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La Resistenza in musica: viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six. Intervista ad Alberto Gagliardo

La Resistenza in musica: viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six. Intervista ad Alberto Gagliardo

Gli Stormy Six al Teatro Regio di Parma per la Manifestazione Internazionalista del 18 maggio 1974. Da sinistra: Carlo De Martini, Tommaso Leddi, Umberto Fiori, Antonio Zanuso, Franco Fabbri.
Crediti: Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

L’intervista riguarda l’ultimo libro di Alberto Gagliardo: Come l’acciaio resiste la città. Viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six, DeriveApprodi, Bologna 2025 (con una Prefazione di Mimmo Franzinelli e una Postfazione di Franco Fabbri). Il volume è dedicato all’album Un biglietto del tram, realizzato nel 1975 dalla band italiana Stormy Six, il cui tema centrale era la Resistenza. Qui parliamo con l’autore di un possibile uso di questo disco per la formazione di una memoria critica e consapevole del passato.

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The interview concerns Alberto Gagliardo’s latest book: Come l’acciaio resiste la città. Viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six, DeriveApprodi, Bologna 2025. The book is dedicated to the album Un biglietto del tram, released in 1975 by the Italian band Stormy Six, whose central theme was the Resistance. Here we talk to the author about a possible use of this record for the formation of a critical and conscious memory of the past.

Nel libro Come l’acciaio resiste la città. Viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six, scritto da Alberto Gagliardo – storico, responsabile didattico degli istituti della Resistenza di Rimini e Forlì-Cesena e membro della redazione di Novecento.org – viene analizzato l’album Un biglietto del tram, realizzato nel 1975 dal gruppo musicale milanese Stormy Six e dedicato alla Resistenza. Le motivazioni alla base del libro non hanno a che fare né con la nostalgia, né con la mera filologia. L’obiettivo dell’autore è esaminare il disco come un esempio di elaborazione della memoria della lotta di liberazione in grado di fornire spunti e suggerimenti anche per l’oggi: a fronte del rischio di una memoria della Resistenza retorica, ritornare all’album degli Stormy Six, secondo Gagliardo, può aiutarci a costruire una memoria consapevole e aperta al futuro. L’intervista all’autore, curata da Giorgio Giovannetti, si propone di approfondire proprio quest’ultimo punto.

Nell’introduzione del tuo libro parli di ricorrenze coincidenti: il 2025, ottantesimo anniversario dalla Liberazione e cinquantesimo dalla pubblicazione di Un biglietto del tram degli Stormy Six, a sua volta pubblicato nel trentesimo dal 1945. La cabala delle date può essere un’utile motivazione estrinseca, ma poi ci sono le ragioni profonde. Quali sono state? Che cosa ti ha spinto a scrivere un libro dedicato a un album, molto noto e molto importante negli anni Settanta, ma che oggi può apparire molto lontano?

Gli ottant’anni trascorsi dalla fine della guerra di liberazione sono di per sé un tempo molto lungo, ma lo sono ancor di più per quanti oggi siedono sui banchi di scuola, dal momento che oramai non solo i loro genitori, ma persino i loro nonni sono nati dopo quei fatti.

Se da un lato tale distanza temporale permette di affrontare quelle vicende con la giusta prospettiva storica, essa tuttavia rende più difficile far comprendere ai più giovani come le conseguenze di quegli eventi continuino ad agire nel dibattito pubblico e nelle dinamiche politiche del presente, non fosse altro perché è lì che vanno poste le origini della Carta costituzionale che presiede al nostro vivere associato.

Quali strade dunque percorrere per disbrogliare questa aporia, soprattutto quando in classe si affronta il tema della Resistenza e della sua memoria? Come far sì che le studentesse e gli studenti la percepiscano come fenomeno storicamente concluso ma nello stesso tempo carico di idealità e valori che continuano a orientare le scelte civili di ognuna/o?

Spunti per confrontarsi con tali quesiti al di là di stanca ritualità e respingente retorica a me sono venuti per caso proprio dalle coincidenze che indicavi e dalla constatazione che quel disco ha rappresentato l’occasione per un gruppo di giovani, impegnato a dar voce alle sensibilità molto diffuse in quella generazione, di confrontarsi con la memoria e l’eredità della Resistenza a trent’anni dalla sua conclusione, ma in un momento storico in cui il (neo)fascismo tornava a insanguinare le strade d’Italia nel tentativo di sovvertire l’ordine democratico.

