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La nascita della Repubblica

Testo parzialmente rielaborato e basato su alcuni capitoli del volume All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli 2012.

Questioni di metodo e di prospettiva

Quale prospettiva adottare per affrontare e declinare didatticamente un periodo complesso come quello degli anni dell’immediato dopoguerra? Come dipanare una struttura interpretativa in grado di tenere insieme i problemi locali, legati alle tante province italiane, i problemi nazionali del nuovo Stato e il più vasto ambito internazionale nel quale si colloca la stabilizzazione della Repubblica?

In primo luogo, e solo per accenni, occorre mettere in risalto la natura interpretativa del lavoro storiografico, l’esigenza di riconnettere i fili tra passato e presente sulla base di domande e interrogativi che la nostra contemporaneità ci pone, evidenziare come si elabori un rapporto critico con le diverse fonti a disposizione e come su quella basi si costruisca “l’interpretazione”, non l’opinione, non l’uso politico della storia. In altre parole, esplicitare la necessità di aprire “la bottega dello storico”, mostrane i procedimenti e gli attrezzi: disvelare la storia nel suo farsi.

Analogamente, è utile esplicitare il punto di osservazione e l’approccio metodologico da adottare. Nel caso del dopoguerra italiano appare indispensabile tenere presente ciò che potremmo definire “una questione di scala”: se è vero infatti come è imprescindibile tenere al centro della nostra ricostruzione il nesso nazionale/internazionale, è altrettanto vero che, se non si vuole rimanere solo nell’ambito della storia politica e delle relazioni internazionali, serve anche un’incursione nella dimensione sub-nazionale, nelle regioni e aree del paese che attraversano in quegli anni storie diverse.  In questo senso, la nascita della Repubblica va ricostruita nell’ambito della costruzione bipolare dell’Europa e del mondo dopo il 1945, ma allo stesso modo va osservata nel suo organizzarsi in una sorta di viaggio di andata ritorno tra “centro” e “periferie” per poter cogliere aspetti più legati alla storia sociale e culturale del paese.

Insegnare la storia della Repubblica con questi approcci può diventare così occasione didatticamente produttiva per affrontare la questione dell’uso pubblico della storia, dell’”oggettività” e della scientificità del discorso storico, del rapporto complesso ma fruttuoso tra storia e memoria, della ricchezza delle fonti – dalle foto al cinema, dalla musica al web – a disposizione dello storico contemporaneo e, infine, per discutere dei vantaggi che ragionare storicamente può portare anche alle necessità di orientarsi nel nostro presente.

Guerra fredda e spazi nazionali autonomi

La guerra fredda ha caratterizzato quattro decenni del dopoguerra, tuttavia il periodo tra il 1947 e il 1953 è stato quello attraversato dalle tensioni internazionali più acute, anni in cui la guerra in Corea sembrava poter costituire solo la prima tappa di un più generalizzato conflitto futuro tra i due blocchi. In quella fase, infatti, si genera un atmosfera di “psicosi generalizzata”: i governi occidentali paventano l’invasione sovietica e la lotta senza quartiere è contro “il totalitarismo asiatico” e i suoi alleati in occidente, i partiti comunisti. D’altra parte Stalin accelera la sua politica di potenza in Europa orientale e soprattutto, a volte, il leader sovietico sembra non considerare Jalta come un dato acquisito e immodificabile, dando fiato così ai timori occidentali.

L’eventualità di nuova guerra mondiale pone in Italia il problema di come affrontare un partito comunista esplicitamente legato a Mosca: i comunisti sono ora una forza organizzata al servizio di una potenza ostile che da un giorno all’altro può diventare il nemico di un confronto armato. In caso di guerra, ci si chiede nei palazzi romani, i comunisti combatteranno con l’Italia o sosterranno l’Unione sovietica? Intanto ci si prepara ad ogni evenienza.

Prende avvio una “guerra civile fredda”, una rigida divisione tra le forze politiche e sociali del paese fondata su uno stretto legame ai rispettivi blocchi: mentre da una parte il governo si attrezza per rispondere ad eventuali azioni comuniste volte a creare nel paese un fronte interno filosovietico a sostegno di una guerriglia antioccidentale in caso di guerra, dall’altro i comunisti sono in allarme e si organizzano con strutture “coperte” per fronteggiare un possibile colpo di stato “clerico-fascista”.

