazione dell’Italia settentrionale da parte dei tedeschi dopo l’8 settembre, il 23 settembre furono arrestati dalle SS, trucidati e chiusi in sacchi buttati nel lago. Le salme furono recuperate durante la guerra.”[12]

Merci non poteva controllare queste informazioni. E oggi sappiamo che erano imprecise [13], come risulta dalle più recenti ricerche storiografiche che hanno ricostruito i profili biografici e i percorsi verso la (mancata) salvezza di molte delle 57 vittime dell’Olocausto del Lago Maggiore.

Il libro ci permette quindi di aprire nuovi spazi di riflessione sui temi della responsabilità personale e della persecuzione: oltre a presentarci nel dettaglio episodi della Shoah che hanno stretti legami con la storia italiana prova a dare una risposta alla domanda che spesso ci si pone di fronte all’immensità della tragedia del popolo ebraico: “era possibile fare qualcosa?”. La risposta viene fornita in modo indiretto, facendoci conoscere le azioni di aiuto messe in atto da due italiani che lavoravano in quel momento per il regime fascista, mossi semplicemente dalla constatazione che stava accadendo qualcosa nei confronti di altri essere umani su cui non si potevano chiudere gli occhi, dimostrando che un comportamento dettato dalla coscienza non solo era possibile, ma in alcuni casi fu anche messo in atto.


Note:

[1] Ci si riferisce al Premio Fenice, Europa, XIX edizione, attribuito il 3 settembre 2016 a Losanna. Il testo era stato proposto insieme ad altri come finalista da una giuria tecnica composta da Younis Tawfik, Claudio Toscani e Adriano Cioci. 460 lettori residenti in Italia e all’estero (Europa, America e Antartide) hanno decretato il “supervincitore” in presenza di un numeroso pubblico e di tutti gli autori.

[2] Hanna non chiude mai gli occhi, pag. 34

[3] Zamboni rese noto quanto aveva fatto a Salonicco in una intervista solo nel 1992, ormai molto anziano. https://www.youtube.com/watch?v=D2UhszAASME. Quello stesso anno aveva ricevuto una lettera da Yad Vashem. Una lettera ufficiale di ringraziamento per il suo operato. Dal 12 aprile 2010 a Guelfo Zamboni sono dedicati un albero e un cippo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano. Rispetto al riconoscimento dell’operato di Zamboni esistono tuttavia delle incertezze. Ci sono fonti giornalistiche che attribuiscono al console il titolo di “Giusto tra le nazioni”, ma il suo nome non risulta nell’elenco pubblicato da Yad Vashem a gennaio 2017.

[4] Hanna non chiude mai gli occhi, pag. 73

[5] Ballerini stesso spiega nella postfazione che le due figure di ragazzi sono frutto della sua fantasia, ma ispirate a personaggi realmente esistiti: Ester Saporta, l’Hanna che dà il titolo al romanzo, e Alberto Modiano, suo coetaneo e amico, che nel libro diventa Yosef, alunni della scuola italiana “Umberto I” di Salonicco.

[6] Hanna non chiude mai gli occhi, pagina 53.

[7] Hanna non chiude mai gli occhi, pagine 75 e 76.

[8] Un rilievo particolare viene dato alla figura di Carolina, che lavora in consolato come segretaria e di cui vengono descritti il carattere e la modalità di lavoro “ Carolina rispose senza distogliere lo sguardo dal fascicolo dove stava archiviando  i telespressi. . Negli ultimi giorni se ne erano accumulati alcuni che andavano ancora protocollati; era stata troppo occupata con le altre pratiche e non sopportava di vedere quel disordine nelle comunicazioni” pag. 55  […]” «si sieda e mi dica come possiamo aiutarla» ripeté Carolina. Il suo tono dolce aveva il dono di mettere a proprio agio chi parlava con lei”. Pag 60.

[9] A settembre 2016 la famiglia di Lucillo Merci, per il tramite di Luigi Ballerini che fornì l’indirizzo, ha avuto uno scambio epistolare con Dritta Giorno, che nella risposta dimostra di ricordare benissimo il capitano e che rafforza, con una grafia chiara e senza incertezze, l’importanza del ruolo che l’uomo rivestì nel tentativo di dare salvezza agli ebrei di Salonicco. Le lettere sono oggi custodite dal ramo della famiglia che vive a Bolzano. Nei diari di Merci la figura femminile presente in consolato ha il nome di Carolina, che nel testo è stato mantenuto. Il capitano potrebbe però avere usato in questo caso un nome diverso per cautela nei confronti della donna, che non si esclude potrebbe essere proprio Dritta.

[10] Marco Nozza, Hotel Meina, Mondadori, 1994

[11] Anche a Lucillo Merci Gariwo ha recentemente tributato il ricordo https://it.gariwo.net/dl/201702281221_merci.pdf

[12] Marco Nozza, Hotel Meina, Mondadori, 1994, pag. 300.

[13] In vari passaggi del libro di Nozza “Lucillo” è riportato come “Fucillo”, ma non vi sono dubbi sul fatto che l’autore si riferisca al capitano in servizio presso il Consolato italiano a Salonicco. Tra le affermazioni non corrette di Merci rileviamo che Meina si trova sul Lago Maggiore, non sul Lago di Como ed è una delle nove località coinvolte nella strage definita “Olocausto del Lago Maggiore”. Le modalità di occultamento dei cadaveri delle 16 vittime locali, dopo le ultime ricerche storiche, risultano essere differenti da quelle descritte da Merci nel suo diario, così come le date del loro ritrovamento ( alcuni corpi riemersero subito dopo le uccisioni, uno, femminile, parecchi anni dopo. Su questo aspetto si sofferma la testimonianza di Piero Ragazzoni nel documentario Even) . Lucillo Merci è mancato nel 1983 e il testo di Nozza, che riprende in larga misura quanto emerso dal processo di Osnabrück nel 1968 è stato pubblicato nel 1994, quindi Merci non poté consultarlo. Fino a questa pubblicazione e a quella di Toscano dell’anno precedente sul Bollettino Storico Novarese sono mancati studi organici e critici sulla strage, di cui molti aspetti restano ad oggi da indagare. Lo stesso coinvolgimento di Merci nella messa in salvo degli ebrei di Salonicco è del resto rimasto praticamente sconosciuto fino al 2007, quando la direttrice dell’Archivio Storico della città di Bolzano, l’ha scoperto ha dedicato alla sua figura due conferenze pubbliche, una il 24 gennaio 2007 appunto, e l’altra il 24 gennaio 2013. Come tanti, il capitano non aveva comunicato nemmeno ai familiari i dettagli di quanto successo a Salonicco.