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Gli anni Settanta e la Tv degli ultimi dieci anni

Gli anni Settanta e la Tv degli ultimi dieci anni
Abstract

La televisione racconta la storia, produce immaginari storici, ma con modalità diverse rispetto ad altri media quali il cinema. La televisione genera l’evento, rendendo lo spettatore testimone dell’evento stesso. Per quale ragione i cosiddetti «anni di piombo» hanno preso il posto di Mussolini o della Shoah nella fiction televisiva? Qual è il senso del succedersi dei diversi periodi o personaggi al centro delle serie televisive? In che modo gli storici si possono rapportare in modo fertile e produttivo agli immaginari storici prodotti dalla televisione? L’autrice propone un breve excursus per la didattica degli audiovisivi, e una riflessione sulla rappresentazione degli operai in Gli anni spezzati.

“Il visibile di un’epoca è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo, e ciò che gli spettatori accettano senza stupore” (Sorlin, 1979)

Qualche considerazione sul metodo.
La fonte televisiva, nella didattica della storia, non è uguale a quella cinematografica. Un programma della tv, infatti, agisce sull’immaginario di chi lo vede in modo completamente diverso da un film visto al cinema, i motivi di questa diversità sono stati spiegati da una vasta bibliografia ormai esistente sull’argomento: la tv, ne emerge, non solo è uno strumento per raccontare la storia, una fonte per conoscere il tempo in cui è stata prodotta, un agente di storia “capace di incidere su scelte e comportamenti collettivi e alimentare i meccanismi della memoria”, ma è anche, e soprattutto, un luogo nel quale l’evento viene generato (Ortoleva, 1995; Edgerton 2000). Chi assiste a qualsiasi avvenimento trasmesso dalla tv ne diventa immediatamente testimone: l’11 settembre, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, lo sbarco dell’uomo sulla luna, sono entrati a far parte di una “memoria collettiva” che fa si che ogni spettatore si senta parte dell’evento visto che diventa un “media event”. Secondo la nota definizione di Daniel Dayan e Elihu Katz, dirette televisive come i funerali di una personalità, una partita di calcio, un disastro ambientale, hanno il potere di creare una memoria condivisa “a sense of common past,” che unisce la storia personale a quella collettiva “between personal and collective history” “through association with either the traumas to which they are responses or the exceptional nature of the gratifications they provide” (Dayan- Katz, 1994). Lo storico francese Jerome Bourdon ha sottolineato l’ottimismo di fondo di questa interpretazione del senso della storia generato dai media, ottimismo che si oppone al punto di vista apocalittico di chi vede nella Tv il luogo nel quale, invece, si costruisce l’oblio attraverso la perdita di profondità, nella quale tutto diventa simultaneo, e quindi astorico, un “curriculum non graduato”, secondo la nota definizione di Neil Postman (Bourdon, 2003).

Calvino lezioni americane

Italo Calvino, Le Lezioni americane

In questa dialettica ancora esistente negli studi sul rapporto fra storia e tv, tra apocalittici e integrati, si perde completamente di vista il ruolo creativo che hanno le audiences nel rielaborare il messaggio a partire dalle proprie esperienze e dai paesaggi culturali entro cui sono inserite: ho visto il funerale di Lady Diana in India, insieme a una grande famiglia proprietaria di un bed and breakfast, il senso di appartenenza di quella comunità rispetto all’evento non era certo il mio, la loro sincera sofferenza non era la mia, l’emozione di essere lì insieme a milioni di persone in tutto il mondo non ha comunque prodotto alcun tipo di memoria condivisa rispetto all’evento in sé né al suo significato storico.
La comunità immaginata che si costruisce intorno a un evento mediatico, dunque, varia profondamente, come ha dimostrato Stuart Hall, a partire dalla negoziazione fra trasmissione e ricezione: nell’intersezione fra i due termini si genera il significato per cui il messaggio non è il medium, ma l’incontro fra me che guardo e ciò che viene guardato (Stuart Hall, 1973). Quello che chi guarda ha da dire è importante poiché l’immaginario non è mai una tabula rasa ma, per dirla con Italo Calvino, un posto dove ci piove dentro.