Ma poi, riascoltandolo e analizzandolo in profondità, rileggendone con attenzione i testi, collocandolo nella parabola della band e nella temperie storica e culturale dell’anno in cui uscì, il 1975, ho pensato che potesse essere l’occasione di un affondo storico che comprendesse uno spettro di questioni molto ampio; il tutto con il pregio di farlo attraverso il linguaggio della musica, che, pur nelle profonde differenze prodottesi nell’arco di questi ultimi cinquant’anni, rimane veicolo privilegiato di interessi e sensibilità giovanili anche per l’attuale generazione.

Cominciando dalla band, gli Stormy Six: perché la loro vicenda può essere considerata emblematica degli anni Sessanta-Settanta in Italia?

Gli Stormy Six vennero fondati a Milano nel 1965 da Giovanni Fabbri insieme ad Alberto e Giorgio Santagostino, Maurizio Cesana, Mario Geronazzo e Maurizio Masla, ma negli anni successivi l’organico subì diverse trasformazioni: tra il 1965 e il 1967 si integrarono alla band alcuni membri degli Stregoni, gruppo fondato da Franco Fabbri, con Toto Zanuso, Franco Lombroso, Franco Arena, Peppo Mazzantini, Alberto Bianchi e, più tardi, Luca Piscicelli, costituendo il primo nucleo stabile della formazione che, dopo un secondo rimpasto, si ridusse a quartetto.

Erano quasi tutti figli della borghesia milanese, prevalentemente studenti del liceo classico, che negli anni Sessanta si incontravano alle feste in casa dell’uno o dell’altro, e in seguito si sarebbero ritrovati fianco a fianco nelle manifestazioni di piazza, e nelle vacanze che spesso trascorrevano insieme.

Sono anni, quelli, in cui si manifesta un vivace fermento musicale, la cui data di nascita è la sera del 30 gennaio 1958, quando all’ottavo Festival di Sanremo, Domenico Modugno aveva presentato, vincendo quell’edizione in coppia con Johnny Dorelli, Nel blu dipinto di blu, noto anche come Volare, scritto da lui e Franco Migliacci.

Sebbene oggi si stenti a capire la portata innovativa di quel brano, è oramai unanimemente accettato che da quel momento ebbe inizio l’affermazione sulla scena musicale nazionale di una pattuglia di giovani che importavano le mode dilaganti nel mercato statunitense: Tony Dallara, Adriano Celentano, Mina (che però allora usava lo pseudonimo di Baby Gate), Little Tony o, appena una manciata di mesi dopo, Rita Pavone e tanti altri.

La penetrazione dei nuovi ritmi non era, però, soltanto una sfida alla tradizione melodica nazionale, era la nascita dei giovani come soggetti autonomi e separati dal mondo degli adulti, con gusti e mode loro: nella musica, ma anche nell’abbigliamento, nel linguaggio, nei modi e nei luoghi di aggregazione.[1]

Gusti e mode, però, significano anche, se non soprattutto, modelli di consumo, per cui si può dire che i giovani nacquero come nuovo e specifico segmento di mercato, agli albori della diffusione dei consumi di massa. Tutto questo non esisteva fino agli anni Cinquanta: si era considerati bambini, poi di colpo adulti, passando direttamente dai calzoni corti alla giacca e alla cravatta. Invece quei ragazzi e quelle ragazze che agli albori degli anni Sessanta cantavano per i loro coetanei facevano dell’essere giovani un elemento “linguistico” cruciale, con un’orgogliosa affermazione di identità generazionale (i teenagers)

Gli Stormy Six furono dunque un frutto di quello stesso fermento culturale e musicale che stava partorendo i Camaleonti, i Dik Dik, i Giganti, i New Dada, i Profeti, i Ribelli e tanti altri ancora.

Il 1966, infatti, rappresentò l’anno di esplosione della musica beat italiana, come dimostra il fatto che anche il “conservatore” Festival di Sanremo si aprì al fenomeno, registrando la partecipazione dell’Equipe 84, dei Renegades, degli Yardbirds, di Caterina Caselli, e di Françoise Hardy, icona del beat francese. Ma anche gli altri festival musicali sparsi per la Penisola da quell’anno davano ampio spazio a questo genere: Un disco per l’estate, il Festival delle Rose, il Festivalbar, il Cantagiro e altri minori. Si aggiunga, a ulteriore riprova, che nel novembre di quell’anno uscì il primo numero (di una serie di sette) di «Mondo Beat», la rivista underground del movimento beat milanese.

