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“Stati interessanti”. Aborto e intolleranza di genere. Il caso in Italia

“Stati interessanti”. Aborto e intolleranza di genere. Il caso in Italia

Opera d’arte di Laia Abril sull’aborto, tratta da http://www.laiaabril.com/project/abortion/ ©

Debate presentato alla Summer school 2018
dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri
e legato al dossier tematico

Tolleranza e intolleranza. Stranieri e diversi nel mondo contemporaneo

Abstract

Il debate “Stati interessanti” offre agli studenti la possibilità di ragionare in termini storici dell’aborto in Italia. A quarant’anni dall’approvazione della legge 194/1978 la polemica fra abortisti e antiabortisti è ancora accesissima: da uno sguardo sui contrasti nella stretta attualità si apre un percorso a ritroso che sonda la complessità di una questione aperta su molte differenti posizioni e sensibilità.

Indice
Premessa sul metodo

Il debate qui presentato è frutto di una lunga riflessione che nasce da due domande. Come presentare in classe il tema aborto senza ridurlo alla semplice contrapposizione di due posizioni irriducibili? Come restituire il quadro storico di riferimento nella rarità di testi storiografici sul tema ma a fronte di una copiosa produzione saggistica ideologicamente orientata?

Alla prima domanda abbiamo risposto entrando nel vivo del contrasto, per cercare di rintracciarne la genesi in un’Italia di secondo Novecento lanciata in un processo che vede lentamente le donne – assieme ai loro corpi – uscire dalla subalternità a lungo subita. Processo sempre chiaroscurale in un Paese in cui la visione confessionale del cattolicesimo e un certo conservatorismo restano vivacissimi e centrali. Pur nella limitata disponibilità di ricostruzioni storiografiche, sono offerti alla lettura numerosi testi orientativi e carichi di suggestioni, che attestano la presenza di una variegata letteratura (diari, testimonianze orali, memorialistica di taglio militante, “casi giornalistici”, inchieste, prodotti della cultura di massa, ecc.) e che  rimandano alla vitalità di una contesa “perennis”.

Per rispondere alla seconda domanda abbiamo tracciato un percorso che approccia il passato attraverso il nesso presente-passato-presente ma che ogni insegnante può declinare secondo le proprie scelte e le proprie necessità di programmazione. Dal punto di vista tematico, si è optato per una restituzione della complessità che vuole fare da contraltare alla semplificazione eccessiva che caratterizza oggi il discorso pubblico e i processi dei social-media. La complessità è restituita attraverso una proposta di documenti che testimoniano la trasversalità delle discipline coinvolte nella riflessione (dal diritto alla medicina, dalla psicologia alla demografia, ecc.), ma anche la pluralità di soggetti interessati: collettivi (movimenti femminili, istituzioni statali, Chiesa, magistratura, medicina, ecc.) e individuali (le singole donne e le loro storie). L’interazione tra questi elementi svela come lo scontro in atto sull’aborto è, di volta in volta, uno dei peculiari modi di darsi del conflitto di genere. In questo senso emerge il carattere altamente “sensibile” e di attualità del tema e la finalità di un’azione didattica sostanzialmente orientata all’educazione alla cittadinanza attiva e alla prevenzione di intolleranze e discriminazioni di genere.

Il debate e l’insegnamento della storia

Sottoporre a “processo” un evento, una fase, un tema storico – in questo caso il nesso tra aborto e intolleranza di genere sul corpo delle donne -, analizzare criticamente i vari aspetti del problema e soppesare la legittimità storiografica di tesi contrastanti, consente allo studente, impegnato nella controversia, di cogliere la complessità e problematicità della questione presa in esame, non riducibile a banali schematizzazioni o a generici giudizi.

Il debate, applicato alla storia, non deve mirare a incentivare abilità retoriche negli studenti o a sviluppare una vis polemica fine a se stessa, ma si ripromette di far crescere in loro la capacità critica, l’attitudine all’analisi dei documenti e al dibattito storiografico.

Un obiettivo da perseguire tramite un’attività didattica stimolante, innovativa e coinvolgente.

Sequenza didattica

  • L’insegnante introduce una differente interpretazione sul tema dell’aborto tramite la lettura di due brevi brani,  che esemplificano due posizioni opposte, emerse dal recente dibattito pubblico.
  • Dopo aver brevemente introdotto e inquadrato l’argomento oggetto della discussione, l’insegnante propone un piccolo dossier, composto da una decina di gruppi tematici di documenti, preceduti da sintetiche contestualizzazioni storiche. All’occorrenza il docente può fornire rapide informazioni o ulteriori delucidazioni sugli autori dei brani e sul clima socio-culturale e sull’orientamento politico in cui si collocano i documenti presentati.
  • Divisa la classe in due gruppi, si estrae a sorte (oppure decide il docente) il compito, apologetico o critico, affidato ad ognuno di essi: il gruppo A dovrà quindi “difendere” la posizione degli “antiabortisti”, mentre il gruppo B dovrà perorare quella dei sostenitori della battaglia per l’aborto e della legge 194/1978.
  • I due gruppi avranno un tempo assegnato per esaminare il dossier e prepararsi al proprio compito, apologetico o critico.
  • Il giorno convenuto – o la stessa mattina, qualora il tempo a disposizione per il debate sia di almeno 2 ore consecutive – si terranno le due “orazioni”, che dovranno risultare ben impostate e convincenti.
  • Dopo aver ascoltato le due relazioni, ogni gruppo farà le obiezioni alle tesi dell’altro; la discussione dovrà vertere sulla bontà e fondatezza degli argomenti portati a sostegno della propria tesi. Si dovranno citare i documenti, si potrà criticare la lettura che di questi è stata fatta dal gruppo avversario, si potrà rispondere alle critiche. Sarà cura del docente garantire l’ordinato svolgimento della discussione.
  • La “giuria”, composta dall’insegnante, affiancato eventualmente da altri colleghi disponibili a prendere parte al progetto didattico, prenderà nota delle obiezioni e delle risposte, ai fini di una valutazione storiografica. Il docente può assegnare un punteggio alle argomentazioni delle due squadre in base alla loro maggiore o minore attendibilità. Trattandosi di un debate multidisciplinare, si terrà conto, ovviamente, anche degli aspetti linguistici, letterari, ecc.
  • L’insegnante alla fine della discussione comune potrà stabilire il punteggio finale e decretare il gruppo vincitore. Questa opzione, demandata alla libera scelta del docente, riveste un carattere puramente strumentale ai fini della riuscita dell’attività didattica: si può anche decidere di non decretare la vittoria di un gruppo sull’altro per puntare invece alla individuazione dei punti forti e deboli delle argomentazioni dei due gruppi.
  • Alla fine – in realtà è questo il momento decisivo del laboratorio – il docente presenterà agli studenti due testi da lui ritenuti tra i più aggiornati, autorevoli e significativi sull’argomento. Entrambi i gruppi, a prescindere dal punteggio ottenuto e dalle argomentazioni svolte, si confronteranno con questi testi. Lo scopo è quello di osservare se e in quale misura gli studenti riescono a cogliere differenze e analogie tra il ragionamento professionale degli storici e le argomentazioni portate nel dibattito a sostegno o detrimento di determinate tesi.

Per iniziare. Due tesi a confronto

a. Un dissidio che resta aperto nel presente: due posizioni a confronto

Tesi #1

[…] Allora vogliono che i medici non abbiano diritto all’obiezione di coscienza, vogliono che i bambini possano essere abortiti “liberamente” fino al nono mese di gravidanza “quando e come decide la donna”, vogliono che la cosa avvenga nella maniera più asettica possibile, senza assegnare minimamente alcun diritto al nascituro, ridotto a mera “cosa”, eliminabile con una pillola e in ambulatorio. Questa è la piattaforma delle richieste vergognose della “giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro”.

Noi del Popolo della Famiglia rispondiamo con la proclamazione del Diritto universale a nascere, con la richiesta di trasformazione piena da oggetto a soggetto del nascituro, con la battaglia per il diritto dei più deboli, con il combattimento inesorabile per il suo diritto alla vita. E per il pieno sostegno ai diritti della donna-madre, che deve sapere che può far nascere il bambino senza dover per forza farsene carico e che deve essere sostenuta se in condizione di bisogno e, secondo la nostra proposta programmatica più rilevante, sempre e comunque con il reddito di maternità: mille euro al mese per ogni mamma che si occupa dei propri figli.

In questo momento tragico per i dati di natalità, che minano in maniera esplosiva il futuro del nostro paese, chi propaganda l’aborto è un criminale che vuole il male dell’Italia. Cgil, Emma Bonino, Radicali italiani, Aied, Non Una di Meno sono persone e associazioni che vogliono il male dei bambini e vogliono il male dell’Italia, indicando una strada perversa per le donne di questo paese. La “giornata mondiale per l’aborto libero e sicuro” è una vergognosa truffa contraria all’interesse nazionale, che è quello di veder risollevarsi i dati di natalità, non di avere anche l’anno prossimo altri centomila bambini uccisi prima d’esser nati per ragioni il più delle volte superficiali e risibili rispetto alla meravigliosa bellezza di una vita umana che comincia e si fa largo insieme alla pienezza della femminilità realizzata nella maternità. […] Viva il diritto universale a nascere, viva il reddito di maternità, viva il Popolo della Famiglia.

[M. Adinolfi, L’infamia della giornata mondiale sull’aborto (27.9.2017)] 

Tesi #2

A quarant’anni dall’approvazione della legge 194 che legalizza l’interruzione volontaria di gravidanza, Non Una Di Meno torna nelle piazze di tutta Italia forte della solidarietà dei movimenti femministi che in tutto il mondo, dall’Argentina all’Irlanda, dalla Polonia agli Stati Uniti, hanno rimesso al centro del dibattito pubblico la giustizia riproduttiva e la libertà di scegliere.

Il movimento rivendica la libertà e i diritti conquistati in decenni di lotte collettive, per dire che la sessualità delle donne non è finalizzata alla procreazione, che la maternità non è un obbligo ma una scelta.

Non Una Di Meno denuncia la responsabilità di Stato e Regioni nella continua violazione del diritto alla salute riproduttiva: anche questa è violenza di genere. Il numero di medici obiettori ha raggiunto una media del 70%, con punte del 90% in alcune regioni. Solo 390 su 654 strutture dotate di reparti di ostetricia e ginecologia effettuano interruzioni di gravidanza, con il risultato che l’interruzione volontaria di gravidanza è sempre più un percorso a ostacoli. L’aborto farmacologico è somministrato da pochi ospedali e in modo limitato, mentre la stessa legge 194 prevede l’uso delle tecniche più aggiornate a tutela della nostra salute. Inoltre, riguardo gravidanza e parto, oltre il 20% delle donne racconta di aver subito umiliazioni e pratiche violente durante il parto, mentre l’accesso gratuito agli esami diagnostici durante la gravidanza è compromesso dalla carenza di strutture pubbliche, con conseguenze gravi sulla salute e sul benessere delle donne, soprattutto quelle più povere e precarie.

Nel difendere la nostra libertà di scegliere partiamo dalla forza di un movimento globale che pretende e reclama una trasformazione dell’intera società. Siamo con le donne argentine che hanno imposto al parlamento di discutere la legalizzazione dell’aborto, con le irlandesi che a fine maggio voteranno in un referendum per decriminalizzare la procedura per l’aborto, con le polacche che per prime hanno scioperato per bloccare i tentativi del parlamento di proibirlo.

Vogliamo la contraccezione gratuita.

Vogliamo l’accesso gratuito all’assistenza sanitaria per l’ivg, la gravidanza e il parto indipendentemente dalla cittadinanza e dai documenti.

Vogliamo gli obiettori fuori dalle strutture sanitarie pubbliche e dalle farmacie.

Vogliamo la RU486 a 63 giorni e senza ospedalizzazione, somministrata anche nei consultori pubblici.

Vogliamo l’eliminazione delle sanzioni amministrative per le donne che ricorrono all’aborto fuori dalle strutture sanitarie pubbliche.

Vogliamo welfare per l’autodeterminazione, la sanità pubblica, laica e a nostra misura, i consultori aperti alle donne di qualunque età, alle persone gay, lesbiche, trans e alle migranti.

Vogliamo l’educazione sessuale nelle scuole.

[Collettivo Non Una Di Meno, Comunicato stampa (9.5.2018)]

b. L’aborto: Una questione solo novecentesca? Proposta di periodizzazione

Fino al Settecento si può dire che l’aborto è ritenuto una questione essenzialmente di donne: il feto è parte del corpo della madre e le donne incinte, insieme alle levatrici, sono le sole protagoniste sulla scena del parto o nell’interruzione di gravidanza. Dopo la Rivoluzione francese l’aborto entra nella sfera pubblica; le premesse della svolta si riscontrano grazie ai progressi della scienza medica seicentesca e all’affermarsi di politiche demografiche a tutela del numero dei futuri cittadini, bene primario per la forza e la potenza degli Stati nazionali. La medicina, dall’iniziale esercizio di controllo sulle gravidanze a rischio, progressivamente s’impone come sapere indiscusso sulle nascite. A questo processo non resta estranea la Chiesa che, tra il 1884 e il 1902, definisce formalmente la sua posizione tramite una minuziosa normazione sulle possibilità terapeutiche dell’ostetricia abortiva. Per contenere le intrusioni della scienza e la medicalizzazione della vita e dopo una storia secolare di interventi dottrinari sul peccato di aborto, la Chiesa interviene con sentenze inquisitoriali a difesa della vita del feto cui assegna autonomia rispetto al corpo materno fissandone a priori l’incolumità.