Non è facile capire quanto gli uomini dei governi guidati da De Gasperi fossero convinti di essere sulla soglia dello scoppio di un’altra guerra mondiale e quanto questo scenario fosse anche drammatizzato per costringere all’angolo e rendere politicamente inoffensiva l’opposizione comunista. Le due cose sono tra loro intrecciate e spingono entrambe con forza verso politiche incardinate sull’imperativo della difesa della democrazia. Una democrazia che in questo contesto tende inevitabilmente a definirsi in un perimetro che coincide rigidamente con quello della maggioranza parlamentare che sostiene il governo.

I condizionamenti derivanti dagli schieramenti internazionali sono quindi robusti ed evidenti e i margini di autonomia dei paesi schierati con il blocco atlantico sembrano restringersi o comunque sono ridefiniti dal nuovo contesto di relazioni tra politiche nazionali e sistemi di alleanze internazionali. Nell’impostazione politica dei governi De Gasperi, tuttavia, il vincolo internazionale appare come fattore decisivo anche in chiave di politica interna per legittimare le proprie scelte politiche e descrivendo i propri margini di autonomia più limitati di quanto non fossero.

Il 1947 è l’anno della svolta, o forse delle decisioni. Harry Truman annuncia la dottrina del containment legando strettamente la libertà degli Stati Uniti alla difesa dal comunismo dei popoli liberi nel mondo, viene lanciato il «Piano Marshall» e, sul versante opposto, Zdanov ribadisce la teoria staliniana dell’inconciliabilità “dei due campi contrapposti” nel corso di un incontro tra i partiti comunisti europei, a Szklarska Poreba in Polonia, in cui viene fondato il Cominform, il nuovo organismo di coordinamento guidato da Mosca.

La crisi dei rapporti tra i vecchi alleati sulla questione tedesca contribuisce in modo determinante a far precipitare le cose. E’ da questo momento che la guerra fredda si caratterizza come “scontro globale ai limiti della guerra” e, sostiene Federico Romero, “verte sulla reciproca negazione di legittimità tra due avversari che, pur attenti a non precipitare nello scontro bellico diretto, si ritengono impegnati in una lotta mortale”, senza alcun tipo di riconoscimento reciproco o tentativo di negoziazione, “una contesa inconciliabile sulla direzione della storia”.

Ciò nonostante, e questo è il punto che ci interessa evidenziare, intravedere “nell’epoca della guerra fredda solo l’affermarsi di un progetto imperiale statunitense significa soffrire di un semplicismo unilaterale”, afferma ancora Romero, incapace di cogliere i margini di manovra di cui pure il nostro paese usufruisce per le proprie scelte interne.

L’alleanza tra Italia e Stati Uniti si presenta cioè come una relazione in cui da entrambe le sponde dell’Atlantico si utilizzano margini di autonomia e strategie proprie. Non è un’alleanza caratterizzata solo da subalternità. Ci sono ambiti in cui l’Italia ha ampio margine di manovra.

A partire dalla primavera del 1947, con l’estromissione delle sinistre dal governo, gli esecutivi italiani propongono in ogni sede internazionale una rappresentazione allarmata del pericolo comunista e della fragilità economica e sociale del paese. A Washington De Gasperi illustra la situazione di un paese nel quale il Pci sta esercitando la “massima pressione politica per portare l’Italia nell’orbita dell’influenza sovietica”; si tratta di convincere il Dipartimento di Stato che l’Italia deve rimanere un campo d’azione degli Stati Uniti e che la Democrazia cristiana sia il cavallo vincente su cui puntare nella battaglia contro il comunismo.  Il successo del 18 aprile 1948 accrediterà definitivamente De Gasperi e il suo partito come interlocutore privilegiato degli Stati Uniti, assegnerà alla sua leadership più forza e più capacità contrattuale.