Storia, memoria e Tv
Tutto questo riguarda lo storico da vicino, poiché nessuno ormai può più eludere il fatto che la storia è fra le discipline quella più naturalmente esposta a una divulgazione elaborata quasi interamente al di fuori dell’accademia. Per gli storici interagire con l’immaginario degli studenti, dei lettori, dei colleghi stessi è l’unico modo per non perdere definitivamente un ruolo all’interno del senso pubblico della materia. Constatato, dunque, che la gran parte della storia proposta oggi all’interno del sistema delle comunicazioni è proposta in tv, bisogna andare a vedere quali sono le conseguenze e come piegare a proprio vantaggio questo diffuso bisogno di storia. La storia vende, che siano gli storici gli unici a non beneficiare di questo interesse del pubblico francamente è ridicolo oltre ché preoccupante, per farlo, come suggerisce James Grossman, bisogna entrare nel merito del dibattito, e prendere ogni prodotto televisivo (o cinematografico) a contenuto storico, come occasione di discussione, sia in ambito accademico che politico. Torniamo dunque alla Tv che racconta la storia attraverso i documentari, nelle fiction, nei dibattiti politici: il punto risiede nel capire come certi argomenti storici vengono presentati in tv e quale effetto hanno sulla formazione di un senso pubblico della storia. Non uso volutamente la parola memoria collettiva, spesso impiegata in queste circostanze, poiché, come accennato, condivido solo in parte l’idea che la tv generi, appunto, una vera e propria memoria, semmai momentaneamente produce un discorso pubblico condiviso, che ognuno, a suo modo, negozia e ricolloca in in quel tessuto multiforme che è la memoria. La Tv, dunque, racconta la storia, ma non tutti gli argomenti storici sono ugualmente interessanti per il piccolo schermo: per circa venti anni, fra il 1958 e il 1978, la tv ha trasmesso per lo più programmi dedicati alla seconda guerra mondiale e al fascismo (Roghi, 2012). Nei primi anni Ottanta è stata la figura di Mussolini a invadere il piccolo schermo: un Mussolini senza il fascismo, padre, uomo tradito, caso psichiatrico, come nella celebre intervista a Cesare Musatti nella Serata Mussolini di Beniamino Placido (1983) (Roghi, 2011). Poi è stata la storia della shoah a invadere per qualche stagione il piccolo schermo, in questo caso, come eco del dibattito suscitato dal film Shindler’s List (1993) che ha dato vita a un nuovo e inedito interesse per la figura dei testimoni (Wieviorka, 1999; Perra, 2010). Periodizzante il 1994, anno della discesa in campo di Berlusconi e dello sdoganamento pubblico degli ex fascisti che, attraverso una invenzione della tradizione di notevole portata, hanno potuto legittimarsi nel racconto televisivo a partire dal noto e assai studiato programma Combat film (1994) che li vede, per la prima volta, attori protagonisti della storia d’Italia, una storia nella quale il patto antifascista diventa “paradigma” e in quanto tale categoria ermeneutica e non più dato storico reale (Lazzeri, 2004). Con gli anni Novanta, e l’operazione di riscrittura del passato all’insegna di un compromesso storico delle memorie, si è assistito anche al recupero di un tema fino a quel momento abbastanza poco indagato dal piccolo schermo, ovvero la lotta armata e gli “anni di piombo”.