Ma la storia degli Stormy Six è ulteriormente significativa perché essi si collocano a cavallo di quella transizione e riformulazione dell’identità giovanile che porterà molti di loro dalla richiesta di novità musicali a quella di un mondo nuovo.

Pedinare la loro storia permette dunque di osservare da vicino i percorsi attraverso i quali una parte consistente di una intera generazione sia transitata nel giro di una manciata d’anni dallo yéyé alla militanza politica.

L’uso della musica per ricordare e attualizzare la Resistenza non fu un’invenzione degli Stormy Six. Tuttavia tu consideri l’album Un biglietto del tram un esempio particolarmente virtuoso di questo approccio; perché?

Stefano Pivato[2] ha doviziosamente ricostruito il rapporto che, a proposito della Resistenza, la nuova canzone instaura con la tradizione del canto popolare: ad esempio nel 1965, l’anno del secondo decennale della Liberazione, era uscito I Gufi cantano due secoli di Resistenza (il secondo LP registrato da I Gufi); ma altri significativi precedenti sono senz’altro l’esperienza di Cantacronache, fondato a Torino nel 1957 da Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, o quella del Nuovo Canzoniere Italiano, fondato a Milano nel 1962 da Gianni Bosio e Roberto Leydi, cui si unirono tanti altri nomi della musica, della letteratura e della cultura italiane (si veda il loro Pietà l’è morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964).

Ma non si possono neppure scordare altri importanti contributi “individuali” o “occasionali” alla riproposizione di temi legati alla memoria della Resistenza, come: Ma mi … (scritta da Giorgio Strehler e musicata da Fiorenzo Carpi, incisa da Ornella Vanoni nel 1959); Fischia il vento (incisa da Milva nel 1965); Sei minuti all’alba (nell’omonimo album del 1966 di Enzo Jannacci, ma scritta con Dario Fo); La ballata dell’ex (di Sergio Endrigo, contenuta nel suo terzo album del 1966); e altri ancora.

Un biglietto del tram fu però una cosa nuova, intanto perché portava incise le stigmate del proprio tempo e di quella generazione che allora si affacciava alla partecipazione politica: segnava la rottura con l’approccio celebrativo e ritualizzato alla Resistenza e registrava lo spostamento dalla contestazione figlia del ’68 a una derivata dall’autunno caldo del ’69, quando cioè le rivendicazioni studentesche si saldarono a quelle operaie per tentare una trasformazione generale della società. Il disco, infatti, arrivò sul mercato nel momento in cui si verificava il passaggio da una prevalente connotazione antifascista a una più marcatamente comunista (per dirla con gli slogan di allora: dalla celebrazione di una “Resistenza tricolore” a quella di una ”Resistenza rossa”). E ciò avveniva non solo a livello di contenuti testuali, ma anche in quello delle forme musicali: perché se è vero, come ho detto, che di dischi e canzoni sulla Resistenza ce n’erano già stati, mai prima di Un biglietto del tram era stato composto un intero disco (un concept album, secondo il linguaggio dell’epoca) fatto di canzoni originali su quell’argomento e arrangiate e suonate con la mutata sensibilità musicale di quegli anni, che attingeva al combat folk (Woody Guthrie, Bob Dylan) e al progressive rock (Gentle Giant, Procol Harum) anglosassoni, alla recente esperienza cantautoriale nostrana e alla musica colta internazionale (Prokof’ev, Šostakovič).[3]

Nemmeno l’aspetto produttivo rimase estraneo alle novità, giacché il disco fu la prima produzione di L’Orchestra, una cooperativa fondata nell’autunno 1974 da artisti milanesi, nata proprio per sottrarsi al potere delle majors, e che aprì non poche strade a quelle che di lì a poco sarebbero state le prime etichette discografiche indipendenti.