Tesi #1 - La donna fuori dalla scena del parto: la Medicina

Fin dal Settecento i regolamenti pubblici sulle attività delle levatrici obbligavano queste a chiamare il medico in casi complicati e vietavano loro l’uso degli strumenti ostetrici, quali il forcipe, che simboleggiavano il nuovo sapere sulla nascita, razionale e scientifico, di cui le levatrici furono a lungo rappresentate come l’antitesi. In quest’ottica la gravidanza a rischio fu la chiave che permise al medico di cominciare a prendere il controllo della nascita. Le discussioni ottocentesche sull’aborto medico e l’esplicita rivendicazione da parte della medicina di una propria autonoma capacità di giudizio e scelta sulle diverse opzioni terapeutiche, fondata sulla competenza ed efficacia professionale, possono essere lette in questa prospettiva come una prima forte conclusione del percorso di controllo del parto […]. Nel rivendicare il diritto-dovere di scegliere e attuare un aborto medico, la medicina si presentava come sapere totale sulla nascita, unico titolare della capacità di conoscere, scegliere e decidere della vita e della morte delle individualità presenti nelle gravidanza.

[E. Betta, Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale nell’Ottocento, p. 85] 

Tesi #2 - La donna fuori dalla scena del parto: la Chiesa

Prima del 1884, data della prima sentenza inquisitoriale su questi temi, né la Chiesa né la stessa inquisizione romana avevano mai affrontato in termini tanto espliciti le operazioni ostetriche per curare le gravidanze a rischio e i problemi e le scelte che esse sottintendevano. Per quantità e qualità, la normazione inquisitoriale degli ultimi due decenni dell’Ottocento non trova riscontri nella storia e che arriva dopo un lungo silenzio […]. Perché la Chiesa decise di rompere il suo silenzio proprio in questo periodo? Il processo di medicalizzazione è una prima riposta: la morale cattolica perse la sostanziale egemonia culturale e materiale che aveva fino allora mantenuto nel governo della nascita, a spese di un sapere che rivendicava, concretizzandolo, il potere di vita e di morte sulla scena del parto. Ma soprattutto la Chiesa intervenne autorevolmente e formalmente perché lo stesso discorso della religione si era dimostrato poroso alle argomentazioni, alle categorie e alle finalità del discorso scientifico, alla forza persuasiva della sua prospettiva razionalizzante, efficentista e utilitarista. […]. Si fece riconoscibile e identificabile con nettezza rispetto a tutti gli altri discorsi, primo fra tutti quello medico. Le priorità dell’agire terapeutico furono definite chiaramente. In primis la vita del feto, quale espressione di una volontà trascendente inscritta nell’ordine naturale. Ogni azione terapeutica fu resa illecita se a priori non era in grado di garantire la vita del concepito, in qualsiasi momento della gravidanza, per qualsiasi tipo di patologia.

Arrivare a questo giudizio non fu semplice […] su uno sfondo condizionato dal rapporto fra la possibilità dell’agire tecnico-scientifico e i limiti imposti da una morale che si voleva assoluta e universale perché rivelata. […] La difficoltà era un portato di un contesto storico che su molteplici piani vedeva il cattolicesimo in conflitto con la modernità, la secolarizzazione e la forza della scienza.

[E. Betta, Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale nell’Ottocento, pp. 13-16]

Dossier per il debate

Il presente dossier presenta volutamente una certa mole di documenti fra i quali, eventualmente, stabilire opzioni e priorità. Ogni docente potrà individuare i materiali che riterrà più opportuni per il lavoro con la propria classe, a seconda delle sue specifiche esigenze didattiche.

Ogni paragrafo tematico è introdotto da una brevissima introduzione che aiuta a identificare con immediatezza temi e contenuti.

Documenti

Reati, peccati, colpe

Per lo Stato italiano – dal Codice penale Rocco, emanato durante il fascismo, fino alla legge 194 del 1978 – abortire è un reato, mentre la Chiesa – con tardive attenuazioni – resta saldamente ancorata alla posizione di condanna della pratica come peccato. Ma, a fronte delle frequenti interruzioni di gravidanze indesiderate, sul tema dell’aborto si apre anche un profondo dissidio che genera forti sensi di colpa: le donne rimproverano spesso ai loro compagni di averle lasciate sole ad affrontare una scelta difficile. E, del resto, sono sempre uomini i legislatori, i giudici e i prelati che sentenziano sulle loro vite. La scelta di abortire si avvia a diventare una rivendicazione che ha molto a che fare con le questioni di genere e con il femminismo.  

Reato per lo Stato: il Codice Penale Rocco

Codice penale italiano (1930), libro II, titolo X: Dei delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe [il titolo X resta in vigore fino all’approvazione della legge 194/1978 N. d. R.] Art. 545 Aborto di donna non consenziente. Chiunque cagiona l’aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni.
Art. 546 Aborto di donna consenziente. Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto. Si applica la disposizione dell’articolo precedente: 1. se la donna è minore degli anni quattordici, o, comunque, non ha la capacità d’intendere o di volere; 2. se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero è carpito con inganno.
Art. 547 Aborto procuratosi dalla donna. La donna che si procura l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni.
Art. 548 Istigazione all’aborto. Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato preveduto dall’articolo precedente, istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Sono passati 45 anni dalla legge fascista che dichiarava l’interruzione di gravidanza un reato e nulla è cambiato. In un paese dove pure la contraccezione è negata, dove l’educazione sessuale resta un tabù, milioni di donne fertili di ogni età, classe e provenienza continuano a rimanere incinte senza che lo vogliano e continuano ad abortire in totale clandestinità, costrette a sopportare, oltre al dramma personale, un pesante stigma sociale. Numeri ufficiali, essendo la pratica illegale, non esistono. Solo stime. L’Unesco indica un milione e mezzo di aborti l’anno, mentre “Il Giorno”, nel 1972, riportava la cifra di tre-quattro milioni.
Chi può va all’estero, nelle cliniche svizzere o inglesi – una gita a Lugano, un weekend a Londra – dove la legge lo consente. Molte fanno da sé, esponendosi a enormi rischi per la propria salute, compresa la morte.

[E. Deaglio, Patria 1967-1977, pp. 415-416]

Peccato per la Chiesa

I. [Ricordiamo anche] l’altro gravissimo delitto, col quale si attenta alla vita della prole, chiusa ancora nel seno materno. Per alcuni la cosa è lecita e lasciata al beneplacito della madre e del padre; per altri invece è proibita, salvo il caso in cui si diano molto gravi motivi, che chiamano col nome di indicazione medica, sociale, eugenetica. Costoro tutti richiedono che, quanto alle pene con cui le leggi dello stato sanciscono la proibizione di uccidere la prole generata, ma non venuta ancora alla luce, le pubbliche leggi riconoscano la indicazione, secondo che ciascuno a modo suo la difende, e la dichiarino libera da qualsiasi pena. […] Abbiamo già detto […] quanta compassione Noi sentiamo per la madre la quale, per ufficio di natura, si trova esposta a gravi pericoli, sia della sanità, sia della stessa vita: ma quale ragione potrà mai aver forza a rendere scusabile, in qualsiasi modo, la diretta uccisione dell’innocente? Perché qui si tratta appunto di questa. Sia che essa si infligga alla madre, sia che si cagioni alla prole, è sempre contro il comando di Dio e la voce stessa della natura: «Non uccidere!». […] A coloro, in fine, che tengono il supremo governo delle nazioni e ne sono legislatori, non è lecito dimenticare che è dovere dell’autorità pubblica difendere con opportune leggi e con la sanzione di pene la vita degli innocenti; e ciò tanto maggiormente, quanto meno valgono a difendersi quelli la cui vita è in pericolo, e alla quale si attenta; e fra essi, certo, sono da annoverare anzitutto i bambini ascosti ancora nel seno materno.

[PIO XI, Enciclica Casti connubi, Parte seconda (31.12.1930)]

II. Guardando poi a uno degli aspetti più delicati della situazione femminile nel mondo, come non ricordare la lunga e umiliante storia – per quanto spesso «sotterranea» – di soprusi perpetrati nei confronti delle donne nel campo della sessualità? Alle soglie del terzo millennio non possiamo restare impassibili e rassegnati di fronte a questo fenomeno. È ora di condannare con vigore, dando vita ad appropriati strumenti legislativi di difesa, le forme di violenza sessuale che non di rado hanno per oggetto le donne. […].

A fronte di tali perversioni, quanto apprezzamento meritano invece le donne che, con eroico amore per la loro creatura, portano avanti una gravidanza legata all’ingiustizia di rapporti sessuali imposti con la forza; e ciò non solo nel quadro delle atrocità che purtroppo si verificano nei contesi di guerra ancora così frequenti nel mondo, ma anche con situazioni di benessere e di pace, viziate spesso da una cultura di permissivismo edonistico, in cui più facilmente prosperano anche tendenze di maschilismo aggressivo. In condizioni del genere, la scelta dell’aborto, che pur resta sempre un grave peccato, prima di essere una responsabilità da addossare alle donne, è un crimine da addebitare all’uomo e alla complicità dell’ambiente circostante.

[Papa Giovanni Paolo II, Lettera per la IV Conferenza Mondiale sulla Donna (29.6.1995)]

III. 12. […] perché nessun ostacolo s’interponga tra la richiesta di riconciliazione e il perdono di Dio, concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto. Quanto avevo concesso limitatamente al periodo giubilare [Secondo la Carta con la que se concede la indulgencia con ocasión del Jubileo Extraordinario de la Misericordia del 1 settembre 2015 tale concessione sarebbe stata valida per il solo periodo giubilare N.d.R.] viene ora esteso nel tempo, nonostante qualsiasi cosa in contrario. Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre. Ogni sacerdote, pertanto, si faccia guida, sostegno e conforto nell’accompagnare i penitenti in questo cammino di speciale riconciliazione.

[Papa Francesco, Lettera Apostolica Misericordia et Misera (21.11.2016)]

Colpa per gli uomini

I. “Vigliacco. Ipocrita vigliacco. Tu che telefonavi soltanto perché lo buttasse via. Tu che per due mesi sei rimasto nascosto come un disertore. Tu che sei andato da lei solo perché ti ha pregato. Fate sempre così vero? Vi spaventate e ci lasciate sole e al massimo tornate da noi in nome della paternità. Tanto che vi costa la paternità? Un ventre sfasciato da un ingrossamento ridicolo? La pena del parto, la tortura dell’allattamento? Il frutto della paternità vi viene scodellato dinanzi come una minestra già cotta, posato sul letto come una camicia stirata. Non avete che da dargli un cognome se siete sposati, neanche quello se siete fuggiti. Ogni responsabilità è della donna, ogni sofferenza, ogni insulto. […] Sono millenni che ci imponete il silenzio e ci relegate al compito di mamme. In qualsiasi donna cercate una mamma. A qualsiasi donna chiedete di farvi da mamma: persino se è vostra figlia. Dite che non abbiamo i vostri muscoli e poi sfruttate la nostra fatica anche per farvi lucidare le scarpe. Dite che non abbiamo il vostro cervello e poi sfruttate la nostra intelligenza anche per farvi amministrare il salario. Eterni bambini, fino alla vecchiaia restate bambini da imboccare, pulire, servire, consigliare, consolare, proteggere nelle vostre debolezze e nelle vostre pigrizie. Io vi disprezzo. E disprezzo me stessa per non saper fare a meno di voi, per non gridarvi più spesso: siamo stanche di esservi mamme. Siamo stanche di questa parola che avete santificata per il vostro interesse, il vostro egoismo. Dovrei sputare anche su di lei, signor dottore. Lei che in una donna vede soltanto un utero e due ovaie, mai un cervello. Lei che dinanzi a una donna incinta pensa “Prima si è divertita e poi viene da me”. Non si è mai divertito lei, signor dottore? Non ha mai dimenticato il culto della vita? […] Qui non si fa un processo a una donna dottore: si fa il processo a tutte le donne. Ho quindi il diritto di rovesciarlo su di lei e se lo metta bene in testa, dottore: la maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. È una scelta cosciente. Questa donna aveva fatto una scelta cosciente, e non voleva uccider nessuno. Era lei che voleva ucciderla, signor dottore, negandole persino l’uso del proprio intelletto. Perciò dentro la gabbia dovrebbe starci lei, e non per mancato soccorso a miliardi di stupidi spermatozoi bensì per tentato donnicidio.”

[Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, pp. 84-86.] 

II. La maternità, nella cultura dei padri, è stata trasformata in un evento di estrema passività per le donne [,] è quella legata al corpo giovanissimo di una madre ignara e sorpresa, silenziosa e arresa al volere altrui. Questa è l’idea di madre che ci viene riproposta, anche distrattamente, anche sciattamente, da tutti i quadri, le fotografie, le statue che ci troviamo intorno da quando impariamo a guardarci intorno. […] Qui entriamo nella dolorosa questione dei rapporti che le donne hanno sempre intrattenuto con chi si è inventato controllore e guida del loro corpo, delle loro teste. Ho visto, nel mio dormiveglia, una sfilata in puro stile felliniano, di uomini di Chiesa dal passo elegante con mitrie d’oro sul capo, anelli luccicanti alle dita, intenti a impartire lezioni di comportamento alle ragazze nelle chiese, nelle scuole. Ho visto uomini di scienza vestiti di nero, gli occhi lucenti di certezze, intenti a spiegare cosa sia una donna rispetto alla scienza e alla natura; ho visto medici dal naso lungo, le mani bianche e ossute pronte a frugare dentro corpi vivi di donna come fossero cadaveri da dissezionare; ho visto gentiluomini in cappotti foderati di pelliccia intenti a insegnare la morale nelle case ombrose di ricchi commercianti; ho visto professori dalle teste chine sui libri in cui si scriveva la storia delle donne; ho visto amorosi padri di famiglia intenti a stabilire cosa fosse bene e cosa male per le loro figlie bambine.

[D. Maraini, Un clandestino a bordo, pp. 17-21.]

Sessantotto. Eredità controverse

Il Sessantotto è il fattore scatenante di quella mobilitazione collettiva delle donne che darà loro la forza di rivendicare la questione dell’aborto come fatto politico, strettamente connesso all’emancipazione femminile. Si tratta di un processo accidentato nel quale restano forti le ambiguità e le difformità di posizione. In un Paese conservatore e tradizionalista come l’Italia l’impresa è più difficile che altrove: Papa Paolo VI mette in guardia sui doveri dei coniugi rispetto alla vita dei figli. Ma le difficoltà non frenano gli effetti che la mobilitazione ha sull’opinione pubblica e sul fatto che si diffonde una più autonoma consapevolezza di una subalternità sempre più difficile da accettare.

