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Democrazia e scrittura della storia

Democrazia e scrittura della storia

Testo di Antoon De Baets

Abstract

In questo saggio cerchiamo di chiarire le relazioni fra la democrazia e la scrittura della storia. La nostra strategia consiste nell’esplorare innanzitutto la relazione generale fra la democrazia e la coscienza storica per poi esaminare quella fra la democrazia e la storiografia in quanto tale, cercando poi di scoprire se la democrazia sia una condizione per la scienza in generale e per la scrittura della storia in particolare. Indaghiamo anche la relazione inversa mettendo alla prova quattro asserzioni: la tesi zero, la tesi specchio, la tesi amplificatore e la tesi fattore-chiave. Lo scopo è scoprire sotto quali condizioni la storiografia possa aiutare lo sviluppo di una cultura democratica. Sosteniamo che una società democratica è una condizione necessaria, sebbene non sufficiente, affinché una storiografia responsabile sia sostenibile. Inversamente, una scrittura responsabile della storia è, in una certa misura, un riflesso della democrazia, poiché una parte delle sue procedure metodologiche è una pratica dimostrazione dei valori essenziali in una democrazia, anche se la storiografia comporta meno compromessi e più controllo di qualità nelle sue operazioni di quanto non permettano i processi democratici. Resoconti plausibili della storia della democrazia e dell’ingiustizia storica, inoltre, rinforzano, entro certi limiti, la democrazia. La verità storica provvisoria della ricerca e la sua presentazione, comunque, non sempre sono accettate dal pubblico. Quando lo sono, possono riaprire vecchie ferite, quando non lo sono, mostrandone le debolezze, possono affievolire la promozione della democrazia. Infine, raramente, si può dire che la scrittura storica dia direttamente forma alla democrazia. Ciò nonostante, concludiamo che, come precondizione per una consapevolezza storica democratica forte, dunque per una cultura democratica, il contributo di una storiografia responsabile, per quanto limitato, è necessario alla sopravvivenza della democrazia. Storia responsabile e democrazia condividono la stessa strada.

Scrittura della storia e diritti umani

In questo saggio discuterò la relazione fra la democrazia e la scrittura della storia. Ci sono almeno tre modi per farlo: identificando gli sviluppi storici più ampi che hanno influenzato l’emergere e il progredire del sistema politico noto come democrazia e il posto della scrittura della storia in quegli stessi sviluppi; studiando qualche caso particolare e cercando di trarne qualche conclusione attraverso inferenze; e infine discutendo tipi ideali di democrazia e di scrittura della storia da una prospettiva teoretica. Ho scelto la terza via nella piena consapevolezza che costituisca un approccio limitato a una materia quasi inesauribile, con tante interpretazioni quanti sono gli studiosi che le propongono. Inevitabilmente la mia riflessione teorica conterrà molta speculazione, ma, io spero, non senza solidi fondamenti logici e, dove possibile e applicabile, non senza argomenti basati su qualche prova. Prima di entrare dunque in una discussione delle relazioni fra tipi ideali di democrazia e scrittura della storia, vorrei definire brevemente entrambi i concetti.

Per quanto riguarda la scrittura della storia tratterò un tipo ideale che chiamo sommariamente “scrittura responsabile della storia”. La scrittura della storia è responsabile quando è caratterizzata da quelle che Bernard Williams riteneva le due principali virtù della verità: l’accuratezza (nel trovarla) e la sincerità (nel raccontarla). [1]

Il tipo ideale della democrazia affonda le sue radici nel sistema dei diritti umani. Quest’affermazione richiede un piccolo chiarimento aggiuntivo. È ben noto che i principali documenti sui diritti umani – la Dichiarazione universale dei diritti umani e le convenzioni che ne derivano – propugnano una società democratica come migliore sistema politico per la protezione dei diritti umani. [2] Sulla stessa linea le Nazioni Unite definiscono democratica una società che riconosce e rispetta i diritti umani incardinati nella Dichiarazione universale dei diritti umani. [3] Questa definizione, per quanto sembri semplice, è forte perché richiede che ogni concezione della democrazia sia permeata da un’esigente applicazione del potere della legge orientato verso il rispetto dei diritti umani. Una definizione di questo genere rappresenta un ideale e, in senso stretto, nessuno stato al mondo vive in conformità con essa. [4] In ogni caso l’aspirazione a collegare strettamente diritti umani e democrazia affonda le sue radici nella storia; entrambe le idee emergono come conseguenze delle cosiddette rivoluzioni democratiche del tardo Settecento, ma la loro relazione è rimasta difficile almeno fino al recente collasso delle dittature latino-americane e alla fine del Comunismo e della Guerra fredda. [5]

Non c’è da stupirsi, dunque che, nel principale documento sulla democrazia, la cosiddetta Dichiarazione universale sulla Democrazia, l’interconnessione fra democrazia e diritti umani sia pervasiva come nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Se nella prima viene stipulato solamente il nucleo dei principi della democrazia, è nella seconda che vengono evidenziate molte delle sue condizioni. Tra le quali ci sono la libertà d’espressione, la responsabilità nel rendere conto e la trasparenza. La dichiarazione aggiunge, inoltre: “uno stato di democrazia duraturo (…) richiede un clima democratico e una cultura costantemente nutrita (…) dall’educazione e da altri veicoli di cultura e informazione”. [6]

Una conoscenza interna dei fattori determinanti la democrazia è importante per il problema che voglio affrontare in questa sede: la relazione fra la democrazia e la scrittura della storia. La mia strategia consiste innanzitutto nell’esaminare la relazione generale fra la democrazia e la coscienza storica. In seguito studierò la relazione fra la democrazia e la storiografia in quanto tale e cercherò di scoprire se la democrazia sia una condizione della scienza in generale e della scrittura storica responsabile in particolare. Indagherò inoltre la relazione inversa mettendo alla prova quattro posizioni che chiamerò: la tesi zero, la tesi specchio, la tesi amplificatore e la tesi fattore-chiave. Lo scopo è di scoprire in che misura la scrittura della storia aiuti ad accrescere una cultura democratica. [7]