Il racconto degli anni piombo e la Tv
“Incompletezza, rimozioni, volute o indotte da incapacità, e soprattutto decisa prevalenza di un punto di vista scarsamente attento all’esperienza delle vittime”. Così, in un saggio del 2009 Emmanuel Betta descrive il punto di vista egemonico nella costruzione della memoria della lotta armata, punto di vista, a suo parere fondato sulle parole de “gli ex militanti della lotta armata nella costruzione della conoscenza e della memoria della violenza politica”: “in un contesto in cui la verità giudiziaria sulle vicende armate si è andata costruendo lentamente attraverso i processi giudiziari e la riflessione storica si è avvicinata solo di recente a questa stagione e a questo fenomeno, l’età del testimone ha attribuito un valore euristico decisivo al racconto di chi c’era, contribuendo così a fare della parola degli ex militanti della lotta armata – espressa in interviste scritte e girate, memorie filmate, documenti, romanzi, racconti, autobiografie – la più rapida e fruibile porta di accesso alla conoscenza a verità fattuale di eventi, radici percorsi politici ed esistenziali della lotta armata”(Betta, 2009). Per questo motivo, per il prevalere del punto di vista dei “colpevoli”, viene istituita la giornata del Ricordo, il 9 maggio del 2008, in quella occasione, è ancora Betta a ricordarlo, il presidente Napolitano chiede ai mass media di “dar voce non a chi ha scatenato la violenza terroristica, ma a chi l’ha subita” promuovendo i quest’ottica la pubblicazione di un volume prosopografico dedicato alle vittime del terrorismo italiano”. La memorialistica recepisce subito questa indicazione e escono in rapida successione numerosi volumi incentrati sul racconto delle conseguenze della lotta armata da parte dei parenti, figli per lo più, di chi vi ha perso la vita. E così alla stagione delle “memorie armate” si sostituisce quella che potremmo chiamare la voce disarmata delle vittime. Disarmata non solo da un punto di vista materiale, per cui chi è stato ucciso lo è stato all’interno di una guerra impari, combattuta in modo unilaterale dalle formazioni terroristiche, ma anche da un punto di vista interpretativo: se infatti l’ideologia sorregge le memorie degli ex brigatisti, niente può spiegare, in una dimensione privata, perché un padre, un marito, un fratello abbiano perso la vita. Inizia così, anche in televisione una stagione di programmi sugli anni di piombo nei quali a prevalere è lo sguardo “disarmato” che diventa disarmante quando alla voce del testimone non si affianca nessun tentativo di racconto storico, e la retorica della memoria si sostituisce al racconto della storia. In questo senso mi sembra legittimo adottare come momento ad quem quel 2004, anno nel quale la presidenza Ciampi attribuisce una medaglia ai parenti delle vittime del “terrorismo” fatto, questo, letto come “un riconoscimento pubblico a un lutto privato e alla sua integrazione piena nella narrazione di quegli anni, capace, secondo le parole dello stesso calabresi riferite implicitamente a tutti i parenti, di voltare una pagina nelle testa di mia madre, dei miei fratelli, di dare serenità, leggerezza, emozione”(Betta, 2009). Dal 2004 a oggi dunque sono un centinaio i programmi che affrontano gli “anni di piombo”in questa prospettiva: nella maggior parte dei casi programmi di tipo giornalistico, a volte puntate de La storia siamo noi o di Le storie di Corrado Augias, o gli approfondimenti del Tg1 di Roberto Olla. Ovviamente gli ascolti di programmi di questo tipo non sono mai altissimi, ma certo si aggirano intorno a una media di mezzo milione di persone, laddove un best seller come Il prigioniero di Anna Laura Braghetti (1998) non raggiungerà le 100.000. Facciamo alcuni esempi: il 15 febbraio 2005 Bruno Vespa realizza uno speciale di «Porta a Porta» sulle vittime del rogo di Primavalle, in studio Carlo Giovanardi, Gianni Alemanno, Cesare Salvi, Marco Boato: evidente l’intenzione politica nella rilettura della vicenda, supportata dalla presenza di Boato, che rivendica la sostanziale uguaglianza di tutti di fronte alla morte, tema che sarà ripreso da Luca Telese con il libro Cuori neri (2006), sorta di momento di passaggio pubblico paragonabile al 1994 per l’antifascismo.