 

I. La mobilitazione collettiva delle donne

[…] L’arcipelago femminista agita problemi tipici del capitalismo maturo e si riappropria in spirito di continuità di una delle più feconde intuizioni del «primo» ’68: l’idea che solo attraverso una mobilitazione collettiva è possibile soddisfare i bisogni della sfera privata. [Ma] ridurre l’arsenale di idee del femminismo a un denominatore comune è impresa tutt’altro che agevole, perché la plurisecolare estraneità delle donne alla politica comporta una scarsa dimestichezza con le tecniche che le sono connaturate […], e di rincalzo ingigantisce i vizi, le ingenuità, i difetti delle cellule di aggregazione allo stato nascente […]. In sintesi estrema, e con beneficio d’inventario, si può dire che tutto il femminismo […] è accomunato dalla tesi di un’impermeabilità reciproca e di un’indipendenza irriducibile tra lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo tramite il prelievo di plusvalore e l’oppressione del maschio sulla femmina tramite il regime patriarcale e la sessualità prevaricatrice («compagni in piazza, fascisti nella vita, / con questa ambiguità facciamola finita», è uno degli slogan scanditi con maggior rancore durante le manifestazioni. Le differenze sono numerose, e non sempre (anche se spesso) per via di dettagli e di nuances: si va dal separatismo oltranzista delle Nemesiache di Napoli e di Rivolta femminile (un gruppo costituito a Milano nell’estate del 1970 e presentatosi con un manifesto gentilmente intitolato Sputiamo su Hegel), che considera la penetrazione esiziale in ogni sano contatto erotico, alla paziente temperanza del Movimento di liberazione della donna (fondato da Adele Faccio e da Maria Adele Teodori verso la fine del 1969, e federato al Partito radicale), che punta quasi esclusivamente sulla libertà di contraccezione e di aborto; dal frigido neo-marxismo di Lotta femminista (formatosi a Padova soprattutto per iniziativa di Mariarosa Dalla Costa), che rivendica la corresponsione di un salario alle casalinghe perché il loro lavoro è produttore di beni e di servizi (adottando una posizione poco condivisa, popolare com’è la richiesta di socializzazione delle incombenze domestiche), allo psicologismo libertario del Gruppo Demistificazione Autoritarismo (risalente addirittura al 1966), che si sforza di eliminare nella donna l’interiorizzazione dei valori familisti. Anche sull’aborto «libero e gratuito» i pareri sono discordi: il Collettivo femminista di Via Cherubini (animato dall’inesausta effervescenza di Lea Melandri, che a Milano lo collega alla «Libreria delle donne» e alle riviste «Sottosopra» e «L’erba voglio»), ritiene per esempio che la legalizzazione rimuova solo l’ultimo ostacolo sulla via della manipolazione maschile della sessualità; mentre l’Associazione per l’educazione demografica (raccolta a Bergamo intorno a Nerina Negrello) è dell’avviso che la depenalizzazione debba implicare solo la libertà ma non la gratuità dell’interruzione di gravidanza, perché quest’ultima sfocerebbe nel controllo statale su una scelta che deve rimanere assolutamente soggettiva.

[S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, pp. 361-363.] 

 

II. Paternità responsabile e dominio dell’istinto

10. Perciò l’amore coniugale richiede dagli sposi che essi conoscano convenientemente la loro missione di paternità responsabile, sulla quale oggi a buon diritto tanto si insiste e che va anch’essa esattamente compresa. […] L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori. Nel compito di trasmettere la vita, essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma, al contrario, devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della chiesa.

Rispettare la natura e la finalità dell’atto matrimoniale

11. […] Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già di per sé distanziano il susseguirsi delle nascite. Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la chiesa insegna che qualsiasi: atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita.

Inscindibili due aspetti: unione e procreazione

12. Tale dottrina, più volte esposta dal magistero della chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo. […]

Vie illecite per la regolazione della natalità

14. In conformità con questi principi fondamentali della visione umana e cristiana sul matrimonio, dobbiamo ancora una volta dichiarare che è assolutamente da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto diretto, anche se procurato per ragioni terapeutiche.[…]

21. Una retta e onesta pratica di regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia, e che tendano ad acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente un’ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica.

[Papa Paolo VI, Enciclica Humanae Vitae (22.7.1968)]

III. Ottenere il “governo” del proprio corpo

E’ importante notare come, indipendentemente dalle strutture sociali, dai modi culturali e dalle tradizioni etico-religiose nelle quali la donna si è svolta nel corso dei secoli, l’aborto è sempre stata l’unica soluzione che ha permesso alla donna di rifiutare a posteriori una maternità non voluta. Ciò dimostra in un certo senso che l’aborto è altrettanto naturale quanto la stessa maternità, giacché esso ne è un aspetto complementare.

Si tratta allora di vedere l’aborto non più come qualcosa di paragonabile all’omicidio premeditato e quindi vietabile, punibile, peccaminoso, ma come un fenomeno che deve essere istituzionalizzato perché diventi uno strumento di diritto concreto della donna.

Il divieto di aborto è l’ultimo anello della sottomissione giuridico-politica della donna in quelle società che assegnano all’universo femminile una sola funzione: quella della procreazione. La donna, riconosciuta per millenni soltanto in quanto madre, privata di qualunque valore non mutuato dall’etica maschile, chiede oggi, con una perentorietà che non lascia dubbi, il proprio diritto di scegliere liberamente la maternità o la non maternità, in una situazione o in un’altra.

Il problema dell’aborto è stato fino a oggi oggetto di studi teologici, giuridici e medici, cui solo recentemente si sono aggiunte indagini di carattere sociale. Un solo aspetto del problema non è mai stato esaminato: l’atteggiamento delle donne, dirette protagoniste della vicenda. Come conseguenza le motivazioni e le implicazioni sociali che determinano l’aborto sono sempre sfuggite ad uno studio globale del fenomeno. […]. Le donne dimostrano comunque di avere ormai assunto la coscienza di non doversi più conformare alle norme che regolano la loro vita e non intendono più vivere la maternità se non gestendola il più liberamente possibile. Rifiutano cioè l’usurata immagine sociale della donna come semplice procreatrice e come tale sottoposta alle più disparate discriminazioni.

Da questa ricerca sono emersi con una certezza che non lascia più dubbi tre punti:

1) La donna intende creare le condizioni atte ad un consapevole esercizio della sua autonomia.

2) La donna intende limitare la funzione riproduttiva per renderla più soggettiva e piacevole.

3) La donna ritiene che il proprio corpo possa venire plasmato secondo personali esigenze; è cioè convinta di non aver a che fare con qualcosa di assolutamente immutabile e predestinato, ma con un organismo capace di variazioni […].

Questa convergenza delle donne (a volte più cosciente a volte meno) opera ormai nella stessa direzione: ottenere il “governo” della propria persona, della maternità e dell’aborto, laddove nei codici penali il divieto è rappresentato da un pregiudizio sessuale, da una riserva mentale fondata solo sul concetto di potere.

[E. Banotti, La sfida femminile. Maternità e aborto, pp. 7-10.]

IV. “Io considero il femminismo il vero seguito del ’68”

[Lea Melandri:] « In quegli anni straordinari nacquero pratiche che rovesciavano i rapporti tra vita e politica. […] Sesso, famiglia, amore, morte, dolore, tutte le esperienze fondamentali dell’individuo erano confinate fuori dalla storia, condannate all’immobilità, a ripetersi sempre uguali. Uscire dal dualismo privato-pubblico, individuo-polis, natura-cultura, trovare i nessi e indirizzare il cambiamento: ecco quello che abbiamo fatto. Era l’embrione di un nuovo agire politico, ne allargavamo enormemente il campo».[Gregorio Botta:] Da cui sono poi nate la legge sul divorzio e sull’aborto.[L. M.] « E sono state conquiste importantissime. Ma non vorrei ridurre a questo la novità di quegli anni, che è stata invece un salto di coscienza, scoprire quanta storia era confinata nelle esperienze del singolo».[G. B.] Altro capo d’accusa. Tutto questo parlare del privato, del singolo, dell’individuo, del diritto al sogno e al desiderio, ha creato — dicono — la cultura del narcisismo e, infine, ha reso possibile il berlusconismo.[L. M.] « Io trovo che questa sia l’accusa più avvilente e volgare, una vera deformazione di quel che accadde, che era la riscoperta di quella che io chiamo la singolitudine, la singolarità di ogni essere. Scoprivamo l’individualità delle persone, e in particolare quella delle donne, considerate per secoli un genere e basta. Questa è stata la forza del femminismo: svelare che nei vissuti di ogni singola donna c’è una rappresentazione del mondo che le donne non hanno contribuito a creare, perché  hanno interiorizzato la visione del maschile».[G. B.] Lei parla del femminismo che seguì il ’68. Molti dicono invece che il movimento ebbe vita brevissima, che la carica libertaria non durò che un anno, soffocata da gruppi e gruppetti che se ne contendevano la guida in nome di Marx, Mao e persino Stalin. Alla Statale risuonava il triste slogan Stalin-Beria-Ghepeù…[L. M.]  « Ma il ’ 68 non è solo una data, è tutto ciò che si è mosso prima e soprattutto dopo. Dura tutt’ora. Io considero il femminismo il vero seguito del ’ 68, ne ha portato avanti le intuizioni più originali. Abbiamo avuto un conflitto continuo con la sinistra extraparlamentare di allora: abbiamo indicato i pericoli della loro politica, del leaderismo, della passività. Gli dicevamo che avevano introiettato gli schemi che combattevano. Ecco un’altra grande novità di quegli anni: l’ingresso della psicanalisi nella politica. Il femminismo è il solo sopravvissuto agli anni Settanta. Per questo dico che non ho nostalgia del ’68: non ne sono mai uscita » .

[G. Botta, Intervista a Lea Melandri, “Robinson”, inserto di “la Repubblica” (4.02.2018)]

Un punto di non ritorno: il caso di Gigliola Pierobon

Gigliola Pierobon è figlia di due agricoltori di San Martino di Lupari (Padova). Interrotti gli studi dopo la terza media a causa delle scarse possibilità economiche della famiglia, rimane incinta a 17 anni. Subito abbandonata dal padre del bambino e terrorizzata dall’effetto che la notizia potrebbe avere sui suoi genitori, decide di abortire. Ci riesce con l’aiuto di Roberto Cogo, un amico universitario che diverrà suo marito, e dell’assistente infermiera Italia Salviato, entrambi incriminati con lei. Il 5 giugno 1973, all’età di 23 anni, subisce il primo processo pubblico per procurato aborto. Nel frattempo è stata licenziata e osteggiata ma, rea confessa, rivendica il diritto di decidere del suo corpo. Il processo è seguito da centinaia di donne e Lotta Femminista, cui la giovane ha aderito, ne fa un caso politico.

 

I. Fare del processo un caso politico

Oggi 6  Giugno
Si concluderà qui a Padova il processo per aborto contro Gigliola Pierobon, che ieri si è svolto in questo modo:
La legge del Tribunale di Padova ha condannato ancora una volta la donna all’isolamento; ha impedito a noi donne venute da tutta Italia di testimoniare in base alle nostre esperienze e così di sostenere politicamente Gigliola. A lei è stato negato anche il diritto di difesa.
Di fronte alla forza con cui Gigliola rispondeva alle domande dei giudici, forza che nasceva dal fatto di essere femminista, di avere con sé tutto il nostro movimento e di 2.000.000 di donne italiane che abortiscono ogni anno, gli uomini presenti hanno tentato di infangarla. Permettevano all’avvocato che difendeva l’aiuto infermiera, imputata per aver procurato l’aborto, di avanzare basse insinuazioni tese a sminuire la credibilità di Gigliola. Questa manovra lasciava completamente isolata questa donna non solo nei confronti di Gigliola, ma di tutte le altre donne.
A questo punto l’indignazione di tutte noi presenti in aula non era più controllabile. Abbiamo gridato:
TUTTE NOI DONNE ABBIAMO ABORTITO!
Alla terza volta ci hanno espulse dall’aula e hanno incriminato tre di noi. Abbiamo ricominciato in atrio e le nostre grida erano sempre più forti. La polizia ci ha spinto fuori e noi per strada ci siamo avvicinate a tutte le altre donne.
Finora lo Stato ci ha imposto un ABORTO CLANDESTINO che abbiamo pagato con l’ISOLAMENTO, centinaia di bigliettoni, con la VITA e con la GALERA.
Da oggi vogliamo:
ABORTO LIBERO GRATUITO CON TUTTA L’ASSISTENZA MEDICA DOVUTA. UN’INFORMAZIONE SESSUALE PER TUTTE E PER TUTTI
MEZZI ANTICONCEZIONALI GRATUITI E NON NOCIVI.
VOGLIAMO AVERE LA POSSIBILITA’ REALE DI FARE FIGLI SOLO QUANDO VOGLIAMO E TUTTI QUELLI CHE VOGLIAMO.

[Volantino del Movimento Femminista, Padova, 6 giugno 1973] II. La sentenza in data 7.6.1973: “Perdono giudiziale”

“L’irroganda pena […] deve però tener conto […] soprattutto della profonda pietà che non si può non rivolgersi verso chi si trovi moralmente impreparata ad affrontare problemi implicanti un generoso e duro sacrificio. Le viene pertanto concesso il perdono giudiziale del reato, senza tener conto di qualche atteggiamento esibizionistico tenuto in udienza […], ma piuttosto della resipiscenza dimostrata con la consapevole accettazione di una seconda maternità”.

[G. Pierobon, Il processo degli angeli, pp. 198-199.]

Volantino del Movimento femminista
[s. d., prodotto presumibilmente tra il giugno 1973 e l’agosto 1976]

Le streghe son tornate?