Democrazia e coscienza storica

Lungo il corso della storia molte società hanno mostrato coscienza storica, vale a dire una sensibilità condivisa nei confronti del passato espresso nella memoria collettiva e nella conoscenza storica. La presenza, da tempo immemorabile, di una coscienza storica è importante in questa sede per due aspetti. Innanzitutto perché significa che la coscienza storica è molto più vecchia della democrazia. Molto prima della nascita delle democrazie moderne – più o meno nell’Ottocento – le società possedevano già una coscienza storica, per quanto limitata ai gruppi di élite. Ci sono molte teorie sulle condizioni che favorirono il sorgere della coscienza storica [8] e, fra le più forti, ci sono quelle per le quali le esperienze collettive di vergogna e di orgoglio sono indicatori affidabili, ma non infallibili, per prevedere la crescita della coscienza storica. La consapevolezza storica riceve alimento quando l’identità di un popolo è minacciata dalla sconfitta in una guerra e da una dominazione violenta, quando è messa a rischio dalla perdita delle radici, o, all’inverso, quando è promossa da un’autonomia appena conquistata. In particolare la memoria collettiva d’ingiustizie storiche, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, può risalire i secoli. [9]

Il secondo punto è meno lineare: dato un livello comparabile di sviluppo socioeconomico, la coscienza storica è solo potenzialmente più forte nelle democrazie che nei regimi non democratici. [10] I governi non democratici non traggono sufficiente legittimazione per il loro potere dalle elezioni e dalle leggi. Perciò, dovendo cercare una legittimazione altrove, la trovano spesso in un’ideologia che trasforma il passato in un suo strumento. I governi non democratici di solito impongono una memoria ufficiale e cercano di schiacciare le memorie alternative. Molti tiranni, per questo motivo, mostrano uno spiccato interesse per la storia. La loro impazienza nel censurare la storia è una prova a contrario della loro coscienza storica. All’inverso i dissidenti possono rifiutare le bugie storiche del dittatore anche a costo di persecuzioni e, inoltre, la scarsa attendibilità delle versioni ufficiali della storia indirizza la curiosità collettiva verso i tabù storiografici, al punto che alternative alla storiografia censurata possono emergere rapidamente. [11] In breve, la coscienza storica può fiorire sotto governi non democratici in vari modi, nonostante la pubblica espressione del dissenso sia sistematicamente vietata. [12]

A loro volta le democrazie possono anche trarre legittimazione dal passato presentandosi come continuazione di precedenti democratici. Per di più in democrazie di carattere multi-etnico, il ricordo del passato può portare conforto alle minoranze separate. [13] L’insegnamento della storia a scuola è una caratteristica generalizzata delle democrazie, tuttavia non è in se stesso un indicatore affidabile dei livelli di coscienza storica della popolazione adulta una generazione dopo il percorso scolastico. L’informazione e il dibattito suscitato dai media non sempre riescono a rimediare a questa situazione, tanto che appare impressionante quanto abbondino in molte democrazie le recriminazioni contro il presunto basso livello di coscienza storica del pubblico. Potrebbe darsi che questi presunti bassi livelli siano relativi, a causa della nostra tendenza fuori luogo a comparare nelle democrazie intere popolazioni con piccoli gruppi d’élite dei regimi non democratici. Se questo fosse vero, allora i presunti bassi livelli di coscienza storica nelle democrazie sono ancora più alti dei presunti alti livelli di coscienza storica sotto i governi non democratici. Anche se la coscienza storica nelle democrazie non fosse bassa, comunque, o non fosse in calo, il suo bisogno non rinforza automaticamente i valori democratici. Solo una coscienza storica democratica rinforzerà i valori democratici.

Il caso intermedio delle democrazie nuove o restaurate può sembrare speciale dalla prospettiva della giustizia transizionale, ma non lo è dal punto di vista della teoria della coscienza storica. Negli ultimi decenni, le esperienze di democrazie nuove o restaurate attraverso tribunali e commissioni verità ha dimostrato ripetutamente che, durante un breve periodo immediatamente successivo alla caduta dei regimi non democratici o alla fine di conflitti armati, c’è una febbre di conoscenza, ampiamente diffusa. Si vuole sapere cosa accadde esattamente alle vittime della repressione e della violenza. Larghi settori della società, inoltre, vogliono sapere come e perché è stata organizzata la violenza e chi ne fu responsabile. Impressionate dal potente impulso per la conoscenza delle passate sofferenze proveniente dalle democrazie nuove o restaurate le Nazioni Unite hanno sviluppato il cosiddetto diritto alla verità: un nuovo diritto umano nel quale si stabilisce che le vittime di violazioni dei diritti umani e le loro famiglie hanno il diritto di conoscere la verità sulle circostanze nelle quali la violenza prodotta dal conflitto è nata e, nel caso di morte o sparizione, di sapere il destino delle vittime. [14]

Quest’apertura alla storia, successiva alle repressioni, è un esempio forte della teoria secondo la quale le vergogne del passato stimolano la coscienza storica. Si tratta comunque di un fenomeno relativamente recente. Ci sono state molte transizioni post-repressione nel passato più lontano che non hanno prodotto eccezionali momenti di coscienza storica: dimenticare era la regola. Alcune democrazie consolidate del nostro presente sono vissute sorprendentemente a lungo senza fare assolutamente i conti con parti violente del loro passato o con vecchie visioni distorte della loro storia. Fin dagli anni Settanta il pensiero su come fare i conti con l’impunità e la riparazione dopo evidenti ingiustizie si è evoluto considerevolmente. Persino in un contesto internazionale più favorevole il desiderio di verità non appare in tutte le democrazie nuove o restaurate. Dove ciò accade poi la ricerca della verità storica può essere presto messa da parte per finalità alternative come il bisogno di stabilità e il benessere. Inoltre fare i conti con il passato è comunque rischioso, anche se non tanto quanto sotto un regime non democratico: si possono riaprire vecchie ferite e rivivere vecchi conflitti. [15] È stato spesso evidenziato che un’educazione storica intensa e sciovinistica è una forma d’indottrinamento che può aiutare l’accendersi di conflitti e violenze. [16]Sotto precise condizioni una moratoria di tale educazione, per un certo ben-definito periodo di tempo, può essere giustificata. [17]

Da questo breve schizzo concludo che le democrazie possiedono solo potenzialmente una coscienza storica più forte dei regimi non democratici; quando è più forte può essere intaccata, se non viene intaccata non è necessariamente un sostegno della democrazia. Per converso, se una coscienza storica democratica viene promossa, essa può prestare sostegno ad una cultura e ad un clima democratico e così alla democrazia in se stessa. Vediamo ora sotto quali condizioni la storiografia aiuta ad alimentare la coscienza storica.

