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Negazionismo e luoghi della memoria

Negazionismo e luoghi della memoria

Auschwitz-Birkenau: i bagagli di alcuni degli deportati uccisi nel campo

Abstract

Manipolare i fatti, negarne l’esistenza e minacciare la distruzione di ciò che resta come traccia: queste le strategie utilizzate dai negazionisti per negare l’evidenza di ciò che i nazisti e i loro collaboratori hanno lasciato del complesso sistema di repressione, tortura e sterminio. In questa sede, analizzerò un aspetto particolare del discorso negazionista, quello che si è impegnato a demolire la credibilità dei luoghi stessi dove le atrocità sono state commesse e che sono diventati oggi memoriali, musei e monumenti dedicati alla memoria di questo terribile capitolo della storia del Ventesimo secolo. Paradossalmente, gli attacchi negazionisti si intrecciano con gli interventi di recupero e trasformazione dei luoghi originari in monumenti e musei, dei processi spesso poco evidenti al pubblico sui quali i siti stessi offrono raramente informazioni ai visitatori. Tra i molteplici casi, approfondirò soprattutto le vicende legate alla Risiera di San Sabba, il campo di detenzione e di transito sorto a Trieste all’indomani dell’8 settembre 1943, che è stato oggetto di diversi attacchi negazionisti. Senza alcuna pretesa di esaustività, questo articolo propone una riflessione preliminare a partire da alcuni studi già esistenti sul tema, un’analisi di alcuni interventi di autori negazionisti e della letteratura riguardante la storia della memoria della Shoah.

Rileggere lo spazio memoriale: siti storici e teorie negazioniste

Molti siti storici legati alla Shoah, scenari dove la persecuzione e lo sterminio degli ebrei d’Europa hanno avuto luogo, sono oggi spazi visitabili grazie a strategici interventi di recupero e valorizzazione, e sono così divenuti a loro modo delle pietre d’inciampo1, che invitano i visitatori a a riflettere su ciò che resta di quel terribile passato. In Europa il cammino che ha portato all’elaborazione della memoria della deportazione razziale e politica è stato lungo e travagliato, ma ha condotto infine alla riscoperta di alcuni siti storici che hanno accolto prima di tutto i pellegrinaggi di famiglie e sopravvissuti, poi le commemorazioni ufficiali e infine sono stati trasformati in memoriali o musei, divenendo parte del patrimonio culturale e storico collettivo.

Il tentativo nazista di cancellare le prove dei propri crimini

Tuttavia, la maggior parte dei campi di sterminio, distrutti dai nazisti prima di essere abbandonati, sono diventati dei veri e propri “trous de mémoire”, cioè dei buchi della memoria2 . Assieme ai documenti, i nazisti hanno infatti cercato di distruggere anche le tracce materiali dello sterminio smantellando gli edifici che costituivano questi centri. Tuttavia, essi non sono stati dimenticati. Tra gli alberi della foresta che fu piantata per coprire il luogo dove un tempo era stato costruito il campo di Treblinka, si stagliano oggi le 17.000 pietre appuntite di un simbolico cimitero. Il memoriale, realizzato nel 1964, ricostruisce e rende visibile nel paesaggio quello che i nazisti, che potremmo considerare i primi negazionisti nella storia, avevano cercato di cancellare3.

Le modifiche funzionali dei siti

Ma anche i campi di transito e concentramento allestiti durante la guerra non ci appaiono più come erano all’epoca. Una volta liberati, questi spazi sono stati riutilizzati negli anni successivi come centri di detenzione per collaborazionisti, oppure hanno avuto altre funzioni, come nel caso del campo triestino, che è stato utilizzato come campo profughi dal 1949 al 1965, divenendo un museo solo nel 1975. Un altro esempio è il campo di transito di Drancy dal quale sono passati 67.000 dei 76.000 ebrei deportati dalla Francia, che ospitò invece dal 1948 alloggi a prezzi agevolati. Un memoriale che ne racconta la storia è stato realizzato nel 2012 in un edificio posto di fronte al grande cortile a U dell’edificio originario4. Le modifiche subite dalle strutture originarie, i cambi di funzione, ma anche la loro definitiva trasformazione in musei sono stati i pretesti sui quali i negazionisti, come vedremo, hanno fondato le loro ipotesi per affermare l’inesistenza dei crimini perpetuati dai nazisti e dai collaborazionisti.

Il negazionismo contro le tracce del passato

Il negazionismo, fenomeno apparso nell’immediato dopoguerra soprattutto in Francia con i testi di Maurice Bardèche e Paul Rassinier, è stato definito come “una costruzione intellettuale, con mire e pretese scientifiche, consistente nella negazione della realtà fattuale dello sterminio massiccio degli ebrei per mano dei nazisti, durante la Seconda guerra mondiale”5. Seguendo la definizione formulata da Carlo Alberto Romano, secondo i negazionisti il genocidio sarebbe stato inventato dagli alleati e dagli ebrei dopo il 1945 “al fine di giustificare una giustizia sommaria nei confronti dei vinti, di colpevolizzare il popolo tedesco e di legittimare la creazione dello Stato di Israele”6.

La pubblicistica della destra radicale e i media

Secondo Francesco Germinario, il radicalismo di destra, ispirandosi alla lezione situazionista della sinistra negazionista sulla centralità dei media nella società contemporanea, avrebbe abbandonato “una pubblicistica autoconsolatoria” dedicata ai soli militanti per “aprirsi a prospettive più ambiziose”, creando “una vera e propria comunità alla spasmodica ricerca, per un verso, di interlocutori, per l’altro, di aderenti”7. Questo spiega la continua ricerca dell’attenzione dei media da parte dei negazionisti che nasce anche, secondo l’autore, dalla frustrazione del rifiuto delle loro tesi da parte degli ambienti storici8. Quale poteva essere in anni più recenti il mezzo più efficace, se non internet, per ampliare la platea dei possibili “seguaci”? Come ricorda Stefano Gatti, “la principale minaccia posta dal web 2.0 è la creazione di una cultura dove l’antisemitismo assume accettabilità sociale, particolarmente tra i giovani”9.

Negazionismo e antisemitismo

Valérie Igounet, autrice di un importante studio sul negazionismo, sottolinea il legame dell’antisemitismo con le posizioni negazioniste e indica anche la funzione dell’antisionismo che “permette di reintrodurre l’antisemitismo nel contesto di un dopoguerra ossessionato dal ricordo del genocidio e chiuso a ogni possibile ricomparsa dell’odio nei confronti degli ebrei”10. Secondo Igounet, nel progetto ideologico e politico del negazionismo rientra quello di un’estrema destra che cerca di riabilitare un progetto politico passato che trae ispirazione dal nazismo e dal fascismo, ed è profondamente antisemita, antisionista e anticomunista11.

Le strategie semiotiche del negazionismo

Come ricorda la semiologa Valentina Pisanty, le strategie dei negazionisti sono caratterizzate da una selezione disinvolta delle fonti e da tecniche retoriche particolari che servono a decostruire i documenti analizzati: soprattutto testimonianze molto conosciute sia di carnefici che di vittime quali Rudolf Hoess (comandante di Auschwitz), Kurt Gerstein (membro delle SS che tentò di denunciare il genocidio in corso), Elie Wiesel o Anne Frank. Dopo aver isolato la testimonianza dal contesto in cui è stata prodotta, i negazionisti tentano di dimostrare la mancanza di affidabilità morale e intellettuale dell’autore, cercando nel documento ogni minima inesattezza fattuale o una contraddizione. Così facendo, “il lettore, che di solito non è sufficientemente informato per rispondere a ciascuna di queste obiezioni locali, viene gettato in uno stato di disorientamento e di paralisi interpretativa”12. È a questo punto che i negazionisti insinuano il dubbio: se i documenti non sono affidabili, allora le testimonianze sono tendenziose e nascondono l’azione manipolatoria di un “certo sionismo internazionale”13.

La messa in questione della verità sui campi

La stessa procedura riguarda gli argomenti negazionisti aventi come obiettivo i campi di concentramento e sterminio. I campi, secondo i primi negazionisti sono delle invenzioni degli Alleati – e soprattutto degli ebrei14 – oppure, se sono esistiti, non corrispondono affatto alla descrizione fatta dalla storiografia cosiddetta “ufficiale” e resta tutta da provare la loro capacità di uccidere. Per riabilitare la Germania, Maurice Bardèche voleva mostrare come l’Unione Sovietica avesse utilizzato i processi del dopoguerra per nascondere terribili misfatti e gli ebrei, con l’invenzione dell’Olocausto, avessero ristabilito il potere sul mondo intero.

Egli scriveva a proposito della trasformazione in museo dei campi di concentramento:

Si tratta del compito di mimetizzare e sistemare le cose, perseguito dai vincitori per giovare a un certo turismo pubblicitario. Per impressionare le fantasie, alcuni campi sono stati trasformati in musei. Si conservano così, adoperando pupazzi di cera, le camere a gas ricostruite, scene di tortura montate come al museo Grévin, il ricordo infine degli orrori descritti dalla propaganda. Non c’è male, anche così… Ma poiché spesso i luoghi non si prestavano a una ricostruzione, la cazzuola ha preso il sopravvento, sono state costruite (come al cinema) scene complete di tortura in luoghi ove mai erano esistite; oppure (sempre con la pietosa intenzione di accostarsi a una maggiore verosimiglianza) si sono costruiti ad Auschwitz e a Dachau, per esempio, forni crematori supplementari destinati a calmare gli scrupoli di qualche cervello matematico. La storia si scriverà così: si arriverà, è evidente, perfino a fabbricarla. Ciò prova che nell’arte difficile della propaganda abbiamo fatto notevoli progressi. Se la razza degli storici non è condannata a sparire, sarà prudente dare a tutti loro una rigorosa formazione archeologica15.

Nella visione di Bardèche, la conservazione dei luoghi nascondeva in realtà un’operazione di falsificazione: anche se egli non negava in toto l’esistenza dei campi tedeschi e le sofferenze di “un certo numero di ebrei”, egli constatava che non era stabilita “alcuna verità ufficiale” e che la storia dei campi doveva ancora essere scritta16.

I negazionisti-testimoni

Paul Rassinier, ex deportato nei campi di Buchenwald e Dora, partendo dalla propria esperienza, cerca anch’egli di stabilire “la verità” sui campi. Il suo metodo era sottile, non negava apertamente l’utilizzo delle camere a gas da parte dei nazisti ma instillava nel lettore dubbi sull’ampiezza del fenomeno e il numero di vittime17. Egli utilizzava inoltre l’equazione tra campi russi e nazisti sostenendo che le differenze tra i due sistemi concentrazionari erano soltanto di “sfumature ma non d’essenza”18.

Questi primi autori negazionisti, che avevano vissuto la Seconda guerra mondiale e conosciuto i campi sulla propria pelle, come nel caso di Rassinier, non avevano mai effettuato ricerche negli archivi, come invece farà, qualche tempo dopo, Robert Faurisson. È stata infatti la corrente del cosiddetto “negazionismo tecnico” a formulare argomenti pseudo-scientifici a sostegno delle proprie tesi19.

Il “negazionismo tecnico”

Il primo negazionista che si reca ad Auschwitz a questo scopo è Robert Faurisson. Insegnante di lettere al liceo Blaise-Pascal di Clermont-Ferrand nel 1968, Faurisson diventa nel 1974 maître de conférence in Letteratura francese del XX secolo all’Università di Lione II20. Secondo Igounet, “il suo negazionismo nasce sui luoghi del crimine”21. Faurisson infatti si sposta in Polonia e in Germania per consultare archivi e comparare documenti come avrebbe fatto uno storico, ma con la differenza che non era alla ricerca del vero, come pretendeva di dimostrare, ma del falso, come ricorda Pierre Vidal-Naquet: il suo metodo cercava infatti di “distruggere prove indistruttibili (…) che costituiscono un insieme e non un fascicolo di documenti sospetti”22. In un articolo apparso nella rivista negazionista “The Journal of Historical Review”, Faurisson definiva il proprio metodo revisionista e spiegava che non si trattava di un’ideologia, bensì di “un metodo di lavoro. È il processo di verifica e di doppia verifica, una visione generalmente accettata. (…) Il revisionismo è un metodo personale, dipende dal tuo carattere e dalla tua educazione”23. Dichiarava inoltre che l’aspetto fondamentale del suo metodo era la visita diretta dei luoghi: per questo si era recato al Centre de Documentation Juive Contemporaine di Parigi, al campo di Naztweiler-Struthof in Alsazia, a Majdanek, ad Auschwitz, a Treblinka, più tardi all’U.S. Holocaust Memorial Museum di Washington, sempre alla ricerca di una traccia inconfutabile che provasse l’esistenza delle camere a gas, di una fotografia o almeno di un disegno che ne spiegasse il funzionamento. Terminate le sue ricerche, egli indica nella mancanza di documentazione fotografica un chiaro segnale dell’inesistenza delle camere a gas.

La fotografia e lo sterminio degli ebrei

A oggi, gli studiosi confermano che non è stata rinvenuta nessuna fotografia capace di mostrare esaustivamente il funzionamento delle camere a gas, ma non per questo la loro esistenza è stata messa in dubbio dalla storiografia internazionale che si basa, tra l’altro, sulle tante testimonianze disponibili sull’argomento. Esiste invece un enorme corpus di immagini che mostra le persecuzioni, le deportazioni, le torture, gli esperimenti medici, le selezioni, la liberazione dei campi, etc. Bisogna inoltre ricordarsi che fare fotografie nei campi era proibito: i nazisti stessi fecero degli scatti, ma certamente non erano interessati a documentare i loro crimini fino in fondo. Tuttavia, esistono delle fotografie scattate clandestinamente all’interno del campo di Birkenau a cui Georges Didi-Hubermann ha dedicato la sua opera Images malgré tout del 2003, edito da Minuit, e che mostrano la terribile realtà delle camere a gas (fig. 1): nei primi scatti si vedono delle donne nude nel boschetto di betulle di Birkenau, mentre in quelli successivi si scorge dietro una baracca un cumulo di cadaveri24.

fig. 1 Questi tre scatti sono stati realizzati da un membro del Sonderkommando del Crematorio V. Le fotografie sono collocate di fronte alla stessa porzione di paesaggio raffigurata (Foto di Chiara Becattini, 2016 © Tutti i diritti riservati).

Ricostruzione e falsificazione: il caso di Auschwitz 1

Tra le varie tesi sostenute da Faurisson, ve n’è una che in questa sede risulta particolarmente interessante, poiché si concentra proprio sulla ricostruzione non dichiarata di alcuni ambienti a fini museali. Egli riteneva infatti che la camera a gas ricostruita e visitabile sul sito di Auschwitz I non fosse altro che una falsificazione25. La stanza in questione, che aveva ospitato dapprima un crematorio e poi una camera a gas, era stata utilizzata anche come rifugio antiaereo nel settembre 1944 (fig. 2). Nel dopoguerra aveva subito in effetti alcune modifiche durante la musealizzazione del luogo, per potersi avvicinare alla configurazione che aveva durante il suo utilizzo come camera a gas26. Nel 1976, al momento della visita di Faurisson, la difficile gestione del sito durante la guerra fredda da parte delle autorità polacche aveva facilitato in un certo senso il lavoro del professore. In effetti, all’epoca, il museo di Auschwitz non precisava esplicitamente che la camera a gas e il crematorio erano stati parzialmente ricostruiti nel dopoguerra (oggi viene reso noto da un pannello informativo realizzato nel 2007). Faurisson, costantemente alla ricerca di prove che confermassero i suoi dubbi, utilizza questa mancanza di informazioni per rimettere in causa l’interno processo di sterminio27.

fig. 2 L’ingresso odierno all’edificio di Auschwitz I che aveva ospitato il crematorio e la camera a gas (Chiara Becattini, 2010).

Le cifre del memoriale di Birkenau

Rispetto al memoriale di Birkenau, inaugurato nel 1967, Faurisson ha denunciato inoltre il fatto che le placche in metallo che recavano le scritte tradotte in diciannove lingue differenti mostravano la cifra (inesatta) di 4 milioni di vittime, ed erano state revocate dalle autorità polacche che – a detta del professore – si trovavano nell’imbarazzo di non sapere esattamente con quale cifra avrebbero dovuto rimpiazzarle28. Oggi le targhe sono state sostituite e riportano la cifra di un milione e mezzo di vittime (fig. 3)29.

fig. 3 Le placche commemorative al monumento internazionale di Birkenau (Chiara Becattini, 2010).

Auschwitz rimane il bersaglio principale dei negazionisti

Auschwitz, divenuto negli anni Settanta il simbolo dello sterminio degli ebrei, ma anche un riferimento fondamentale per la costruzione di un’Europa democratica post-194530, è il sito storico su cui maggiormente si sono concentrati gli attacchi dei negazionisti che hanno come fine quello di minimizzare le atrocità commesse dai nazisti, di negare l’esistenza delle camere a gas e di denunciare presunte falsificazioni. A partire dagli anni Ottanta il cosiddetto “negazionismo tecnico” vuole dimostrare che lo sterminio non è stato materialmente possibile. Fred Leuchter, un ingegnere americano (senza diploma!) che si diceva specializzato nella costruzione di camere a gas impiegate nelle esecuzioni capitali, testimonia nel 1988 a un processo a favore di Ernst Zündel, un neonazista di Toronto accusato di negazionismo. È stato proprio lui a finanziare Leuchter perché si recasse ad Auschwitz per analizzare i frammenti delle rovine del lager (fig. 4)31. Il suo rapporto cercava di dimostrare che le camere a gas non erano mai esistite, con conclusioni piuttosto prevedibili. Secondo questi studi, ad esempio, le macchie blu lasciate dallo Zyklon B (il gas tossico a base di acido cianidrico utilizzato per gassare gli ebrei) ancora presenti nelle rovine delle camere utilizzate per la disinfestazione erano più evidenti di quelle che si trovavano nelle stanze usate come camere a gas. Leuchter ne aveva tratto la conclusione che lo Zyklon B era stato utilizzato semplicemente come antiparassitario, e non per uccidere gli ebrei32. Le sue tesi furono in seguito confutate da numerosi studi, tra cui il più noto quello di Jean-Claude Pressac33. Persino il negazionista italiano Carlo Mattogno aveva definito il rapporto “tecnicamente infondato”34.

fig. 4 Le rovine delle camere a gas di Birkenau (Chiara Becattini, 2016).

Le premesse del negazionismo

Strutture false e ricostruite a posteriori nei campi, camere a gas posticce, che al massimo sono servite a gassare le pulci: queste sono le premesse dalle quali i negazionisti hanno mosso le loro accuse fino ad arrivare a negare la Shoah. Concentrandosi sui luoghi più conosciuti, hanno cercato di attirare la curiosità dei media, a volte complici inconsapevoli della loro missione. Se in Francia gli autori cosiddetti revisionisti hanno spesso guardato verso est, verso i campi installati in Polonia, in Italia è stato soprattutto un campo di transito e concentramento ad attirare su di sé le invettive dei negazionisti: la Risiera di San Sabba, il campo alla periferia di Trieste.

Il negazionismo e la Risiera di San Sabba

Alle soglie del Novecento, nel quartiere popolare di Servola a Trieste fu costruita una fabbrica per la pilatura del riso. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la creazione dell’Adriatisches Küstenland, la zona d’operazione posta sotto il controllo delle truppe di occupazione naziste, all’interno della fabbrica di Servola ormai abbandonata venne installato un Polizeihaftlager, cioè un centro di detenzione e polizia per oppositori politici e un campo di transito per ebrei35. In questo luogo, torture ed esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno e un rudimentale forno crematorio venne costruito nell’aprile 1944 dall’ingegnere SS Erwin Lambert. La notte tra il 23 e il 24 aprile 1945 le truppe SS in fuga bruciarono i documenti relativi alla burocrazia del campo e sistemarono delle cariche esplosive in vari edifici, tra cui alla base della ciminiera dove si trovavano i locali in cui era stato collocato il forno crematorio.

La Risiera nel dopoguerra

La Risiera ha ospitato quindi un campo profughi fino al 1965, anno in cui è stata proclamata monumento nazionale e ha avuto iniziato la sua trasformazione in monumento. Dieci anni dopo, nell’aprile 1975, l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone ha partecipato all’inaugurazione del monumento nazionale realizzato dall’architetto triestino Romano Boico. Nonostante il processo istruito nel 1976 contro i criminali nazisti responsabili degli orrori alla Risiera di San Sabba abbia riportato queste vicende all’attenzione dell’opinione pubblica, Trieste e i suoi abitanti hanno sempre avuto delle reticenze nel confrontarsi con le dolorose memorie legate a questo luogo.

Le inaccuratezze della storiografia fanno il gioco del negazionismo

Per molto tempo, la stessa storiografia ha paragonato la Risiera a un campo di sterminio, alimentando involontariamente un’ulteriore confusione: stando alle testimonianze, è molto probabile che uccisioni di gruppi di individui vi abbiano avuto luogo, così come l’utilizzo di metodi crudeli e violenti quali la tortura. Tuttavia, la Risiera non è mai stata un campo di sterminio vero e proprio, se si rispettano le definizioni attuali desunte dal dibattito storiografico sull’argomento.

Campi di concentramento e campi di sterminio

Nel corso degli anni Settanta, gli storici si sono accordati su quali campi definire veri e propri centri per l’eliminazione di massa. Sono stati così individuati sei campi situati in Polonia: Auschwitz, Kulmhof, Treblinka, Belzec, Sobibor e Majdanek, tutti caratterizzati dal fatto di essere stati appositamente costruiti per l’eliminazione seriale degli individui36. Oggi, anche le funzioni del campo triestino risultano più chiare: esso fu un campo di concentramento per gli oppositori politici e una sosta transitoria per gli ebrei, ma non fu, stando a queste definizioni, un vero e proprio campo di sterminio come quelli creati appositamente nei territori occupati della Polonia dove gli ebrei venivano direttamente inviati alle camere a gas.

Gli attacchi negazionisti alla Risiera di San Sabba

Nell’ultimo ventennio del Novecento, in un’epoca in cui la memoria della Shoah è stata riscoperta anche grazie a opere per il grande pubblico, alcuni attacchi negazionisti hanno coinvolto anche la Risiera di San Sabba. Nel suo libro Lo sterminio mancato del 1982 lo storico e giornalista Pier Arrigo Carnier parlava della Risiera come di un “vecchio, tetro e ampio edificio della città di Trieste, che i tedeschi adattarono a campo di concentramento”37. Tuttavia, continuava l’autore, all’inizio del funzionamento del campo, restavano a Trieste e nel Litorale pochi membri della comunità ebraica: la maggior parte aveva scelto l’espatrio, il resto invece “si era rifugiata in zone ritenute meno pericolose nel territorio nazionale”38. Il giornalista faceva quindi leva sul fatto che nel dopoguerra erano circolate voci che ritenevano la Risiera un campo di sterminio, ma esse erano state smentite dal processo di Lubiana, svoltosi dal 10 al 19 luglio 1947. Secondo Carnier, Rainer, all’epoca Gauleiter della Carinzia e capo supremo del Litorale Adriatico, “si sarebbe opposto immediatamente all’esistenza di un Lager di sterminio”39. Proprio per questo non vi sarebbero state esecuzioni all’interno della Risiera e nel Litorale sarebbe stata impedita – peraltro, da coloro che l’avrebbero dovuto attuare – “la Soluzione finale del problema ebraico” tramite lo sterminio40. Carnier ha sostenuto poi che le camere a gas di Dachau e Mauthausen non fossero mai esistite41 e che i forni crematori presenti nei campi servissero in realtà all’eliminazione dei cadaveri delle vittime di “epidemie” o di “deceduti per altre cause”. Ha escluso inoltre l’esistenza di un forno crematorio nella Risiera (fig. 5), riportando in proposito la testimonianza dell’interprete delle SS Augusta Reiss e il rapporto della SS Franz Suchomel, quindi i resoconti di una collaborazionista condannata nel dopoguerra a tredici anni di carcere42 e di un sottufficiale che aveva partecipato all’Aktion T4 in Germania, che aveva fatto parte dell’Operazione Reinhard per lo sterminio degli ebrei nei campi Belzec, Sobibor e Treblinka e delle Einsatzgruppen nel Litorale Adriatico43. Privilegiando, come in questo caso, le fonti prodotte dagli stessi carnefici, o comunque di parte nazista, il libro di Carnier sembrava voler rivalutare positivamente l’immagine di Reiner e dei suoi collaboratori, più che indagare il loro operato.

fig. 5 L’edificio centrale della Risiera di San Sabba con l’impronta sulla parete e a terra dell’edificio che probabilmente conteneva il forno crematorio (Chiara Becattini, 2012)

I pamphlet di Carlo Mattogno

Nel 1985 Carlo Mattogno, giornalista ed esponente del cosiddetto “revisionismo tecnico” in Italia44, pubblicò numerosi e controversi scritti45, tra cui il pamphlet dal titolo La Risiera di San Sabba. Un falso grossolano, in cui criticava l’opera dello scrittore e giornalista Ferruccio Fölkel dedicata al campo di Trieste edita nel 197946. Secondo Mattogno, che utilizzava lo stesso metodo retorico di altri autori negazionisti, le testimonianze citate da Fölkel erano contraddittorie e per questo del tutto inattendibili. Mattogno negava inoltre l’esistenza in Risiera di una camera a gas, la quale resta un’ipotesi peraltro poco accreditata anche dalla storiografia scientifica; i testimoni hanno parlato per lo più di utilizzo di gas di scarico delle vetture per alcune uccisioni47.

Sterminio nazista e foibe titine

Infine, l’ex senatore Giorgio Pisanò, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, ha creato un vero scandalo con le sue dichiarazioni sulla Risiera durante una conferenza intitolata Processo alla Resistenza del dicembre 1990. Secondo Pisanò, che aveva fatto parte delle Brigate nere in Valtellina durante la Repubblica sociale italiana, “il ‘campo di sterminio’ nell’ex Risiera di San Sabba non era mai esistito. Se lo erano inventati gli antifascisti per nascondere la spaventosa realtà delle foibe ed era stato creato dal nulla, agli inizi degli anni Settanta, con fondi stanziati dal Comune48. L’equiparazione tra i crimini commessi dai nazisti alla Risiera e quelli perpetuati dalle truppe jugoslave nei territori della Venezia Giulia (in settembre-ottobre del 1943 e nel maggio-giugno 1945) è una polemica che ha caratterizzato il dibattito politico italiano negli anni Novanta e che ha impedito per lungo tempo di fare chiarezza su entrambe le vicende. Questa polemica pervadeva evidentemente anche le tesi del senatore missino, che non si è limitata a dichiarare la Risiera un falso storico, ma ha addirittura invocato l’annullamento della classificazione della Risiera come monumento storico e la demolizione delle modifiche architettoniche che erano state apportate all’edificio originario49.

La musealizzazione della Risiera e le sue trasformazioni strutturali

Oltre a contestare l’autenticità della struttura, Pisanò criticava anche il progetto di trasformazione della Risiera ideato dall’architetto triestino Romano Boico. In effetti, l’aspetto del campo era cambiato dopo l’incendio del 1967, che aveva causato l’abbattimento di un edificio intero del complesso, così come le demolizioni del periodo in cui si stava realizzando il memoriale implicarono una revisione degli spazi. Tuttavia, il bando emesso dal Comune nel 1966 prevedeva il recupero di una piccola area rispetto al complesso di edifici industriali della Risiera di San Sabba: il progetto dell’architetto Boico aveva inoltre previsto l’erezione di alte mura di cemento armato che segnavano l’entrata al campo e circondavano la corte, dando un aspetto sobrio e severo all’edificio (fig. 6, fig. 7).

La poca chiarezza delle esposizioni: una trappola da evitare

Una delle principali caratteristiche dei luoghi della memoria della Seconda guerra mondiale e della Shoah è la frequente assenza di spiegazioni offerte nel luogo stesso rispetto alla sua trasformazione in monumento: oggi a San Sabba non visitiamo l’edificio esattamente com’era nel 1944, ma un sito storico che ha subito delle trasformazioni per consentire al pubblico di accedervi in tutta sicurezza e per conservare e raccontare la storia seguendo strategie comunicative adeguate. Qui come altrove questo passaggio non è sempre reso esplicito all’interno dell’allestimento museale. Su questo aspetto, come abbiamo visto, fanno leva molti argomenti negazionisti.

Conclusioni: tra storia e performance memoriale

L’elaborazione della memoria della Shoah ha attraversato fasi diverse, che corrispondono talora anche alla graduale riscoperta di luoghi divenuti simbolo delle persecuzioni, delle deportazioni e dello sterminio del popolo ebraico. Prigioni, campi di internamento e transito, campi misti di concentramento e sterminio, tutti questi luoghi sono stati oggetto, nell’immediato dopoguerra, di pellegrinaggi, commemorazioni e omaggi spontanei da parte dei famigliari delle vittime e dei sopravvissuti. Una volta trasformati in memoriali o musei, essi hanno potuto accogliere visitatori e turisti. Di questa trasformazione, che ha comportato modifiche talvolta strutturali degli edifici originali, raramente si fa menzione. Non è tanto importante la natura dell’intervento, che esso sia stato di tipo filologico-conservativo (come nel caso di Auschwitz-Birkenau), o abbia comportato piuttosto una monumentalizzazione dello spazio esistente (come nel caso della Risiera di San Sabba), quanto il pericolo che esso comporta: l’assenza di informazioni riguardanti le trasformazioni subite dal luogo può infatti contribuire ad avvalorare l’ingenua convinzione, da parte del visitatore poco informato, che quello che sta visitando sia il luogo originario, identico nel suo aspetto a quello dell’epoca. In quest’ottica, scoprire che alcune parti sono state ricostruite o modificate, potrebbe suscitare nel visitatore perplessità e dubbi.

Da luoghi di violenza a luoghi di memoria

Oggi il perimetro che circonda il complesso degli edifici dell’ex campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, luogo di un crimine che l’umanità ha deciso di salvaguardare dall’oblio e dalle manomissioni, delinea un’area in cui alcuni interventi di recupero degli edifici sono stati necessari alla sua trasformazione in un luogo di raccoglimento, di storia e di memoria. La stessa funzione è stata assolta dalle mura progettate da Romano Boico che circondano gli edifici della Risiera di San Sabba: esse racchiudono cioè uno spazio – dove sorge oggi il Museo – in cui è possibile interrogarsi su ciò che è stato e riaprire questioni e controversie del passato locale e nazionale come il fenomeno del collaborazionismo, l’occupazione nazista, la persecuzione antiebraica.

Se nel futuro questi memoriali e musei saranno ancora capaci non solo di rappresentare e raccontare il passato, ma di essere anche dei laboratori di storia, sarà probabilmente necessario che includano nella loro narrazione anche il meta-racconto delle loro trasformazioni. Questa è tra l’altro la direzione che è stata intrapresa dalla mostra inaugurata nel gennaio 2016 alla Risiera di San Sabba, che si presenta rinnovata nei suoi contenuti e nel suo allestimento (la prima era stata realizzata dallo storico Elio Apih nel 1982), in cui viene esibito, oltre a un pannello dedicato al processo di trasformazione del luogo da ex campo di concentramento in luogo della memoria, anche un modello 3d della struttura integrale della Risiera50.

Uno sguardo più consapevole sulle architetture della memoria

Come abbiamo visto, i negazionisti hanno spesso sollevato la questione dell’autenticità, senza comprendere o evitando un punto essenziale, cioè che, a ogni funzione, un luogo cambia necessariamente il suo aspetto: se si è consapevoli di questo cambiamento, questo processo non implica direttamente una falsificazione né una perdita di autenticità. I memoriali e i musei nascono proprio a questo scopo, cioè per la salvaguardia di uno spazio significativo che sarebbe stato altrimenti dimenticato. Forse la pretesa di autenticità a tutti i costi ci allontana dal porci le giuste domande, quando visitiamo i luoghi della memoria. Se invece si ha chiaro in mente che ci si trova in uno spazio memoriale, si può anche arrivare ad accettare che questo spazio sia stato parzialmente modificato per accogliere i visitatori e per rendere intellegibile la loro visita, e concentrarsi piuttosto su interrogativi come le modalità attraverso le quali questo luogo è stato memorializzato, perché sono state utilizzate certe strategie, che cosa significano questi monumenti e quali valori e idee veicolano al pubblico odierno. Riconoscendo in definitiva in questi luoghi le impalcature implicite di un’architettura della memoria, forse il nostro sguardo può condurci a una visione più critica e costruttiva.

I luoghi della memoria e la dimensione storica del paesaggio

In realtà, i campi divenuti monumenti non sono né luoghi sacri né universi che gravitano al di fuori della dimensione storica: al contrario, essi fanno parte e contribuiscono a rendere più complesso il nostro paesaggio, aggiungendovi stratificazioni di senso e di memorie. Secondo lo storico americano James E. Young, “la memoria e l’intenzione non sono mai monolitiche: ciascuna dipende da una vasta serie di forze – materiali, estetiche, spaziali, ideologiche – che convergono nello spazio memoriale”51. Questi luoghi si aprono cioè a una dimensione temporale particolare, capace di rendere possibile la commemorazione e il raccoglimento, e sono da sempre sottoposti e influenzati dai cambiamenti politici, sociali e culturali, ma anche dall’interazione con il pubblico. Chi ha avuto occasione di visitare il memoriale dedicato agli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, progettato dall’architetto Peter Eisenman e inaugurato nel 2005, avrà forse avuto la sensazione ad un tratto di addentrarsi in un labirinto che toglie il respiro, poi avrà notato qualche bambino giocare a nascondino, qualche adolescente fare qualche selfie, qualcun altro aggirarsi sperduto immerso nei propri pensieri. Secondo Mark Godfrey, lo spazio memoriale serve proprio a creare un particolare “ambiente mnemonico”, uno spazio dove il visitatore avverte un tempo rallentato che favorisce il raccoglimento e la riflessione52, ma anche in cui è permessa ed è fondamentale, come nel caso del memoriale berlinese, l’interazione con il pubblico. In effetti, “non si può separare” – scrive ancora Young – “il monumento dalla sua vita pubblica (…) la funzione sociale di questo tipo d’arte coincide con la sua performance estetica”53.

La ricerca storica contro il negazionismo

Se non soltanto la storia, ma anche il percorso dell’elaborazione della memoria sarà un giorno inserita all’interno dei percorsi espositivi di questi luoghi, probabilmente questo offrirà un’ulteriore occasione di riflessione sulle nostre stesse strategie rappresentative e narrative di trasmissione degli eventi. E questo servirà a fornirci nuovi strumenti per controbattere, con le armi della ragione e della ricerca storica, iniziative mistificatorie come quelle dei negazionisti.


Note:

1 L’espressione “pietra d’inciampo” proviene dall’iniziativa dell’artista tedesco Günter Demnig che realizza delle targhe in ottone in cui indica il nome di un deportato, i dettagli sulla sua deportazione e sulle circostanze della sua morte, e successivamente, durante una cerimonia pubblica, le interra di fronte a quella che era la sua casa. Il suolo urbano delle città europee che hanno aderito a questo progetto diventano così il veicolo di una memoria diffusa della deportazione (http://www.stolpersteine.eu/en/home/, ult. consultaz. 18.01.19, NdR).

2 Vallade O. 2004, L’effacement des traces de la Shoah en Pologne, in Génocide, lieux (et non lieux) de mémoire, Revue d’histoire de la Shoah “Le monde juif”, 181, juillet-décembre, pp. 157-163.

3 L’espressione è di Germinario F. (acd.) 2015, Il negazionismo. Un fenomeno contemporaneo, Roma: Carocci, 13.

4 Su Drancy si veda Poznanski R., Peschanski D., Pouvreau B. 2015, Drancy, un camp en France, Paris: Fayard et Ministère de la Défense e Wieviorka A., Laffitte M. 2012, A l’intérieur du camp de Drancy, Paris: Perrin.

5 Cfr. Romano C. A. 2015, Paradigmi del negazionismo, in Germinario (acd.), Il negazionismo, op. cit., p. 41.

6 Ibidem.

7 Cfr. Germinario F. (acd.), Il negazionismo, op. cit., p. 10.

8 Ivi, p. 9.

9 Cfr. Gatti S., Internet, l’antisemitismo online e il negazionismo 2.0, in Negazionismo: un fenomeno contemporaneo, a cura di Francesco Germinario, Roma, Carocci, 2015, p. 56.

10 Cfr. Igounet V. 2000, Histoire du négationnisme en France, Paris: Editions du Seuil, p. 34.

11 Ivi, p. 24.

12 Cfr. ivi, p. 28.

13 Ibidem.

14 Bardèche M. 2000, Norimberga o la Terra promessa, Genova: Effepi, p. 19, consultato online sul sito http://www.vho.org/aaargh il 4 dicembre 2018.

15 Cfr. ivi, p. 74.

16 Bardèche M. 1950, Nuremberg II ou les faux-monnayeurs, Paris: Les Sept Couleurs, p. 229-230.

17 Rassinier P. 1996, La menzogna di Ulisse, Genova: Edizioni Graphos, consultato online il 4 dicembre 2018 http://www.inventati.org/apm/abolizionismo/rassinier_menzogna/RASSMENZ.pdf. Edizione originale 1987, Le Mensonge d’Ulysse, Paris: La Vieille Taupe, Septième Edition, pp. 170-171.

18 Cfr. Rassinier P. 1950, Après l’appel de David Rousset, “La Révolution prolétarienne”, janvier, p. 8.

19 Su questo aspetto del negazionismo si veda Rotondi F. 2015, Luna di miele ad Auschwitz. Riflessioni sul negazionismo della Shoah, Napoli: ESI, pp. 67 sg.

20 Igounet V., Histoire du négationnisme, op. cit., pp. 199 sg.

21 Cfr. ivi, p. 207.

22 Cfr. Vidal-Naquet P. 1991, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, Paris: La Découverte, pp. 40-41.

23 Faurisson R. 2002, My Revisionist Method, “The Journal of Historical Review”, 2, 21, p. 1.

24 Cfr. Chéroux C., About I. 2001, Mémoire des camps: photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999), Paris: Marval,; Klarsfeld S., Pezzetti M. (acd.), L’album d’Auschwitz, Paris: Canope et la Fondation pour la mémoire de la Shoah. Sulle fotografie della liberazione dei campi si veda invece Zelizer B. 1998, Remembering to forget: Holocaust Memory Through the Camera’s Eye, Chicago: University of Chicago Press,; Matard-Bonucci M. A., Lynch E. 1995, La libération des camps et le retour des déportés l’histoire en souffrance, Paris: Editions Complexe.

25 Faurisson R. 2000, Not ‘Reconstruction’ but falsification, “The Journal of Historical Review”, 1, 2019, p. 71; Faurisson R. 1999, The gas chamber of Auschwitz I, “The Journal of Historical Review”, September/December, 5/6, 18, p. 12.

26 Una descrizione del sito Auschwitz I si trova in Saletti C., Sessi F. 2011, Visitare Auschwitz: guida all’ex campo di concentramento e al sito memoriale, Venezia: Marsilio, pp. 160 sg.

27 Igounet, Histoire du négationnisme, op. cit., p. 367.

28 Faurisson R. 1995, Auschwitz: le faits et la légende, 11 janvier, www.robertfaurisson.blogspot.fr consultato il 4 dicembre 2018.

29 Sulla storia del monumento di Birkenau si veda Simoncini G. 2011, La memoria di Auschwitz. Storia di un monumento, 1957-1967, Milano: Jaca Book.

30 Germinario F., Il negazionismo, op. cit., p. 16.

31 Rotondi F., Luna di miele, op. cit., pp. 68 sg.

32 Leuchter F. A. 1993, Rapporto Leuchter, Parma: Edizioni all’insegna del veltro, Parma, consultato nella sua versione online sul sito www.vho.org il 4 dicembre 2018.

33 Pressac J. C. 1989, Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers, New York: The Beate Klarsfeld Foundation.

34 Cfr. Rotondi F., Luna di miele, op. cit., pp. 75-76.

35 Sulla storia delle vicende che riguardano la Risiera di San Sabba cfr. Scalpelli A. (acd.) 1988, San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., Trieste, Milano: ANED, Mondadori; Mucci M. 1999, La risiera di San Sabba. Un’architettura per la memoria, Gorizia: Libreria Editrice Goriziana.

36 Bruttmann T. 2015, Auschwitz, Paris: La Découverte, pp. 58-59.

37 Carnier P. A. 1982, Lo sterminio mancato: la dominazione nazista nel Veneto orientale 1943-1945, Milano: Mursia, p. 64.

38 Ibidem.

39 Ivi, p. 157.

40 Ivi, p. 165.

41 Ivi, p. 159.

42 Sulle vicende giudiziarie di Augusta Reiss cfr. Scalpelli A. San Sabba, op. cit., pp. 207-209.

43 Carnier P. A., Lo sterminio mancato, p., 160.

44 Rotondi F., Luna di miele, op. cit., pp. 105 sg.

45 Molte delle quali diffuse dal sito aaargh.vho.org che raccoglie testi negazionisti dal 1996 e li pubblica online (il motto espresso dagli autori è “l’aaargh, per non morire idioti”).

46 Fölkel F. 1979, La Risiera di San Sabba: Trieste e il litorale adriatico durante l’occupazione nazista, Milano: Mondadori.

47 Molte testimonianze dei sopravvissuti si trovano nel volume curato da Scalpelli, gli atti del processo sono invece disponibili presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Friuli-Venezia Giulia di Trieste.

48 Dorigo F. 1990, E così riappare il fantasma della Risiera, “Trieste Oggi”, 16 dicembre, p. 5.

49 Ibidem.

50 Mulazzani M. 2016, Risiera di San Sabba, Trieste. Foti/Pagliaro – Il nuovo allestimento museale, “Casabella”, 860, aprile, pp. 60-67. La descrizione della mostra storica di Elio Apih è contenuta in Apih, E. 2000, Risiera di San Sabba. Guida alla mostra storica, Quaderni didattici 9, Trieste: Comune di Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte.

51 Cfr. Young J. E. 1993, The texture of memory. Holocaust memorials and meanings, New Haven, London: Yale University Press, p. X.

52 Godfrey M. 2007, Abstraction and the Holocaust, New Haven and London, Yale University Press, p. 252.

53 Cfr. Young J. E., The texture of memory, op. cit, p. 15.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Negazionismo e luoghi della memoria
DOI: 10.12977/nov278
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Negazionismo e luoghi della memoria, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov278

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