L’M.D.L. (Movimento di Liberazione della Donna) nasce all’inizio del 1970 nell’ambito di un seminario organizzato dal Partito Radicale e si impegna in battaglie contro l’aborto e la violenza sessuale. Richiede la soppressione dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia istituita dal fascismo) e propone che i suoi fondi siano devoluti  alla costituzione di asili nido laici, antiautoritari e autogestiti. Rispetto ad analoghi movimenti attivi all’estero, al suo interno ammette anche la partecipazione di uomini. Nel 1973 apre a Milano il C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione Aborto). Fondato da Adele Faccio, Emma Bonino, Luigi De Marchi e Maria Adelaide Aglietta, si trova nella sede storica del Partito Radicale. Obiettivo del Centro è di fornire informazione e assistenza alle donne sulle pratiche della contraccezione e dell’aborto grazie anche a depliant e opuscoli informativi di tipo igienico-sanitario.

 

I. Sfide al Codice Rocco e arresti

Nel 1973 a Milano è stato aperto il primo CISA (Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto), per dare assistenza alle donne e rilevanza pubblica, politica e sociale alla questione. Tra i fondatori Adele Faccio, lo psicologo Luigi De Marchi, già dirigente dell’Aied, Maria Adelaide Aglietta ed Emma Bonino. In poco tempo, in altre città si moltiplicano le sedi, cui si affiancano ambulatori e cliniche dove si pratica direttamente l’aborto, soprattutto con il “metodo Karman”. Lo descriverà nei dettagli Emma Bonino, in un’intervista del 1976 a Neera Fallaci del settimanale “Oggi”. Bonino lo conosce bene perché lei stessa racconterà di aver praticato personalmente 10.141 aborti clandestini:

Volendo fare le cose ad arte, si usa l’aspiratore elettrico a cui mediante un tubo si attacca la cannula Karman in plastica trasparente. Senonché l’aspiratore elettrico costa un mucchio di quattrini (mi pare 400.000 lire), a parte che pesa trasportarlo per fare aborti nelle case. Per risparmiare usiamo un’attrezzatura per l’aspirazione più rudimentale, ma che funziona benissimo lo stesso. Prima di tutto, occorre un vaso, ermeticamente chiuso, dove si crea il vuoto e dove finisce il contenuto dell’utero che viene aspirato con la cannula. Io uso un barattolo da un chilo che aveva contenuto marmellata. Il barattolo viene chiuso con un tappo di gomma che ha tre fori: da un buco parte il tubo di gomma in cui si inserisce il gommino della pompa da bicicletta (con la valvola interna rovesciata per aspirare aria anziché immetterla); dal secondo buco parte il tubo di gomma in cui si inserisce la cannula Karman; nel terzo buco si mette il manometro, per controllare la pressione che si crea nel vaso con la pompa. […] Alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari: anzi, è un buon motivo per farsi quattro risate.

In nome della legge, i medici e gli attivisti del Cisa vanno fermati. I1 9 gennaio 1975 i carabinieri fanno irruzione nella clinica di Firenze, arrestano il dottor Giorgio Conciani e i suoi assistenti e denunciano le oltre quaranta donne presenti. Il ginecologo resterà in carcere due mesi e mezzo.

Il 13 gennaio, all’alba, viene arrestato il segretario del Partito radicale, Gianfranco Spadaccia. Un mese di detenzione. Marco Pannella riceve una comunicazione giudiziaria e viene emesso un mandato di cattura anche per Adele Faccio, presidente del Cisa, che nel frattempo si è resa latitante. Sarà arrestata il 26 gennaio sul palco del teatro Adriano a Roma, davanti a settemila persone, mentre è in corso la Conferenza nazionale sull’aborto promossa dai radicali e dal Movimento di liberazione della donna. La aspetta più di un mese di detenzione.

Nelle piazze si organizzano manifestazioni e circolano appelli per il rilascio degli arrestati. Il vicesegretario del Partito radicale, Roberto Cicciomessere, inizia uno sciopero della fame che durerà 27 giorni. I militanti radicali, nel frattempo, presentano 400 autodenunce per procurato aborto. Anche Emma Bonino si consegna alle autorità dopo un periodo di latitanza. Passate tre settimane in carcere, a 27 anni è tra i promotori più convinti della campagna per la legalizzazione dell’aborto. È l’inizio di un impegno politico che la porterà lontano. […]

Un mese dopo [il 18.02.1975], un primo pronunciamento della Corte costituzionale dichiara parzialmente illegittima la norma del Codice Rocco che punisce il procurato aborto. Anche i partiti rompono il silenzio. Pci, Psi, persino la Dc, presentano ciascuno le proprie proposte di legge per regolamentare l’interruzione di gravidanza. Il Msi invece minaccia nuove denunce contro le cliniche abortiste.

In primavera nascono i comitati per il referendum. Il 15 aprile, in tutta Italia, inizia la raccolta firme.

[E. Deaglio, Patria 1967-1977, pp. 416-418] 

 

II. Caccia alle ultime streghe

«…. le donne sono sempre state guaritrici. Sono state primi medici e anatomisti della storia occidentale. Sapevano procurare gli aborti, fungere da infermiere e consigliere. Le donne sono state le prime farmaciste che coltivavano le erbe medicinali e si scambiavano i segreti del loro uso. Erano esse le levatrici che andavano di casa in casa, di villaggio in villaggio.

Per secoli le donne sono state medici senza laurea, escluse dai libri e dalla scienza ufficiale: apprendevano le loro conoscenze reciprocamente, trasmettendosi le loro esperienze da vicina a vicina, da madre a figlia. La gente dal popolo le chiamava “le sagge”, le autorità streghe o ciarlatane. La medicina è parte della nostra eredità di donne, nella nostra storia, è nostro patrimonio…»

(Da Le streghe siamo noi – Celuc libri di Barbara Ehrenreich e Deirdre English)

Di streghe ne hanno fatto morire a migliaia, a milioni. Torturate, fatte a pezzi, costrette a subire ridicoli umilianti tragici processi. L’ultimo rogo era stato allestito nel gennaio 1975, a Firenze. Chi lo aveva preparato? Sempre i soliti: gli ispiratori erano Fanfani e il Cardinale Florit, con la sua predica domenicale di incitamento alla «caccia», il sicario il missino Pisanò, il braccio secolare il sostituto procuratore Casini.

La strega: Adele Faccio.

Gli strumenti sono sempre quelli logori, brutali del potere: sembra che niente cambi e che sempre gli possa riuscire di uccidere silenziosamente, di affogare nelle calunnie e nelle menzogne ogni libertà. Ma non è così: le donne, di Adele in galera, hanno fatto un momento di incredibile forza, una lunga pertica per spiccare un grosso salto […]. Non più una cosa da consumare in silenzio, l’aborto, peccato voluto da chi lo condanna, reato. In massa, in 2.700 abbiamo rotto il silenzio delle vicende personali, abbiamo dichiarato di avere abortito o aiutato ad abortire; e le donne in Adele non hanno visto la strega ma la sorella, e la loro bandiera. Sulle cartoline stampate dal MLD e inviate al giudice lo slogan era:

«La libertà di una è la libertà di tutte».

[E. Roccella, C.I.S.A. – M.D.L, Aborto. Facciamolo da noi, pp. 17-18]

III. Salvare il “non nato” dall’ingiustizia legalizzata

Nel gennaio 1975 fu scoperto a Firenze un luogo dove il Partito radicale organizzava sistematicamente un gran numero di aborti clandestini. I dirigenti si giustificarono asserendo che si trattava di un servizio di “aiuto alla donna”. Un gruppo di persone rispose affermando che «le difficoltà della vita non si superano sopprimendo la vita, ma superando insieme le difficoltà». Tra questi Carlo Casini, classe 1935, il cui impegno ha radici lontane e ha inizio sulla carta proprio in quello stesso anno con la fondazione dei Cav (Centri di aiuto alla vita) e del Movimento per la Vita.

«Sono stato tra i fondatori, ma non l’unico. Io credo che il fondatore sia stato il valore della vita che ha animato i cuori di persone che riconoscevano nel bambino non nato “il più povero dei poveri”, secondo la definizione di Santa Teresa di Calcutta. Spero di avere svolto un ruolo significativo a causa della mia storia personale e della mia professione. Ero giudice e sono sempre stato convinto che il diritto deve essere la forza dei deboli, cosicché l’aborto legale verso cui camminava in quegli anni l’Italia (la legge che lo ha legalizzato è del 1978, ndr) mi appariva e mi appare come la più radicale delle ingiustizie. La mia professionalità, scelta per servire i più deboli, si è messa così a servizio dei “più poveri tra i poveri”, sia per salvare vite umane, sia per riportare nella legge la giustizia misurata sui diritti dei più deboli».

[O. Vetri intervista a l’onorevole Carlo Casini, La mia famiglia che ama la vita, Famiglia cristiana.it” (15.10.2017)]

Il caso per la stampa e l’intervento degli intellettuali

Nel gennaio del 1975 una storica copertina di “L’Espresso” conferisce una nuova visibilità alla questione aborto. Nelle settimane successive sulle pagine del “Corriere della Sera” si schierano intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Claudio Magris e Italo Calvino. Il dibattito si arricchisce e si innesta nella complessità di temi che investono la storia sociale e politica della Repubblica e i mutamenti dell’Italia dagli anni del boom economico in poi.

 

I. Uno scontro inevitabile

Il più alto intervento di elaborazione teorica da parte della Chiesa giungeva il 18 novembre 1974 con l’emanazione del testo intitolato Dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede approvato dal papa fin dal 28 giugno. Il comunicato della Chiesa giungeva proprio in concomitanza con la discussione al Parlamento francese del progetto di legge governativo sull’aborto, che avrebbe avuto un forte impatto sull’opinione pubblica italiana […]. Mentre la Chiesa era impegnata a diramare le sue dichiarazioni ufficiali, due grandi settimanali nazionali fornivano la misura della distanza con cui una parte della società italiana percepiva certe prese di posizione teoriche. Nell’estate del 1974 “Panorama” pubblicava, infatti, un sondaggio di opinione dal quale si poteva apprendere che ben il 63% degli italiani pensava che il Parlamento avrebbe dovuto occuparsi urgentemente dell’aborto e studiare una nuova legge, mentre il 53% riteneva che il problema non toccasse né lo Stato né la Chiesa, ma sostanzialmente le singole coscienze. L’atmosfera si sarebbe surriscaldata ancora di più all’inizio del 1975, con l’avvio della campagna per la liberalizzazione dell’aborto promossa da “L’Espresso” e appoggiata dalla cosiddetta “Lega del 13 maggio” (la data della storica vittoria del referendum sul divorzio). Un’emblematica copertina, nel numero in edicola il 19 gennaio recitava: «Aborto: una tragedia italiana». L’immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater” che suonava come un’accusa alla Chiesa, provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenità e vilipendio della religione. Lo scontro, che fino a quel momento sia la stampa che la Chiesa e i partiti avevano tentato di evitare, era divenuto ormai inevitabile.

[G. Scirè, L’aborto in Italia. Storia di una legge, pp. 63-65] 

Copertina L’Espresso, gennaio 1975

 

 

II. L’intervento di Pier Paolo Pasolini

[…] L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della «coppia» così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura […]. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com’era nelle speranze democratiche). [Mentre] tutto ciò che sessualmente è «diverso» è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). È vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente. Del resto le élites sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua «reale» tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l’intera sua storia. Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. É questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell’aborto e quindi l’abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata […]. La mia opinione estremamente ragionevole invece è questa: anziché lottare contro la società che condanna l’aborto repressivamente, sul piano dell’aborto, bisogna lottare contro tale società sul piano della causa dell’aborto, cioè sul piano del coito. Si tratta – è chiaro – di due lotte «ritardate»: ma almeno quella «sul piano del coito» ha il merito, oltre che di una maggiore logicità e di un maggiore rigore, anche quello di un’infinitamente maggiore potenzialità di implicazioni. C’è da lottare, prima di tutto contro la «falsa tolleranza» del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l’indignazione del caso; e poi c’è da imporre alla retroguardia, ancora clerico-fascista, di tale potere, tutta una serie di liberalizzazioni «reali» riguardanti appunto il coito (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale ecc. ecc. Basterebbe che tutto ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione, e il problema dell’aborto verrebbe in sostanza vanificato, pur restando, come deve essere, una colpa, e quindi un problema della coscienza. Tutto ciò è utopistico? É folle pensare che una «autorità» compaia al video reclamizzando «diverse» tecniche amatorie? Ebbene, non sono certo gli uomini con cui io qui polemizzo che debbono spaventarsi di questa difficoltà. Per quanto io ne so, per essi ciò che conta è il rigore del principio democratico, non il dato di fatto (com’è invece brutalmente, per qualsiasi partito politico). Infine: molti – privi della virile e razionale capacità di comprensione – accuseranno questo mio intervento di essere personale, particolare, minoritario. Ebbene?

[P. P. Pasolini, Sono contro l’aborto, “Corriere della Sera” (19.1.1975)]

III. L’intervento di Italo Calvino

Caro Magris,

con grande dispiacere leggo il tuo articolo Gli sbagliati [3.2.1975 N.d.R.]. Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo. Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico. Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è «una» cosa spaventosa […]. Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite.

Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia.

[I. Calvino, “Corriere della Sera” (9.2.1975)]

La nube rosa. Che fare con le donne incinte?

Il 10 luglio 1976 nello stabilimento della società ICMESA, nei pressi di Milano, il sistema di controllo di un reattore chimico per la produzione di triclorofenolo va in avaria. L’esplosione del reattore non avviene, ma l’alta temperatura raggiunta causa la massiccia formazione di TCDD, sostanza comunemente nota come diossina. Si forma una nube tossica che colpisce i territori di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Limbiate e Desio.

Il timore di effetti collaterali sui feti spinge a considerare consigliabile l’aborto terapeutico. Ma si tratta di mettere in guardia le future madri dal pericolo di gravi malformazioni dei nascituri o di far passare sottobanco inquietanti istanze eugenetiche? È l’ennesima lotta politica sul tema.