La democrazia come condizione per una storiografia responsabile

Esaminerò inizialmente se la democrazia sia una condizione per la scrittura responsabile della storia: una questione preliminare è se la democrazia sia necessaria per la scienza. [18] Timothy Ferris ha proposto la tesi forte che in Europa e Nord-America la rivoluzione democratica e la rivoluzione scientifica abbiano avuto un’evoluzione parallela fin dal tardo Settecento. Carl Sagan ha difeso la tesi, ancora più forte, che la scienza e la democrazia comincino nello stesso periodo e nello stesso luogo: la Grecia del settimo e sesto secolo a.C. [19] Queste asserzioni non sono sostenibili. La scienza, come la intendiamo oggi, così come la coscienza storica, è nata prima della democrazia. Lo spirito d’indagine è comune a tutte le culture, in particolare, la rivoluzione scientifica – nata nel Seicento, ma fondata su forti antecedenti del passato – ebbe luogo nel contesto dell’assolutismo. Inoltre sorse in Inghilterra nonostante questo paese sia stato caratterizzato da turbolenze politiche per la maggior parte del diciassettesimo secolo. [20] Questi fatti suggeriscono che la scienza, per emergere e svilupparsi, non abbia bisogno della democrazia: essa è praticabile in ambienti non democratici, sebbene vi manchino molte delle condizioni che potrebbero farla prosperare. Insomma: non c’è una relazione fra la democrazia e la possibilità della scienza.

Nel difendere queste tesi forti Sagan e Ferris presentano esempi convincenti per provare un’affermazione più modesta: la relazione fra la democrazia e un progresso duraturo della scienza è una relazione necessaria. [21] Ferris, ad esempio, ha documentato i fallimenti, talvolta spettacolari, della scienza in ambiente totalitario. [22] L’affermazione più modesta sostiene che nella misura in cui le società democratiche sono liberali esse garantiscono un ambiente di lavoro che rispetta e protegge i diritti umani di cui gli studiosi, in quanto individui, hanno bisogno per il loro lavoro, in particolare la libertà di espressione. [23] Tutti gli stati democratici si sono impegnati a realizzare questi scopi ratificando le Convenzioni delle Nazioni Unite; così facendo è loro richiesto di sviluppare un quadro normativo e altre misure per facilitare il diritto alla scienza. [24]

Veniamo ora alla democrazia come condizione per la scrittura responsabile della storia. Il ragionamento è simile a quello fatto per la scienza. All’inizio la democrazia non è una condizione necessaria per la possibilità di una storiografia responsabile, molta della quale precede chiaramente la democrazia o è esistita in ambienti non democratici, persino in circostanze sfavorevoli, su scala limitata, e spesso con grande rischio per lo storico.

In generale, comunque, il governo non democratico tende ad abusare, a minacciare, o a marginalizzare la storiografia. Al contrario la democrazia la favorisce o almeno non la ostacola. In Europa la storiografia professionale, ricca di un insieme coerente di regole etiche (normalmente stabilite da manuali di critica storica) si è sviluppata in dimensioni significative solo nel primo Ottocento – cioè dopo la fine dell’assolutismo nel tardo Settecento e l’ascesa della democrazia e dei diritti umani. Se la democrazia, dunque, non costituisce una condizione necessaria per l’emergere della storiografia responsabile, lo diventa per il mantenimento delle sue pratiche.

Nel campo della storia è possibile specificare gli obblighi generali di uno stato nel proteggere i diritti umani. S’intende che lo stato deve regolare aree vitali quali la libertà d’informazione, la protezione dei dati e la riservatezza, la reputazione, il diritto d’autore, gli archivi e il patrimonio, la diffamazione e la discriminazione. [25] Inoltre gli stati dovrebbero facilitare la ricerca storica e l’insegnamento a tutti i livelli e stimolare la scienza e la cultura. Nel contesto del diritto alla verità, essi hanno il dovere di investigare e punire le atrocità del passato. Nel campo della memoria dovrebbero facilitare, ma non imporre, l’esercizio del diritto di esprimere il lutto e commemorare in modo dignitoso. [26] Tuttavia non solo gli stati hanno dei doveri, gli storici stessi hanno un dovere politico inevitabile, dovrebbero appoggiare la democrazia. [27]

La storiografia responsabile come condizione per la democrazia

La storiografia responsabile è a sua volta una condizione per la democrazia? Dapprima vorrei soffermarmi sulla scienza in generale. Pochi pensieri sull’influenza della scienza devono bastare. Si possono distinguere grossomodo quattro posizioni: la scienza è sufficiente per la democrazia; non è sufficiente ma necessaria; non è necessaria ma è importante (sebbene talvolta dannosa); non è importante. Con l’eccezione di chi esalta o ridicolizza la scienza, molti osservatori, credo, respingerebbero la prima e l’ultima posizione. Sagan e Ferris hanno puntualizzato che molti degli illuminati protagonisti della democrazia settecentesca avevano un eccezionale interesse per la scienza. In queste fasi iniziali dello sviluppo delle pratiche democratiche, la scienza ha giocato un ruolo importante. Da allora questo ruolo è diventato ancora più fondamentale. Si consideri la complessità e la varietà della politiche pubbliche intraprese nelle moderne democrazie; la scienza vi gioca spesso un ruolo dominante formulando le opzioni sulle quali le svariate scelte politiche sono basate (perciò il loro nome di politiche fondate sulle prove –evidence-based policies). La scienza ha un rispettabile primato al servizio della democrazia, malgrado la sua applicazione all’ambiente politico sia talvolta confusa e malgrado gli abusi cui può essere soggetta a causa di interessi privati. [28] Molti partecipanti al dibattito potrebbero probabilmente essere d’accordo con l’idea che la scienza sia importante e talvolta necessaria per la democrazia. [29] Si può sostenere questo tipo di relazione anche per il rapporto tra storiografia responsabile e democrazia? Per rispondere a questa domanda esaminerò quattro posizioni: che la storiografia responsabile non abbia o abbia effetti negativi sulle società democratiche (la tesi “zero”), che esse si riflettano (la tesi “specchio”), che si rinforzino (la tesi “amplificatore”) e infine, che la storiografia formi la democrazia (la tesi “fattore-chiave”).