Il 4 maggio del 2007 Gianni Riotta dedica un approfondimento nel suo programma «TV7» al libro di Mario Calabresi, intervista Giuliano Amato, questo il taglio dei temi affrontati in studio «Riotta intervista Amato sul libro di Mario Calabresi ” Spingendo la notte più in là ” che ripercorre le vicende legate dell’omicidio del padre, il commissario Luigi Calabresi, avvenuto 17 maggio 1972 per mano di terroristi di Lotta Continua, e che accusa la società contemporanea di aver dimenticato le vittime del terrorismo, loro famigliari e di continuare a vedere i terroristi come una sorta di eroi romantici in negativo; sul terrorismo in genere e suo giudizio in merito; sulle imminenti elezioni presidenziali francesi e tradizionale difficoltà della sinistra di vincerle».
Il 12 aprile 2008 va in onda il documentario Anni spietati. La sinossi del progetto è questa: «Sigla con credits. Servizio ” anni spietati ” di Stefano Masi. Su sottofondo musicale commento speaker sugli anni Settanta e su Torino, palcoscenico italiano degli anni di piombo; su Stefano Caselli, figlio del giudice Giancarlo e autore del documentario ” anni spietati “, nel quale ricostruisce il clima del periodo attraverso le testimonianze delle vittime del terrorismo e della rivisitazione dei luoghi. Intervista in merito a Caselli che parla in una piazza di Torino mentre scorrono frammenti del documentario da lui realizzato con immagini di agguati, vittime e parenti che piangono durante funerali; a Igor Mendola, regista del documentario ” anni spietati ” sulle testimonianze che si possono ancor oggi ritrovare sui muri degli edifici di Torino; Davide Valentini, autore del documentario “anni spietati” sulla decisione di raccontare il periodo attraverso le vittime del terrorismo. Sigla finale». Il 23 gennaio 2008 è Giovanni Floris a dedicare una puntata speciale di «Ballarò» alla memoria delle vittime, ecco la sinossi «Il conduttore Giovanni Floris continua ad intervistare Mario Calabresi, giornalista; Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter; Marco Alessandrini, figlio di Emilio, sugli anni di piombo e sulle vittime del terrorismo; presenta ed intervista Luisa Todini, imprenditrice, sul suo ricordo rispetto gli anni Settanta; sulla sua famiglia di imprenditori, trasferitasi a Roma dall’Umbria per fondare una piccola attività diventata azienda di successo; sulla paura che la sua famiglia provava per la situazione politica e sociale del paese. Applausi».
Infine, come vera e propria sintesi di questo modello narrativo il 31 ottobre del 2010, va in onda Vittime diretto da Giovanna Gagliardo, prodotto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali Direzione Cinema, in collaborazione con Rai Cinema e realizzato su iniziativa dell’ Aiviter (Associazione italiana vittime del terrorismo). Ecco cosa dice il comunicato così come riportato dal catalogo della Rai: «L’ idea di partenza e’ raccontare il punto di vista di chi gli anni di piombo li aveva subiti, di chi e’ stato toccato da questa tragedia, dare voce alle vittime che spesso, per loro scelta, scelgono di non parlare. Si è cercato di privilegiare le città piu’ colpite dal terrorismo: Milano, Genova, Torino, cercando di mettere in evidenza i casi meno noti: le forze di polizia, le guardie carcerarie, i Carabinieri. Un lungo viaggio nel tempo per restituire alla memoria collettiva il punto di vista di tutte quelle vittime che hanno portato sulle spalle il peso delle scelte violente fatte da altri: l’agente di polizia ferroviaria Emanuele Petri (Cortona 3 Marzo 2003) ricordato dalla moglie Alma Broccolini; il giuslavorista Marco Biagi (Bologna 19 Marzo 2002 ) ricordato dalla moglie Marina Orlandi; il tenente colonnello dei Carabinieri Emanuele Tuttobene ( Genova 25 Gennaio 1980 ) ricordato dal figlio Mario; il direttore sanitario del Policlinico di Milano Luigi Marangoni ( Milano 17 Febbraio 1981 ) ricordato dalla moglie Anna Bertele’; la guardia giurata Salvatore Lanza ( Torino 15 Dicembre 1978 ) ricordato dalla sorella Caterina;il funzionario d’ industria Carlo Ghigleno ( 21 Settembre 1979 ) ricordato dai figli Giorgio e Alberto; il magistrato Guido Galli ( Milano 19 Marzo 1980 ) ricordato dalla figlia Alessandra; l’ agente di commercio Graziano Giralucci ( Padova 17 Giugno 1974 ) ricordato dalla figlia Silvia; l’ imprenditore Renato Briano ( Milano 12 Novembre 198o ) ricordato dal figlio Andrea; il vice questore Sergio Bazzega ( Milano 15 Dicembre 1976 ) ricordato dal figlio Giorgio; il giornalista Walter Tobagi ( Milano 28 Maggio 1980 ) ricordato dalla figlia Benedetta; il commissario di Polizia Luigi Calabresi ( 17 Maggio 1972 ) ricordato dal figlio Mario. Inoltre l’ex dirigente dell’Alfasud Vittorio Flick racconta il suo ferimento alle gambe avvenuto a Napoli il 27 Giugno 1972, l’ex dipendente della Banca nazionale dell’Agricoltura Roberto Prino ricorda la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969; la testimone Rosalia Serravalli ricorda l’attentato alla stazione di Bologna (2 Agosto 1980 ); Manlio Milani ricorda la morte della moglie coinvolta nell’ attentato in Piazza della Loggia ( Milano 28 Maggio 1974 ) Il documentario ‘ arricchito dal supporto visivo, in bn, di notiziari e quotidiani del tempo».
Vittime è il modello perfetto di una narrazione televisiva che nel giro di pochi anni ha trasformato singole storie, o storie molto diverse fra di loro, in un’unica grande narrazione che volendo spiegare tutto, finisce per non spiegare niente. Non ci sono storici, neanche fra i consulenti del programma, e la giornalista conduce un viaggio emotivo che anziché rendere giustizia alle vittime, finisce per appiattire le particolarità in una notte in cui tutte le vacche sono nere: fra il 1969 e il 1980 (con colpi di coda assurdi e orribili degli anni novanta) l’Italia è stata in preda di una furia omicida e di una follia collettiva che ha oscurato menti di destra e di sinistra, tutte ugualmente colpevoli, in quell’affastellarsi di nomi e numeri che trasformano gli anni Settanta in un decennio incomprensibile se non attraverso la lente del dolore. Sarebbe interessante studiare nel dettaglio le strategie retoriche di questa narrazione facendo un paragone con quelle attuate negli anni Novanta relativamente alla depoliticizzazione e destoricizzazione del racconto della shoah, i punti in contatto, infatti, sono moltissimi. Certo è che affiancare in uno stesso percorso narrativo e storiografico la strage di Piazza della Loggia, e l’omicidio di Carlo Ghiglieno o di Luigi Calabresi contribuisce a quella confusione delle audiences, soprattutto le più giovani che finiscono per convincersi che la bomba a Piazza Fontana l’hanno messa le Brigate rosse: «Tra il1969 e la fine degli anni 80, l’ Italia è stata insanguinata da 12770 episodi di violenza terroristica, che hanno lasciato a terra 192 morti, 47oo feriti e 1500 invalidi permanenti. Dalle bombe di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, a quelle della stazione di Bologna il 2 agosto 1980, il nostro paese è stato devastato da 8 stragi, con 150 morti, 690 feriti, 400 invalidi permanenti. «Una vera guerra in tempo di pace, con persone comuni trasformate in bersagli», commenta la regista Giovanna Gagliardo che per raccontare quell’orrore, per far sapere ai giovani ha realizzato “Vittime”, film prodotto dalla Rai e dal Ministero dei beni culturali in collaborazione con Aiviter, associazione delle vittime. Mille di questi dvd verranno messi a disposizione dei presidi per proiettarli nelle scuole» («L’espresso», 18 febbraio 2010).