I governi “centristi” scelgono quindi di accentuare il vincolo atlantico per rafforzare la loro legittimazione. I condizionamenti della guerra fredda, pertanto, non possono essere interpretati come fattori esclusivi in grado di determinare completamente le scelte di politica interna; diversamente la situazione internazionale diverrebbe un alibi – come ha notato Ennio Di Nolfo – per “scaricare dalle responsabilità delle loro scelte o della loro miopia gran parte degli uomini politici italiani”. Tra Italia e Stati Uniti si realizza un’alleanza in cui, come ha efficacemente ricostruito Mario Del Pero, ciascuno agisce sulla base delle proprie culture politiche, con incomprensioni e diffidenze anche marcate, ma la crisi internazionale e interna convergono nel rendere solido il «matrimonio di interesse» tra le due sponde dell’Atlantico.

Partiti e culture politiche: Costituzione e protezione della democrazia

Dopo la rottura del governo di unità antifascista, un riferimento frequente nei discorsi pubblici degli uomini di governo è la comparazione tra gli anni del primo e del secondo dopoguerra. Una comparazione che sembra costituire una guida, forse un insegnamento, circa le scelte che lo Stato repubblicano è chiamato a compiere. Al contrario dello Stato liberale che si era dimostrato debole di fronte alle violenze e alle prepotenze del fascismo, ora  la Repubblica democratica si deve mostrare forte di fronte ad ogni intimidazione e ad ogni tentativo di sopraffazione. Una simmetria così stringente implica  la collocazione su un piano di assoluta parità il fascismo e il comunismo, intese entrambe come forze sovversive e antidemocratiche: di fronte ad un Partito comunista che opera come “sezione staccata del partito comunista sovietico” bisogna avere un governo molto diverso da quello di Facta. Serve, sostiene il ministro dell’Interno Scelba, un governo che dimostri “ogni giorno che la democrazia non è necessariamente un regime debole.”

Si tratta quindi di “proteggere la democrazia” riaffermando ed esibendo la forza dello Stato e, se necessario, con metodi risoluti e con una fermezza.

L’allarme permanente e la continua attesa di un possibile “piano K” dei comunisti per la conquista del potere, l’interpretazione delle agitazione sociale come indizio di un più vasto  movimento eversivo, caratterizzano gli apparati dello Stato al centro e in periferia, dal ministero dell’Interno al  capo della polizia fino ai prefetti e alle questure nelle province; per poi rimbalzare, a loro volta, dalle province al centro; in una dinamica nella quale non è facile né individuare un unico centro propulsore, né la quota di strumentalità tattica rispetto a quella dettata da preoccupazioni reali.

La costruzione della democrazia è quindi un percorso contrastato. Pesano le eredità del regime fascista, non tanto e non solo in termini di “continuità”, quanto per l’impronta che il regime lascia nel paese proprio negli anni della sua modernizzazione novecentesca, della sua strutturazione come società di massa, negli anni in cui cioè prende forma e si consolida un moderno rapporto tra lo Stato e la società italiana. Una parte importante di questa eredità “culturale” riguarda il complesso snodo tra perimetro democratico e conflittualità politica e sociale: uno snodo quindi che non appare solo il frutto dei condizionamenti della guerra fredda. Certo la divisione internazionale irrigidisce e sclerotizza i fronti interni, ma c’è anche qualcosa di endogeno, di profondamente nazionale che riguarda la storia del paese e delle sue culture sociali e politiche.

Per questo è bene – al di là di quanto possibile in questa sede – allargare in nostro orizzonte temporale ad una periodizzazione più ampia e adottare una prospettiva comparativa volgendo lo sguardo a quanto succede negli stessi anni nell’Europa occidentale. Anche nei paesi che non hanno conosciuto la dittatura, infatti, le democrazie del 1945 non sono semplici riproposizioni del passato, ma presentano tratti di marcata discontinuità perché sono impegnate in un imponente sforzo di nuova legittimazione. Devono fare i conti con le profonde trasformazioni sociali indotta dalla guerra e, ancor più, con l’eredità di una crisi della democrazia del periodo interbellico che si è mostrata incapace di erigere un argine solido nei confronti del fascismo e del nazismo e debole proprio nel consolidare un consenso popolare sufficiente per sfidare quello dei regimi dittatoriali. La guerra vinta contro Hiltler offre l’occasione del riscatto, una credibilità per una rifondazione della democrazia che vada oltre la vecchia trama liberale dei diritti politici, individuali e di libertà che non era stata sufficiente a suscitare la fedeltà delle masse popolari agli istituti parlamentari. Ora la democrazia, come hanno notato Mark Mazower e Tony Judt, deve essere fondata sui diritti sociali, su un nuovo patto inclusivo tra Stato democratico, società e cittadini, sull’estensione universale dei sistemi di welfare e sull’integrazione positiva del mondo del lavoro e delle sue rappresentanze organizzate.