La tesi zero non è conciliabile con le altre tre. Giacché esistono prove almeno per due delle altre tesi dimostrerò che possiamo respingerla. La tesi zero, comunque, ci aiuta a ricordare che gli effetti della scrittura storica, quando c’è, non sono necessariamente considerevoli e, quando sono generalmente positivi, possono ancora avere qualche particolare effetto collaterale negativo.

La tesi specchio può essere parzialmente confermata menzionando i parallelismi fra le operazioni della storiografia e le operazioni della democrazia politica. [30] Nel loro lavoro gli storici utilizzano valori che sono centrali per la democrazia: la libertà di espressione e di informazione (compresa la pluralità delle opinioni e la tolleranza per le opinioni non convenzionali) e il dibattito critico pubblico nel quale le opinioni sono messe pubblicamente alla prova, accettate o rifiutate. Sebbene la tradizione sia importante, sia nella storiografia che nella democrazia, alla fine il merito surclassa le origini nella valutazione dei risultati. Il dubbio sistematico, che è la base per il controllo delle prove storiografiche, trova un parallelo nella politica democratica, che permettendo e incoraggiando l’opposizione politica e il minuzioso esame pubblico del governo integra nella sua essenza il principio dell’incertezza. Il carattere provvisorio e aperto delle operazioni di ricerca della verità nella storia fa il paio con il carattere sperimentale delle politiche democratiche. Inoltre la pratica degli storici di presentare le prove attraverso passaggi accumulati con chiarezza e attraverso problemi spiegati logicamente corrisponde ai requisiti democratici di rendicontazione pubblica e trasparenza. Infine il sapere storico e la responsabilità democratica sono entrambi auto-correttivi perché possiedono la capacità di imparare dagli errori. [31]

Tutti questi parallelismi suggeriscono che la relazione fra la democrazia e la storiografia sia procedurale: l’operazione di scrivere la storia riflette alcuni valori centrali per le operazioni della democrazia. [32] Una conclusione del genere può forse essere considerata prevedibile, dal momento che viene tratta da una presentazione idealizzata delle pratiche storiografiche e democratiche. È comunque anche mitigata dal fatto che i parallelismi sono ben lungi dall’essere perfetti. Mentre la scienza e la democrazia hanno entrambe un carattere essenzialmente sperimentale, l’esperimento è possibile in storia solo in una certa piccola misura – a meno che uno non sia pronto a chiamare esperimento la messa alla prova di un’ipotesi con un unico test non replicabile. La mia assunzione, ciononostante, è che i parallelismi non sono superficiali, per il fatto che mettono a nudo gli elementi democratici nella scrittura responsabile della storia. Essi sono più chiari per la ricerca storica, ma meno ovvi per l’insegnamento della storia o per le forme della divulgazione storica. Solo nella misura in cui insegnanti, libri di testi o discussioni in classe mostrano caratteristiche di ricerca i medesimi parallelismi appaiono.

La storiografia e la democrazia mostrano anche due importanti differenze procedurali: il ruolo del compromesso e la funzione del controllo di qualità. Il compromesso è centrale nella politica ma secondario nella scienza. Al livello delle asserzioni di fatto, il livello nel quale sono possibili test di verità, gli studiosi evitano il compromesso. La “teoria del consenso” – è vero ciò che la maggioranza degli studiosi pensa che sia vero – a questo livello cade. Al livello delle opinioni, invece, il compromesso è talvolta possibile: le interpretazioni storiche e i giudizi morali non sono veri o falsi ma più o meno plausibili; e, entro certi limiti, è possibile un compromesso sulla plausibilità. [33] Il sistematico controllo di qualità è un altro fattore di differenza. Con l’eccezione di un’importante fase di discussione durante i momenti che precedono la pubblicazione, l’espressione delle opinioni in scienze, compresa la storiografia, è controllata da un sistema di recensione fra colleghi. Ciò rende il dibattito scientifico molto più regolato del dibattito pubblico, ma una volta che lo studioso abbia accettato questo controllo di qualità il suo diritto all’eresia è considerevole. [34] Insomma la storiografia è caratterizzata anche da procedure che differiscono da quelle della democrazia.

La tesi dell’amplificatore si basa su un’affermazione più coraggiosa. Sostiene che la storiografia responsabile non solo riflette ma rinforza una società democratica, oltre il punto nel quale il semplice riflettere è già un rinforzare. È ragionevole ritenere che la storiografia sia responsabile, se rinforza la democrazia dev’esservi correlata non solo per le sue procedure, ma anche e soprattutto per il suo contenuto, non per ogni contenuto, ma per qualche contenuto connesso con la democrazia. Dalla sezione sulla coscienza storica due sono gli ambiti che emergono come candidati che soddisfano questa condizione di contenuti collegati con la democrazia: il racconto della storia della democrazia stessa e la ricostruzione delle ingiustizie storiche. Vediamo ora perciò come la competenza storica in questi due campi possa incoraggiare la democrazia.

È ovvio che il primo campo sia lo studio della storia della democrazia. Una società democratica, comprese le sue generazioni più giovani, ha bisogno di comprendere le origini e lo sviluppo della democrazia nella quale vive per diagnosticare le sue attuali condizioni e discutere come garantirne il futuro. In altre parole deve sviluppare una forte coscienza storica democratica che costituisca un duraturo senso di continuità con i precedenti democratici e di discontinuità con i precedenti non democratici della sua storia. Se questo tipo di ricostruzione manca si apre lo spazio per la distorsione e l’abuso della storia. [35]Ciò allontana ancora di più la società dalla democrazia.