Ma un ragionamento analogo si può produrre anche per gli anni che seguirono l’uscita di Un biglietto del tram, nei quali la logica «anniversaria» adottata dagli Stormy Six ha continuato a essere un motore potente per i musicisti italiani e gli album che essi hanno interamente (da soli o collettivamente) dedicato alla Resistenza. Prendiamo un’altra operazione, per certi versi paragonabile, quale fu Materiale resistente, che esattamente vent’anni dopo gli artisti gravitanti intorno al marchio Consorzio Suonatori Indipendenti dedicarono alla memoria della guerra di Liberazione: ebbene anche lì, per quanto rivitalizzati in forme e sonorità “contemporanee”, si attingeva al repertorio dei classici della lotta partigiana, mostrando la difficoltà di un confronto creativo e attualizzante con quel monumentale patrimonio memoriale, che invece gli Stormy Six ebbero la “sfrontatezza” di “sfidare”.

Si può allora parlare dell’album Un biglietto del tram come di un esempio di “memoria critica”, intendendo con questa espressione una memoria estranea alla retorica, consapevole del proprio carattere storico e capace di trattare anche le pagine oscure del passato nazionale?[4]

Penso che sia così. Già nell’autunno del 1971, anche per la suggestione del 110° anniversario della nascita del Regno d’Italia, gli Stormy Six avevano registrato L’unità, un concept album (uscito però all’inizio del 1972) che rileggeva in chiave problematica e antieroica l’Unità d’Italia soffermandosi soprattutto sulla questione meridionale, letta con le lenti gramsciane[5] dei Quaderni del carcere, allora molto in voga, sebbene nelle “versioni monotematiche”, tanto che di lì a poco, nel 1975, la Einaudi ne avrebbe pubblicato un’edizione critica con una puntuale ricostruzione cronologica e filologica curata da Valentino Gerratana. Non sarà inutile aggiungere che nel 1970 era uscito il libro di Renzo Del Carria Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950 e, in quello stesso 1972 in cui vedeva la luce L’unità, arrivava nelle sale cinematografiche italiane il film di Florestano Vancini Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato.

Dunque, conformemente alle nuove sensibilità storiografica e politica che parlavano di un «Risorgimento tradito», anche gli Stormy Six decisero di raccontare quella storia non più dal punto di vista dei vincitori, quindi senza l’oleografia patriottica e piuttosto come una colonizzazione del Sud – arrivando per questa via a rivalutare, se non a giustificare, il ribellismo delle plebi contadine e del “brigantaggio” meridionale.

In questo senso quel disco può essere considerato una sorta di anticipazione di Un biglietto del tram, dove però ad essere sottoposta a revisione critica è l’immagine che della Resistenza i movimenti giovanili andavano producendo, spesso in opposizione esplicita a quella istituzionale e unitaria anche di partiti e associazioni della sinistra classica.

Ma c’è anche un altro motivo: come in L’unità si usava il racconto storico, ancorché rivisitato, dell’Unità d’Italia facendone occasione per rappresentare in filigrana il clima di tensione, i conflitti latenti, le agitazioni operaie e le rivolte studentesche che stavano infiammando l’Italia di quegli anni, anche Un biglietto del tram registra l’irruzione nell’immaginario giovanile di una Resistenza profondamente politicizzata e attualizzata, indotta – tra gli altri fattori – dalle spedizioni squadristiche neofasciste degli anni Sessanta-Settanta, che in un certo senso stimolavano la rivisitazione dei precedenti storici dello scontro tra destra reazionaria e sinistra estrema.

Si prenda il brano di apertura, Stalingrado, che conferì a tutto il disco un messaggio ideologico chiaro e incontrovertibile: se i russi avevano respinto e sconfitto i nazifascisti, si poteva e si doveva fare lo stesso anche contro le forze che disseminavano di bombe l’Italia degli anni Sessanta e Settanta e che proprio in quegli anni, mesi e giorni, continuavano a colpire il proletariato italiano. Un’allegoria semplice e diretta, come si vede, ma capace proprio per questo, in anni di realtà e ideologie fortemente polarizzate, di diventare in breve tempo patrimonio di un’intera generazione.

Era dunque un messaggio perfettamente sintonizzato con lo Zeitgeist di quei giorni, che metteva in continuità la lotta del passato con quelle del presente, se solo si considera, per fare giusto un esempio, che il giorno prima che il disco arrivasse nei negozi (18 aprile 1975) Giannino Zibecchi, amico dei componenti la band, venne travolto da un automezzo dei Carabinieri nel corso della manifestazione indetta a seguito dell’omicidio (16 aprile) dello studente diciottenne, militante nel Movimento Studentesco, Claudio Varalli da parte di un fascista di Avanguardia Nazionale. Quel giorno, in Corso XXII Marzo, a manifestare in piazza c’erano anche i componenti degli Stormy Six.