L’Italia del dopoguerra non presenta un programma sociale “dalla culla alla bara” come quello disegnato da Beveridge, ma promulga una Costituzione nella quale il lavoro, diritto sociale per eccellenza, viene posto a fondamento della Repubblica, evidenziando così una sintonia con le culture politiche europee che individuano nella guerra e nel fascismo la dura lezione da cui muovere, che sono imperniate sulla sicurezza sociale e sui nuovi compiti dello Stato in campo economico e sociale. Tuttavia, nel nostro paese, molte resistenze si oppongono alla nuova democrazia del 1945: occorre cercare di individuare le ragioni che impediscono il dispiegarsi di politiche incardinate su quegli assi, perché la “protezione” prevalga spesso sulla riforma e quando questo sia conseguenza di fattori specifici interni e non solo dovuto ai condizionamenti internazionali.

Certo, nell’Italia del dopoguerra non si verifica una limitazione della democrazia fondata su un quadro normativo apposito – si pensi al Berufsverbot della Germania Federale – ma una sua difesa perseguita attraverso una costante azione politico-amministrativa: nessun provvedimento legislativo limita la libertà d’azione del Partito comunista, mai le richieste di metterlo fuorilegge che giungono da più parti vengono raccolte dal Presidente del consiglio, tuttavia è costante il tentativo del governo di limitare gli spazi sanciti dal dettato costituzionale, è frequente il ricorso alla legislazione di epoca fascista e il ministero dell’Interno è proteso nello sforzo di limitare l’iniziativa pubblica dei comunisti con provvedimenti non privi di una quota variabile di arbitrarietà.

Il centrismo, ha scritto Pietro Scoppola, proponendo una diversa interpretazione, “è quasi oggetto di rimpianto” perché sono anni in cui “il sistema politico italiano funziona in maniera più coerente, in cui una forte leadership, quella di De Gasperi, riesce a ridurre i difetti congeniti del sistema, che sono quelli di dover contrattare sempre tutto con tutti”; una contrattazione permanente che impedisce di fare le riforme e che la legge maggioritaria – la cosiddetta “legge truffa” – avrebbe finalmente risolto. Si tratta di un’interpretazione, però, eccessivamente focalizzata sul solo ambito del sistema politico e del suo funzionamento senza tenere sufficientemente in conto che il suo grado di efficienza dipendeva in larga misura dall’esclusione di ogni possibile alternanza di governo. In questa visione il centrismo sembra essere oggetto di nostalgia non tanto per sue effettive virtù, quanto per l’aura di epoca ancora immune dal potere pervasivo dei partiti sulle istituzioni. In questa prospettiva, secondo Scoppola, “una certa storiografia” ha concesso un’enfasi eccessiva alle politiche repressive dei governi centristi, notando come il conflitto sociale sia fisiologico nelle democrazie, come le pratiche difensive attuate dall’esecutivo e gli spazi concessi agli interessi conservatori fossero scelte obbligate a causa della “doppiezza” del Pci e, in conclusione, sottovalutando la capacità dei governi De Gasperi di tenere lo scontro entro “un quadro parlamentare e sostanzialmente democratico”.

In realtà, è proprio la conflittualità sociale che non è considerata una pratica fisiologica dal ceto di governo e dagli apparati dello Stato nel secondo dopoguerra ed è invece interpretata come distorsione funzionale, fenomeno patologico da limitare e arginare con interventi mirati, provvedimenti particolari e d’emergenza perché sempre produttrice di disgregazione e perturbamento sociale; mai denuncia di disagio sociale effettivo o manifestazione di interessi di gruppi sociali nei confronti dei quali promuovere la mediazione e la contrattazione.

Certo, i governi centristi e De Gasperi in primo luogo non cedono alle pressioni di quanti interne mirano ad escludere per legge i comunisti dalla vita politica e strizzano l’occhio a soluzioni autoritarie. I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa e alla vita sociale e culturale del paese. La realizzazione di questo delicato equilibrio politico, in cui il partito di maggioranza e il suo leader svolgono un decisivo ruolo di trasbordo sul terreno democratico di ampi settori conservatori della società italiana, richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile.