Affrontare l’ingiustizia storica, il secondo campo, è allo stesso modo un tema centrale di ogni democrazia. Le Nazioni Unite hanno evidenziato che la conoscenza da parte di un popolo della storia della propria oppressione è parte del suo patrimonio e dovrebbe essere ricordata; esse ritengono che l’inclusione di un accurato resoconto delle violazioni dei diritti umani compiute nel passato sia una forma riparazione simbolica dell’ingiustizia. [36] Bisogna dire in generale che non affrontare adeguatamente le ingiustizie del passato – non indagandole e non punendole – consente a quelle stesse ingiustizie di continuare; giustizie del passato che continuano fanno crescere il rischio della ripresa dei conflitti e del governo non democratico, minacciando costantemente l’esistenza della democrazia. Come ha detto Reinhold Niebhur: “La capacità dell’uomo di fare giustizia rende la democrazia possibile, ma l’inclinazione dell’uomo verso l’ingiustizia la rende necessaria”. [37]

È stato mostrato in maniera convincente che maggiori sono le lamentele sulle passate ingiustizie maggiore è la capacità dei leader politici o comuni di intraprendere azioni punitive collettive. [38] Il generale dovere democratico di affrontare le ingiustizie passate include il cosiddetto dovere dello stato di investigare sulle atrocità del passato. È qui che lo storico responsabile, vicino allo stato, gioca un ruolo importante. Le differenti visioni dell’ingiustizia storica spesso sono molto marcate all’interno di una singola società e fanno sorgere forme multiple di coscienza storica. Quando gli storici offrono interpretazioni plausibili delle ingiustizie storiche, pongono nel loro contesto i conflitti e i regimi non democratici nei quali furono inflitte, essi smontano le versioni ufficiali della storia e le diffuse segretezze, i silenzi e le bugie che avevano prevalso durante il passato di repressione. Svelare segreti e rompere silenzi significa esporsi alle denunce, attaccare le bugie significa esporsi alle contestazioni, smontare versioni ufficiali distorte significa allargare il quadro interpretativo per includere una prospettiva sociale più larga che comprenda le vittime. Facendo così lo storico aiuta la rottura con importanti aspetti dell’ingiustizia storica. [39]

Un resoconto plausibile della storia della democrazia e delle ingiustizie storiche, dunque, rinforza la democrazia. La ricezione di questi racconti da parte del pubblico, comunque, può indebolire gli effetti democratici di questi ultimi. Innanzitutto è un fatto della vita che la disponibilità dei risultati di ricerche affidabili non implichi la loro automatica e illuminata accettazione da parte del pubblico. In secondo luogo rivelare verità dolorose sul passato può riaprire vecchie ferite e ravvivare antichi conflitti, il che potrebbe scoraggiare una parte del pubblico dall’appoggiare la democrazia. In terzo luogo le scoperte degli storici potrebbero essere in contrasto con la promozione dei diritti umani e della democrazia. La ricerca storica e il suo insegnamento, infatti, potrebbe mostrare i successi dei diritti umani ma, altrettanto facilmente, i loro insuccessi – e, con quella stessa prova, attrarre verso alternative non democratiche. [40] All’inverso la consapevolezza della fragilità e il carattere temporaneo della democrazia può anche stimolare la determinazione a difenderla. Dunque il contributo della storiografia responsabile al rafforzamento della democrazia è sostanziale anziché procedurale quando ha a che fare con lo studio della democrazia e delle ingiustizie storiche, sebbene gli effetti democratici possano essere mitigati o persino eliminati in seguito alla sua ricezione.

La tesi fattore chiave, infine sostiene che la storiografia responsabile, oltre a riflettere e rinforzare la democrazia contribuisce a darle forma in quanto fattore dominante. Ci sono momenti nella vita delle democrazie nei quali il dibattito sulla storia segna la mentalità pubblica. Lo notiamo molto chiaramente nelle democrazie nuove o restaurate, spesso caratterizzate da un breve periodo in cui vi è sete di conoscere il recente passato. I mezzi per soddisfare questa sete sono le commissioni per la verità e i tribunali ma raramente la scrittura storica. La storiografia, per sua natura, ha bisogno di più tempo e perciò di solito arriva troppo tardi per influenzare i primi dibattiti intorno alle recenti ingiustizie. I risultati del lavoro storico raramente formano l’agenda degli stati democratici e, se lo fanno, capita solo per un fugace momento. È vero, comunque, che il valore del lavoro storico può crescere in modo significativo quando i processi di giustizia transizionale non accadono immediatamente ma con una generazione di ritardo. Tuttavia, in generale, l’affermazione che la storiografia sia un fattore-chiave della democrazia è debole; il suo reale impatto è strutturale anziché incidentale.

Conclusione

Una società democratica è una condizione necessaria ma non sufficiente per sostenere una scrittura responsabile della storia. All’inverso, una storiografia responsabile riflette in certa misura la democrazia, perché una parte delle sue procedure consiste in dimostrazioni pratiche dei valori centrali della democrazia. Essa implica, comunque, meno compromessi e più controllo di qualità di quanto facciano i processi democratici nel loro modus operandi. La storiografia responsabile inoltre, entro certi limiti, rinforza la democrazia quando presenta resoconti plausibili della storia della democrazia e delle ingiustizie del passato. Le verità provvisorie che la storiografia cerca di trovare e presentare, comunque, non sono sempre accettate dal pubblico. Quando lo sono, possono aprire vecchie ferite, se non lo fanno, mostrando i fallimenti, possono indebolire la promozione della democrazia; infine la storiografia raramente dà direttamente forma alla democrazia. Ciononostante il contributo della storiografia responsabile alla democrazia, sebbene limitato, è necessario. Non c’è scelta. Per la sua stessa sopravvivenza una società democratica deve facilitare la costruzione di una solida cornice all’interno della quale sia offerto al pubblico un racconto del passato plausibile e affidabile. Senza tale racconto non è possibile nessuna coscienza storica democratica, senza questa coscienza la cultura democratica è debole, se non addirittura a rischio, insieme alla democrazia stessa. Il peso dei doveri concomitanti è condiviso dallo stato, dagli storici e dalla società nel suo complesso. La scrittura responsabile della storia e la democrazia camminano sullo stesso sentiero verso il raggiungimento della loro finalità.

