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È successo un ’68. Laboratorio di didattica controversiale

È successo un ’68. Laboratorio di didattica controversiale

Di ignoto – Almanacco 1968 di Storia illustrata, Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

Analisi critica del movimento del ’68, dei suoi ideali, obiettivi, metodi di lotta; riflessione sulle ripercussioni, in ambito sociale, culturale, pedagogico, delle rivendicazioni portate avanti dai giovani di allora; valutazione degli esiti di tali processi e dinamiche sulla società a cinquant’anni di distanza.

Il debate e l’insegnamento della storia

Sottoporre a “processo” un evento storico – in questo caso il ’68 –, mettendone in luce gli aspetti positivi e negativi, le luci e le ombre, le conquiste e i limiti, i processi innovativi e le derive, consente allo studente impegnato nella controversia di cogliere la complessità e problematicità della questione presa in esame, non riducibile a banali schematizzazioni o a generici giudizi. Il debate, applicato alla storia, non mira tanto a incentivare abilità retoriche negli studenti o a sviluppare una vis polemica fine a se stessa, ma si ripromette di far crescere la loro capacità critica, l’attitudine all’analisi dei documenti e al dibattito storiografico.

Mary Woolley è un riferimento obbligato per chi voglia applicare questo mediatore didattico alla storia.

L’Associazione degli storici inglesi ha preparato un dossier esaustivo, con tutto ciò che serve per usare questo strumento nel lavoro didattico: le raccomandazioni per inserirlo nel curricolo verticale e per gestirlo in classe, gli obiettivi, una buona serie di esempi e una bibliografia completa.

In Italia, il debate sta rapidamente guadagnando consensi, al punto che di recente si è tenuta una apposita Olimpiade.

Tuttavia ci sembra che, in queste prime applicazioni, si sia puntato quasi esclusivamente allo sviluppo delle capacità di discussione e di ascolto. Nell’ambito della ricerca didattica condotta dalla rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea, stiamo invece cercando di capire in che modo orientare questo lavoro al fine di favorire l’acquisizione di capacità storiche da parte degli studenti: il debate, quindi, come occasione per un uso critico delle fonti, per argomentazioni storiograficamente corrette, per proficui confronti con i risultati della ricerca storica e, ancora, per imparare ad adottare punti di vista diversi dai propri, sviluppare una maggiore empatia, mettere in discussione stereotipi e misconcezioni.

Il tutto tramite un’attività didattica stimolante e coinvolgente.

Questo debate sul ’68 è stato presentato agli insegnanti di scuola superiore che hanno preso parte al corso di formazione Cambiamenti e rivoluzioni nel curriculo di storia, diretto da Antonio Brusa e organizzato dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, in collaborazione con Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura, che si è svolto a Genova, a Palazzo Ducale, il 27 e 28 febbraio 2018.

Sequenza didattica

  • l’insegnante introduce agli studenti il movimento del ’68 tramite la lettura di due brevi brani che, evidenziando possibili aspetti positivi e negativi del fenomeno, offrono interpretazioni alternative del tema in questione.
  • dopo aver individuato, attraverso la discussione, alcune tematiche e problemi particolarmente rilevanti, l’insegnante propone un piccolo dossier, composto da una decina/quindicina di brevi documenti. Insieme si dà una rapida scorsa ai documenti. All’occorrenza il docente fornisce rapide informazioni.
  • divisa la classe in due gruppi, si estrae a sorte (oppure decide il docente) il compito, apologetico o critico, affidato ad ognuno di essi: il gruppo A dovrà quindi “difendere il ‘68”, il gruppo B dovrà metterne in luce gli aspetti critici e negativi.
  • i due gruppi avranno un tempo assegnato per esaminare il dossier e prepararsi al proprio compito apologetico o critico.
  • il giorno convenuto si terranno le due “orazioni”, che dovranno essere ben impostate e convincenti.
  • dopo aver ascoltato le due relazioni, ogni gruppo farà le obiezioni alle tesi dell’altro; la discussione dovrà vertere sulla bontà e fondatezza degli argomenti portati a sostegno della propria tesi. Si dovranno citare i documenti, si potrà criticare la lettura che di questi è stata fatta dal gruppo avversario, si potrà rispondere alle critiche. Sarà cura del docente garantire l’ordinato svolgimento della discussione.
  • la “giuria”, composta dall’insegnante, affiancato eventualmente da altri colleghi disponibili a prendere parte al progetto didattico, prenderà nota delle obiezioni e delle risposte, ai fini di una valutazione storiografica. Il docente può assegnare un punteggio alle argomentazioni delle due squadre in base alla loro maggiore o minore attendibilità. Nel caso di un debate multidisciplinare si terrà conto, ovviamente, anche degli aspetti linguistici, letterari ecc.
  • l’insegnante alla fine della discussione comune potrà stabilire il punteggio finale e decretare il gruppo vincitore (questa opzione, demandata alla libera scelta del docente, riveste un carattere puramente strumentale ai fini della riuscita della controversia).
  • alla fine – in realtà è questo il momento decisivo del laboratorio – il docente presenterà agli studenti uno o due testi da lui ritenuti i più aggiornati, autorevoli e significativi sull’argomento. Entrambi i gruppi, a prescindere dal punteggio ottenuto, si confronteranno con questi testi. Lo scopo è quello di osservare se e in quale misura gli studenti riescono a cogliere differenze e analogie tra il ragionamento professionale dello storico e le argomentazioni portate nel dibattito a sostegno o detrimento di determinate tesi.

 Dossier per il debate

[è evidente che ogni docente potrà individuare i documenti che riterrà più opportuni per il lavoro con la propria classe; il presente dossier ha quindi un valore puramente indicativo]
Per iniziare il dibattito: due tesi a confronto
  • “Se avete i capelli lunghi, andate a lavorare in jeans o senza cravatta, se portate la minigonna o i pantaloni al posto della gonna, se non usate il reggiseno, se d’estate prendete il sole nudi, se ballate il rock & roll, vi fate le canne o avete un lavoro creativo, se siete vegetariani, fate yoga o comicoterapia, se ci sono in giro più barbe, orecchini, magliette con scritte e disegni, ponci, strani berretti, abiti bucati e colorati, zaini e scarpe a punta larga dovete ringraziare il ’68!”.

                      [Jacopo Fo, Sergio Parini, ’68. C’era una volta la rivoluzione, Feltrinelli, 1997]

  • “Il ’68 fallì come rivoluzione politica ed economica, perché gli assetti di potere e il sistema capitalistico restarono saldamente in sella. Ma si accanì sul costume, sul sesso e sul linguaggio, sulla famiglia e sul rapporto tra le generazioni, sulla scuola e sull’università. E lì produsse i suoi più gravi danni, alcuni irreparabili. La società entrata nel ‘68 aveva molte pecche e molti arcaismi, molte ipocrisie e molte contraddizioni, ma quella che ne uscì, soprattutto in quegli ambiti citati, fu peggio. L’errore d’origine fu la scissione tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra risultati e meriti, e il predominio assoluto dei desideri su ogni altra considerazione […] Il movimento sessantottino riteneva che la tradizione facesse parte di una ‘santa alleanza’ della reazione guidata dal capitale: invece la tradizione era l’ultimo baluardo per impedire che i cittadini, i credenti, i patrioti, i connazionali, i genitori, fossero ridotti solo a consumatori, pedine intercambiabili, atomi senza identità. Di conseguenza il capitalismo trionfò e spesso assunse come suoi agenti e funzionari i sessantottini di ieri […] Dopo il ’68 nessun movimento rivoluzionario andò al potere in Occidente e tantomeno in Italia; in compenso si avviò quel percorso – divorzio, aborto, depenalizzazione di reati legati alla droga e altri concernenti la famiglia, unioni omosessuali, per poi proseguire con altri più recenti”.

                   [Marcello Veneziani, Le false libertà del ’68, intervista 11/01/2018, in www.interris.it]

Documenti

Il caso “La zanzara”

La zanzara è il titolo del giornale studentesco del Liceo Parini di Milano. Il 14 febbraio 1966 la rivista pubblicò un’inchiesta dal titolo Che cosa pensano le ragazze d’oggi?, dalla quale emersero le opinioni di alcune studentesse del liceo sulla loro educazione sessuale e sul proprio ruolo nella società. In seguito alle proteste, tre redattori della rivista furono denunciati e processati, venendo poi assolti dall’accusa di stampa oscena e corruzione di minorenni. Il “caso” ebbe risonanza nazionale. Di seguito si riportano alcune risposte tratte dall’inchiesta Che cosa pensano le ragazze d’oggi?

“Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!”. “L’educazione sessuale nella scuola, e non solo da un punto di vista medico, è assolutamente necessaria per una modifica della mentalità verso moltissimi problemi quali le ragazze madri, i figli illegittimi, ecc. Non vogliamo più un controllo dello stato e dalla società sui problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui, assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità”. “Specialmente nell’amore nessuno dovrebbe agire secondo limiti e regole già prima codificati, ma solo secondo la propria coscienza e la propria volontà”. “Entrambi i sessi hanno ugualmente diritto ai rapporti prematrimoniali”. “Si può volere molto bene a una persona, però fino a un certo punto, perché ci sono cose che non si può e non si deve assolutamente dare, anche se si ama, al di fuori del matrimonio”.

[M. Sassano, M. De Poli, C. Beltramo Ceppi, Che cosa pensano le ragazze d’oggi, in “La Zanzara, organo del centro studentesco pariniano”, Anno XX, n.3, febbraio 1966]

Per una nuova scuola: l’esperienza didattica di don Milani

Lettera a una professoressa (a cura della Fondazione don Lorenzo Milani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2007, ediz. orig. 1967) raccoglie l’esperienza didattica della Scuola di Barbiana e la concezione pedagogica di don Lorenzo Milani.

“I genitori più poveri non fanno nulla [contro la selezione e bocciatura degli studenti]. Non sospettano nemmeno che queste cose esistono. Anzi sono commossi. Ai loro tempi in campagna c’era solo la terza. Se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi. ‘L’ha detto il Professore. Che persona educata. Mi ha fatto sedere. Mi ha mostrato il registro. Un compito pieno di freghi blu. A noi non c’è toccato intelligente. Pazienza. Andrà nel campo come siamo andati noi”. 

“Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che sono riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti. Voi invece sapete di poter scartare i pezzi (gli studenti) a vostro piacimento. Io vi pagherei a cottimo. Un tanto per ragazzo che impara tutte le materie. O meglio multa per ogni ragazzo che non ne impara una. Allora l’occhio vi correrebbe sempre su Gianni. Lottereste per il bambino che ha più bisogno, trascurando il più fortunato. Come si fa in tutte le famiglie. Vi svegliereste la notte con il pensiero fisso su lui a cercare un modo nuovo di far scuola, tagliato su misura sua. Andreste a cercarlo a casa se non torna”.

[estratti da Lettera a una professoressa, op. cit.]

Il movimento dei “capelloni”

Nel 1967 i “beat” milanesi affittarono un terreno nella periferia cittadina, sistemandovi una tendopoli, battezzata dai giornali Barbonia City. Dopo alcuni mesi intervenne la polizia, che rase al suolo la tendopoli, operazione apprezzata dai principali organi di stampa. Un gruppo di intellettuali firmò un manifesto di protesta contro l’operazione repressiva.

Appello degli intellettuali

“- I recenti episodi di intolleranza da parte della polizia nei confronti di giovani colpevoli solo di atteggiamenti non passivamente conformistici, intolleranza che si è manifestata in varie forme: cacciata di quei giovani dal terreno che si erano scelto e affittato per stabilirvi una tendopoli, arresti, violenze, fogli di via, convocazioni in questura ecc.

– Le reazioni a questi avvenimenti della stampa benpensante, che ha montato una campagna diffamatoria e delatoria nei confronti degli stessi giovani, facendo leva sulla istintiva insofferenza del pubblico verso qualsiasi fenomeno sia appena in qualche modo deviante rispetto agli usi comuni.

– Hanno allarmato un gruppo di intellettuali e cittadini democratici quali, al di là di ogni considerazione di merito e di ogni giudizio sul fenomeno giovanile nel suo complesso, vedono in queste reazioni una oggettiva minaccia alla libertà individuale, di espressione e di riunione.

– Questi cittadini chiedono che tali libertà siano salvaguardate nell’interesse stesso della salute del corpo sociale, di cui è garante la Costituzione della repubblica, e che si ponga fine alla persecuzione e alla campagna diffamatoria contro un movimento colpevole solo di esprimere alcune reali inquietudini della gioventù di oggi”.

(tra i firmatari dell’appello: Vittorio Gregotti, Franco Fornari, Cesare Musatti, Giangiacomo Feltrinelli, Umberto Eco, , Luciano Berio, Dario Fo, Franca Rame)

[cit. in Enrico Deaglio, Patria. 1967-1977, Feltrinelli, 2017]

Onda verde

(gruppo giovanile fondato da Andrea Valcarenghi, poi promotore della rivista di contro-cultura “Re Nudo”)

“Il movimento della nuova generazione in Italia deve affrontare alcuni rischi, che si combinano poi in uno solo: il riassorbimento. Proviamo a elencarne alcuni. 1) Elevata frammentazione in gruppi […] 2) Strumentalizzazione da parte di forze politiche organizzate. Un’operazione di questo tipo è particolarmente adatta al Pci e alle varie sette paracomuniste […] 3) Strumentalizzazione da parte di gruppi culturali e di potere economico. Riassorbimento in cultura e in mercato […] Da una parte fa comodo a tutti la zoologia del capellone con gli anelli al naso, romanticamente protestatario, con il cervello in disuso; dall’altra l’attenta ricerca di assorbire nelle categorie culturali e filosofiche certi elementi, in sostanza fondare e lanciare il ‘beat da salotto’ […] Definizione di un metodo comune e di un programma preciso. Una prima base di accordo è stato il rifiuto metodologico della violenza, mentale e fisica. Parallelamente veniva così fornito il primo obiettivo contro cui muovere coerentemente: la violenza in ogni suo aspetto, come limitazione della scelta libera. Queste due prime definizioni servivano a fondare una diagnosi: l’attuale sistema sociale dei ‘borghesi’ o ‘semifreddi’ è nato e si fonda sulla violenza, tanto più mortale quanto più nascosta e abitudinaria […] Che non ci va una generazione che ha alle spalle guerre mondiali, ghetti, nazisti e stalinisti vari, che non ci vanno le autorità, la famiglia, la repressione sessuale, l’economia dei consumi, la guerra e gli eserciti, i preti, i poliziotti, i culturali, i pedagoghi e demagoghi […] Noi vogliamo cambiare subito e con urgenza le situazioni in cui ci troviamo. Per questo bisogna agire e provocare […] Bisogna che i semifreddi (le loro ideologie, i loro apparati, i loro metodi) non sopravvivano dopo la morte naturale, che il passato non ritorni nel nostro futuro. L’inevitabile ricambio biologico deve diventare ricambio generale. A questo scopo abbiamo assunto il metodo della provocazione”.

[tratto da Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli 2015 (ediz. orig. 1988)]

Canzoni del “nuovo sentire”

E’ la pioggia che va

(Mogol, 1966; https://www.youtube.com/watch?v=D6I1_FFDhak)

Sotto una montagna di paure e di ambizioni / c’è nascosto qualche cosa che non muore
Se cercate in ogni sguardo, dietro un muro di cartone / troverete tanta luce e tanto amore
Il mondo ormai sta cambiando / e cambierà di più / Ma non vedete nel cielo / quelle macchie di azzurro e di blu / È la pioggia che va, e ritorna il sereno / È la pioggia che va, e ritorna il sereno

Quante volte ci hanno detto sorridendo tristemente / le speranze dei ragazzi sono fumo
Sono stanchi di lottare e non credono più a niente / proprio adesso che la meta è qui vicina
Ma noi che stiamo correndo / avanzeremo di più / Ma non vedete che il cielo / ogni giorno diventa più blu / È la pioggia che va, e ritorna il sereno / È la pioggia che va, e ritorna il sereno

Non importa se qualcuno sul cammino della vita / sarà preda dei fantasmi del passato
Il denaro ed il potere sono trappole mortali / che per tanto e tanto tempo han funzionato
Noi non vogliamo cadere /non possiamo cadere più giù / Ma non vedete nel cielo / quelle macchie di azzurro e di blu / È la pioggia che va, e ritorna il sereno / È la pioggia che va, e ritorna il sereno

[The Rokes]

Che colpa abbiano noi

(cover italiana di Mogol, 1966; https://youtu.be/cneXKhMb_zc)

La notte cade su di noi / la pioggia cade su di noi / la gente non sorride più / vediamo un mondo vecchio che / ci sta crollando addosso ormai… / ma che colpa abbiamo noi?

Sarà una bella società / fondata sulla libertà / però spiegateci perché / se non pensiamo come voi / ci disprezzate… come mai? / Ma che colpa abbiamo noi?

E se noi non siamo come voi… / e se noi non siamo come voi… / e se noi non siamo come voi… / una ragione forse c’è / e se non la sapete voi / ma che colpa abbiamo noi? / Che colpa abbiamo noi?

[The Rokes]

 

Dio è morto

(Francesco Guccini, 1967; https://youtu.be/yqMvHD1gNxc)

Ho visto / la gente della mia età andare via / lungo le strade che non portano mai a niente,

cercare il sogno che conduce alla pazzia / nella ricerca di qualcosa che non trovano
nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate, / lungo le strade da pastiglie trasformate, / dentro alle nuvole di fumo del mondo fatto di città, / essere contro ed ingoiare la nostra stanca civiltà / e un dio che è morto, / ai bordi delle strade dio è morto, / nelle auto prese a rate dio è morto, /nei miti dell’ estate dio è morto…

Mi han detto / che questa mia generazione ormai non crede / in ciò che spesso han mascherato con la fede, / nei miti eterni della patria o dell’ eroe / perché è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, / una politica che è solo far carriera,
il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, / l’ ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto / e un dio che è morto, / nei campi di sterminio dio è morto, / coi miti della razza dio è morto / con gli odi di partito dio è morto…

Ma penso / che questa mia generazione è preparata / a un mondo nuovo e a una speranza appena nata, / ad un futuro che ha già in mano, / a una rivolta senza armi, / perché noi tutti ormai sappiamo / che se dio muore è per tre giorni e poi risorge, / in ciò che noi crediamo dio è risorto, / in ciò che noi vogliamo dio è risorto, / nel mondo che faremo dio è risorto..

[Nomadi; il brano venne censurato dalla Rai]

 

Com’è bella la città

(Giorgio Gaber, 1969; https://youtu.be/gdjMhkgEePA)

Vieni vieni in città / che stai a fare in campagna / se tu vuoi farti una vita / devi venire in città.

Com’è bella la città com’è grande la città /com’è viva la città / com’è allegra la città.

Piena di strade e di negozi / e di vetrine piene di luce / con tanta gente che lavora / con tanta gente che produce. / Con le reclames sempre più grandi / coi magazzini le scale mobili / coi grattacieli sempre più alti / e tante macchine sempre di più.

[…]Com’è bella la città / com’è grande la città / com’è viva la città / com’è allegra la città.
Piena di strade e di negozi / e di vetrine piene di luce / con tanta gente che lavora / con tanta gente che produce. / Con le reclames sempre più grandi / coi magazzini le scale mobili / coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più / sempre di più / sempre di più / sempre di più.

[Giorgio Gaber]

Canzone del maggio

(Fabrizio De Andrè, 1973; https://youtu.be/fGpOn0udvXs?list=RDfGpOn0udvXs)

Anche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro coraggio / se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento / se il fuoco ha risparmiato / le vostre Millecento / anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti.

E se vi siete detti / non sta succedendo niente, / le fabbriche riapriranno, / arresteranno qualche studente / convinti che fosse un gioco / a cui avremmo giocato poco / provate pure a credevi assolti
siete lo stesso coinvolti.

Anche se avete chiuso / le vostre porte sul nostro muso / la notte che le pantere / ci mordevano il sedere / lasciamoci in buonafede / massacrare sui marciapiedi / anche se ora ve ne fregate, / voi quella notte voi c’eravate.

E se nei vostri quartieri / tutto è rimasto come ieri, / senza le barricate / senza feriti, senza granate /

se avete preso per buone / le “verità” della televisione / anche se allora vi siete assolti / siete lo stesso coinvolti.

E se credete ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti.

[Fabrizio De Andrè]

Si può

(Giorgio Gaber, 1976; https://youtu.be/dETg1PIP8Z0)

Si può, siamo liberi come l’aria / si può, siamo noi che facciam la storia / si può /

Si può, io mi vesto come mi pare / si può, sono libero di creare / si può, son padrone del mio destino si può, posso mettermi un orecchino / si può

Basta uno spunto qualunque / la nostra fantasia non ha confini / basta un pennello un colore
e noi siamo pronti a perpetuare la creatività dei popoli latini

Si può, contestare e parlare male / si può, migliorare il telegiornale / si può, fare critiche dall’esterno
si può, sputtanare tutto il governo / si può / si può, occuparsi di spiritismo / si può, far dibattiti sull’orgasmo / si può, far politica alternativa / si può, siamo pieni di iniziativa / si può

Siamo sicuri che abbiamo in comune la certezza del nemico / siamo sicuri che c’è ma il più
rosso e li più nuovo dei partiti non si sa perché diventa rosso antico

Si può, siamo liberi come l’aria / si può, siamo noi che facciam la storia / si può, libertà libertà libertà libertà obbligatoria

Sono liberato sono davvero più leggero, sono infedele sono matto posso far tutto / Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale /

Utopia trrr / Utopia trrr / utopia pia pia trrrr

Si può, fare i giovani a sessant’anni / si può, regalare i blue jeans ai nonni / si può, star seduti come un indiano / si può, divertirsi con il digiuno / si può

E dopo tante battaglie volendo puoi anche farti uno spinello / il libanese è il migliore tra poco dovrebbe cominciare la pubblicità in un nuovo carosello

Si può, inventarsi protagonista / si può, rinforzarsi dall’analista / si può, occuparsi dell’individuo /
si può farsi ognuno la propria radio / si può / si può, con la nostra cultura dietro / si può, rinnovare tutto il teatro / si può, dare al mondo un messaggio giusto / si può, a livello di Gesù Cristo / si può

Basta una bella canzone la tua rivoluzione va da sola / basta che ognuno si esprima e poi non importa se si chiama la rivoluzione della Coca Cola

Si può, siamo liberi come l’aria / si può, siamo noi che facciam la storia / si può /

Libertà, libertà, libertà, libertà obbligatoria
Ma come? Con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di cambiare?

Utopia trrr / Utopia trrr / utopia pia pia trrrr /

Libertà libertà libertà libertà / libertà libertà libertà / libertà libertà libertà libertà

[Giorgio Gaber]

Un nuovo approccio alla malattia mentale

Fautore di una nuova concezione della malattia mentale e di un nuovo approccio terapeutico rispettoso dell’umanità e della dignità del paziente, lo psichiatra Franco Basaglia (19241980) si è battuto per la riforma della disciplina psichiatrica in Italia e la chiusura dei manicomi, ispirando la legge n. 180/1978 che porta il suo nome. 

“Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale […]; viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo”.

[Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, 1964]

Contestazione dell’Università e dei saperi tradizionali

Le Tesi della Sapienza (1967)

Nel febbraio 1967, in occasione di un incontro nazionale dei rettori delle università italiane presso la Scuola Normale di Pisa, rappresentanti di diverse associazioni studentesche organizzarono un’iniziativa di protesta occupando il Palazzo della Sapienza, sede dell’Università pisana. Si discusse a lungo della condizione studentesca e del ruolo sociale degli studenti. Le Tesi della Sapienza – pubblicate sulla rivista “Il Mulino”, 4-5, 1967 – contribuiranno a orientare la componente operaista del ‘68 italiano, corrente che poneva la classe operaia al centro di ogni processo rivoluzionario e che riteneva necessario creare “collegamenti organici” tra movimento studentesco e movimento operaio.

“A partire dal presupposto secondo cui all’interno di società capitaliste gli studenti costituirebbero «forza lavoro in fase di formazione», il documento lanciava un appello agli studenti affinché si dotassero di strutture rappresentative analoghe ai sindacati dei lavoratori. Di conseguenza, se gli studenti risultavano una componente sociale assimilabile alla classe lavoratrice, si deduceva che la controparte studentesca – le autorità accademiche – erano parte integrante della classe dominante. Sulla base di questo passaggio logico si postulava di fatto un collegamento strutturale tra le lotte all’interno dell’Università e i conflitti di lavoro al suo esterno: «il movimento […] tiene conto della lotta di classe contro il sistema capitalistico nella sua totalità e ricerca l’unità con tutte le forze che lo contestano in pratica. […] Il movimento potrà giungere in una fase più avanzata a precisare il tipo di società che si propone di collaborare a costruire. Questo compito sarà reso possibile: a) dall’analisi metodica dello sviluppo capitalistico in relazione alla università; b) dalla discussione di base intorno alle tesi sulla scuola; c) dal collegamento con le lotte operaie»”.

[cit. in, Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, op. cit.]

Occupazione dell’Università di Torino (novembre 1967): commento di Luigi Bobbio

“Il movimento studentesco si muove dal rifiuto della condizione di predeterminazione che il sistema assegna agli studenti […] Gli studenti rifiutano la loro condizione di sfruttamento e di predeterminazione professionale e chiedono il controllo sulla loro formazione, inteso come rifiuto alla disponibilità. Per ottenere questo controllo si porta avanti la parola d’ordine del potere studentesco. Con questo non si intende soltanto l’immissione degli studenti negli organi decisionali dell’università […] Potere studentesco implica invece una ristrutturazione integrale dell’università in cui tale potere (e quindi il controllo sulla formazione) possa essere effettivo […] L’azione degli studenti non ha alcun significato se l’organizzazione politica del movimento operaio non è in grado di riceverne le esperienze e di unificarle in una strategia rivoluzionaria […] D’altra parte il movimento studentesco non può limitarsi ad agire nel suo ambito settoriale senza guardare oltre”.

[Luigi Bobbio, in “Quaderni piacentini”, n. 30, 1967, cit. in L’orda d’oro, op. cit.]

Occupazione dell’Università di Torino (29 febbraio 1968): testimonianza di Marco Revelli

“Quando avevamo barricato le porte di palazzo Campana e avevamo messe per barricarle la sacra cattedra di Allara [Mario Allara, rettore e docente di diritto penale, espressione dell’autoritarismo accademico] […] e mi ricordo che un giorno, nell’ora in cui avrebbe dovuto fare lezione Allara, Guido Viale era in piedi sulla sua cattedra, e Allara comparve alle sue spalle perché era passato dalla cantina, e Guido Viale lo affrontò a insulti, stando coi piedi – aveva queste scarpe massicce inglesi – stando sulla cattedra, capellone, tutto il peggio che per Allara poteva esserci. Gli diceva ‘vattene via’, dandogli del ‘tu’, con Allara che diceva ‘Scenda immediatamente da quella cattedra. Lei sta violando una norma giuridica’ e Viale: ‘Mai stai zitto imbecille, hai tormentato gli studenti fin adesso’. Fece uno show che lo accreditò come capo carismatico, e che per me – ero quasi matricola – era una dissacrazione incredibile”.

[cit. in, Anna. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza, 2008]

Discorso del rettore della Columbia University

Estratto dell’intervento di Grayson Kirk, rettore della Columbia University di New York, tenuto nel 1968 all’Università della Virginia in occasione del 225° anniversario della nascita di Thomas Jefferson.

“I nostri giovani, in numero inquietante, tendono a respingere tutte le forme di autorità, qualunque sia la loro origine, e si sono rifugiati in un nichilismo turbolento e confuso che ha per unico fine la distruzione. Non conosco altra epoca della nostra storia in cui il divario tra le generazioni sia stato più ampio o potenzialmente pericoloso”.

[cit. in, Paul Auster, 4321, Einaudi, 2017]

Un sistema educativo in crisi

“Ribadisco che più o meno tutti gli ambiti hanno risentito di quel che successe intorno a quegli anni: ovviamente non solo al ‘68 come anno simbolo, ma anche a quel che l’aveva preparato prima e a quel che accadde dopo. Il sistema educativo, considerato in generale e non solo come curriculum scolastico fino all’università, è stato senz’altro tra quelli che hanno affrontato uno sconvolgimento da cui non ci si è più ripresi. Il rifiuto di una trasmissione del sapere basata sull’esibizione della “autorità” di chi metteva in circuito le informazioni è saltato, ma non si è stati capaci di chiedersi se quella autorità che si contestava era presunta più che reale, per cui in definitiva bisogno riconoscere che non c’è trasmissione della conoscenza senza un percorso di verifica della autorevolezza che non può essere propria di qualsiasi opinione passi per il cervello di qualcuno o di un auto-accreditamento di chi la propaga. Ovviamente i sessantottini non potevano pensare cosa sarebbe successo con l’allargamento incontrollato delle platee di ascolto che garantisce oggi internet, ma bisognerebbe ammettere che la questione di come si verifica la autorevolezza delle conoscenze che si trasmettono è centrale e che il principio secondo cui tutte le opinioni hanno diritto di eguale cittadinanza non serve a far progredire né la scienza, né la società. Peraltro qualcosa di simile si potrebbe dire per ambiti come la religione, il mondo del lavoro, quello della politica”.

[intervista a Paolo Pombeni, in www.letture.org/che-cosa-resta-del-68-paolo-pombeni]

Una nuova concezione di libertà

Libertà “con”

“L’aspetto più amabile fugace del ’68 è stato un’accezione di libertà diversa da quella classica, secondo cui la mia finisce nel punto in cui comincia la tua, quasi dovessero inevitabilmente competere e tollerarsi a vicenda. Allora le libertà sembravano camminare insieme, non libertà «di», «da», «fin dove», ma libertà «con», vissute in una sintonia in parte immaginaria, in parte reale. Nelle università occupate si vive qualcosa di simile a quello che Hannah Arendt, riferendosi alla rivoluzione francese, definisce felicità pubblica, un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva, che cada la divisione fra vita quotidiana e politica, e la politica non sia più un mestiere per specialisti, ma coincida con lo stare insieme e comprenda il gioco, il riso, l’affettività. Di qui il suo aspetto di grande famiglia, di comunità «calda»: il ’68 rappresenta anche la rottura della solitudine nella società di massa”.

[tratto da Anna Bravo, A colpi di cuore, op. cit.]

Contro la gerarchia

“Una delle rivoluzioni più grandi è che l’individuo, la persona diventa molto importante nel collettivo, perché afferma un principio antigerarchico. Ognuno ha diritto di parlare come gli altri, come i capi. Si metteva in discussione chi aveva il diritto di sedersi dietro a un tavolo a parlare, con gli altri a ascoltare […] Mi ricordo che a Parigi, durante il maggio, in una assemblea arrivò Sartre, ma nessuno lo fece passare davanti e lui dovette aspettare che tutti gli altri parlassero, ed erano donne, studenti, pensionati i quali volevano semplicemente raccontare la loro storia. Non sempre era una storia molto interessante, ma era la storia dell’unica vita che uno ha. Volevano che non rimanesse soltanto propria, avevano bisogno di dirla, e che gli altri intorno li ascoltassero per non sentirsi uno zero assoluto, un numero anagrafico”.

[ricordo di Rossana Rossanda, tratto da Anna Bravo, A colpi di cuore, op. cit.]

Soggettività giovanile e politica

“La secessione dalla società adulta iniziata da adolescenti riottosi, beat, hippie, disegna un modello di politica nuovo, che dichiara l’importanza della condizione di ciascuno, degli stati d’animo, bisogni, desideri, frustrazioni, felicità, infelicità. Eresia numero uno per la politica di allora, in particolare di sinistra, in cui l’impegno cominciava (almeno in teoria) dall’oblio della dimensione personale a favore di quella generale […] Ora la priorità sta nel capire se stessi, mettendosi a nudo, scoprendo le complicità interiori senza le quali i poteri crollerebbero o svelerebbero il loro sottofondo di violenza […] contribuire a far cambiare la vita e le persone. ‘Non domani, da subito’. Questa è l’eresia numero due, che investe un caposaldo della politica, la tesi dei due tempi: sacrifici oggi, paradiso domani”.

[tratto da Anna Bravo, A colpi di cuore, op. cit.]

Troppa libertà?

“Troppa libertà? E’, in estrema sintesi, la domanda che innerva la discussione su ciò che chiamiamo Sessantotto. Sottende, la domanda, il più malizioso dei sospetti: che lo scardinamento del principio di autorità e la liberazione delle pulsioni individuali trovarono poi esaudimento non in una nuova socialità (di “sinistra”), ma nell’individualismo e nel consumismo (di “destra”). Come tutte le domande importanti, è bene porsela. A patto che sia bene inquadrata, la domanda, non dentro questa Italia, ma dentro quella. Un Paese e una società oggi quasi impensabili, tanto rapidi e radicali sono stati i mutamenti nella mentalità diffusa, nei costumi, nelle relazioni sentimentali e sessuali. Non sono passati, da questo punto di vista, cinquant’anni: ma cento e forse mille. E’ necessario ricordarlo specialmente ai ragazzi di oggi, nativi di un Mondo Nuovo nel quale la libertà personale – specie quella sessuale – è una condizione quasi scontata, non urta poteri e non infrange tabù”.

[Michele Serra, 50 sfumature di ’68, in Robinson, inserto di “la Repubblica”, 4/2/2018]

Il sacrificio di Jan Palach

Studente cecoslovacco di filosofia, il 16 gennaio 1969 Jan Palach decise di darsi fuoco, in piazza San Venceslao nel centro di Praga, per protestare contro l’intervento sovietico che l’anno precedente aveva messo fine alla “primavera di Praga”, fase politica avviata da Dubcek per riformare il sistema socialista e concedere maggiori diritti e libertà ai cittadini. Al suo funerale partecipò una folla immensa e il suo nome divenne un simbolo della lotta per la libertà.

“Jan Palach fu l’unico sessantottino che scontò la protesta sulla propria pelle. Gli altri incendiarono il mondo pensando a se stessi, lui incendiò se stesso pensando al mondo. Entrambi amarono la libertà in modo diverso. Lui affrontò i carri, gli altri la carriera […] Il ’68 fu un movimento di liberazione ma non di libertà. La liberazione implica il desiderio di emanciparsi anche dalla propria identità, dall’appartenenza a una famiglia, a un luogo, a una lingua, a una religione, a una civiltà, a ogni tradizione. La libertà piena, invece, implica la responsabilità e il dovere, persegue un fine, esige il rispetto degli altri, si coniuga con la tradizione, riconosce il merito personale e la realtà. L’opposto del ’68. È libertà per l’essere e non per disfarsi dell’essere”.

[Marcello Veneziani, Rovesciare il ’68, Mondadori, 2008]

’68 e femminismo

“Io trovo che questa [che dal ’68 sia derivata la cultura del narcisismo che ha poi reso possibile il fenomeno del berlusconismo] sia l’accusa più avvilente e volgare, una vera deformazione di quel che accadde, che era la riscoperta di quella che io chiamo la singolitudine, la singolarità di ogni essere. Scoprivamo l’individualità delle persone, e in particolare quella delle donne, considerate per secoli un genere e basta. Questa è stata la forza del femminismo: svelare che nei vissuti di ogni singola donna c’è una rappresentazione del mondo che le donne non hanno contribuito a creare, perché hanno interiorizzato la visione maschile […] Io considero il femminismo il vero seguito del ’68, ne ha portato avanti le intuizioni più originali […] Il femminismo è il solo sopravvissuto agli anni Settanta. Per questo dico che non ho nostalgia del ’68: non ne sono mai uscita”.

[Lea Melandri, intervista di Gregorio Botta in Robinson, inserto di “la Repubblica”, 4/2/2018]

I “guasti” del ‘68

Rimozioni e colpevoli silenzi

“C’è un lato oscuro del Sessantotto di cui finora s’è parlato poco. O a bassa voce. Certo non è mai stato evocato con il sentimento di disagio e colpa che ora traspare dalle pagine di chi allora fu partecipe della rivolta e oggi di domanda: come è stato possibile? Come è stato possibile che noi autenticamente libertari voltassimo le spalle ai nostri coetanei di Praga, Varsavia e Belgrado in lotta contro regimi illiberali? Come è stato possibile che la nostra idea di Europa fosse così angusta da espungere i fratelli che leggevano i nostri stessi romanzi e ascoltavano i Rolling Stones? […] Così si resta distanti dalla primavera di piazza San Venceslao e dal successivo inverno dei carri armati russi. Così non ci si accorge degli sfollagente sulle schiene degli studenti polacchi, con l’espulsione di migliaia di ebrei. E il movimento nelle università jugoslave, con il suo ribollire di nazionalismi, sembra appartenere a un altro pianeta. Su quella parte di Europa cade un silenzio che oggi suona paradossale. Anche perché, a sfogliare il libro della successiva storia europea, quel che ha contato di più è proprio l’altro Sessantotto. Quello che non abbiamo capito”.

[Simonetta Fiori, I ragazzi dell’Est condannati al Muro, in Robinson, inserto di “la Repubblica”, 4/2/2018]

Il fallimento del ‘68

“Il ’68 fallì come rivoluzione politica ed economica, perché gli assetti di potere e il sistema capitalistico restarono saldamente in sella. Ma si accanì sul costume, sul sesso e sul linguaggio, sulla famiglia e sul rapporto tra le generazioni, sulla scuola e sull’università. E lì produsse i suoi più gravi danni, alcuni irreparabili. La società entrata nel ‘68 aveva molte pecche e molti arcaismi, molte ipocrisie e molte contraddizioni, ma quella che ne uscì, soprattutto in quegli ambiti citati, fu peggio. L’errore d’origine fu la scissione tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra risultati e meriti, e il predominio assoluto dei desideri su ogni altra considerazione […] Il movimento sessantottino riteneva che la tradizione facesse parte di una ‘santa alleanza’ della reazione guidata dal capitale: invece la tradizione era l’ultimo baluardo per impedire che i cittadini, i credenti, i patrioti, i connazionali, i genitori, fossero ridotti solo a consumatori, pedine intercambiabili, atomi senza identità. Di conseguenza il capitalismo trionfò e spesso assunse come suoi agenti e funzionari i sessantottini di ieri […] La famiglia è stato l’ambito in cui il ’68 ha prodotto più devastazioni. E il padre inteso come auctoritas, come pater familias, ma anche come santo padre, come patria – cioè terra dei padri – come docente, veniva simbolicamente soppresso […] Dopo il ’68 nessun movimento rivoluzionario andò al potere in Occidente e tantomeno in Italia; in compenso si avviò quel percorso – divorzio, aborto, depenalizzazione di reati legati alla droga e altri concernenti la famiglia, unioni omosessuali, per poi proseguire con altri più recenti. In sostanza ha vinto l’anima radicale del ’68. E la stessa sinistra oggi non riesce più a rappresentare le classi povere e oppresse, i proletari e le borgate, gli operai e le masse, ma concentra le sue battaglie sulle unioni civili, eutanasia, femminicidio ecc. La rivoluzione sociale si è fatta rivoluzione sessuale”.

[Marcello Veneziani, Le false libertà del ’68, intervista (11/01/2018) in www.interris.it]

Un movimento inutile o superfluo ma soprattutto dannoso

“Il ’68 per quello che portò di positivo al Paese, fu per lo più inutile. In cambio, ha distrutto quanto vi era di solido, lasciando calcinacci e macerie senza contribuire a ricostruire nulla: buona parte dei guasti di cui paghiamo pegno oggi sono figli di quella stagione. Il ‘68 è stato inutile, o al più superfluo perché, a quel poco o tanto di libertà, di diritti individuali e di equità sociale introdotto in Italia, saremmo comunque arrivati anche senza il contributo della «contestazione». Il Paese che precedette il ’68 non era infatti un regno di tenebra della reazione: governava il centro-sinistra, con Aldo Moro premier e Pietro Nenni suo vice. E numerose riforme, dal divorzio allo Statuto dei lavoratori alle leggi per il Welfare, erano in discussione in Parlamento già da tempo […] I danni più gravi però secondo noi furono prodotti in tre universi: quello dell’istruzione, quello della politica, e quello che genericamente si può definire delle mentalità. La scuola italiana negli anni Sessanta aveva bisogno, più che riforme, di aggiustamenti, necessari a un paese diventato una società di massa. Ma il suo corpo era sano, da quello elementare fino all’Università. […] La rovina più grave però fu arrecata all’autorità del docente: nella scienza e nell’istruzione non può esservi democrazia, e invece i contestatori affermarono, in maniera per lo più violenta, l’idea che la parola del docente vale quanto, se non meno, quella degli allievi. Difficile non vedere il preludio dei nostri tempi in cui gli esperti sono sbertucciati, e il parere di un medico sui vaccini conta quanto quello di un semi-analfabeta dotato di tastiera e di follower. Il secondo disastro il ‘68 lo produsse in politica: i movimenti furono la palestra dei terroristi che insanguinarono l’Italia, mentre il disordine paralizzò partiti e istituzioni già poco inclini a prendere decisioni. […] Il vulnus più grande il ‘68 l’ha inferto però alle mentalità. Se la contestazione fu un fenomeno occidentale, in Italia finì per conformarsi al carattere degli italiani: all’intreccio di anarchismo, egoismo particolaristico e ricerca di protezione (dallo Stato, ma non solo) che ci caratterizza, l’individualismo narcisista del ‘68 fece così da rumoroso amplificatore. E il liberalismo, già merce rara nelle mentalità degli italiani, divenne rivendicazione di «liberazione», la richiesta di maggiore equità si trasformò in egualitarismo, la difesa e la tutela dei diritti si mutò in «dirittismo»: l’idea tremenda che tutto ai cittadini sia dovuto (dallo Stato) senza beninteso adeguate contropartite in termini di doveri. […] È proprio così: come ci ripeteranno ad nauseam i nostalgici, il ’68 è il padre dell’Italia presente”.

[Marco Gervasoni, Sessantotto, quella resa ai “contestatori” che l’Italia continua a pagare da 50 anni, “Il Messaggero”, 2 gennaio 2018]

Una minaccia per la tradizione umanistica

“Del ’68 si possono dare molte interpretazioni anche se in genere ci si ferma agli aspetti più esteriori della contestazione giovanile e del maggio parigino. In realtà il ’68 è stato un grande movimento, culturale ed anticulturale ad un tempo […] Tutte le principali correnti culturali che hanno mobilitato il Sessantotto intellettuale convergono nella distruzione, raffinata e apocalittica ad un tempo, della grande tradizione umanistica, dai Greci, passando per il cristianesimo e la modernità. La gioiosa macchina da guerra del ‘68 pensiero univa autori tra di loro incomponibili, i “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche, Freud, Heidegger. Maestri del sospetto perché il loro pensiero, radicalizzando il dubbio cartesiano che si limitava a dissolvere le certezze della conoscenza riguardo al mondo esterno, coinvolgeva ora lo stesso cogito che dubita. Il pensiero moderno, con Cartesio, non era sufficientemente radicale. Esso non dubita della coscienza che dubita, non dubita del soggetto che sta dubitando. Il nuovo dubbio degli intellettuali contestatori, più radicale di quello cartesiano, porta ad un depotenziamento della soggettività, ad uno spossessamento del soggetto che viene detronizzato della sua centralità, ricondotto a risultato di forze e di potenze che lo precedono e lo determinano. La pretesa dell’Europa che l’uomo sia il fondamento della conoscenza e della libertà viene criticata, dalle ideologie degli anni 70, come una pretesa imperialista. Non esiste il soggetto, esistono le forze (le leggi economiche, le strutture, l’eros, la volontà di potenza, gli istinti primordiali della natura) le quali sono i veri moventi. Noi siamo enti passivi mossi da altro, da delle forze oscure. L’idea di uomo come soggetto diviene una creazione cristiano-moderna, un prodotto culturale ed ideologico del primato europeo nel mondo che deve essere criticato ed abbandonato. In tal modo le varie componenti del 68 pensiero si ritrovano, pur nella loro diversità, in un punto comune: la decostruzione-dissoluzione della tradizione umanistica. Rispetto alla posizione illuministica, per la quale il Medioevo rappresenta la centralità di Dio e il Moderno la centralità dell’uomo, il passo ulteriore è dato dalla negazione dell’uomo”.

[Massimo Borghesi, La cultura di destra legittimata a sinistra: il ’68-pensiero e il post-umanesimo, http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/3/31/SCUOLA-La-cultura-di-destra-legittimata-a-sinistra-il-68-pensiero-e-il-post-umanesimo/378767; corsivo nel testo]

Una rivoluzione illusoria?

“Libertà e creatività, immaginazione e fantasia, contestazione e ribellione sono gli elementi di una “rivoluzione” che ha trasformato la politica, la società e il costume. Ma quali risultati hanno raggiunto quei ragazzi coi capelli lunghi che occupavano le università e volevano farla finita con l’autorità, i valori tradizionali, il sapere borghese? In molti si sono chiesti se il ’68 abbia avuto successo. E c’è chi è convinto di sì. Mario Perniola, il filosofo appena scomparso, ha visto gli ideali del ’68 realizzati da uno che sessantottino non è mai stato: Silvio Berlusconi. L’idea l’ha espressa nel 2011 in un pamphlet paradossale e provocatorio: Berlusconi o il ’68 realizzato: il berlusconismo avrebbe fatto propri gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, e il suo sfacciato neoliberismo non sarebbe altro che l’esito della rottura rappresentata da quell’anno. Una realizzazione del ’68 postuma che dà tutto il potere non all’immaginazione, ma all’intrattenimento” […] Alessandro Bertante […] in Contro il ’68 definisce quella ribellione come «una clamorosa e tragica illusione», spezzata dalla repressione poliziesca e dalle bombe fasciste. Alcuni ragazzi hanno preso poi la strada dell’eversione armata. Altri sono tornati nell’ambito sociale di provenienza, la tanto odiata borghesia, dando ragione a Eugène Ionesco, che gridava agli studenti del maggio francese: «Tornate a casa! Tanto diventerete tutti notai!». “Notai” ignoranti, secondo Indro Montanelli: «Vidi nascere dal Sessantotto una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita italiana portando ovunque i segni della propria ignoranza». Ma, come tutti i “notai”, ricchi: i sessantottini hanno un reddito più alto delle altre generazioni, confermano gli studi della Banca d’Italia sul bilancio delle famiglie […] Critici e detrattori si rincorrono non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Michel Houellebecq che, nel romanzo Le particelle elementari, descrive il ’68 come l’anno della catastrofe, che ha lasciato solo miseria, individualismo e violenza: un’uscita che non gli è ancora stata perdonata. E assai critica è stata anche la recente rilettura dell’anno da parte di Papa Francesco: parlando agli ambasciatori i cui Paesi hanno rappresentanza presso la Santa Sede, il pontefice ha detto che «in seguito ai sommovimenti sociali del Sessantotto, l’interpretazione di alcuni diritti è andata progressivamente modificandosi, così da includere una molteplicità di nuovi diritti, non di rado in contrapposizione tra loro». Col rischio di una «colonizzazione ideologica dei più forti e dei più ricchi a danno dei più poveri e dei più deboli».

[Federico Marconi, 1968: tragica illusione o vera rivoluzione?, “Espresso”, 18 gennaio 2018]

Emancipazione individuale versus emancipazione collettiva?

“Questo desiderio di azione collettiva, tuttavia, monta in un momento nel quale le grandi ideologie che avrebbero potuto orientare quell’azione sono ormai o del tutto defunte, o in profonda crisi. A cominciare dalla più rilevante fra di esse. Il marxismo, in una forma o nell’altra, è l’ideologia portante della contestazione sessantottina. Ma in quegli anni è già irrimediabilmente colpito dalla degenerazione del socialismo reale, e forse ancor di più dal successo delle economie capitalistiche occidentali, che ne falsifica una delle profezie cruciali: la proletarizzazione universale. Alla crisi dei grandi progetti di emancipazione collettiva fa da controcanto l’affermazione crescente del desiderio di emancipazione individuale: se non possiamo essere liberi insieme, almeno che lo sia io! Non per caso, uno dei pensatori più influenti del Sessantotto è Herbert Marcuse, intento a superare lo stallo del marxismo immaginando che il desiderio individuale possa fungere da leva rivoluzionaria. Se non che, il desiderio di liberazione individuale è destinato a entrare in conflitto col desiderio di liberazione collettiva – ossia con la politica. L’azione collettiva richiede organizzazione e disciplina: subordinazione delle aspirazioni personali agli scopi comuni. E tanto più ne richiede, quanto più ambiziosi sono i suoi obiettivi […] Questa contraddizione è una delle ragioni, e non la minore, per le quali la contestazione sessantottina non riesce a dar vita a un movimento politico ampio e robusto, ma si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale. La contraddizione del resto era ben presente già ai protagonisti dell’epoca – a Rudi Dutschke, ad esempio, a Daniel Cohn-Bendit”.

[Giovanni Orsina, La provocazione: il 1968 è stato l’anno in cui è nato il rancore, “Espresso”, 18 gennaio 2018]

Liceità della violenza?

La tesi di Ernesto “Che” Guevara

“Noi risponderemo: la violenza non è un patrimonio degli sfruttatori, gli sfruttati possono impiegarla a loro volta, anzi: devono impiegarla al momento giusto [segue citazione di Lenin sulla inevitabilità delle guerre civili per chi ammette la lotta di classe]. Ciò significa che non dobbiamo avere paura della violenza nei parti che mettono al mondo nuove società; ma questa violenza deve avere inizio soltanto nel momento preciso in cui quelli che guidano il popolo hanno trovato le circostanze favorevoli”.

[Ernesto “Che” Guevara, La guerra di guerriglia, Feltrinelli, 1967]

Un testimone di violenza

“L’idea della violenza – non dico la sua pratica – era per noi accettabile su un altro piano. I nostri eroi, dalla Resistenza antifascista ai rivoluzionari del Terzo Mondo, l’avevano messa in atto, e proprio su questo punto si distinguevano dai moderati. Non solo. Si dava per scontato che prima o poi sarebbe stato necessario ricorrervi, come insegnava la storia di tutte le rivoluzioni. Ci rendevamo conto che era arcaica, nonostante il suo fascino, l’idea di una presa del potere come assalto al Palazzo d’Inverno, né sapevamo dire che forma avrebbe assunto il passaggio di potere alle classi oppresse. Ma certo una spallata sarebbe stata indispensabile, non poteva esserci un trapasso indolore”.

[cit. in Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio, Feltrinelli, 2011]

La “battaglia di Valle Giulia” e la presa di posizione di Pasolini

Il 1° marzo 1968 a Roma si verificò a valle Giulia, sede della Facoltà di Architettura, uno scontro di piazza tra manifestanti universitari e la polizia, che presidiava l’edificio universitario per impedire una nuova occupazione studentesca. Sulla “battaglia di Valle Giulia” Pier Paolo Pasolini, uomo di sinistra, scrisse una famosa poesia (Il PCI ai giovani!), in cui si schierava dalla parte dei poliziotti, “figli di poveri”, suscitando molte polemiche e attirandosi molte critiche.

Presentiamo anche il testo di una canzone di Paolo Pietrangeli.

Il PCI ai giovani!

(https://youtu.be/0OGChQa0f00)

“[…] Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) / vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio / goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà. / Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete pavidi, incerti, disperati / (benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene / il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, / a causa della miseria, che non dà autorità.

La madre incallita come un facchino, o tenera / per qualche malattia, come un uccellino; / i tanti fratelli; la casupola / tra gli orti con la salvia rossa (in terreni / altrui, lottizzati); i bassi / sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi / caseggiati popolari, ecc. ecc. /

E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, / con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, / è lo stato psicologico cui sono ridotti / (per una quarantina di mille lire al mese): / senza più sorriso, / senza più amicizia col mondo, / separati, /
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali) / umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). / Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. / Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! / I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato, / appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento / di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte / del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! […]”.

[Pier Paolo Pasolini]      

 

Valle Giulia

(Paolo Pietrangeli, 1969; https://youtu.be/rbdwATvOiWI)

“Piazza di Spagna, splendida giornata, / traffico fermo, la città ingorgata / e quanta gente, quanta che n’era! / Cartelli in alto e tutti si gridava / «No alla scuola dei padroni! / Via il governo, dimissioni!».

E mi guardavi tu con occhi stanchi, / mentre eravamo ancora lì davanti, / ma se i sorrisi tuoi sembravan spenti / c’erano cose certo più importanti. / «No alla scuola dei padroni! […]Undici e un quarto avanti a architettura, / non c’era ancor ragion d’aver paura / ed eravamo veramente in tanti, / e i poliziotti in faccia agli studenti. / «No alla scuola dei padroni! […]Hanno impugnato i manganelli / ed han picchiato come fanno sempre loro; / ma all’improvviso è poi successo / un fatto nuovo, un fatto nuovo, un fatto nuovo: / non siam scappati più, non siam scappati più!

Il primo marzo, sì, me lo rammento, /saremo stati millecinquecento / e caricava giù la polizia / ma gli studenti la cacciavan via. / «No alla scuola dei padroni! […]E mi guardavi tu con occhi stanchi, / ma c’eran cose molto più importanti; / ma qui che fai, ma vattene un po’ via! /Non vedi, arriva giù la polizia! / «No alla scuola dei padroni! […]Le camionette, i celerini / ci hanno dispersi, presi in molti e poi picchiati; / ma sia ben chiaro che si sapeva; / che non è vero, no, non è finita là. / Non siam scappati più, non siam scappati più.

Il primo marzo, sì, me lo rammento… / …No alla classe dei padroni, / non mettiamo condizioni, no!”.

[Paolo Pietrangeli]

Contro il consumismo e i suoi simboli

Natale consumistico

“E’ di nuovo Natale: la festa di Gesù Bambino e dei Grandi Magazzini. La festa del padrone, che ti dà la tredicesima, e tela riprende cinque minuti dopo nei suoi supermercati lasciandoti in cambio centoquattordici pacchettini colorati pieni di cose inutili che ti faranno sentire idiota e felice. E così, passata la festa, vuotate le tasche, lavato il cervello, sarai pronto per il nuovo anno, pronto a regalare al tuo padrone un altro anno di fatica, di obbedienza, di sfruttamento, in attesa del prossimo Natale e del prossimo Gesù Bambino […] Chi non ha il grande magazzino a portata di mano ci va in processione, dai paesi, dal quartiere-confino, a spendere di più per merci di scarto, a ubriacarsi di luci, abbondanza e tintinnii di scontrini. Padroni e operai, contrapposti in fabbrica, dove le merci si producono, vengono trasformati con un colpo di bacchetta magica in uguali nel grande magazzino, tutti clienti, tutti consumatori. I salari di chi lavora sono separati da un abisso dai profitti di chi sfrutta: ma nel grande magazzino ci sono i prezzi fissi, unici e uguali per tutti. Così grazie al Natale, ai grandi magazzini e ai buoni signori che li hanno aperti (la Fiat, la Montedison ecc.) i nostri problemi sono risolti. L’operaio della Marzotto diventa uguale al padrone. La commessa sorriderà ad ambedue, perché nel grande magazzino il cliente è sacro e al cliente bisogna sorridere […] Così ogni anno, a data fissa, i cuori si riempiono di bontà: chi è buono deve regalare, regalare vuol dire spendere, e spendere significa indebitarsi e ingrassare il padrone. Il cerchio si chiude e il natale, come tutto il resto, è servito al suo scopo: accrescere i profitti, e farci dimenticare lo sfruttamento. Perciò noi siamo contro questo natale, ipocrita, commedia commerciale che ci vuole far sentire ricchi una volta all’anno. Contro il ricatto dei padroni, che giocano su tutto, compresi i bambini”.

[volantino distribuito da “Potere Operaio”, formazione politica extraparlamentare, in Enrico Deaglio, Patria. 1967-1977, op. cit.]

Contestazione alla Bussola (31 dicembre 1968)

Il 7 dicembre 1968, in occasione della prima della Scala, gli studenti milanesi avevano lanciato uova e vernice sulle pellicce delle signore della buona società che si accingevano ad entrare in teatro. Il 31 dicembre presso “La Bussola”, noto locale della Versilia, Potere Operaio pisano e il movimento studentesco organizzarono una manifestazione per contestare l’ostentazione di ricchezza della borghesia. La dura risposta delle forze dell’ordine portò al grave ferimento del sedicenne Soriano Ceccanti, che rimase paralizzato.

“Così nasce la contestazione di Capodanno alla Bussola di Focette, nightclub titolato della costa versiliese, luogo di raduno di facoltosi e meno facoltosi del tempo. L’idea è venuta da alcuni studenti liceali durante l’agitazione di Natale all’Upim: fare qualcosa anche contro la volgare esibizione di ricchezza per il Capodanno. Ne sono nati volantini distribuiti a Pisa, Massa, Carrara, La Spezia e Lucca. Doveva essere una contestazione come altre avvenute in quel periodo, qualche uovo o pomodoro tirato, slogan, canti, insomma un modo per far andare di traverso la serata a chi degli operai e di molti altri problemi sociali sembrava assai poco interessato. Non è una grande idea e alla luce di quello che avrebbe innescato sarebbe stato certamente meglio restarsene a casa.
Così quella notte eccoci alle Focette, tra Viareggio e Forte dei Marmi. Lì è previsto un concerto delle due “vedettes” Fred Bongusto e Shirley Bassey. Partecipare al cenone e assistere allo spettacolo costa 36.000 lire dell’epoca, vale a dire l’intero stipendio mensile di un operaio.
Quanti siamo? Trecento giovani più o meno che protestano su un lungomare largo e desolato, come può esserlo un lungomare alla fine di dicembre. I malcapitati avventori cominciano ad affluire e i dimostranti lanciano slogan e qualche ortaggio. “I bambini del Biafra vi augurano buon anno”.

[Paolo Brogi, Il nostro ’68. Quella notte di 50 anni fa alla Bussola, in www.alganews.it]

Testo di riferimento

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, op. cit, pp. 120-28 (con tagli)

La prima riflessione che viene da fare è che la pars destruens a cui ci si è applicati in questi cinquant’anni non ha dato parallelamente luogo all’affermarsi di una pars construens che abbia pacificato, almeno relativamente, la nostra cultura, intesa come strumento attraverso cui attribuiamo senso e significato a quello che ci sta intorno e per mezzo della quale cerchiamo di fabbricarci una prospettiva per il futuro. A meno che non ci si arrenda al «Ciascuno per sé e Dio per tutti» (sempre che sia ancora concepibile l’esistenza di una divinità comune a tutti), ci risulta difficile ritrovare un idem sentire de re publica. La critica all’autorità, la presa di distanza dalle pretese «imperialistiche» della cultura occidentale (ridotta peraltro a uno stereotipo per lo più costruito ad arte da intellettuali che ne hanno fatto un «comune sentire»), rendono difficile credere in valori universali, a meno di non ridurli a concetti evanescenti da cui volendo ci si può sempre affrancare con qualche spiegazione alternativa.

Abbiamo relativizzato tutto e di conseguenza diviene arduo promuovere reti di integrazione che non siano quelle banali della convivenza senza dialettica né interferenze fra gli osservanti delle diverse culture. Che poi queste convivenze non reggano la reciproca segregazione perché le persone si mescolano e condividono di necessità spazi comuni (non solo fisici, ma di scambio e di destini) è una realtà che sembra si cerchi di non prendere in considerazione. Di conseguenza il rischio del conflitto, nelle varie gradazioni che può assumere, è costante, perché la necessità di preservare la propria «tribù» dal contagio con le altre può far cadere nella tentazione di eliminare il rischio cancellando i portatori di quelli che si ritengono virus.

Il fatto è, ormai ce ne stiamo rendendo conto, che il mondo è entrato in una complicata fase di transizione storica verso un’epoca che ancora non si è palesata nei suoi contorni con chiarezza. Esimendomi dal rinvio a studi e autori che si stanno muovendo in tal senso (in verità in maniera ancora confusa e non tutti con argomentazioni che si possano considerare fondate), mi limito a ricordare che da qualche tempo si parla di una fine della «modernità». Si tratta di qualcosa di più complesso della retorica sul postmoderno che ha avuto e in parte ancora ha una qualche fortuna nell’ambito della critica artistica e letteraria […].

La razionalità moderna sembrava essere uscita dominante dopo l’esito della Seconda guerra mondiale, che aveva non solo sconfitto gli utopismi del fascismo, ma soprattutto del nazismo restaurando il modello costituzionale come il solo «legittimo» (l’URSS si riteneva, e per convenienza venne ritenuta, per un certo periodo, una variante autoritaria di quel costituzionalismo applicato in un contesto «asiatico»), ma aveva anche creduto di poter imporre, sia pure per via di consenso ove possi-bile, la sua supremazia sul futuro «sviluppo» del mondo.

Non è un gioco puramente retorico ricordare qualche spunto sessantottino che faceva presagire la percezione della crisi di questa razionalità moderna. Lo slogan dell’immaginazione al potere, il grido «Siate realisti, chiedete l’impossibile», la stessa critica della «razionalità borghese» fatta senza comprendere che per tanti versi metteva in crisi la razionalità tout court, sono epifenomeni di inquietudini che presagivano l’incrinarsi delle fonda- menta di un «evo storico».

Così in fondo era per il disconoscimento della razionalità di una riorganizzazione del mondo fondata sulla convivenza, in quella fase ritenuta «pacifica», delle due razionalità politiche prodotte dalla modernità, il costituzionalismo occidentale imperniato sugli USA e la «democrazia socialista» guidata dall’URSS. Puntare su modi diversi di intendere i due universi, magari vedendoli incarnati in sedi alternative, non importa quanto credibili e quanto immaginarie (la Cina, Cuba, i nuovi paesi emergenti, i movimenti sindacali e politici che percorrevano l’Europa), era anch’esso sintomo di crisi di fiducia in ciò che era stato sino ad allora ritenuto come il compimento di un percorso storico.

Aggiungiamoci i primi segni di un sentimento diffuso che metteva in dubbio la stessa «scienza» come sede di conoscenze verificabili e consolidate. Si cominciava quanto meno a sospettare che la scienza fosse schiava del «potere», lo si definisse capitale, interesse politico o manipolazione autoritaria. Quanto cammino si sia percorso in questa direzione è sotto i nostri occhi.

Sarebbe così rinata, forse a partire proprio dal mitico Sessantotto, una fede ingenua nell’utopia, cioè nella possibilità di creare in qualche luogo un mondo alternativo, ma soprattutto svincolato da qualsiasi obbligo di sottoporre a verifica razionale le proprie conclusioni. Se posso alleggerire questa riflessione con un aneddoto significativo, ricordo un dibattito in sede di tesi di laurea in cui uno studente continuava ossessivamente a ripetere «Io porto avanti l’ipotesi», al che un commissario gli fece sommessamente osservare: «Guardi, le ipotesi non si portano avanti, si dimostrano». Lo ricordo perché in fondo una delle conseguenze della pars destruens sessantottina è stata proprio la convinzione che fosse più che legittimo portare avanti ipotesi senza sentirsi in obbligo di verificarle e dimostrarle.

Il fatto è che le questioni poste dall’inquietudine che prese corpo nei movimenti del Sessantotto sono ancora sul tappeto, anzi si sono ampliate e hanno acquistato maggior spessore. L’eredità di quanto si manifestò in quell’anno non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. Non è neppure nel movimentismo come risposta alle ansie sociali, che allora si seppero in qualche modo anticipare, mentre oggi quasi sempre ci si limita a rincorrerle. È davvero nella ripresa di quel grido, profetico al di là di ciò che allora si percepiva: «Non è che l’inizio».

C’è dunque una lotta da continuare, ed è quella per dominare razionalmente una transizione storica riuscendo ad approdare a nuove forme di equilibrio per la vita degli individui e delle molteplici comunità in cui vivono. È un lavoro lungo che la generazione del Sessantotto – se è consentito che lo affermi uno che partecipò, sia pure in quinta fila, alla temperie di quegli anni – non è riuscita ad avviare che in minima parte. Toccherà ancora una volta ai giovani continuare la lotta. L’augurio è che non si facciano irretire da quelli che li vorrebbero ingabbiati in un culto magari inconsapevole di quel passato, trasformandoli in ripetitori aggiornati dei vecchi slogan che continuano a circolare. Ciò di cui dovremmo far tesoro è la coscienza dei limiti e degli errori del Sessantotto. Non affermando scioccamente che si sarebbero potuti evitare perché quella è la visione di chi non sa cosa sia la storia.

Le giovani generazioni potrebbero avere un compito e un’occasione di importanza storica: riuscire a stabilizzare in senso positivo, a dare uno sbocco costruttivo alla grande transizione in cui ci troviamo coinvolti, si potrebbe dire immersi. Quella svolta, rivoluzione, transizione (la si chiami come si vuole) che i giovani sessantottini intuirono in termini vaghi, più per sensibilità che per ragione, e che oggi è diventata palese, vorrei dire quasi palpabile. Se e quando riuscissero in questa impresa, le nuove generazioni potrebbero guardare con indulgenza e forse con qualche considerazione a quanto è accaduto dal Sessantotto ad oggi, riconoscendo che effettivamente quello non era che l’inizio.

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