 

I. Seveso e la diossina

Viene decisa l’evacuazione di tutta la popolazione. […] I possibili danni della diossina sul nascituro […] provocano un acceso dibattito sulla necessità o meno dell’aborto delle donne incinte della zona. La clinica Mangiagalli di Milano e l’ospedale di Desio accettano di praticare interruzioni di gravidanza su richiesta delle donne anche se formalmente vietato dalla legge. […] Uno scontro molto aspro avviene sul tema dell’aborto. Sono documentate […] le conseguenze che la diossina può avere su una gravidanza. Aborti spontanei prima di tutto, e poi possibilità di nascita di bambini con malformazioni, deformità e deficit cerebrali. Il “labbro leporino”, secondo la voce che si diffonde, è tipico del Vietnam dove si erano buttate tonnellate di diossina. Laura Conti, assessore regionale all’Ambiente […] si schiera subito a favore dell’aborto terapeutico (che però non è previsto dalla legge). Un gruppo che si riunisce intorno al settimanale locale “Solidarietà” vuole invece a tutti i costi vietarlo perché vede la possibilità che, attraverso una prima deroga per Seveso, possa passare la temuta legge che permette l’aborto. Intorno a “Solidarietà” […] scende in campo Comunione e liberazione che farà, soprattutto con Roberto Formigoni, del caso Seveso il tema centrale della sua battaglia politica, scagliandosi contro le “madri che praticano l’omicidio spinte da medici terroristi per ideologia”.

Laura Conti ha raccontato questa vicenda nel romanzo Una lepre con la faccia di bambina, pubblicato da Editori Riuniti nel 1978.

[E. Deaglio, Patria 1967-1977, pp. 495-499] 

II. “O mostro o aborto”

A Seveso, il 10 luglio del 1976 fuoriesce una nube di diossina da un reattore dello stabilimento chimico dell’Icmesa. […] A sfruttare il momento mediatico si precipitarono esponenti dell’ecologismo di sinistra e… ovviamente le militanti del CISA (Centro sterilizzazione e aborto, fondato nel 1973 da Emma Bonino, Adele Faccio, Maria Adelaide Aglietta e altri) e alcuni medici.

Ecco un ampio stralcio dell’articolo di MARIO PALMARO (da “Il Timone” n° 55, Luglio-Agosto 2006) che a trent’anni dal fatto fa un’analisi della campagna di disinformazione che ne seguì, sulla pelle degli abitanti di Seveso. “Nei giorni immediatamente successivi all’incidente muoiono animali da cortile, e alcune persone sono colpite dalla cloracne, eruzioni cutanee che nel caso di due bambine risultarono particolarmente deturpanti. (…) 193 i casi di cloracne accertati (…). Gli abortisti allora si scatenano per creare un clima di terrore a Seveso e dintorni: attiviste dell’Unione donne italiane, del Cisa, e di altri “collettivi” raggiungono ogni giorno la zona ed esibiscono nei pressi del consultorio o degli ospedali cartelli inequivocabili, su cui campeggiano scritte come “O mostro o aborto”. Il 31 luglio le parlamentari Susanna Agnelli (Partito Repubblicano), Giancarla Codrignani (Partito comunista) e la radicale Emma Bonino chiedono che alle donne di Seveso e dintorni sia consentito l’aborto. Un coro di consensi si leva da quasi tutti i giornali. Il 7 agosto il ministro della sanità Dal Falco e il ministro della giustizia Bonifacio, entrambi democristiani, ottenuto il consenso del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, autorizzano gli aborti per le donne della zona che ne faranno richiesta. Il Giornale di Montanelli scrive, rompendo il coro dei consensi: «Il rischio è per i bambini, non per la madre: si tratta di aborto eugenetico, e non terapeutico». Subito il Cardinale di Milano Giovanni Colombo prende coraggiosamente posizione: non uccidete i vostri figli – dice l’8 agosto – le famiglie cattoliche sono pronte a prendersi cura di eventuali bambini handicappati. I giornali dileggiano l’arcivescovo di Milano, e rilanciano con maggiore virulenza la campagna per la legalizzazione dell’aborto. Intanto vengono praticati i primi aborti all’ospedale di Desio e alla clinica Mangiagalli di Milano.” (La clinica Mangiagalli, rinomatissima allora come oggi: il Corriere della Sera, e non solo lui, il 28 settembre 2007 la definisce in prima pagina “tempio dell’ostetricia italiana”, ndr). “Ma all’orrore si aggiunge altro orrore – continua Palmaro nel suo articolo – quando nel marzo del 1977 arrivano in Italia i risultati delle analisi compiute presso i laboratori di Lubecca sui poveri resti dei bambini mai nati di Seveso: nessun embrione presentava le temute malformazioni. Erano dunque queste le uniche vittime innocenti della diossina”. Proprio così, la diossina non fece vittime al momento dell’incidente e non è dimostrato che abbia provocato il cancro agli abitanti di Seveso o malformazioni ai loro figli nei successivi trent’anni. I telegiornali dell’epoca mostrarono le immagini dei bambini deformati nati nel Vietnam dove gli americani usarono milioni di litri di Diossina come defoliante.

I bambini di Seveso, sani e abortiti, erano almeno trentatrè; i figli delle madri che rifiutarono di abortire, vent’anni dopo, hanno incontrato Giovanni Paolo II testimoniando al Papa la grazia di essere vivi.

Sono questi, dunque, compiuti sull’onda della paura, i primi aborti legali in Italia; ma all’epoca non erano disponibili le diagnosi prenatali che oggi tutti conosciamo anche per via dei tragici errori che balzano alle cronache di tanto in tanto: errori come il recente tristissimo caso delle gemelline di Milano, perché l’aborto di un bambino handicappato (bambino, non feto, per favore!), per il sentire moderno non è nemmeno tragico, è poco meno che “necessario”.

[E. Cosmi, Una questione soprattutto politica]

Un dibattito aperto: l’approvazione della legge 194/1978 e il referendum del 1981

L’entrata in vigore della legge n. 194 nel 1978 non placa il dibattito e nel 1981 gli italiani sono chiamati a esprimere il loro giudizio sul tema attraverso un referendum. Ma la chiarezza del dettato legislativo non significa la fine delle tensioni e delle contrapposizioni.

 

I. L’ultimo iter parlamentare

Tra il 18 e il 21 maggio 1978, dopo anni di dibattito e un iter legislativo a dir poco tormentato, si svolgeva l’ultimo atto parlamentare della vicenda, che terminava con la promulgazione della legge n. 194, dal titolo Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. In base a questa, l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era più perseguibile penalmente nello Stato italiano. Sul punto cruciale del testo di legge, la soluzione di mediazione finale rispettava sostanzialmente l’autodeterminazione della donna: le ragazze sotto i diciotto anni, quando i genitori non accordavano il permesso, potevano ricorrere al giudice tutelare, il quale, ascoltata la volontà della ragazza, avrebbe potuto comunque concedere l’autorizzazione. Per andare incontro, però, alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di “obiezione di coscienza”.

Il delicato compito cui la legge si proponeva di assolvere scaturiva da tre principi fondamentali, enunciati nel comma 1 dell’art. 1: la garanzia del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, il riconoscimento del valore sociale della maternità, la tutela della vita umana dal suo inizio. Al comma 3 veniva indicato essenzialmente un programma di prevenzione dell’aborto, assegnandone l’attuazione allo Stato, alle Regioni, agli enti locali nell’ambito delle proprie funzioni e competenze.

La legge fu definitivamente approvata in Senato il 22 maggio con 160 voti contro 148. […]

L’approvazione della legge, in ogni caso, sembrava voler confermare la linea della cosiddetta “solidarietà nazionale”, iniziata a seguito dell’uccisione di Moro da parte della Br. Il cadavere dello statista democristiano era stato ritrovato, infatti, appena nove giorni prima della votazioni sull’aborto. […] In Italia il 1978 si dimostrava come l’ultimo anno davvero cruciale per le riforme sociali del paese. Accanto alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, infatti, era stata avviata la nuova normativa sugli ospedali psichiatrici (legge Basaglia), fino all’approvazione, alla fine dell’anno, della riforma sanitaria, che concretizzava i precedenti progetti per l’istituzione del cosiddetto servizio sanitario nazionale. […] Più in generale, l’anno 1978 pareva concretizzare quel ciclo storico che si era aperto nel 1974 con la vittoria del “no” al referendum che abrogava il divorzio, che aveva visto le nuove grandi mobilitazioni operaie, studentesche e femministe, creando, parallelamente all’esplodere del fenomeno del terrorismo, il terreno per un sommovimento sociale di grande rilevanza, ma che già iniziava a esaurire la propria carica propulsiva.

[G. Sciré, L’aborto in Italia. Storia di una legge, pp. 171-189]

II. La 194/1978 è confermata

Gli italiani vanno alle urne [il 17 maggio 1981 N.D.R.] per confermare o abrogare alcune leggi che riguardano l’ergastolo, la limitazione del porto d’armi, le leggi di emergenza contro il terrorismo e la «194» che permette l’aborto (su questo quesito esistono due proposte: una del Movimento per la vita, per restringere i casi di interruzione di gravidanza; una seconda, dei radicali, per allargarli). I risultati sono netti: l’ergastolo viene mantenuto, e così pure il porto d’armi così com’è, le leggi speciali, e l’aborto, che viene riconfermato con il 68% dei voti. La proposta di estenderne la possibilità oltre all’attuale legge viene bocciata dall’88% dei votanti. […]

Ma non sono tutte rose e fiori. Proprio nel Nord, il più evoluto dal punto di vista dei diritti, sorge un movimento cattolico oltranzista che alla donna riserva la vecchia triade contadina veneta: «che la piasa, che la tasa, che la staga in casa». Si chiama Comunione e Liberazione, ed è stato fondato a Milano da un prete, don Luigi Giussani, molto popolare in uno dei licei più noti della città, il Berchet. Non aveva esitato, il Giussani, a denunciare alla Magistratura tre studenti del liceo Parini, che, nel 1966, avevano osato promuovere sul giornalino scolastico La Zanzara un’inchiesta sui giovani e il sesso. […] A vent’anni di distanza, però, le armate di don Luigi Giussani sono diventate molto più folte. Predicano la castità, denunciano i medici che non sono obiettori nei casi di aborto, sostengono la necessità di un’educazione cattolica, offrono alla donna italiana il ruolo casalingo di educatrice cristiana (sempre in casa) contro le sirene della scuola pubblica e del mondo materialista.

[E. Deaglio, Patria 1978-2010, p. 118 e p. 256]

III. Il punto di vista bioetico

Se diamo uno sguardo retrospettivo all’attuale dibattito sull’aborto dobbiamo riconoscere che gli antiabortisti sono stati molto abili nel far credere a tutti (anche agli avversari) che la questione se il feto è o no persona sia sempre stata al centro della riflessione sull’aborto. La disanima storica ha mostrato come invece essa abbia assunto rilevanza centrale solo negli ultimi decenni, e l’analisi razionale ha messo in luce come l’idea che il feto è persona sia del tutto insostenibile e fuorviante. L’aborto non comporta alcun omicidio, ma mette in discussione il principio di sacralità della vita e con esso le tradizionali concezioni della maternità e della procreazione, del matrimonio e della famiglia, del ruolo della donna, ecc. L’aborto resta un tema tanto controverso e scottante perché tutte queste tematiche comportano profondi coinvolgimenti emotivi. […] Fino a pochi decenni fa il principio di sacralità della vita non era messo in dubbio e appariva tanto scontato da non dover neanche essere esplicitato: era semplicemente la «realtà» (morale), l’unica esistente. Per questo le discussioni sull’aborto apparivano per lo più come dispute «accademiche», perché comunque era scontata l’illiceità di tale atto (anche se rimanevano dubbi circa la sua gravità). Ma negli anni Settanta il principio di sacralità ha cominciato a perdere consensi, e la questione dell’aborto è stata quella che, più di altre, ha messo drammaticamente in luce quest’aspetto, facendo emergere come tale principio presupponga invece una specifica visione del mondo. E vero che di solito la persona comune crede che la propria visione del mondo sia semplicemente la «realtà», ma, nel momento in cui assumiamo una certa distanza critica, dobbiamo riconoscere che ci sono diverse visioni del mondo e che non è facile stabilire in modo preciso e immediato quale di esse sia «migliore» rispetto alle altre, tanto che qualcuno dice addirittura che è impossibile farlo e che si deve riconoscere l’incommensurabilità delle visioni del mondo o dei «paradigmi» (ossia l’impossibilità di stabilire quale sia la «migliore»). Nel momento in cui si prende atto che si ha a che fare con diverse visioni del mondo, si deve riconoscere anche che l’adesione a una visione del mondo o il suo rifiuto equivale alla scelta o al rifiuto di una visione ideologica o di una visione religiosa: non a caso proprio questo tipo di scelta è accompagnata da profonde emozioni capaci di suscitare divisioni sociali.

Quest’osservazione è cruciale per la nostra soluzione normativa: se è vero che la scelta tra l’etica della sacralità e della qualità della vita equivale a una scelta religiosa (nel senso sopra indicato), allora – poiché negli stati laici moderni vale il principio di libertà religiosa – si deve riconoscere che una legislazione permissiva dell’aborto è una questione di diritti civili o umani. Infatti, una legislazione che vietasse l’aborto violerebbe il diritto di coloro che non accettano il principio di sacralità della vita di comportarsi conformemente alla propria visione del mondo. In breve, il divieto di aborto sarebbe contrario al diritto di «libertà religiosa» tipico del mondo moderno, sancito dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948):

 «Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione».

[M. Mori, Aborto e morale. Capire un nuovo diritto, pp. 89-92]

IV. Un genocidio censurato

Ma questo fenomeno – nonostante le sue colossali dimensioni, il più vasto olocausto della storia umana – è totalmente e sistematicamente rimosso da tutta la società contemporanea: un miliardo di vittime. Ripeto: un miliardo di vittime umane soppresse.

Parlo dell’aborto. Come si arriva a un computo così inaudito? […] Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (dati del 1997) ogni anno sarebbero praticati 53 milioni di aborti, ovvero abbiamo annualmente un numero di vittime pari a quelle provocate dalla Seconda guerra mondiale  […]. Da quanti anni si verifica questa ecatombe? Se si ricorda che da più di trent’anni l’aborto è stato introdotto nei paesi democratici e molto prima è stato legalizzato dall’Unione Sovietica, dalla Germania nazista e poi dagli altri Paesi dell’Est – cosa che dimostra come l’aborto sia uno dei frutti più avvelenati delle ideologie totalitarie del Novecento – si supera facilmente il miliardo di vittime. […] È ciò che fa del nostro un tempo assolutamente tragico. Si dirà che l’aborto era praticato anche nei secoli precedenti. Sì, ma non in dimensioni così gigantesche. Inoltre erano perpetrate anche altre crudeli pratiche (guerre, stupri, infanticidi, massacri di civili, sacrifici umani, schiavismo), ma a nessuno è venuto in mente di legalizzare quelle pratiche e renderle assistite e pagate dagli Stati, così moltiplicando oltretutto il numero delle vittime mentre si sono moltiplicate al contempo le “armi” farmaco-tecnologiche di distruzione legale della vita innocente. Il fatto nuovo, l’assoluta novità storica […] è questa: se la pratica dell’aborto è da tempo diffusa, l’abortismo come teoria, come ideologia «sembra essere un fatto circoscritto alla civiltà occidentale moderna». Insomma è accaduto qualcosa di inedito e orribile, la nostra generazione credeva di essersi liberata dalla vecchie ideologie e senza accorgersene si è trovata immersa in una nuova (e ancor più mortifera) ideologia. Infatti l’aborto, nel XX secolo, è diventato addirittura un “diritto” rivendicato politicamente, giustificato filosoficamente e codificato dalla legge. […] Non volersene rendere conto significa non voler vedere.

Perché c’è un’immane differenza fra il fenomeno individuale e nascosto dell’aborto dei tempi passati e l’organizzazione seriale da parte degli Stati della soppressione di centinaia di migliaia di vite umane innocenti con potenti tecnologie e un apparato ideologico e mediatico che pretende di rivendicare quello sterminio addirittura come uno dei fondamentali “diritti dell’uomo”. Una cosa simile non si era mai vista prima.

[A. Socci, Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti, pp. 10-14]

Una questione (solo) femminile? Aborto: Donne e uomini, maternità e paternità

Nel corso degli anni Settanta molte donne prendono contatto con l’affermazione della propria corporeità. Con l’uso della pillola per la prima volta possono scindere il binomio sessualità-concepimento, innescando una trasformazione potente che, rafforzata dalla legalizzazione dell’aborto, permette loro di acquisire la consapevolezza di un diritto a una maternità responsabile e cosciente.  Ma quali conseguenze psicologiche può procurare il diritto a praticare l’interruzione di gravidanza senza un’accurata informazione sulla contraccezione? Inoltre, se la legge 194/1978 prevede che “il padre del concepito” possa essere sentito dal medico che effettua gli accertamenti sanitari necessari soltanto “ove la donna lo consenta” (art. 5), quali effetti si possono avere sul valore costituzionale dell’unità famigliare (cfr. art. 29 della Costituzione italiana)? Infine, che tipo di paternità si profila dalle implicazioni psico-antropologiche – oltre naturalmente a quelle di genere – conseguenti all’applicazione della legge?

 

I. Due testimonianze

– Tu quando hai cominciato ad avere una pratica specifica rivolta alle donne?
– ’76
– Nel ’76. Come sei arrivata?
– Col problema dell’aborto. ’76: era il periodo che c’erano le manifestazioni prima ancora della legge, se ti ricordi. I radicali che proponevano l’abolizione assoluta. Il PCI, le donne dell’UDI che proponevano una legge e io ho cominciato in quel periodo lì, cioè, coinvolta da questo problema fondamentalmente, il problema dell’aborto.
– Ma per una tua storia personale o perché ti interessava?
– Perché mi interessava. No, io non avevo avuto problemi di aborto prima di allora, niente, mi interessava come problema per cui è stato il mio avvicinarmi alle donne, per cui l’aborto, pratica del self-help…

(Susanna).

Io ho abortito due volte, o forse tre, perché una volta ebbi un’emorragia spontanea. Comunque, la prima volta che rimasi incinta fu un dramma, dato che non mi ero mai posta questo problema e perché sapevo di dover abortire. Però mi dispiaceva molto doverlo fare  […]. La seconda volta che rimasi incinta ci pensai molto prima di abortire. Quando già avevo preso questa decisione, feci una specie di assemblea con tutti i miei amici. Ritenevo che le motivazioni che mi spingevano all’aborto avessero delle cause sociali, quindi volevo sentire quali fossero le loro idee in proposito.

(Amalia Goffredo).

Amalia rievoca l’aborto come una questione che riguarda sé, la propria vita, il rapporto con la maternità, anche se tutto ciò viene calato in un contesto collettivo, sociale, dunque politico. Quasi una riprova per se stessa e per gli altri che “il personale è politico”.

Per Susanna, invece, la vicenda dell’aborto si colloca dentro un’impostazione molto pratica del suo approccio al femminismo, è parte di un “bisogno operativo”.

È un momento di transizione “dalla pratica di corpo a quella di testa”. Un passaggio di molte che, anche partecipando alle manifestazioni per l’aborto, prendono contatto con l’aspetto del femminismo che va oltre l’attenzione al lavoro intellettuale delle donne e fa i conti con “affermazioni sulla corporeità anche violenta, anche soggettiva, anche esclusiva”.

[Centro di documentazione delle donne – Bologna, Il movimento delle donne in Emilia-Romagna. Alcune vicende fra storia e memoria p. 137]

II. Non è la legge 194 a istituire l’aborto

Negli anni ’70 la diffusione della pillola anticoncezionale ha prodotto – nell’esperienza psicologica delle donne – una disgiunzione tra sessualità e maternità. [Ma] da secoli l’aborto, praticato in forme più o meno clandestine, fa parte delle tecnologie con le quali l’uomo cerca di controllare la nascita e la morte. La legge 194 del 1978, quindi, non istituisce l’aborto, come spesso si sostiene, ma soltanto lo rende socialmente visibile ed amministrabile. Non dimentichiamo che l’aborto è stato, per generazioni di donne, una vergogna da nascondere e un orrore da sopportare in silenzio. Farne un’esperienza vivibile e condividibile comporta un ripensamento di tutta la maternità. Tradizionalmente la maternità è stata esclusa – nella nostra cultura – dalla sfera dell’etica. Considerata un comportamento naturale, non restava che tutelarne il pacifico svolgimento. Dal canto suo la madre è stata una figura santificata: tutta passività, amore, donazione e sacrificio di sé, non poteva essere attraversata da alcuna ambivalenza o conflittualità. In rari e deprecabili casi poteva soltanto rivelarsi una “madre snaturata”, ma era l’eccezione che confermava la regola, la mostruosità che si contrapponeva alla normalità.

Ora la possibilità dell’aborto presuppone che la maternità sia finalizzata a una scelta responsabile, che rientri nella sfera dell’autodeterminazione, che la si riconosca come luogo emblematico dell’incrocio tra responsabilità individuali e collettive. Ci si attendeva, dall’approvazione della legge sull’aborto, una sequenza di questo genere: più contraccezione, meno maternità indesiderate, meno aborti. Benché gli aborti siano in costante diminuzione, non possiamo negare che il loro numero è ancora eccessivo e che la relazione tra informazione e condotta corrispondente non è, nel controllo della fertilità. Così scontata come ci si sarebbe potuti aspettare. Sono sempre meno le donne che abortiscono perché non edotte delle possibilità di contraccezione ed emerge invece una figura di donna certamente problematica: una donna istruita ed informata che fallisce la contraccezione e che si trova quindi costretta a ricorrere, una o più volte, ad  intervento abortivo.

Il movimento per la vita propone, di fronte a questi innegabili problemi, la cancellazione del diritto acquisito a una maternità responsabile e cosciente. Ma negare l’aborto, criminalizzare l’interruzione della maternità non identifica il reale livello dei problemi che sarebbero ancora una volta rimossi anziché risolti. L’aborto è una condotta che giunge a valle rispetto a tutta una serie di comportamenti e di atteggiamenti che lo determinano.

[S. Vegetti Finzi, L’aborto, uno scacco del pensiero, pp. 113-114]

III. Corpo e mente traumatizzati

Il cervello femminile inizia a trasformarsi subito dopo il concepimento e i cambiamenti ormonali avviano un significativo cambiamento psicologico, perché alla nascita del bambino corrisponde la nascita di una mamma […] Le donne sviluppano l’attaccamento emotivo verso il feto già durante le prime fasi della gravidanza: esso inizia subito dopo il concepimento anche nelle donne che progettano di abortire, in quanto i processi psicologici sottostanti a questa relazione precoce sono inconsci e biologicamente predeterminati. […] L’IVG è un evento che determina un trauma psichico. Le parole “trauma” e “psiche” derivano dal greco: trauma significa ferita, lacerazione, danno; psichè significa anima. Dunque l’aborto, rappresentando un trauma psicologico, è una ferita dell’anima. Le ferite dell’anima sono esperienze caratterizzate dall’avere un impatto emotivo così intenso e devastante che impediscono alle persone di continuare ad essere come prima e l’IVG è un evento tragico, una risposta violenta e mortifera a difficili problemi sociali, individuali, relazionali e sessuali. Esso viene esperito dalle donne come l’uccisione violenta del proprio bambino e questa percezione si associa alla paura, all’ansia e alla colpa associati alla procedura. Questo evento traumatico cambia per sempre la persona negli aspetti più intimi e profondi dell’identità e può avere degli effetti eccezionalmente destabilizzanti.

[C. Cacace, Aborto. Il danno psichico, “Sì alla vita”, pp. 28-29] 

 

IV. Lettera di Andrea B.

« […] Premetto che sono padre di una bambina di 17 mesi ed ho una compagna. Circa 6 mesi fa la mia ex fidanzata C., con cui mi vedevo frequentemente anche dopo la nascita di mia figlia, è rimasta incinta dopo una notte di amore. Ho scoperto per caso questa situazione perché C. aveva deciso di fare l’interruzione volontaria di gravidanza di nascosto. Su questo punto secondo me la legge 194 è lacunosa: possibile che la decisione di tenere un figlio dove non ci sono problemi oggettivi (di salute, economici, affettivi) dipenda solo ed esclusivamente dalla decisione della madre? Ho provato in tutti i modi a persuadere C. nel portare avanti la gravidanza ma non c’è stato nulla da fare e a distanza di mesi mi porto ancora questo lutto nel cuore. Quindi se è vero che la legge 194 è una legge giusta e indispensabile per la tutela delle donne, forse la stessa andrebbe rivisitata per tutelare in parte anche il padre di una vita che potrebbe venire al mondo, perché nel momento in cui si decide per un aborto gli strascichi di questa decisione non ricadono solo sulla donna (che riporta anche conseguenze fisiche) ma anche emotivamente e in maniera devastante su un uomo. […]. Ricordo che il giorno prima dell’interruzione di gravidanza ho poggiato il mio orecchio sulla pancia di C., ho immaginato di sentire il battito di quell’essere infinitesimamente piccolo, ho riempito i miei polmoni d’aria inspirando profondamente come per provare a trasmigrarlo dentro di me, per continuare a farlo crescere e poi ho pianto per quel figlio che l’indomani sarebbe tornato in quell’oblio da cui era venuto.

Ha scritto Oriana Fallaci in Lettera ad un bambino mai nato: “E tu mi sei venuto accanto, mi hai detto: ma io ti perdono, mamma. Non piangere. Nascerò un’altra volta. Splendide parole, bambino, ma parole e basta. Tutti gli spermi e tutti gli ovuli della terra uniti in tutte le possibili combinazioni non potrebbero mai creare di nuovo te, ciò che eri e che avresti potuto essere. Tu non rinascerai mai più. Non tornerai mai più. E continuo a parlarti per pura disperazione”. Per questo figlio mio ti parlo ogni giorno e non mi dimenticherò mai di te … perché saresti stato un essere unico e irripetibile e io ti avrei amato come amo tua sorella: con tutto me stesso, con tutto il cuore, con tutta la mia forza, ogni giorno della mia vita».

[Lettera a “Invece Concita”, “la Repubblica”, Andrea B., Aborto, sono il padre di un bambino mai nato, 9 dicembre 2018, p. 27]

Aborto e cultura di massa

Quando storie di donne che abortiscono entrano nelle canzoni e nei film il tema può dirsi sdoganato nella cultura di massa. Oltre le canzoni di lotta anche il cantautorato esce allo scoperto: Francesco Guccini nel 1976 fa emergere l’ipocrisia di fondo nell’Italia del tempo. Molti anni più tardi il film statunitense Juno è l’occasione per uno scontro fra due giornalisti di grande levatura. La piccola storia di una sedicenne incinta indecisa porta nell’arena Natalia Aspesi e Giuliano Ferrara.

 

I.O è un figlio per lo Stato/o è aborto ed è reato”

La canzone politica Aborto di Stato è tratta dal Canzoniere Femminista del Comitato per il Salario al Lavoro Domestico (S.L.D.) di Padova, allora disponibile nel disco “Canzoni di donne in lotta” (collana dello Zodiaco distibuita da Editoriale Sciascia). È stata cantata in diverse manifestazioni a favore dell’aborto.

Le umiliazioni cui si fa menzione a Trento e Firenze si riferiscono a fatti accaduti. A Trento, il 15 febbraio 1974, in seguito alla morte di una donna dovuta probabilmente ad aborto, la polizia fa irruzione nell’ambulatorio medico del dott. Zorzi e si impossessa di 263 cartelle di donne sospettate di avere abortito e le incrimina. In risposta, più di 2.500 italiane firmano una petizione dichiarando di aver abortito. A Firenze, il 9 gennaio 1975, i carabinieri fanno irruzione in una clinica. Vengono arrestati 6 dipendenti mentre 40 donne sono portate in questura; alcune di loro sono obbligate a sottoporsi a visite ginecologiche perché sospettate di avere abortito.