Traduzione di Paolo Ceccoli


Note

[1] Bernard Williams, Truth & Truthfulness: an Essay in Genealogy (Princeton/Oxford: Princeton University Press, 2002), 84-148. Si veda anche Antoon De Baets Responsible History (New York, Oxford: Berghahn), 173-196. Tutti i documenti ufficiali menzionati sono reperibili sul Network of Concerned Historians (NCH) website, se non indicato diversamente; tutti i siti qui menzionati sono stati esaminati l’ultima volta il 15 febbraio 2015. Su quest’argomento ho tenuto lezioni alla Seconda Conferenza sulla Democrazia come idea e pratica (Oslo, 2011), alla Nona Conferenza europea di storia della scienza sociale (Glasgow, 2012), alla Terza conferenza internazionale di Filosofia della storia (Buenos Aires, 2012), al Diciassettesimo simposio nazionale di storia (Natal, Brazil, 2013) e alla Ventiduesima conferenza annuale di Euroclio (Helsingør, Denmark, 2015). Sono grato a chi partecipato alle discussioni, particolarmente a Toby Mendel (direttore del Centro per la legge e la democrazia di Halifax), per i loro commenti. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in inglese col titolo: “Democrazia e scrittura della storia” Historiographies: The Journal of History and Theory, no. 9 (June 2015), 31–43 (unizar.es/historiografias/historiografias/numeros/9/debaets.pdf).

[2] Dichiarazione universale dei diritti umani (DUdU) (1948), articoli 21, 29; Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (CIDCP) (1966), articoli 14, 21, 22, 25; Convenzione internazionale sui diritti culturali, sociali ed economici (CIDCSE) (1966), articoli 4, 8. Il preambolo della DUdU inoltre condanna duramente le passate dittature.   I documenti delle Nazioni Unite sulla democrazia sono accessibili attraverso il sito: http://www.ohchr.org/EN/Issues/RuleOfLaw/Pages/Democracy.aspx

[3] Si veda: Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, I principi di Siracusa sulla limitazione e le disposizioni in deroga nelle convenzioni internazionali sui diritti politici e civili (1985), principio 21; Principi di Limburgo sull’implementazione delle convenzioni internazionali sui diritti culturali, economici e sociali (1986), principio 55.

[4] Per una teoria della democrazia fondata sulla dignità e i diritti umani (chiamata “concezione collaborativa della democrazia”) si veda: Ronald Dworkin, Justice for Hedgehogs, specialmente 379-399. Seguendo Josè Antonio Cheibub il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite ha adottato una definizione minimalista della democrazia, adottata da molti per ragioni pratiche di ricerca: “I paesi sono classificati come democrazie se il capo dell’esecutivo e il corpo legislativo sono eletti, più di un partito compete nelle elezioni e un partito ha ceduto il potere nel caso di sconfitta, in caso contrario sono identificati come dittature”. Si veda Rapporto 2010 sullo sviluppo umano (Oxford, Oxford University Press, 2010; hdr.undp.org/en/content/human-development-report-2010), 122 n.15.

[5] Vedi Charles Tilly, Democracy (New York: Cambridge University Press, 2007), 27-29, per quanto riguarda l’emergere della democrazia in Europa occidentale e nel Nord America nel tardo diciottesimo secolo; 48-49 per la connessione fra la democrazia e i diritti umani (traduzione italiana, Democrazia, il Mulino, 2009). Per lo sfondo sul quale la democrazia si è associata ai diritti politici e la libertà ai diritti civili vedi: Manfred Nowak, U.N. Covenant on Civil and Political Rights: CCPR Commentary (Kehl am Rhein, Strasbourg and Arlington, VA: N.P. Engel, 1993, 2005), 564-566. Nowak sostiene che l’accettazione della connessione fra democrazia e diritti umani è un fenomeno recente.

[6] Unione interparlamentare, Dichiarazione universale sulla democrazia (1997), preambolo, articoli 3, 6-9, 12-14, 19 (citazione), 21, 27.

[7] Ho affrontato inizialmente la questione in Antoon De Baets, Responsible History (New York, Oxford: Berghahn, 2009): 68-71, dove chiamo la storiografia responsabile un “atto di democrazia” e “democrazia in pratica”, affermazioni qualificate in questa sede.

[8] Per una prima impressione delle teorie sulla coscienza storica, si veda il mio: “The grandeur of Historiography”, Storia della storiografia, 51 (2007): 141-147.

[9] Si veda il mio “The Impact of the Universal Declaration of Human Rights on the Study of History”, History and Theory, vol. 48, 1 (February 2009): 35-38, e il mio “Historical Imprescriptibility”, Storia della Storiografia, 59-60 (September 2011): 131-32, dove distinguo le ingiustizie storiche più remote da quelle più recenti (vedi: www.inth.ugent.be/wp-content/uploads/2012/05/Historical-imprescriptibility.pdf).

[10] Nel corso di questo testo contrappongo “democrazie” a “regimi non democratici” (che comprendono dittature totalitarie e regimi autoritari) e “nuove o restaurate democrazie” (quest’ultimo un termine delle Nazioni Unite).

[11] Vedi Antoon De Baets, Censorship of Historical Thought: A World Guide 1945-2000 (Westport CT, London: Greenwood Press, 2002). Vedi anche Leszek Kołakowski, “Totalitarianism and the Virtue of the Lie”, in Irving Howe (ed.), 1984 Revisited: Totalitarianism in Our Century (New York: Harper & Row, 1983), 135; Yuri Afanasev, “Return History to the People”, Index on Censorship, vol. 24, 3 (May-June 1995): 56-58.

[12] La mancanza di coscienza storica si registrò anche nelle colonie dove le democrazie europee imposero di solito alle popolazioni colonizzate regimi non democratici. Per analisi classica si veda Albert Memmi, The Colonizer and the Colonized, transl. Howard Greenfeld (Boston, MA: Beacon Press, 1991), 91-95, 102-5.