Mille di questi dvd: Gli anni spezzati.
In questo clima politico e culturale inizia il percorso produttivo di una fiction andata in onda recentemente su Rai 1 e che tante polemiche ha suscitato mettendo in luce, finalmente, tutti i limiti di questo sguardo appiattito in modo astorico sul punto di vista delle vittime. La fiction è Gli anni spezzati. Certo non è stata distribuita nelle scuole, come il documentario della Gagliardo, ma è stata vista da milioni di telespettatori (una media del 15% di share pari a 5 milioni circa), molti di loro giovani o giovanissimi. A partire da quanto scritto nei paragrafi precedenti vorrei tentare, dunque, una lettura di questo film per la tv, consapevole del fatto che non sempre chi fa didattica ha il tempo di decostruire una fiction e che questi appunti vogliono essere solo uno dei molti modi che da storici e insegnanti abbiamo per lavorare sull’immaginario storico proposto dalla TV. Gli anni spezzati ricostruisce in tre episodi la storia di tre “vittime degli anni Settanta”: l’ispettore Luigi Calabresi (Il commissario), il giudice Mario Sossi (Il giudice) e infine un ingegnere della Fiat, Giorgio Venuti (L’ingegnere), unico personaggio inventato, ma verosimile, poiché inserito all’interno di eventi storici reali e circostanziati come l’assalto terroristico alla scuola d’amministrazione aziendale di Torino, l’11 dicembre del 1979, e la marcia dei 40.000, della quale, nel film, Venuti è uno dei più solerti organizzatori insieme a Luigi Arisio. Su Il commissario e Il giudice si è soffermata l’attenzione della critica che, nei giorni della messa in onda, ha rilevato da molteplici punti di vista quanto la fiction fosse carente da un punto di vista storiografico e filmico (ricordo soltanto le recensioni di Christian Raimo,Laura Tonini e Aldo Grasso). Perfetta sintesi di quanto detto fin qui sul paradigma delle vittime che informa di sé ogni lettura pubblica degli anni Settanta, presenta però anche un interessante elemento di novità poiché in modo consapevole, consegna la morale di tutta la storia a un’ultima puntata nella quale la vittima non ha un nome e un cognome, ma è l’Italia intera, e il carnefice uno e uno soltanto: il movimento operaio. Vorrei dunque soffermarmi su L’ingegnere, che, a differenza degli altri due episodi, è il più complesso da valutare, non tanto per ciò che riguarda le scelte di regia, o l’interpretazione degli attori (letta dal pubblico in modo diametralmente opposto e comunque nella media della fiction italiana) quanto per l’uso pubblico della storia che compie. Se, infatti, ne Il Commissario o Il Giudice alcuni errori macroscopici e ingenuità interpretative allentano in modo sostanziale il dispositivo ideologico sotteso alla fiction, ne L’Ingegnere la questione si fa più complessa. Non ci sono strafalcioni come il manifesto di Casa Pound che compare nella prima puntata de Il commissario, né omissioni clamorose, come quella relativa alle responsabilità neofasciste nella strage di piazza Fontana, quello che c’è nell’Ingegnere è “soltanto” una lettura rigidamente ideologica, spacciata come intimista, non solo dell’autunno 1980 ma di tutto il decennio precedente, e del trentennio successivo, per cui, il giorno in cui la Fiat annuncia la nuova composizione societaria, il cambio del marchio, lo spostamento della sede fiscale, il giorno in cui si annuncia che i salari degli operai dell’Elettrolux saranno dimezzati, Rai 1 manda in onda, senza alcuna premeditazione ma con una meravigliosa coincidenza, l’ultima puntata della mini serie.
“In quegli anni Torino era un grande coro di persone che aspettava la fine di un inverno durato per troppe stagioni, ma anche la speranza di una primavera che sembrava non arrivare mai. In mezzo a quelle persone, in quella speranza c’eravamo anche noi”. Così, con la voce narrante del protagonista, inizia il film. Noi, la famiglia Venuti, padre ingegnere alla Fiat, una nonna a carico, due figlie (Silvia che corre cercando di imitare i successi di Gabriella Dorio agli 800 e Valentina che rifiutando la torta di mele e bevendo il caffé senza zucchero denuncia subito il suo status di disadattata e, infatti, si scoprirà presto, milita in Prima linea). Venuti mangia la torta di mele, è preoccupato ma sorridente, sempre disponibile, sostituisce un collega alla Scuola di amministrazione aziendale proprio il giorno in cui Prima linea, quindi sua figlia, ha deciso di fare un’azione dimostrativa per vendicare la morte di due compagni, l’esito sono 10 gambizzati: 5 insegnanti 5 studenti. E’ questo dunque l’inverno di cui parla Venuti nel suo prologo? Il terrorismo, la paura di uscire di casa, andare a lavorare in fabbrica. Si è portati a essere solidali con Venuti, subito, perché l’azione di Prima linea è odiosa nel suo colpire nel mucchio studenti e docenti, perché dopo l’omicidio di Aldo Moro, dopo Guido Rossa nessuno, in quello scorcio di anni Settanta, può dire né con lo Stato né con le BR. Ma torniamo a Venuti, in aula con gli studenti preoccupati della recessione che ha colpito l’Italia: lui li tranquillizza, seguirà la ripresa, dice, preannunciando così gli anni Ottanta. A Venuti viene dato l’incarico di licenziare 61 operai sospettati di fiancheggiare le Brigate Rosse. Un fatto storico. Lui è turbato, alcuni dei lavoratori indicati dall’azienda sono infatti persone che conosce bene. Con uno, in particolare, gioca a carte il pomeriggio in un dopolavoro: pensa “10 sono poco più che ragazzi, 13 quasi in pensione, e poi giovani operai con famiglie a carico”. Venuti ha dei dubbi, si domanda cosa siano i comportamenti “non consoni”. “Cosa avevano fatto- il suo rovello interiore non ha pace- erano davvero complici dei terroristi, li appoggiavano? li approvavano?”. Questa domanda pesa come un macigno sulla narrazione, ma la fiction decide non dare nessuna risposta, neppure abbozzata, ed è l’umanità dell’ingegnere il prisma che rifrange i pensieri di tutta la città di Torino.

I 61 della Fiat

Copertina del giornale satirico Il Male sui 61 licenziati della Fiat

In questo la fiction non si allontana dalla verità storica: per i 61 il sostegno non è affatto unanime, soprattutto da parte del sindacato che dichiara immediatamente di voler difendere soltanto gli operai estranei ai fatti. Ma dimentica di ricordare alcuni dati senza i quali quella stagione risulta davvero incomprensibile: Torino, l’Italia, in quei giorni, in quei mesi, non è devastata soltanto dall’azione isolata di gruppi armati dell’estrema sinistra. Continuano a scoppiare le bombe. Il 6 agosto del 1980 a Bologna, muoiono 85 persone, 200 i feriti. E questo, nel film di Rai Uno, non si vede: il clima di tensione è causato soltanto dalle rivendicazioni operaie. Finite quelle, finirà anche il terrore. Gli operai dunque, soggetto antagonista della pace sociale, buoni soltanto a fare picchetti perché ne Gli anni spezzati non si vede la catena di montaggio, né il lavoro in fabbrica. Gli operai sono rappresentati ai cancelli, arrabbiati, violenti, oppure al bar in riposo. La loro non è una condizione sociale: sono operai perché svolgono mansioni da operai; la loro è una condizione umana, assoluta. Sono “persone” che lavorano in fabbrica, dice un operaio licenziato a Venuti. Sono tutte persone, mostruose nel momento dell’aggregazione collettiva, del conflitto, esseri umani se presi una per uno. L’operaio ideale, disegnato, fin dagli anni Settanta, dalla stampa borghese, come ha raccontato Andrea Sangiovanni, il cui profilo è tracciato da Goffredo Parise sulle pagine del “Corriere della Sera” il 24 marzo del 1974 : un uomo che «nella sua testa e nel suo cuore ha un’idea fissa: non aver padroni, che i suoi figli non abbiano padroni, che la società in cui vive sia cambiata». E certo Gli anni spezzati non elogia i padroni, che costante è un moralismo che vede nei dirigenti FIAT l’altra faccia del male: la virtù sta nel mezzo, nei colletti bianchi, nei Giorgio Venuti “Non so quanti eravamo ma io conoscevo chi c’era” dice Venuti davanti alla marcia dei 40.000, opponendo, così la sua individualità buona alla massa cattiva e omettendo invece che se c’era un soggetto non più monolitico ma fortemente in crisi nei tardi anni Settanta, sia come volontà che come rappresentazione questo era certamente il movimento operaio (Sangiovanni, 2006).
Gli anni che vanno dal 1978 al 1980, quelli racchiusi fra il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, e l’ultima grande mobilitazione in fabbrica che conoscerà Torino, i 35 giorni di picchetti dell’autunno 1980, sono anni che si prestano a letture contrapposte, sfumate, letture nelle quali lo spazio assegnato al dubbio si fa preponderante rispetto al decennio precedente, quello che dal 1968 porta al 1978. Anche perché, da un punto di vista storiografico, il lavoro da fare è ancora moltissimo e mancano punti fermi, agisce, ancora oggi, come fattore di incertezza la contraddittoria politica dei sindacati e del PCI da un lato, il clima violento dall’altro che fanno si che, rispetto a un evento come la marcia dei 40.000 la memoria non sia neanche divisa, per riprendere un utile definizione di John Foot, ma sia completamente assente. Un grande rimosso della narrazione pubblica della storia repubblicana.
Su questa ambiguità di fondo si muove L’Ingegnere, consegnando ai 5 milioni di spettatori che l’hanno seguita l’idea che invece tutto sia chiaro e illuminato, dal punto di vista del giudizio storico da assegnare a quella stagione. Quando non è affatto così. E non ci sono verità processuali da dimenticare, o iconografie da violentare: semplicemente c’è un luogo della storia recente degli italiani sul quale ancora non si è giunti a una formulazione storiografica soddisfacente, ma che, proprio in virtù di questa incertezza è diventato terreno di coltura di un’ideologia della fine del lavoro, della morte della classe, che attraverso operazioni come questa de Gli anni spezzati proiettano sul nostro quotidiano paure legate all’idea che il conflitto sia la culla della violenza, la concertazione l’unica via d’uscita.
Quando è uscito il primo episodio, quello su Luigi Calabresi, una giovane ricercatrice di storia, Ilenia Rossini, si è fatta la domanda più sensata: ma poi perché? Perché in questo momento storico andare a ripescare piazza Fontana, Pinelli e Calabresi, che non interessano più a nessuno. Vedendo l’ultima parte, L’ingegnere, il quadro si fa più nitido e sono le parole di Giorgio Venuti, alla fine, che svelano l’arcano: quando l’ingegnere dice a sé stesso: con la marcia dei 40.000 si era chiusa una stagione da incubo, iniziata a piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Gli anni spezzati fa i conti con un decennio, ma soprattutto fa i conti con pratiche che hanno attraversato quel decennio oggi completamente inattuali e censurate, prima fra tutte la conflittualità politica e sociale letta, appunta, come causa di ogni tipo di violenza.
Proprio per la mancanza di errori eclatanti, L’ingegnere è passato sotto silenzio, non ci sono state critiche articolate e il pubblico l’ha accolta con entusiasmo anche grazie all’interpretazione di Alessio Boni. Nei giorni della messa in onda ho seguito tutti i commenti postati su twitter, e lo spaccato è davvero interessante: assolutamente minoritari i giudizi negativi, basati essenzialmente su un pregiudizio generato dalle due precedenti puntate. Nessuno ha colto l’occasione per ragionare sul presente, sulla Fiat, sul lavoro, anche se la coincidenza con alcuni eventi del presente era eclatante.
Solo Oreste Pivetta su «L’Unità» ha scritto, mancando completamente il bersaglio: “non ci appartiene una memoria comune e la Rai nazional popolare ne avrebbe bisogno vivo. La riflessione sul passato (dal fascismo al berlusconismo) ha sempre animato faide, mistificazioni, strumentalizzazioni e non una ricerca solidale e una critica condivisa e il vizio o il peccato non ci vogliono proprio abbandonare, “perché non siamo popolo perché siam divisi”. Però da qualche parte si dovrebbe cominciare e la Rai (a partire da chi la comanda), qualche responsabilità dovrebbe avvertirla”.
“Il visibile di un’epoca è ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo, e ciò che gli spettatori accettano senza stupore”: il visibile della nostra epoca è questo, insegnare lo stupore è il nostro compito, non quello della Tv.

Breve bibliografia citata.

Betta Emmanuel, Memorie in conflitto. Autobiografie della lotta armata, «Contemporeanea», n. 4, 2009 pp. 673-702.

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Edgerton Thomas, Television as Historian: An Introduction, «Film & History: An Interdisciplinary Journal of Film and Television Studies», Volume 30, Number 1, March, 2000  pp. 7-12.

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Lazzeri Ilaria, A dieci anni da Combat film: i ragazzi di Salò in televisione, «Passato e presente», 2004, n. 63

Ortoleva Peppino, Storia e mass media, in L’uso pubblico della storia, a cura di N. Gallerano, Angeli, Milano, 1995.

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