Aborto di Stato
strage delle innocenti
processi esemplari
repressione per tutte!
Aborto di Stato
strage delle innocenti
sul sangue delle donne
si fanno affari d’oro
A Trento a Firenze le insultano, le umiliano.
A Trento a Firenze terrore sulle donne
in Italia e fuori le trattan d’assassine!
Ma noi le conosciamo
siamo tutte noi
tutte abbiamo abortito
tutte sappiamo come!
Nei modi piú cruenti
e piú pericolosi
con la paura addosso
rischiando la galera
Ci sbattono in questura, ancora addormentate
ancora sanguinanti, è reato e non han pietà
sadismo, sfruttamento, razzismo, illegalità
che è una cosa sporca
ormai lo sanno tutti
o è un figlio per lo Stato
o è aborto ed è reato
Attenti padroni, siamo milioni
Attento lo Stato
troppo a lungo ci ha sfruttato!
Aborto di Stato strage delle innocenti.

[Collettivo Internazionale Femminista (a cura), Aborto di stato. Strage delle innocenti, pp. 82-83] 

 

II. “Piccola storia ignobile”

Nel 1976 i casi di giovani ragazze rimaste incinta per errore o per leggerezza rimanevano spesso come invisibili, nonostante fossero sotto gli occhi di tutti e in constante aumento, soprattutto a seguito del cambiamento dei costumi sessuali dovuti alla rivoluzione del Sessantotto, in un ambiente che peraltro, più in generale, rimaneva ancora tradizionalista e intriso di morale cattolica. Soprattutto la donna appartenente ai ceti medi e più umili, “allevata ai valori di famiglia e religione, di ubbidienza, castità e cortesia” – come cantava quello stesso anno il cantautore Francesco Guccini nella canzone Piccola storia ignobile – casalinga o lavoratrice, studentessa o madre di famiglia, molto spesso estranea all’attivismo politico e ai dibattiti degli intellettuali che non poteva permettersi scandali o costosi viaggi all’estero, si trova a essere vittima del vuoto legislativo sull’aborto, del perbenismo e del moralismo, dell’indifferenza della Chiesa, della strumentalizzazione delle forze politiche, del silenzio dei quotidiani, dell’ipocrisia dell’opinione pubblica e perfino della stessa famiglia. Cantava Guccini, provando a esprimere il drammatico stato d’animo di una giovane costretta a vivere la triste esperienza dell’aborto.

[G. Scirè, L’aborto in Italia. Storia di una legge, pp. 121-122]

Ma che piccola storia ignobile che mi tocca raccontare
così solita e banale come tante
che non merita nemmeno due colonne su un giornale
o una musica, o parole un po’ rimate
che non merita nemmeno l’attenzione della gente
quante cose più importanti hanno da fare
se tu te la sei voluta a loro non importa niente
te l’avevan detto che finivi male.
Ma se tuo padre sapesse qual è stata la tua colpa
rimarrebbe sopraffatto dal dolore
uno che poteva dire: “Guardo tutti a testa alta”
immaginasse appena il disonore
lui, che quando tu sei nata mise via quella bottiglia
per aprirla il giorno del tuo matrimonio
ti sognava laureata, era fiero di sua figlia
se solo immaginasse la vergogna
se solo immaginasse la vergogna
se solo immaginasse la vergogna.
E pensare a quel che ha fatto per la tua educazione
buone scuole, e poca e giusta compagnia
allevata nei valori di famiglia e religione
di ubbidienza, castità, e di cortesia
dimmi allora quel che hai fatto chi te l’ha mai messo in testa
o dimmi dove e quando l’hai imparato
che non hai mai visto in casa una cosa men che onesta
e di certe cose non si è mai parlato
e di certe cose non si è mai parlato
e di certe cose non si è mai parlato.
E tua madre, che da madre qualche cosa l’ha intuita
e sa leggere da madre ogni tuo sguardo
devi chiederle perdono, dire che ti sei pentita
che hai capito, che disprezzi quel tuo sbaglio
però come farai a dirle che nessuno ti ha costretta
o dirle che provavi anche piacere
questo non potrà capirlo, perché lei, da donna onesta
l’ha fatto quasi sempre per dovere
l’ha fatto quasi sempre per dovere
l’ha fatto quasi sempre per dovere.
E di lui non dire male, sei anche stata fortunata
in questi casi, sai, lo fanno in molti
sì, lo so, quando lo hai detto, come si usa ti ha lasciata
ma ti ha trovato l’indirizzo e i soldi
poi ha ragione, non potevi dimostrare che era suo
e poi non sei neanche minorenne
ed allora questo sbaglio è stato proprio tutto tuo
noi non siamo perseguibili per legge
noi non siamo perseguibili per legge
noi non siamo perseguibili per legge.
E così ti sei trovata come a un tavolo di marmo
desiderando quasi di morire
presa come un animale macellato stavi urlando
ma quasi l’urlo non sapeva uscire
e così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi
davvero sola fra le mani altrui
e pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi
di tuo padre, di tua madre e anche di lui
di tuo padre, di tua madre e anche di lui
di tuo padre, di tua madre e anche di lui.
Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi
non vedo proprio cosa posso fare
dirti qualche frase usata per provare a consolarti
o dirti: “è fatta ormai, non ci pensare”
è una cosa che non serve a una canzone di successo
non vale due colonne sul giornale
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare.

[F. Guccini, Piccola Storia ignobile, in Via Paolo Fabbri 43, 1976] 

 

III. L’aborto nei film e lo scontro sul film Juno (2008)

A. Il film “Juno” di Jason Reitman […] esce in Italia il 4 aprile, nove giorni prima delle elezioni politiche. Si immagina lo sbandieramento massiccio, del resto già iniziato, del carinissimo film americano usato come una clava, per ragioni molto più politiche che etiche, dai movimenti pro-life e dai sostenitori della famosa e molto confusa «moratoria sull’ aborto». È vero, Juno, sedicenne rimasta incinta dopo il suo primo e unico rapporto da lei imposto come un gioco, «Proviamo!», a un reticente coetaneo, prima pensa d’impiccarsi (con un cordone di liquirizia!), poi di abortire: ma davanti alla clinica c’è una ragazzina con cartello antiabortista che le grida, «Ha già le unghie!», e dentro lo squallido studio «Che puzza di dentista» solo donne in età, affrante, rassegnate, ed è la sua estrema giovinezza a ribellarsi a quel dolore impotente. Decide quindi di portare avanti quell’impiccio (chiama affettuosamente quel che le vive in pancia, fagiolo, mai bambino): ma non di diventare madre, «Perché non sono pronta». Sugli annunci economici cerca una coppia che le piaccia, cui dare in adozione ciò che per lei non può essere un figlio, perché lei non può e non vuole esserne madre. Ma nel film non si parla mai di difesa della vita, non ci sono vescovi o predicatori o profittatori politici che evochino assassinio, il feto non è un personaggio, non c’è il peso del moralismo o del senso di colpa, nessuno che giudichi o minacci o consigli o imponga. Juno ribadisce semplicemente ciò che i pro-life non riescono ad accettare: che spetta alla donna, e solo a lei, anche quando è ancora una quasi bambina, il diritto di decidere cosa fare del proprio corpo, e quindi della propria vita. È lei a decidere che non avrebbe senso coinvolgere il ragazzino inaspettatamente padre: «Che ne facciamo?» chiede al timido bamboccione sedicenne, «Fa quello che ti sembra giusto», risponde lui, desolato e spaventato, affidandole ogni responsabilità, impaziente di tornare a correre con i compagni […]. La forza del film è nel viso sensibile, allegro e talvolta inquieto, nel corpicino asessuato della giovanissima canadese Ellen Page, nella sceneggiatura premio Oscar, in parte autobiografica, scritta da una bella trentenne che si definisce «femminista liberal», che ha mantenuto il nome, Diablo Cody, di quando s’impegnava, come dice lei, «In atti sessuali in cambio di denaro». Secondo film del regista Jason Reitman, Juno è costato 7 milioni di dollari e ne ha già incassati 124, più dei due grandi premi Oscar messi insieme, “Non è un paese per vecchi” (61 milioni) e “Il petroliere” (31). […] Parla di aborto e gravidanza precoce senza deprecazioni sociologiche e morali. E infine suggerisce una domanda: perché un film in cui c’è una ragazza che decide di non abortire viene immiserito, stravolto, avvilito, sino a essere ridotto a un semplice e cinico messaggio antiaborto? Juno è altro, è un commovente, intelligente, divertente racconto sul passaggio dall’innocenza alla presa di coscienza, un viaggio dall’immaturità alla responsabilità, certo pro-life, se la vita è la propria e quella delle persone che si amano; è una riflessione profonda sulla confusa adolescenza di oggi, che consuma il sesso con pigra e spaventata innocenza, sulla distanza tra genitori e figli che l’amore sa colmare, sulla fragilità e inconsistenza maschile, sulla famiglia e infine sì, sulla maternità, sull’ immenso potere delle donne, libere di generare e non essere madri, o di essere madri senza generare. Le famiglie del film non sono quelle del family day, papà maschio, mamma femmina, uniti da santo matrimonio più numerosi piccini. Eppure paiono meglio […].

[N. Aspesi, Juno, giù le mani da questo film (6.3.2008)]

B. Alla fine del film Juno suggerisce: “Bisognerebbe innamorarsi prima di riprodursi”, ed è una frase fantastica. Bisognerebbe anche pensare prima di scrivere, cara Aspesi. Il suo tentativo di salvare dalla crociata contro l’aborto il film hollywoodiano che sta per invadere i nostri schermi dopo un clamoroso successo internazionale è destinato a un grottesco fallimento, e mi dispiace perché solo uno strano panico può indurre a un’impresa ideologica e giornalistica tanto disperata. La gente che ha letto il suo articolo infatti vedrà il film, ai primi di aprile. Vedrà una ragazzina con la sua lingua di strada e i suoi deliziosi capricci pieni di buonumore e di amore. La vedrà che resta incinta. Che decide di abortire. Che va verso l’ingresso di una clinica femminista per aborti. Vedrà che incontra una ragazzina bruttacchiona e sensibile, come bruttacchioni e sensibili siamo tutti noi pro life e pro family day, tutti noi che godiamo del suo accanito disprezzo antropologico, la quale le comunicherà bruscamente che il suo fagiolino ha già le unghie. Vedrà che nella clinica a Juno viene offerto un preservativo al lampone e un numeretto per mettersi in fila davanti alla stanza in cui avverrà il raschiamento, a proposito del nesso tra contraccezione e aborto. La vedrà fuggire dalla clinica denunciando un “odore da anticamera del dentista”. La vedrà decidere di non abortire, di partorire il gamberetto ed essere libera dalle convenzioni che indicano la strada opposta. La vedrà cercare su un giornale coppie che intendono adottare bambini, spiritualmente aiutata da suo padre e dalla sua matrigna, mentre il suo maschietto inebetito da sport e vita se ne lava un po’ le manine. Il pubblico riderà e piangerà durante la sua gravidanza, i suoi giochi, la sua gestazione moderna del pisellino. Moderna nel senso di non veterofemminista, moderna nel senso che tutto è possibile, anche il rifiuto della maternità quando si sia incinta in un’età precoce, ma non è giusto sopprimere una vita umana. Almeno, non in un mondo che si dice civile e che giudica incivile il medioevo. Meglio la modernità sublime della ruota del convento medievale, meglio darlo in adozione dopo averlo fatto, il pesciolino. E alla fine del film c’è una donna con bambino, la madre adottiva, che se ne sta lì nel suo presepe contemporaneo; e Juno e il suo maschietto che suonano la chitarra e, quando sarà il momento, ne faranno un altro, di pesciolino. Contenti del fatto che il suo fratellino maggiore non è stato raschiato via e gettato in una discarica. Il tutto sembrerà al pubblico più ragionevole, più naturale, più salutare, più bello: per le donne e per i bambini. Un film è un film, non è un messaggio culturale. Ma se c’è, il messaggio, meglio saperlo leggere. E se è lieve, indiretto ma chiaro, non saperlo leggere, cara Aspesi, vuol dire avere gli occhi foderati di prosciutto. Vi era già successo, a voi di Repubblica, con il film rumeno premiato a Cannes. Era un film che denunciava gli orrori dell’aborto clandestino sotto Ceausescu, ma denunciava anche l’aborto, facendo vedere un bambino nella pancia della madre, quel bambino poi abortito, per lunghi eterni istanti. Ne eravate scossi, e avete fatto finta di niente. Anche per un miliardo di aborti in trent’anni avete fatto finta di niente. E ora provate sacro orrore per noi che vi diciamo: tutto si può fare, nel tempo in cui si è liberi di scegliere, tranne uccidere i bambini nel seno delle loro madri. Un punto del nostro programma dice: date in adozione i bambini, siate libere di non abortire. Juno c’est nous.

[G. Ferrara, Ehi, Natalia Aspesi, stavolta hai toppato forte: Juno siamo noi (6.3.2008)] 

 

IV. Un racconto spaventosamente semplificato

Le gravidanze indesiderate sono raccontate in modo spaventosamente semplificato nei film. La riproduzione diventa il destino di ogni donna e la responsabilità di ogni uomo indipendentemente dalle circostanze. L’aborto esiste solo come una finta opzione, qualcosa contro cui scegliere. E così  sei rimasta incinta senza volerlo? Guarda alcuni film degli ultimi anni, controlla il tuo cervello all’ingresso, e impara come la magia del film può far sparire i tuoi problemi e le tue scelte. Il contesto rende l’aborto ancora più inconcepibile: ogni nascita è pura gioia, ogni pianto infantile cancella i dubbi e le fatiche, l’amore materno è incontaminato e privo di ombre, ogni difficoltà è facilmente superabile […].

Ecco la rappresentazione e la sua assenza. Oppure una rappresentazione parziale, sfocata, intenzionale. Il risultato è sempre lo stesso: l’aborto come possibile scelta viene espulso dall’inquadratura, viene relegato al non detto, al clandestino. Entra nell’elenco delle azioni che denotano uan condizione disgraziata, prossima alla patologia e all’esclusone dai confini sociali. “Mamme alcolizzate che lavorano negli strip club, ragazzine scopate dai patrigni, vicini che spaccano bottiglie, bambini lobotomizzati dalla TV spazzatura, gatti morti in corridoio. Eccetera. Una povertà intellettuale e materiale che tocca tutto, non lascia pulito niente.

[C. Lalli, La verità vi prego sull’aborto, pp. 198-199]

L’obiezione di coscienza

Nonostante i dati del Ministero della Salute del 2015 mostrino come l’interruzione volontaria di gravidanza sia in costante diminuzione, aumenta il fenomeno dell’obiezione di coscienza. L’Onu ha recentemente registrato un allarme che mette in discussione il diritto alla salute delle donne che non riescono ad accedere a una pratica consentita per legge e che dovrebbe essere garantita.

 

 

 

 

Fonti: Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/78), anno 2015.

 

I. L’allarme dell’Onu

Preoccupa la difficoltà di accesso agli aborti legali in Italia a causa del numero dei medici che si rifiutano di praticare interruzione di gravidanza per motivi di coscienza”. A dirlo nelle sue osservazioni sulla situazione italiana è il comitato per i diritti umani dell’Onu. Preoccupazione è espressa anche per la distribuzione in tutto il Paese dei medici obiettori, e “il numero significativo di aborti clandestini”. “Lo Stato – sottolinea – dovrebbe adottare misure necessarie per garantire il libero e tempestivo accesso ai servizi di aborto legale, con un sistema di riferimento valido”.

Secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, in Italia i ginecologi obiettori, che non praticano l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) prevista dalla legge 194 del 1978, sono circa il 70%. Un dato che si mantiene stabile. Le ivg, di contro, sono diminuite in modo significativo nel corso degli anni: nel 1983 erano pari a 233.976; nel 2013 sono più che dimezzate (102.760) e nel 2014 sono scese sotto le centomila, a 97.535. In 30 anni, quindi, le ivg sono calate di 131.216 unità, mentre i ginecologi non obiettori sono scesi di 117 unità.

Numeri però che secondo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, garantiscono l’applicazione della legge 194. Infatti, come di recente rilevato dallo stesso ministro, in trent’anni c’è stato un “dimezzamento del numero di ivg settimanali, a livello nazionale, a carico dei ginecologi non obiettori, che nel 1983 effettuavano 3,3 ivg a testa a settimana, mentre ne effettuano 1,6 nel 2013, e dalle Regioni non è giunta alcuna segnalazione di carenza di medici non obiettori”. Secondo il ministero, quindi, “il numero dei punti ivg appare più che adeguato rispetto al numero delle ivg effettuate”. Dati, però, più volte contestati dalla Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194 (Laiga), che sostiene come l’Italia sia tra gli ultimi Paesi in Europa per tutela della salute delle donne che vogliono abortire con otto regioni in cui la percentuale di medici obiettori oscilla tra l’80% e il 90%, come in Molise e Campania. Percentuali che, secondo la Laiga, pongono l’Italia quasi ai livelli dei paesi in cui l’aborto è vietato, ovvero Irlanda e Polonia, e ben lontana da paesi come la Francia dove l’obiezione è al 7%, il Regno Unito dove è al 10% o i paesi scandinavi dove l’obiezione di coscienza non si registra del tutto. Lo scorso aprile, anche il Comitato europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa si era espresso pronunciandosi su un ricorso presentato dalla Cgil e affermando che le donne in Italia continuano a incontrare “notevoli difficoltà” nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull’aborto e che l’Italia viola quindi il loro diritto alla salute. Lo scorso luglio, tuttavia, in una risoluzione, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa si felicitava “per gli sviluppi intervenuti” in Italia dopo la condanna da parte del Comitato europeo e affermava di attendere “con interesse il rapporto che le autorità devono presentare al Comitato europeo dei diritti sociali nel 2017”.

[Aborto, Onu contro l’Italia: “Preoccupa la difficoltà di accesso a causa del numero dei medici obiettori, ”il Fatto Quotidiano” (28.3.2017)] 

 

II. Difendere la vita: la voce della coscienza

Ieri in tarda serata, dopo lunga camera di consiglio, la Corte di appello di Trieste ha confermato l’assoluzione per la farmacista di Monfalcone che aveva dichiarato la propria obiezione di coscienza rifiutandosi di vendere la pillola del giorno dopo”. Lo dichiarano il sen. avv. Simone Pillon e l’avv. Marzio Calacione che hanno difeso la professionista in questo percorso giudiziario durato 5 anni. “Il Tribunale di Gorizia aveva già assolto la farmacista, ma la Procura locale aveva appellato la sentenza, costringendo la difesa a un nuovo grado di giudizio. Ora finalmente la Corte di Appello del capoluogo giuliano ha confermato l’assoluzione, riconoscendo la particolare tenuità del fatto e l’infondatezza delle pretese accusatorie”.

La farmacista era imputata del reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio perché, in qualità di collaboratrice presso la farmacia comunale, e quindi incaricata di pubblico servizio, nel 2012, durante un turno notturno si era rifiutata di consegnare il Norlevo, la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, perché abortiva, nonostante l’esibizione di ricetta medica rilasciata con espressa indicazione di assumere il farmaco nella stessa giornata, appellandosi all’obiezione di coscienza e indicando la farmacia più vicina in cui l’avrebbe potuta acquistare.

“Siamo ben felici che anche la Corte abbia voluto mandare esente da responsabilità penale la nostra assistita, che ha scelto coraggiosamente di seguire la voce della propria coscienza per difendere la vita umana fin dal concepimento”, dichiarano gli avvocati Calacione e Pillon. Che aggiungono: “Speriamo tuttavia che nessuno sia più costretto a subire un processo penale per aver semplicemente messo in pratica i principi etici dettati dalla propria coscienza”. “Il nostro ordinamento giuridico già prevede la libertà di coscienza, come dimostrato da questa assoluzione, ma forse uno specifico chiarimento normativo potrebbe evitare infondati ma faticosi ricorsi allo strumento penale”, conclude l’avvocato Pillon che è anche capogruppo della Lega in commissione giustizia al Senato.

[Confermata l’assoluzione per la farmacista obiettrice, “In Terris” (3.7.2018)]

III. Manipolare desideri

Una donna non può vivere la sua gestazione come un’incubatrice acefala, perché ciò minaccia la sua integrità così come quella del figlio. Interviene allora l’aborto terapeutico che realizza un’impossibilità per altri versi già inscritta nella gestazione stessa, nella sua economia psichica, non meno importante di quella somatica poiché non è in gioco una vita ma qualche cosa di molto più complesso, il rapporto fra due persone. Ciò che fa di un aggregato di cellule un figlio è il desiderio materno, la capacità della donna di presentificare e anticipare l’esistenza dell’altro dentro di sé. Ove questa donazione di esistenza, fatta di pensiero e di affetto, venga meno, non si costituiscono le coordinate primarie dell’evento generativo umano. […] Sarebbe semplicistico pensare che la donna che abortisce è necessitata a farlo, non sceglie, non giudica. Sarebbe far torto a quella “intelligenza della maternità” che ci sforziamo piuttosto di mobilitare. Dobbiamo pensare piuttosto a un confronto tra forze promuoventi e forze neganti la maternità, favorevole a queste ultime. È accaduto, in occasione di ogni aborto, un bilancio che ha prodotto, come esito, una scelta che va rispettata. È assurdo intervenire a far recedere la donna dalla sua decisione abortiva in un momento di alta perturbazione emotiva, quando si rivela più ricattabile e suggestionabile.

È come se l’operatore si sostituisse alla sua interlocutrice manipolando un desiderio di cui non conosce la storia e la struttura. L’ascolto non ammette procedure inquisitorie e la domanda di sapere recede di fronte alla risposta preformata. Se un intervento ci deve essere, deve svolgersi a monte, sulla scelta o meno di fecondità, quando nulla è ancora pregiudicato sul piano organico. Quando ci troviamo a fronteggiare una domanda di aborto è già accaduto un evento immodificabile. L’economia riproduttiva della specie si è già calata in una storia e ha prodotto un esito che è il precipitato di quella storia stessa.

[S. Vegetti Finzi, L’aborto, uno scacco del pensiero, pp. 117-118]

Testi di riferimento

1. Per certi aspetti il femminismo degli anni settanta ha cambiato gli uomini perché ha cambiato le donne. Anche in questo caso, quando diciamo uomini non ci riferiamo certo alla totalità del genere maschile e probabilmente neppure alla maggioranza di esso. Ma con i movimenti femministi divenne, per molti uomini, sempre più difficile continuare a evitare di confrontarsi su tali questioni – o almeno a continuare a ignorarle del tutto – anche perché sempre meno donne davano per scontata l’accettazione dei più tradizionali ruoli di genere. In questa nuova situazione, gli uomini non seppero reagire, come in passato avevano fatto i loro padri, contrattaccando in massa attraverso una violenta riaffermazione della virilità e del dominio patriarcale. La tradizione aveva ormai perso gran parte della sua forza di legittimazione; la finzione collettiva di una supremazia talmente “naturale” da volersi indicibile, prima ancora che indiscutibile, mostrava ampie e profonde crepe. Il fondamento di quella finzione era consistito in una fede nella mascolinità come in qualcosa che esiste al di sopra dei secoli e dell’umano arbitrio, ma questa verità metafisica fu prima denunciata come anacronistica dagli uomini stessi, sull’onda dello sviluppo economico e civile, e infine attaccata come ideologica dalla critica radicale dei movimenti delle donne. Probabilmente l’eredità più significativa del neofemminismo, dal punto di vista della mascolinità, fu proprio questa: un intero mondo di norme, concetti e pratiche quotidiane di relazione, che in precedenza appariva talmente immobile da non venire neppure rilevato, dovente oggetto corrente di contrattazione, contestazione e ridefinizione.

La mascolinità tradizionale e le sue molteplici manifestazioni (compresi i suoi effetti nelle relazioni interpersonali, fra donne e uomini ma anche fra gli uomini stessi) furono così sottratte dalle condizioni di invisibilità, in cui erano state mantenute grazie al mito della loro assoluta necessità divina o naturale, quando di quel mito fu inesorabilmente svelata la funzione ideologica. Si trattava di un processo critico che era iniziato con il femminismo stesso e che aveva quindi una storia più che secolare alle spalle: ma negli anni settanta del Novecento l’attacco alla mascolinità tradizionale fu sferrato nel momento storico della sua massima debolezza, dopo che processi di modernizzazione a tutti i livelli avevano mortalmente indebolito la sacralità della tradizione, dopo che il fronte maschile era ormai frastagliato in una pluralità di forme identitarie non più allineate gerarchicamente, dopo che un protagonismo femminile mai così accentuato aveva conferito alle donne un’autorità socialmente riconosciuta e un potere negoziale di estensione inedita nei confronti del potere maschile.

[S. Bellassai, La mascolinità contemporanea, pp. 121-122]

2. Un inquieto e faticoso itinerario del raccontare e il raccontarsi ha accompagnato la formazione e la crescita di una coscienza civile di uomini e donne sulla realtà e la condizione femminile negli ultimi trent’anni. Si tratta tuttavia di narrative che, in Europa come negli Stati Uniti, nonostante le macro-differenze di impostazione storica e concettuale del problema aborto, seppur acquisite, non mettono per nulla il corpo riproduttivo delle donne al riparo dagli attacchi di quel potere che non vuole riconoscere ad esso cittadinanza. Resta comunque e sempre in agguato la possibilità che i centri di produzione del sapere, anche inconsciamente, si facciano in qualche modo indisponibili a cedere quella responsabilità sul corpo che la legge restituisce alle donne sottoforma di diritto. Sembra evidente quindi come il tema del rapporto tra i sessi rappresenti una sorta di criticità permanente tra le questioni che investono la nostra società in ogni epoca e ad ogni latitudine, una di quelle «oblique libertà» il cui impatto, da qualsiasi punto di le si guardi, resta altissimo e va ben oltre la formulazione di una legge. Non si tratta evidentemente di una questione meramente legata al disagio per la mancanza di una legge o dovuto a condizioni di povertà delle donne e delle famiglie, si tratta piuttosto di uso dell’arma aborto di volta in volta al fine di spostare consensi, di alimentare paure, di mantenere una parte della popolazione in situazione di dipendenza, nonché di strutturare le politiche di welfare. Il punto è che, pur trovandoci al compimento di un cammino che ha portato in quasi tutti i paesi occidentali ad una legge che modula l’accesso all’interruzione di gravidanza – con differenze che variano a seconda del substrato culturale su cui si è innestato il dibattito – ciò che continua a mancare, ovunque, è una cultura dell’autodeterminazione e della responsabilità per le donne: che esse abbiano la possibilità e il diritto di decidere di diventare madri quando lo desiderano non è un concetto facilmente assimilabile da un sistema culturale (nonché sociale, politico ed economico) nato ovunque evidentemente «non di donna». Appena se ne presenta l’occasione – e l’occasione è data assai spesso da una crisi economica, o da un problema politico, o da una generica minaccia all’ordine esistente – una delle prime questioni che emerge nel dibattito pubblico è l’urgenza di trovare un colpevole, un responsabile preciso, concreto, identificabile come è stato nell’America dell’11 settembre. Oppure al contrario, trovare un elemento salvifico, una soluzione miracolosa nel qui ed ora. Le donne – e il corpo problematico che le rappresenta – sono quindi alternativamente e storicamente le due cose, a sancire una posizione di eterna precarietà della loro effettiva cittadinanza in questo mondo. La storia ci insegna come neppure l’iscrizione della sovranità procreativa nel Patto costituente può concretamente fare argine a questa continua rimessa in questione dei diritti delle donne quando si riferiscono al loro corpo e alla loro sessualità.

[L. Perini, Quando l’aborto era un crimine. La costruzione del discorso in Italia e negli Stati Uniti (1965-1973), “Storicamente”, 6, pp. 15-17] 

Bibliografia
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  • S. Vegetti Finzi, L’aborto, uno scacco del pensiero, in E. Quintavalla, E. Raimondi (a cura di), “Aborto perché?”, Milano, Feltrinelli, 1989.

 

Filmografia
  • Juno (J. Reitman, 2007)

 

Sitografia

 

Dati articolo

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Titolo: “Stati interessanti”. Aborto e intolleranza di genere. Il caso in Italia
DOI: 10.12977/nov286
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Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

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