[13] Si veda ad esempio, Stephen Jones, “Old Ghosts and New Chains: Ethnicity and Memory in the Georgian Republic”, in Ruby Watson (ed.), Memory, History, and Opposition under State Socialism (Santa Fe, NM: University of Washington Press, 1994), 163-64, 165 nota 29.

[14] Si veda il mio: Responsible History, 144-72, and “Historical Imprescriptibility”, 128-49.

[15] Come studi di caso si veda: Eric Davis, “The New Iraq: The Uses of Historical Memory”, Journal of Democracy, vol. 16, 3 (July 2005): 54-68; Eric Langenbacher, “On the Connection between Memory and Democracy: The German Case and Beyond” (American Institute for Contemporary German Studies Commentary, August 2003).

[16] Si veda ad esempio, Kenneth D. Bush & Diana Saltarelli (eds.), The Two Faces of Education in Ethnic Conflict: Towards a Peacebuilding Education for Children (Florence: UNICEF, 2000): 11-14, in: http://www.unicef-irc.org/publications/pdf/insight4.pdf; UNESCO, The Hidden Crisis: Armed Conflict and Education-EFA Global Monitoring Report (Paris: UNESCO, 2011): 242-44, in: unesdoc.unesco.org/images/0019/001907/190743e.pdf; Barbara Misztal, “Memory and Democracy”, American Behavioral Scientist, vol. 48, 10 (June 2005): 1324-26; Elizabeth Cole (ed.), Teaching the Violent Past: History Education and Reconciliation (Lanham, MD, etc.: Rowman & Littlefield, 2007), 325-26; E. H. Dance, History the Betrayer: A Study in Bias (London: Hutchinson 1960; reprint London: Hutchinson, 1964).

[17] Cinque condizioni garantiscono il carattere democratico di una moratoria sui manuali di storia successivi a un conflitto: una cornice legale, un intervallo di tempo breve ed esplicito, un pubblico dibattito, la preparazione effettiva di nuovi materiali e una ricerca storica accademica priva di impedimenti. Si veda Antoon De Baets, “Post-conflict History Education Moratoria: A Balance”, World Studies in Education, 16, no. 1 (2015), 5–31.

[18] L’inviato speciale nel campo dei diritti culturali, Farida Shaheed, ha definito la scienza “la conoscenza che può essere messa alla prova e può essere rifiutata, in tutti i campi di ricerca, comprese le scienze sociali”. Si veda il suo: The Right To Enjoy the Benefits of Scientific Progress and Its Applications: Report (2012). Michael Shermer ha definito la scienza come: “ un insieme di metodi atti a descrivere e interpretare i fenomeni, passati o presenti, osservati o che si possono inferire, fenomeni. Questi metodi mirano alla costruzione di un corpo di conoscenze sperimentali aperto alla conferma o al rifiuto”. Si veda il suo: Why People Believe Weird Things: Pseudoscience, Superstition, and Other Confusions of Our Time (New York: Henry Holt, 1997; reprint New York: Henry Holt, 2002), 18

[19] Timothy Ferris, The Science of Liberty: Democracy, Reason, and the Laws of Nature (New York: Harper, 2010), 1-2; Carl Sagan, The Demon-Haunted World: Science as a Candle in the Dark (London: Headline, 1996), 41. Paul Veyne si chiede se i Greci comincino a scrivere la storia quando la democrazia li rende effettivamente cittadini. Egli sostiene che la nascita della storiografia non segue necessariamente l’apparizione dello stato o il sorgere della coscienza politica. Si veda il suo Writing History: Essay on Epistemology, transl. Mina Moore-Rinvolucri (Middletown, CT: Wesleyan University Press, 1984), 77.

[20] Stevin Shapin ha dimostrato come l’autorità e i codici di comportamento dei “gentlemen” inglesi abbiano influenzato in maniera quasi invisibile il concetto di verità della cultura scientifica del diciassettesimo secolo. Si veda il suo: A Social History of Truth: Civility and Science in Seventeenth-Century England (Chicago, London: Chicago University Press, 1994), xxv-xxxi.

[21] Si veda anche Robert Merton, “The Normative Structure of Science” (1942), in The Sociology of Science: Theoretical and Empirical Investigations (Chicago, London: University of Chicago Press, 1973), 269; Karl R. Popper, The Poverty of Historicism (London: Routledge & Kegan Paul, 1957), 90.

[22] Timothy Ferris, Science of Liberty, 191-235; ma anche Carl Sagan, Demon-Haunted World, 249-52.

[23] Questa relazione non porta a sostenere la fallacia secondo la quale la sola libertà d’espressione garantisca la verità scientifica. Quanto maggiore è la libertà d’espressione tanto più è probabile l’espressione di opinioni false o erronee, ma è anche più probabile che la possibilità di un dibattito aperto tenda ad incoraggiare la denuncia di tali opinioni.

[24] ICESCR, articoli 13 (educazione), 15 (cultura e scienza). Si veda anche Limburg Principles, principles 16-34; The Maastricht Guidelines on Violations of Economic, Social and Cultural Rights (1997), §§ 6-10; UN Human Rights Committee, General Comment 25 [Participation in public affairs] (1996), § 9; UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights, General Comment 13 [Education] (1999), §§ 43-48; General Comment 17 [Productions of which one is the author] (2005), §§ 25-35; General Comment 21 [Participation in cultural life] (2009), §§ 44-59. L’autorevole General Comments distingue diversi tipi di obbligazioni pubbliche: dovere di rispetto (cioè: di non intervenire), di protezione (cioè: di prevenire che terze parti violino i diritti) e di esecuzione (cioè: di facilitare e di procurare, per mezzo di misure, legali, finanziarie, promozionali o di altro genere). General Comment 21, per esempio, prescrive come obbligazione da eseguire, in § 54(c): “L’inclusione della educazione culturale ad ogni livello dei curricoli scolastiche, includendo la storia (…) e la storia di altre culture, in accordo con tutti gli interessati”.