Ma questo aspetto è evidente, quando più, quando meno, praticamente in tutte le canzoni dell’album: passato e presente sembrano coabitare attraverso le immagini dei morti (tutti giovani) che tornano ad aggirarsi per le strade del presente, portando in giro le loro storie e costituendo un monito di militanza per la nuova generazione.

I giovani partigiani del 1943-1945, certo quelli che erano sopravvissuti, nell’anno di uscita dell’album andavano oramai verso i sessant’anni. Anche a loro parlavano i nuovi ventenni, o almeno a quanti di loro erano rientrati nei ranghi della vita civile dopo quella stagione eroica, mettendo in soffitta, insieme alle armi, anche le idee di rinnovamento sociale che avevano nutrito la Resistenza. Ex partigiani che talvolta occupavano posti apicali nella società e non di rado gestivano il potere politico dalle amministrazioni periferiche fino a quelle centrali dello Stato. Per la generazione uscita dal Sessantotto questo spesso rappresentava un compromesso intollerabile, e ne faceva una controparte con cui scontrarsi.

Ed è per questo che in alcune canzoni del disco entrano in scena anche le lapidi commemorative di persone e vicende, e spesso compaiono in maniera critica, quasi a mo’ di rimprovero, mosso dall’intento di sottrarre il ricordo di quei fatti al rischio di una loro distanziante monumentalizzazione.

Il disco, dunque, incarna dello spirito di quegli anni le idee di una memoria critica e antiretorica, e di una storia per il tempo presente, strumento di aggregazione identitaria e non sterile repertorio di celebrazioni.

Parliamo adesso di un possibile uso didattico dell’album degli Stormy Six, cominciando da una domanda di carattere generale: quale ruolo può giocare, secondo te, l’uso delle canzoni nello studio della storia contemporanea? Ti faccio questa domanda anche perché, prima del libro sugli Stormy Six, ne avevi scritto uno anche su Rita Pavone.[6]

Oramai esiste una discreta letteratura scientifica che ha superato le diffidenze verso l’utilizzo di uno strumento tradizionalmente considerato di cultura popolare “bassa” nella ricerca e nella didattica della storia[7] (discorso analogo varrebbe anche per altri media, come ad esempio il fumetto o i giochi). Oggi sappiamo che attraverso le canzoni si possono costruire efficaci percorsi didattici di vario tipo, ad esempio tematici (l’emigrazione; la Resistenza; l’amore; l’11 settembre 2001; ecc.), autoriali (la storia in Francesco De Gregori o in Fabrizio De Andrè; ecc.), cronologici (dal 1915 al 1945; dal 1968 al 1977; ecc.) e chi più ne ha più ne metta. Sappiamo che le “canzonette” si possono usare come fonti per ricostruire la storia, come strumenti per raccontare la storia, come agenti che producono cambiamenti storici.[8] Ma anche i/le cantanti si possono usare come fonti, strumenti o agenti storici (insomma: biografia come storia).

Ecco, con quel mio libro del 2020 ho provato a ripercorrere una larga fetta di storia italiana contemporanea (1938-2018) inquadrandola attraverso la vicenda biografica di Rita Pavone: sebbene lei sia nata il 23 agosto 1945, attraverso la figura di suo marito e quella di suo padre si può raccontare il fascismo, l’antisemitismo, la guerra (1938-1945); quindi il dopoguerra, l’emigrazione e la ricostruzione attraverso la vicenda della Torino operaia in cui Rita si formò (1945-1962); da qui passare al boom e alla grande trasformazione “progressiva” in cui la Pavone conobbe il successo (1958-1968); poi la successiva fase di stagnazione e ripiegamento (1969-1980); infine le nuove trasformazioni, “regressive”, di fronte a sfide inedite come l’immigrazione, la televisione, i social media, ecc. (1980-2018).

Con questo nuovo libro faccio un’operazione simile attraverso la storia di un gruppo musicale, ma in essa ritaglio un segmento cronologico molto più circoscritto (gli anni Settanta e in particolare il 1975), dentro cui costruisco una sorta di “biografia” (o “anatomia”) di un disco, con l’ambizione di farne una cartina al tornasole per osservare e raccontare fenomeni storici, sociali e culturali ben più ampi.

Torniamo allora all’album. Come hai detto prima qui si parla di memoria della Resistenza: quali sono i contenuti salienti per far comprendere il modo con cui gli Stormy Six, e con loro il movimento studentesco, leggevano la Resistenza?

Della canzone di apertura, Stalingrado, che è diventato il brano simbolo del disco, ho detto brevemente prima. Qui potrei aggiungere che anche la canzone che segue nella tracklist, La fabbrica, dice qualcosa di molto rappresentativo, non foss’altro perché, molto banalmente, si presenta senza soluzione di continuità con il brano di apertura, tanto nella musica quanto nel testo, in particolare nell’esplicita rivendicazione di versi conclusivi: «E come a Stalingrado, i nazisti son crollati / Alla Breda rossa in sciopero, i fascisti son scappati».

La fabbrica ha infatti la funzione di sottolineare che la lezione di Stalingrado ha fatto scuola anche in Italia: si passa, infatti, dai «fienili» dell’ultima strofa di Stalingrado alle fabbriche di Torino nel marzo 1943, dove si svolsero i primi scioperi – tra l’altro in una ideale congiunzione della “falce” contadina e del “martello” operaio.

Le due canzoni sono inoltre legate da una comune ambientazione urbana, che, insieme all’operaismo (tema caldissimo a metà degli anni Settanta), è elemento caratterizzante un po’ tutte le canzoni del disco. D’altronde lo sciopero, come forma di lotta per riappropriarsi della agibilità politica, era un tema che riconnetteva le vicende del 1943 con le vertenze in atto negli anni Settanta. Anche per questa via le lotte sindacali, attraverso il loro antifascismo militante, si saldavano, nel contesto di quegli anni, con l’eredità della Resistenza.

Infine in questa canzone è anche possibile scorgere l’ingresso del tema della violenza, utile a capire il clima degli anni Settanta: Un biglietto del tram esce infatti nel 1975, che è un anno in qualche modo spartiacque anche su questo aspetto. Fino a quel momento la riflessione collettiva giustificava la violenza come mero strumento difensivo dalle aggressioni (neo)fasciste in corso, mentre nella seconda metà degli anni Settanta, anche se solo presso una frangia minoritaria del movimento, assunse una connotazione offensiva che avrebbe portato alla teorizzazione  della «lotta armata».

A proposito del carattere “virtuoso” della memoria elaborata da Un biglietto del tram: quali passaggi dell’album possono aiutare a comprendere meglio il concetto?

Questo disco degli Stormy Six è, come hai ricordato tu all’inizio, un lavoro incentrato sulla guerra di liberazione che uscì nel trentennale della sua conclusione. I nove brani che lo compongono, mentre nella prima facciata sembrano seguire un rigoroso ordine cronologico delle vicende belliche, nella seconda procedono piuttosto per episodi e/o figure rappresentativi del 1944, e inseriscono significative riflessioni sulla memoria, in particolare in La sepoltura dei morti e Un biglietto del tram, che non per caso è la title track.

La prima delle due, con espliciti riferimenti alla Waste Land di T.S. Eliot, riflette su quello che resta, dopo trent’anni dalla sua conclusione, della lotta di Liberazione, traendone un bilancio d’acchito sconfortante: sono infatti i trenta anni che hanno conosciuto il boom economico e il conseguente benessere consumistico, che sono ritenuti responsabili dell’oblio, di quell’inverno che ha sepolto la memoria dei martiri della Libertà. Ma superata questa prima impressione, se ne intravede un’altra più ottimistica, poiché il presente da cui parla l’io narrante scava in quell’oblio e un nuovo aprile vi scova la memoria di quei morti per farne rifiorire la lezione.[9]

Nella seconda canzone non è chiaro se ci si trovi nel tempo presente o in quello passato: in corso Buenos Aires, la via di Milano che in direzione della periferia termina in piazzale Loreto, le scene di normale vita metropolitana del 1975 si incrociano con quelle della violenza repressiva del 10 agosto 1944, quando quindici partigiani vennero fucilati proprio nella piazza e i loro cadaveri rimasero esposti per un giorno. Ma la confusione dei piani temporali serve proprio a sovrapporre passato e presente, perché, come era accaduto in altri testi di questo disco, i morti continuano ad aggirarsi per le città del 1975. Inoltre viene in tal modo messa in scena la memoria pubblica degli eventi passati, la loro commemorazione monumentalizzata (una lapide), che ci conferma come l’album (proprio in questa canzone «eponima») lavori nella direzione di restituire attualità alla Resistenza antifascista a trent’anni dalla sua conclusione storica. È quello che sembra dire l’ingresso in scena dell’io narrante, il quale raccoglie dalle mani di uno dei martiri il testimone di quella storia, in una forma, però, popolare e concreta di un biglietto del tram.

Si tratta di un biglietto metaforico con cui tornare a Piazzale Loreto, dunque in un luogo chiave della nostra storia recente, ma non quello in seguito monopolizzato nel discorso pubblico da quanto vi avvenne nell’aprile del 1945, anche come risposta ai fatti di quel 10 agosto 1944.

Si tratta, però, anche di un richiamo a un gesto diffuso nella Milano popolare degli anni Settanta, quello cioè di cedere il proprio biglietto orario non ancora scaduto a qualcuno che non l’aveva ed era in procinto di salire, in una forma di solidarietà proletaria antisistema dal basso. Ma soprattutto quel gesto ne richiamava un altro che si faceva metafora immediata e concreta di un passaggio di testimone di memoria da una generazione all’altra nei comuni valori dell’antifascismo e della solidarietà democratica, che costituisce il midollo spinale dell’intero album, arrivato sul mercato discografico italiano mentre si propagava ancora l’eco del boato di Piazza della Loggia a Brescia  (28 maggio 1974) o del treno Italicus (4 agosto 1974).

 

Nelle conclusioni del libro ipotizzi una educazione alla memoria della Resistenza che eviti la retorica e si ispiri agli anni Settanta, pur evitandone le derive violente. Potrebbe sembrare un difficile esercizio di equilibrismo, ma in realtà Un biglietto del tram sembra contenere la soluzione. Puoi spiegare meglio questo punto?

Oggi sono trascorsi ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia dal fascismo e cinquanta dalla stagione in cui quell’album degli Stormy Six fu pubblicato.

Dire che tante cose in questo mezzo secolo sono cambiate è una disarmante banalità, così come dire che non si sente nessuna nostalgia non solo per le derive violente di quel decennio, ma anche per la pervasiva invadenza di ideologie talvolta rigidamente e cupamente dogmatiche.

Però se si osservano i tanti segnali, che provengono dal mondo intero, delle profonde involuzioni democratiche in atto, si sarebbe tentati di concludere che ottant’anni di celebrazioni memoriali contro ogni totalitarismo non sono bastati a immunizzarci verso ogni forma di nostalgia nei confronti di quell’oscuro e disastroso passato.

Personalmente io non vedo alle soglie il ritorno del fascismo, ritengo invece che dovremmo maggiormente interrogarci (e dunque reagire) sulla dilagante perdita di memoria storica, per la quale le responsabilità sono abbastanza ben distribuite, sebbene per motivi diversi, tra destra, sinistra e mondo dei media.

Nel discorso pubblico, infatti, la storia in generale, ma in questo caso quella del fascismo, è piegata al suo uso strumentale, finalizzato alla mera polemica elettoralistica o al furbesco posizionamento politico. E questa strada favorisce un pericoloso indifferentismo, che fa buon gioco agli interessi di chi più si avvantaggia di certe smemoratezze. È dunque nell’affermazione di un “presente senza storia” che covano i rischi per il futuro; è quello il brodo di coltura che potrebbe produrre un pericoloso abbassamento delle difese immunitarie contro nuove insorgenze di tentazioni illiberali e antidemocratiche.

Oggi se si vuole rimettere a frutto la luminosa eredità della Resistenza e riportarla alla sua natura più profonda di apertura verso il futuro, la celebrazione degli ottant’anni di libertà deve cercare strade nuove anche rispetto a quelle che percorrevano gli Stormy Six e il pubblico che ascoltava Un biglietto del tram o ne scandiva i testi nei cortei e nelle manifestazioni di massa, perché il contesto è radicalmente diverso.

Tuttavia, quel disco degli Stormy Six ebbe il pregio, come ho detto prima, di essere profondamente contemporaneo, di aver saputo portare lo spirito della Resistenza dentro la realtà italiana degli anni Settanta. Inoltre seppe fare memoria della Resistenza usando lo strumento della canzone in modo originale, attraverso brani inediti le cui musiche e testi erano tutt’altro che banali, con l’obiettivo, in parte conseguito, di evitare la caduta nella rievocazione retorica.

E dunque per tenere viva la lezione che da Un biglietto del tram ci viene e con essa quella più alta della Resistenza e della lotta di Liberazione a ottant’anni dalla loro conclusione, bisogna cercare una “nuova contemporaneità”, ad esempio rimettendo orgogliosamente al centro dell’inquadratura da offrire ai giovani l’immagine di un Paese risorto dalle macerie provocate innanzitutto dal nazionalismo che sfociò in varie e dissennate guerre di aggressione; ma bisogna anche spingersi oltre e ricordare, prima ancora, la ventennale politica di soppressione del dissenso e di ogni diversità, l’imbonimento delle coscienze basato sulla falsificazione sistematica della realtà, l’intero operato di un regime dispotico e illiberale che aveva fatto del disprezzo della democrazia e dei suoi meccanismi un elemento cardine.

Oggi nulla più somiglia al contesto del biennio 1943-1945 (e nemmeno a quello degli anni Settanta), dunque il patrimonio memoriale della Resistenza va adeguato alla nuova stagione nazionale e (forse ancor di più) internazionale e riconvertito a nuove battaglie nonviolente per l’irrobustimento delle antiche conquiste di giustizia, libertà e per la loro estensione a quanti, qui e nel mondo, ne sono ancora privi.

Una forma di militanza che aggiorna quella (inevitabilmente) adottata dagli Stormy Six nel 1975, conservandone però lo spirito profondo.

Ecco, io credo che al di là di tanti stereotipi negativi sui giovani d’oggi, ci siano, tra quelli elencati sopra (e altri che si potrebbero aggiungere), temi sui quali essi sono disposti ad impegnarsi. Dobbiamo solo mostrare loro i legami possibili con i valori che dalla lotta di Liberazione sono transitati nella carta costituzionale.

Forse a questo può essere utile anche la storia delle canzoni.


Note:

[1] Cfr. M. De Nicolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento, Viella,  Roma 2011.

[2] S. Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, il Mulino, Bologna 2002, pp. 144-156.

[3] F. Fabbri, Album bianco. Diari musicali 1965-2002, Arcana, Roma 2002, p. 114.

[4] M. J. Prutsch, European Historical Memory: Policies, Challenges and Perspectives, Parlamento Europeo, Bruxelles 2015: https://publ.icomos.org/publicomos/jlbSai?html=Bur&base=technica&ref=43107&file=1783.pdf&path=IPOL_STU(2015)540364_EN.pdf , pp. 35-39 (consultato il 10/7/2025).

[5] Lo ricorda Franco Fabbri (F. Fabbri 2002, p. 93), che vi aggiunge anche il contributo di suggestioni provenienti dal cinema (Soldato blu, del 1970 di Ralph Nelson, ispirato al massacro di Sand Creek del 1864), e dalla canzone italiana (Nuovo Canzoniere Italiano) e americana (sia il folk-revival, sia il rock impegnato) dell’epoca.

[6] A. Gagliardo, Storia sociale di Rita Pavone. Biografia del Paese che siamo stati e che siamo diventati, Castelvecchi, Roma 2020.

[7] A. G. Salassa, Fare la storia del secondo Novecento con le canzoni italiane, in “Novecento.org”, n. 14, agosto 2020. DOI: 10.12977/nov338

[8] Nella bibliografia davvero ricca sull’uso, ormai pienamente accettato, delle “canzonette” come fonti o strumenti per raccontare la storia contemporanea, vale la pena di segnalare: M. Peroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canzone popolare, Bruno Mondadori, Milano 2005; L. Campus, Non solo canzonette. L’Italia della ricostruzione e del Miracolo attraverso il Festival di Sanremo, Le Monnier, Firenze 2015;  G. De Luna, G. Brusini, L. Salvini, Noi. Non erano solo canzonette (1958-1982), Skira, Torino 2019 (catalogo della mostra omonima).

Le parole in corsivo sono tutte riprese dal testo della canzone.

Dati articolo

Autore: and
Titolo: La Resistenza in musica: viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six. Intervista ad Alberto Gagliardo
DOI:
Parole chiave: , , , , , ,
Numero della rivista: n.24, dicembre 2025
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
and , La Resistenza in musica: viaggio nella Liberazione con gli Stormy Six. Intervista ad Alberto Gagliardo, Novecento.org, n.24, dicembre 2025.

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