Probabilmente l’esperienza antifascista, il dramma della guerra e la lotta di liberazione hanno costituito la traccia comune che ha permesso alle leadership dei grandi partiti italiani del dopoguerra di contenere lo scontro entro limiti gestibili politicamente, ma anche la loro forza e il loro profondo radicamento sociale hanno svolto un ruolo importante di interdizione reciproca rispetto a soluzioni più drastiche e forse funeste per la neonata democrazia. La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora nel nuovo ordine occidentale.

La fragile democrazia italiana perciò non soccombe. L’approdo costituzionale costituisce così un forte fattore di discontinuità, un salto qualitativo non contingente che permette alla democrazia italiana di non ripiegarsi su se stessa. Se è vero infatti che occorre guardare la storia della Repubblica “senza reticenze sulle divisioni che la fondano”, ha scritto Mario Isnenghi, è pur vero che la grande trasformazione sociale ed economica degli anni successivi, pur riproducendo squilibri territoriali e imponendo costi sociali enormi, permette un ampliamento significativo degli spazi di democrazia nel paese, crea le condizioni per un protagonismo collettivo della società civile e del mondo del lavoro senza precedenti.

Comunisti

La nostra ricostruzione non sarebbe completa se non dedicassimo un’attenzione specifica al Partito comunista e ai comunisti italiani del dopoguerra.

Almeno fino al 1948 è presente in larga parte del mondo del lavoro, così come tra i militanti comunisti, la convinzione di un prossimo cambiamento radicale che elimini senza le gerarchie di un tempo e sia incardinato sull’idea di uguaglianza. L’esperienza della guerra ha lasciato in eredità la certezza di essere forti, di potere davvero rovesciare l’ordine delle cose in tempi brevi. Transita in tempo di pace un protagonismo popolare orgoglioso che vuole decidere autonomamente ed è poco disponibile – nonostante gli appelli di Togliatti – a temporeggiare e a cercare soluzioni di compromesso.

L’alfabeto politico del Pci è determinante per offrire un’interpretazione in grado di iscrivere le ingiustizie subite e i drammi vissuti negli anni precedenti in un orizzonte più ampio e di dare sostanza alla speranza di un mondo nuovo. Del resto l’Urss è lì a dimostrarlo, il suo condottiero Stalin ne è l’incarnazione vivente. La propaganda comunista non è solo qualcosa che cala dall’alto, ma è in grado di interagire con culture preesistenti nel mondo del lavoro. Lo stesso mito sovietico, notava Pier Paolo D’Attorre, “incrocia filoni profondi della sensibilità socialista italiana: dal solidarismo egualitario del bracciante padano all’orgoglio produttivistico dell’operaio torinese”.

Il secondo dopoguerra italiano ha la peculiarità di avere tra i suoi protagonisti il più radicato e organizzato partito comunista dell’Occidente. Il consenso ampio che il Pci ottiene per decenni nel mondo del lavoro e, più trasversalmente, in alcune aree del paese, ne fanno uno dei grandi partiti di massa italiani. Allo stesso tempo, la fedeltà all’Unione sovietica lo rendono irriducibile ad un soggetto solo nazionale.

Non serve generalizzare e calare dall’alto categorie politologiche temporalmente indefinite – per esempio “dipendenza” e “autonomia” – è utile invece vederne la graduazione nel tempo e la “scomposizione” in relazione ai diversi ambiti di intervento del PCI nella società italiana. Certo, le congiunture politiche interne sono determinanti per mutare gli atteggiamenti del Pci, e il confronto con i dirigenti sovietici è costante, tuttavia anche la storiografia che più ha messo in discussione il paradigma dell’autonomia e della diversità del PCI, ad esempio Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, sostiene che “il rapporto tra il Pci e l’Urss era molto complesso, e non può essere ridotto a una totale subordinazione del Pci”. In questa complessità coabitano relazioni molto strette con i sovietici e di dipendenza – come ad esempio le decisioni di politica estera – ma anche aree di larga autonomia: tra queste le politiche con cui i comunisti italiani si relazionano con i movimenti sociali e con le rivendicazioni del mondo del lavoro che sono quindi più leggibili in relazione al quadro interno del paese.

In ogni caso, l’aumento della conflittualità sociale a partire dall’estate 1947, in conseguenza del passaggio all’opposizione delle sinistre, la conseguente politicizzazione delle vertenze sindacali, il tentativo di controllare e guidare i movimenti contadini e operai da parte della leadership comunista, facilita l’interpretazione del conflitto sociale come disegno eversivo. E’ vero che il Pci dopo la rottura dell’alleanza di governo e dopo i duri richiami subiti dai sovietici, spinge sull’acceleratore e mobilita le proprie forze per alzare il livello dell’opposizione sociale nel paese, tuttavia ridurre alla sola azione e volontà politica del Pci la cifra del ciclo conflittuale della fine degli anni Quaranta impedirebbe di cogliere il protagonismo sociale e collettivo di un mondo del lavoro che certamente incrocia la politica e l’ideologia, ma è anche portatore di aspettative e culture proprie che interagiscono attivamente con quanto proposto dalla sinistra.

Il Pci del dopoguerra è un partito stalinista, la sua vita interna e le sue strutture organizzative sono connotate dallo stalinismo, la sua cultura politica ne è largamente debitrice. Ma il suo radicamento nel paese lo rende un soggetto più complicato, più articolato e certamente in divenire, per questo da studiare anche nelle sue dimensioni provinciali. Uno dei momenti più importanti – e difficile allo stesso tempo – a livello nazionale è il periodo tra il 1950 e il 1951: in questa fase la leadership di Togliatti, pur non apertamente contrastata, appare meno salda degli anni precedenti.

Il 22 ottobre Togliatti subisce un incidente automobilistico nei pressi di Pont San Martin, tra Ivrea ed Aosta, e riporta serie ferite alla testa. Nel clima teso di quei mesi, l’incidente suscita allarme. Dietro ogni angolo si vede il complotto, l’attentato; l’atmosfera che si respira anche all’interno del partito è satura di sospetti e di preoccupazioni. Le conseguenze dell’incidente, per quali Togliatti subisce un’operazione al cranio, danno il via a voci che prefigurano un possibile passo indietro del “Migliore”: dopo l’attentato subito nel luglio del 1948, nel giro di due anni Togliatti è stato due volte in pericolo di vita, ma in questo secondo caso non si registra intorno al segretario quell’abbraccio corale dell’intero gruppo dirigente verificatisi dopo l’attentato di Pallante, anzi la fronda dell’ala intransigente del partito, con Secchia in testa, si fa più audace.

Ma la crisi politica vera e propria della leadership togliattiana si verifica quando Stalin chiede al segretario del Pci di assumere la guida del Cominform e quindi di lasciare l’Italia. In realtà, non è la prima volta che l’ipotesi di un allontanamento di Togliatti dal paese viene avanzata. Già nella Direzione del Pci del 12 luglio 1950, in considerazione dei timori per una nuova guerra, almeno questa è la motivazione esplicitata, Secchia e Colombi avevano chiesto di considerare l’espatrio del segretario per salvaguardarne la sicurezza. L’incidente d’auto dà nuova forza a questa idea: la sicurezza di Togliatti non sarebbe ben tutelata in Italia. Il segretario sospetta che dietro a tanta cura per la sua persona possa esserci una strategia per indebolire la sua leadership e favorire un cambio alla guida del partito.

Tutto accelera quando nella riunione del Cominform che si svolge a Bucarest nel novembre 1950 si delinea appunto la possibilità di nominare Togliatti a capo dell’organizzazione comunista internazionale. Il segretario non sta ancora bene, viaggia in Urss per curarsi ed è ricevuto con gli onori di un capo di Stato, ogni segnale del protocollo sovietico indica che su di lui si è appuntata l’attenzione di Stalin per il nuovo incarico. Non sono aspetti che possono sfuggire ad uomo come Togliatti che ha attraversato in lungo e in largo le liturgie e le pratiche del comunismo terzinternazionalista per anni.

E infatti Stalin si fa esplicito: serve una leader autorevole per il Cominform e Togliatti lo è, la radicalizzazione delle relazioni internazionali impone una nuova stretta centralizzatrice sui partiti comunisti europei, e poi la sua vita in Italia è in pericolo come dimostrano i recenti avvenimenti e lo sarebbe ancor più in caso di guerra.

Di fronte al capo del comunismo mondiale Togliatti manifesta la sua opposizione ad una tale prospettiva, adduce motivazioni di carattere personale e di tipo psicologico, ma in realtà il dissenso è politico. Il segretario del Pci, infatti, scrive a Stalin che in Italia «esistono grandi possibilità per il lavoro legale di massa» manifestando così una differente valutazione rispetto al leader sovietico orientato invece a prevedere un drastico peggioramento della situazione internazionale e, soprattutto, osserva Silvio Pons, sul modo di concepire “il ruolo di un partito comunista di massa nell’Europa occidentale.”

L’obiettivo dei sovietici è anche quello di portare alla guida del Pci un uomo più affidabile? C’è l’intento di liberarsi della linea troppo parlamentarista di Togliatti a favore di Secchia fautore di una politica più dura?

Quel che è certo è che il conflitto politico più forte si verifica a Roma, più ancora che a Mosca. Il 31 gennaio 1951, infatti, la Direzione del Pci decide, in assenza del segretario che è ancora a Mosca, a larga maggioranza, di accettare la proposta di Stalin la cui autorità è tale da indurre l’intero gruppo dirigente ad obbedire. D’altro canto – scrive Aldo Agosti – “non si può escludere che una parte della Direzione pensasse di approfittare dell’occasione per sostituire Togliatti alla testa del PCI e per imprimere alla linea di questo una svolta nel senso di una maggiore intransigenza e una più stretta osservanza alle direttive cominformiste.” Informato nella capitale sovietica da Secchia e Colombi, Togliatti oppone “una resistenza durissima” e un  rifiuto “irremovibile”. Stalin capisce e non insiste più.

L’intera vicenda – nota bene Silvio Pons – mette in luce “il contraddittorio intreccio di due aspetti: l’obbedienza internazionale dei dirigenti del PCI venne clamorosamente confermata dalla scelta pressoché unanime di isolare il proprio segretario e di sostenere la volontà di Stalin; e tuttavia, il distacco dei comunisti italiani dall’archetipo del ‘partito della guerra civile’, delineato nel solco della stessa politica staliniana, venne fatto valere da Togliatti come un limite all’applicazione di una cieca lealtà nei confronti dell’URSS.”

Da questo momento il segretario ritorna gradualmente in sella e, di lì a poco, riuscirà ad eliminare definitivamente Secchia travolto dallo scandalo Seniga. La sua segreteria non sarà più contrastata, il cammino verso il “partito nuovo” si fa meno accidentato. E’ in questi mesi di dissidi e di scontri interni che Togliatti matura – scrive Paolo Pombeni – “la definitiva convinzione che in Italia non esistesse alternativa ad una gestione parlamentare della propria forza di opposizione: pur concedendo qualcosa ai riti movimentisti e alle liturgie pararivoluzionarie, egli era consapevole del fatto che, se non si può fare la rivoluzione, è meglio evitare ogni gioco di parole con essa.”

Un altro passaggio importante che ci aiuta a comprendere meglio la nascita della Repubblica.

Bibliografia

Federico Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, 2009.

Ennio Di Nolfo, Le speranze e le paure degli italiani 1943-1953, Monadori, 1986.

Mario Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001.

Mark Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, 2005.

Tony Judt, Dopoguerra, Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, 2007.

Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), il Mulino, 1991.

Paolo Pombeni, La democrazia del benessere: riflessioni preliminari sui parametri della legittimazione politica nell’Europa del secondo dopoguerra, “Contemporanea”, 1, 2001.

Mario Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo, Laterza, 2011.

Pier Paolo D’Attorre (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Angeli, 1991.

Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, 2007.

Aldo Agosti, Togliatti, Utet, 1996.

Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda (1943-1948), Carocci, 1999.

Silvio Pons, L’Urss e il Pci nel sistema internazionale della guerra fredda, in Roberto Gualtieri (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana (1943-1991), Carocci, 2001.

Immagine in evidenza: By GraziaiantoschiOwn work, CC BY-SA 3.0, Link

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Dati articolo

Autore:
Titolo: La nascita della Repubblica
DOI: 10.12977/nov146
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Numero della rivista: n. 7, febbraio 2017
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La nascita della Repubblica, Novecento.org, n. 7, febbraio 2017. DOI: 10.12977/nov146

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