[25] Gli archivi giocano un ruolo speciale nel realizzare i principi democratici di rendicontazione pubblica e di trasparenza. Si veda: Office of the UN High Commissioner for Human Rights (OHCHR), Study on the Right to the Truth (2009), §§ 6, 13; International Council on Archives, Universal Declaration on Archives (2010); Report of the Special Rapporteur on the Promotion of Truth, Justice, Reparation and Guarantees of Non-recurrence, Pablo de Greiff (2013). Per la relazione fra gli archivi e il diritto alla verità si veda: OHCHR, Report of the OHCHR on the Seminar on Experiences of Archives as a Means to Guarantee the Right to the Truth (2011).

[26] Leggi sulla memoria (leggi che penalizzano l’espressione di opinioni sui fatti storici) non fanno parte di questi doveri correlati alla memoria. Si veda: UN Human Rights Commitee, General Comment 34 (Libertà di opinione e di espressione) (2011), §49.

[27] Ciò è anche esplicitamente stabilito in UNESCO, Recommendation Concerning the Status of Higher-Education Teaching Personnel (1997), § 27.

[28] Si veda anche il: Center for Science and Democracy of the Union of Concerned Scientists at ucsusa.org/center-for-science-and-democracy.

[29] Questo è ancora di più il caso quando si tenga conto della tecnologia, spesso prodotto della scienza.

[30] Il problema se i dipartimenti di storia e le associazioni di storici siano democraticamente organizzati non è incluso in un questa discussione.

[31] Per la centralità della verità nella scienza si veda: UNESCO, Recommendation Concerning the Status of Higher-Education Teaching Personnel (1997), § 33: “[T]he scholarly obligation to base research on an honest search for truth.” Per la connessione fra la verità e i diritti umani si consideri quanto segue: prima della recente introduzione del diritto alla verità (intorno al 2005), il concetto di verità era del tutto assente dai più importanti documenti sui diritti umani (La UDHR, la ICCPR e la ICESCR non menzionano il concetto). La ricerca della verità, come scopo intrinseco della scienza ha infine trovato un parallelismo in questo diritto. Per quanto riguarda il legame fra la democrazia e il diritto alla verità si veda: OHCHR, Study on the Right to the Truth (2006), §§ 46, 56, and OHCHR, Right to the Truth (2007), §§ 16, 83. Si veda anche Amartya Sen, “Democracy as a Universal Value,” Journal of Democracy, vol. 10, 3 (1999): 1-17.

[32] Si veda anche: Carl Sagan, Demon-Haunted World, 41-42, 87, 379; Timothy Ferris, Science of Liberty, passim

[33] Si veda anche: John Zammito, “Historians and Philosophy of Historiography”, in Aviezer Tucker (ed.), A Companion to the Philosophy of History and Historiography (Oxford: Wiley-Blackwell, 2009), 74.

[34] Si veda anche Williams, Truth & Truthfulness, 217 and 219. Si noti anche che la libertà accademica non è la stessa cosa della libertà di espressione. Si veda il mio “How Free Expression and Academic Freedom Differ”, University Values, 3 (January 2011), scholarsatrisk.nyu.edu/documents/UV_JAN_2011.pdf, e il mio “The Doctrinal Place of the Right to Academic Freedom under the UN Covenants on Human Rights: A Rejoinder”, University Values, 5 (May 2012), scholarsatrisk.nyu.edu/documents/UV_MAY_2012.pdf; Ronald Dworkin, “We Need a New Interpretation of Academic Freedom”, in Louis Menand (ed.), The Future of Academic Freedom (Chicago: University of Chicago Press, 1996), 184-85; Eric Barendt, Academic Freedom and the Law: A Comparative Study (Oxford and Portland, OR: Hart, 2010), 17-22.

[35] Per una discussione sulla demarcazione fra storia responsabile da una parte e storia irresponsabile, abuso della storia e pseudo-storia dall’altra si veda il mio: Responsible History, 11-14.

[36] UN Commission of Human Rights, Updated Set of Principles for the Protection and Promotion of Human Rights through Action to Combat Impunity (2005), principio 3; UN, Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law (2005), principle 22 (h). Si veda anche Special Rapporteur in the Field of Cultural Rights (Farida Shaheed), Cultural Heritage: Report (2011), paragrafo 8.

[37] Reinhold Niebuhr, The Children of Light and the Children of Darkness: A Vindication of Democracy and a Critique of Its Traditional Defense (New York: Charles Scribner’s Sons, 1944; reprint Chicago: University of Chicago Press, 2011), xxxii. Si veda anche Kenneth Christie and Robert Cribb (eds.), Historical Injustice and Democratic Transition in Eastern Asia and Northern Europe: Ghosts at the Table of Democracy (London, New York: Routledge Curzon, 2002), 4.

[38] Si veda: Barbara Harff and Ted Gurr, “Systematic Early Warning of Humanitarian Emergencies”, Journal of Peace Research, vol. 35, 5 (September 1998): 558-59, also 575, 577-78.

[39] Si veda anche Thomas Hammarberg (former Commissioner for Human Rights of the Council of Europe), “Atrocities in the Past Must Be Recognised, Documented and Learned from – but Not Distorted or Misused for Political Purposes”, http://www.deutscharmenischegesellschaft.de/wp-content/uploads/2009/11/COE-Commissioner-for-Human-Rights-Thomas-Hammarberg-20100322.pdf.

[40] Si veda, per questo dilemma, anche Ian McKellar, “History Teaching: A Key to Democracy?” EUROCLIO Bulletin, 6 (Summer 1996): 22-24 (at: euroclio.eu/new/index.php/1996-history-and-democracy-bulletins-358). Nella relazione ad Oslo, “Education and Democratization in Comparative Perspective”, Cheibub sostiene che l’educazione sia in linea generale cruciale per l’emergere della democrazia, ma meno per la sua sopravvivenza; io qui ritengo che la storiografia responsabile e l’educazione siano cruciali in entrambi i casi.

 

HPIM0650.JPGNella foto: la statua di Erodoto davanti all’edificio del Parlamento austriaco, a Vienna.

Crediti:Wien-Parlament-Herodot” by Pe-JoOwn work. Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons.