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Nuove Indicazioni 2025 per la Scuola dell’Infanzia e il Primo ciclo: intervista a Claudia Villani

Nuove Indicazioni 2025 per la Scuola dell’Infanzia e il Primo ciclo: intervista a Claudia Villani

Abstract

Novecento.org ha deciso di dedicare la giusta attenzione, attraverso una serie di articoli, alla bozza delle Nuove Indicazioni 2025 per la Scuola dell’Infanzia e il Primo ciclo, recentemente pubblicata dal Ministero dell’Istruzione e del Merito. La rivista, infatti, non intende sottrarsi al dibattito pubblico, in particolare a quello in corso intorno alle linee guida dell’insegnamento della storia. In questo e nel prossimo numero pubblicheremo quindi il parere di studiosi – storici, esperti di didattica – e insegnanti sulle rilevanti novità proposte dal documento ministeriale. Il nostro “osservatorio” sulle Nuove Indicazioni, che già conta una piccola rassegna di comunicati e articoli pubblicati altrove (https://www.novecento.org/nuove-indicazioni-nazionali-rassegna-di-materiali-e-risorse/), viene ufficialmente inaugurato da un’intervista a Claudia Villani, ricercatrice di storia contemporanea e docente di Storia culturale e Didattica della storia presso l’università di Bari, nonché membro della redazione di Novecento.org.

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Novecento.org has decided to give due attention to the draft of the New 2025 Guidelines for Preschool and Lower Secondary Education, recently published by the Italian Ministry of Education and Merit, through a dedicated series of articles. The journal does not intend to shy away from the public debate, particularly the ongoing discussion around the teaching of history outlined in the guidelines. In this issue and the next, we will publish contributions from scholars – historians, history education specialists – and teachers, offering their views on the significant innovations proposed by the ministry’s document. Our “observatory” on the New Guidelines, which already includes a small collection of official statements and articles published elsewhere (https://www.novecento.org/nuove-indicazioni-nazionali-rassegna-di-materiali-e-risorse/), is officially launched with an interview with Claudia Villani, researcher in contemporary history and professor of Cultural History and History Education at the University of Bari, as well as a member of the Novecento.org editorial board.

In attesa di entrare più puntualmente nel merito della bozza ministeriale, ti chiederemmo a mo’ di premessa qualche tua considerazione sulla discussione che c’è stata in questi mesi. Vari, infatti, sono stati i pareri o i pubblici pronunciamenti, per lo più molto critici, rilasciati, in particolare sulla parte delle Indicazioni dedicata alla storia, da singoli studiosi e addetti al mondo scuola, da tante associazioni di storici e di insegnanti, da Istituzioni come il Parri, che ha pubblicato una sua valutazione anche molto severa.

La prima constatazione da fare è che il dibattito pubblico è stato molto più ampio di quello che è stato cercato direttamente dalla Commissione che ha elaborato le Indicazioni. Partiamo da un punto, che molti hanno rilevato: le consultazioni della Commissione sulla bozza delle nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo sono state troppo rapide, troppo frettolose e non hanno lasciato spazio alle questioni che sollevavano. Non commento nemmeno il questionario inviato alle scuole, che considero poco rispettoso sia nei confronti delle scuole sia nei confronti dell’importanza dell’argomento.

Il dibattito pubblico invece è riuscito a forzare il perimetro angusto entro cui la Commissione avrebbe voluto archiviare frettolosamente il tema. Sono intervenute non solo la maggior parte delle società storiche, ma anche le altre società disciplinari, così come sono intervenute le associazioni professionali del mondo della scuola, i sindacati. In generale, sono emersi soprattutto dubbi, obiezioni, critiche, con poche eccezioni.

Quando si parla di indicazioni per la scuola del primo ciclo stiamo parlando, infatti, della parte fondamentale della scuola pubblica, dell’alfabetizzazione cognitiva, emotiva e sociale di base delle generazioni future. Come è stato scritto in uno degli ultimi rapporti dell’UNESCO[1], ogni volta che si parla di quale conoscenza va acquisita, perché e come va usata, come va insegnata, si sollevano questioni fondamentali per lo sviluppo dell’individuo e delle società. Questioni talmente grandi che meriterebbero un dibattito culturale approfondito, sia nell’impostazione generale sia nel dettaglio riservato alle singole discipline. Su quest’ultimo punto, anzi, non pochi hanno denunciato la tentazione di reinterpretare le “indicazioni” tornando ai vecchi “programmi d’insegnamento”, tenendo conto di orientamenti abbastanza rigidi contenuti nel testo, un timore che è stato confermato dall’edizione definitiva. E’ sembrato un ritorno ad una educazione intesa come una sorta di “istruzione formatrice”, destinata a creare cittadini con determinate caratteristiche, ma incapace di fornire una bussola per navigare nella complessità dei fenomeni e delle conoscenze del presente.

Da quale diagnosi dello stato della scuola pubblica partono le Indicazioni proposte? Quale visione culturale propongono per l’alfabetizzazione cognitiva, emotiva e sociale di base delle generazioni future? Quale visione contengono delle questioni fondamentali che ci riguardano come individui e come società nel XXI secolo? Molti sono stati colpiti da una frase contenuta nel testo: “Solo l’Occidente conosce la storia”[2]. Ecco, questa frase non riguarda solo la storia come disciplina, ma riguarda il profilo culturale stesso della scuola pubblica oggi e del suo destino, perciò ha scatenato storici, antropologi, inclusi studiosi di grandissimo rilievo. Contiene un orizzonte di senso che stride fortemente con il contesto globalizzato, interdipendente e multipolare in cui viviamo, in cui le culture e le identità sono sempre in movimento.

Che nella scuola pubblica ci siano molte cose da migliorare e rivedere non lo mette nessuno in discussione. Ma, come mette in rilievo Brusa in un articolo in corso di pubblicazione[3], esiste una copiosa “letteratura sulla malascuola” frutto degli allarmi di tanti e tante che periodicamente sollevano il problema dell’inefficacia della scuola o di questo o quell’insegnamento. Su questa letteratura due punti vanno chiariti: occorre prima di tutto imparare a valutare gli interventi – distinguendo ad esempio tra legittime opinioni personali e riflessioni scientifiche, o fondate sulla ricerca scientifica – ; in secondo luogo bisogna prendere atto del fatto che sin dagli inizi nel XIX secolo la scuola pubblica di massa è stata continuamente oggetto di lamentele varie. Insomma, c’è sempre stata una letteratura denigrativa della scuola. Ad esempio, chi si è occupato di storia sa che i reclami sulla insufficiente conoscenza storica degli studenti – fatti, personaggi o avvenimenti fondamentali – ci sono praticamente da sempre.

Dato per acquisito che c’è qualcosa che non va in come funziona la formazione pubblica nel nostro Paese (ma anche in altri Paesi) e che la formazione storica è uno dei punti deboli, allora è necessario porsi alcune domande: perché questo avviene? E soprattutto cos’è che non funziona nella scuola pubblica oggi? Inoltre – apro una questione importante – essendo in un Paese democratico, noi tutti auspichiamo che gli alunni e le alunne conseguano una formazione ampia, diversificata, critica, adeguata alle loro scelte future e autonome, una volta lasciata la scuola pubblica. Il tema è quindi estremamente delicato: come mettere mano alla scuola pubblica per garantire che le conoscenze più aggiornate e potenti in tutte le discipline, compresa la storia, siano messe a disposizione dei ragazzi? E dunque, quale conoscenza della storia va acquisita e in che modo ottenere questo obiettivo?

Quando nell’Ottocento è nata la scuola pubblica (e si è avviata l’alfabetizzazione elementare di massa) si andavano costruendo gli Stati-nazione. All’inizio questa scuola non è andata neanche di pari passo con il diritto al voto, che è stata una conquista più lenta ed è arrivata in seguito. L’alfabetizzazione di massa, costosa per il bilancio pubblico, richiedeva legittimamente che lo Stato disegnasse degli orizzonti, delle priorità e degli obiettivi. Due i principali: rinsaldare l’appartenenza alla nazione e fornire le competenze necessarie per la competitività dell’economia e del lavoro. Nelle scuole italiane ed europee la storia è diventata il principale strumento per raccontare il “romanzo della nazione”. In Italia il racconto del Risorgimento costituiva l’apice del canone storico dei programmi e dei manuali. È stata un’esigenza legittima, proprio per costruire i cittadini della nazione: creare dei programmi nazionali per la scuola pubblica, dare indicazioni omogenee e valide per tutti, dal Piemonte alla Sicilia, rispondeva all’esigenza reale di riunire gli “italiani” in una comunità di destino, superando le difficoltà dei dialetti, dei tanti territori. Questo tipo di esigenza rimane legittima anche oggi, perché ogni Stato che investe nella formazione pubblica delinea un orizzonte di cittadinanza comune in grado di superare diversità e pluralità, così come risponde alle sollecitazioni provenienti dal progresso scientifico, tecnologico ed economico che cambiano le condizioni del lavoro (quindi le competenze necessarie per restare al passo dei tempi).

Se nel XIX però una comunità di destino voleva dire alcune cose – un certo nazionalismo e un certo rapporto tra saperi, linguaggi e organizzazione della scuola – sicuramente dopo il 1945 e, ancora di più, oggi, non può valere la stessa ricetta. Chiunque abbia studiato la storia della scuola in Italia comprende bene, quindi, quanto ogni cambiamento abbia un significato politico nel senso più alto del termine. Nelle democrazie avanzate a suffragio universale del secondo dopoguerra, anzi, la qualità e l’efficacia della scuola pubblica è tutt’uno con la qualità della democrazia. Tuttavia, come è stato osservato, ancora nel XX secolo la divisione tra le discipline e tra gli indirizzi, la centralità della letto-scrittura[4], della lezione frontale e del romanzo nazionale (insieme al canone storico eurocentrico), nonostante la democratizzazione degli accessi e il prolungamento dell’obbligo, nonostante diversi generosi movimenti di riforma, rimangono il cardine della scuola pubblica italiana. In Italia, in particolare, l’assenza di un’attenzione istituzionale e continuativa alla ricerca didattica disciplinare, combinata con una debole (o assente) formazione degli insegnanti hanno reso il sistema scolastico forgiato tra fine XIX e inizi XX secolo particolarmente resistente al cambiamento, un caso di resilienza (nell’organizzazione, nelle pratiche didattiche, ecc.) più unico che raro, come sa bene chi conosce e studia la realtà della scuola italiana: un organismo complesso, in cui i virus stagionali dell’innovazione didattica (dal basso e dall’alto) attecchiscono a sprazzi, producendo piccole isole dal destino precario, affidate alla passione e all’impegno di insegnanti, ricercatori e associazioni che si autorganizzano.

Insomma, in questo contesto qual è lo stato di salute della storia e del suo insegnamento all’interno della nostra scuola?

A seconda di come si fanno diagnosi e prognosi sulla nostra scuola si determinano risposte diverse. Sia Brusa nel suo articolo, che diverse indagini promosse su questo argomento, che la testimonianza di chi lavora nelle scuole più o meno quotidianamente, sottolineano la stessa cosa e cioè che nella stragrande maggioranza dei casi l’insegnamento della storia è ancora tradizionale e fondato sul rapporto tra lezione frontale, manuale e interrogazione.

Non è dunque vero, come invece sembra emergere in alcuni pezzi del dibattito su queste Nuove Indicazioni, che lo stato comatoso della scuola italiana e delle conoscenze storiche degli studenti derivi dalle innovazioni degli ultimi decenni, in particolare da quelle promosse in Italia da una piccola ma combattiva galassia di associazioni e ricercatori, costituita da associazioni come la Rete Parri, Historia Ludens e Clio 92, dai poli di ricerca sull’insegnamento della storia e da tutti coloro che fanno riferimento alla ricerca internazionale sulla didattica della storia. In primo luogo, questa piccola minoranza, sebbene lavori sull’innovazione didattica, non ha mai messo in discussione la necessità di usare il manuale di storia, di avere il momento della lezione frontale e quindi di avere anche il momento in cui la storia è narrazione, creazione dei grandi contesti entro cui poi approfondire temi e sviluppare laboratori. C’è quindi, intanto, un grande equivoco, perché sembra che queste Indicazioni siano pensate come la risposta a una scuola italiana, a un insegnamento della storia che ha inseguito delle mode pedagogiche, ha inseguito in maniera miope l’insegnamento per competenze. E’ vero il contrario, invece, poiché solo nei casi in cui le politiche educative orientate alle competenze generali – frutto di una politica europea e internazionale che andrebbe contestualizzata e conosciuta[5] – sono state interpretate da chi promuoveva la ricerca e l’aggiornamento dell’insegnamento della storia, solo in questi casi si è potuto lavorare sul potenziamento delle competenze disciplinari specifiche fornite dalla storia, migliorando l’efficacia della didattica. In definitiva, per chiudere, come è avvenuto anche per l’insegnamento di altre discipline, il vero problema della scuola italiana e dello stato dell’insegnamento della storia dipende dal cortocircuito tra una organismo sostanzialmente fermo al passato – ancorato ad una certa gerarchia nell’organizzazione di saperi e linguaggi, e al modello tradizionale di insegnamento trasmissivo – e gli indirizzi proattivi dell’approccio per competenze generali, in assenza di formazione e aggiornamento degli insegnanti con riferimenti stabili e continuativi nella ricerca didattica delle discipline.

Nel caso della storia questo cortocircuito è particolarmente evidente ed è la causa principale dell’inefficacia dell’insegnamento della disciplina, poiché la resistenza del “modello ottocentesco” si accompagna ad una fortissima domanda di senso del tempo da parte dei giovani del XXI secolo, che non trova risposte, poiché il canone storico tradizionale mal si presta a rendere conto dei processi di interconnessione, ibridazione e interdipendenza nella storia dell’umanità (fornendo una narrazione storica poco adatta persino a raccontare le fasi della globalizzazione contemporanea e la storia dal 1945 in poi in particolare), mentre la pressione delle politiche della memoria e degli usi del passato, nell’età dei media di massa digitali, è fortissima.

Che cosa bisogna dunque fare per andare oltre la dimensione canonica e «ottocentesca» dell’insegnamento della storia?

Anzitutto bisognerebbe capire perché ogni volta che si parla di indicazioni sull’insegnamento della storia si tocca una questione strategica, nonostante il suo insegnamento abbia poche ore in ogni scuola (soprattutto del primo ciclo). Sulla storia c’è stata, da un lato, la rivolta della quasi totalità degli storici italiani e, dall’altro, una puntigliosa attenzione da parte di chi ha steso il testo delle Nuove Indicazioni, poiché si attribuisce a questa materia il compito di rispondere alla deriva del senso di appartenenza, del senso di identità degli italiani.

Quelle poche ore di insegnamento vengono considerate così importanti perché la storia è al centro di una battaglia culturale che vede fronti contrapposti in tutto il mondo e sfida le politiche educative degli Stati nazionali. Nel dibattito suscitato dalle Nuove Indicazioni alle soglie del XXI secolo è mancata una contestualizzazione storica, paradossalmente. Bisogna comprendere che oggi gli Stati nazionali non sono più i soli attori delle politiche educative e che la crisi della scuola pubblica negli Stati nazionali, il problema della malascuola, ha due aspetti. L’aspetto interno, quello delle politiche nazionali, e quello esterno, quello delle politiche educative internazionali.

Qualunque insegnante, qualunque esperto di politiche educative sa che la questione, per esempio, dell’educazione per competenze non l’abbiamo inventata in Italia, bensì è frutto di un contesto, europeo soprattutto, che da qualche decennio a questa parte ha modificato le linee di indirizzo delle politiche educative per la formazione pubblica in generale, dalle elementari fino all’università. Le politiche educative europee e internazionali sono politiche educative de-nazionalizzate. La politica per competenze che l’Europa ha promosso ha come punto di riferimento non cittadini degli Stati-nazione. I destinatari sono i cittadini del mercato comune europeo, dotati di competenze generali, spendibili e riconoscibili in ogni Stato dell’UE, con un comune bagaglio di memoria antitotalitaria anch’essa spendibile e riconoscibile (paradigma vittimario). Queste politiche, tuttavia, lasciano spazio agli stati nazionali per sviluppare la parte che riguarda la cittadinanza nazionale. La vera domanda da porsi è: come si propongono le Nuove Indicazioni di mediare tra le politiche educative europee e nazionali? Quale rapporto, gerarchia, connessione stabiliscono tra cittadinanza europea e cittadinanza nazionale? Purtroppo, anche su questo aspetto il testo delle Nuove Indicazioni, come è stato rilevato ampiamente nel dibattito, sembra piuttosto un patchwork contraddittorio di affermazioni provenienti da approcci diversi. In alcuni punti sembra emergere una denuncia della politica per competenze, in altri una sua decisa riaffermazione, così come convivono pedagogie tradizionali e pedagogie proattive, a seconda del caso, mescolando riferimenti internazionali e alla cultura della complessità, salvo poi smentirli qualche paragrafo dopo. Ecco perché proprio le scelte compiute sull’insegnamento della storia forse ci consentono di comprendere meglio l’ispirazione e l’urgenza di fondo di queste Nuove Indicazioni.

La storia è una disciplina in continua evoluzione, perché la caratteristica del pensiero scientifico è la revisione continua, la collaborazione tra pari, l’apertura di nuove prospettive di ricerca e nuovi approcci, tutto continuamente riesaminato sulla base del rapporto con fonti di natura diversa. Chi sta dentro alla comunità scientifica degli storici, così come in tante altre comunità scientifiche, sa benissimo che la conoscenza storica oggi è una delle conoscenze più complesse, proprio perché fa i conti – in maniera autoriflessiva – con il problema del punto di vista, quello dei soggetti del racconto storico, quello del genere, quello dei soggetti che erano esclusi dalla storia: le nuove domande provengono spesso dalle sollecitazioni del presente, aprendo e riaprendo temi e campi d’indagine continuamente. Il pensiero storico è un pensiero scientifico vivo. La Commissione poteva scegliere la strada di un insegnamento della storia fondato sul meglio che la disciplina offre in termini di conoscenze e strumenti di lavoro, in stretta connessione con le domande, gli orizzonti, i temi e i problemi respirati dai giovani nel XXI secolo, con le loro identità caleidoscopiche, stratificate, contingenti. Invece ha scelto di fornire una risposta preconfezionata a questi problemi: la storia non serve per pensare e indagare il passato, serve per identificarsi con una certa narrazione del passato. Potremmo dire che si sceglie di fornire i pesci (fatti e personaggi memorabili) piuttosto che insegnare a pescare.

È una risposta di ri-nazionalizzazione prescrittiva della cittadinanza dal forte sapore moralistico, un progetto culturale che nel passato trova esempi analoghi nel tempo della Restaurazione.

Alla luce delle considerazioni che hai appena fatto, vorremmo che tu approfondissi questo punto. Nella premessa, intitolata “Perché si studia la storia” infatti gli estensori delle Indicazioni insistono sulla centralità della storia e del suo insegnamento nella formazione della coscienza nazionale degli studenti e persino della loro moralità: la storia – scrivono – è sempre “accompagnata anche un giudizio morale su quanto era oggetto del racconto e che su di essa sia costruita – cito il testo delle indicazioni – non solo la nostra comprensione del mondo ma la stessa nostra consapevolezza del bene e del male”. Insomma, oltre al nesso tra storia e costruzione dell’identità nazionale – che sembra peraltro negare la realtà di un mondo in cui la cittadinanza è sempre più globale – colpisce questa sottolineatura del nesso tra storia ed educazione morale dei giovani e quindi del popolo: di nuovo, si potrebbe dire, un ritorno all’Ottocento? 

Come ho provato a dire prima, potrei rispondere sia sì che no. Gli elementi di un ritorno al modello ottocentesco esistono, ma vanno compresi dentro un progetto ampio di Restaurazione culturale che risponde alle sfide del presente non solo in modo difensivo, ma aggressivo. All’indebolimento della centralità dell’Occidente e degli spazi di movimento degli Stati-Nazione si risponde issando nuovamente la bandiera dei valori occidentali e della centralità del nazionalismo, piegandoli però alle esigenze politiche del momento, anche a costo di smantellare quel po’ di multilateralismo e di cooperazione internazionale costruita faticosamente dopo il 1945. Ma si tratta di una risposta politica divisiva oltre che illusoria.

L’Approccio delle Nuove Indicazioni non tiene conto del fatto che intanto il rapporto col passato è sottoposto ovunque a revisione. Da una parte, il potere politico ha da sempre avuto bisogno di controllare il passato, con le cosiddette politiche della memoria (non solo con l’insegnamento della storia nella scuola pubblica, invenzione recente degli Stati-Nazione, ma anche con monumenti, musei, patrimoni, calendari civili, ecc.). Dall’altra, nell’età dell’industria culturale digitale e di massa, le appropriazioni popolari del passato sono in crescita ovunque (usi e abusi del passato), alimentate da nuove domande e nuovi scenari.

Per concludere vorrei anche dire che non trovo sbagliato delineare il senso di una cittadinanza comune per una collettività che vive nello stesso Stato nazionale, ma bisognerebbe chiedersi quale sia il modo migliore per costruire una cittadinanza aperta sul futuro, a nuove conquiste democratiche, a nuovi diritti, alla pluralità delle culture e delle provenienze in un mondo interconnesso e interdipendente. Questo tipo di cittadinanza nazionale si sposerebbe bene con un insegnamento della storia come “conoscenza potente”[6], non certo come narrazione prescrittiva.

Non tiene conto del fatto che la realtà storica dell’umanità è fatta anche di mobilità, scambi, incroci, sino alle forme accresciute e complesse di interdipendenza attuali. Nei documenti prodotti in questi mesi dalle società storiche si sottolinea come il recupero di una narrazione storica occidente-centrica sia anche antiscientifico, come qualsiasi narrazione etno-centrica (in genere lineare e teleologica), come antiscientifico è il rapporto di subordinazione della storiografia al giudizio morale su ciò che si racconta. Gli storici non sono giudici, studiano il passato dell’umanità non attraverso il filtro dei valori del presente, ma restituendogli la complessità sociale e culturale che lo differenzia dal presente. Antiscientifico, peraltro, non significa che non sia legittimo. Come abbiamo detto sopra, si tratta di una scelta politica su come adeguare la scuola pubblica alle novità, alle contraddizioni e alle sfide del XXI secolo, in modo da ricostruire un senso di comunità e di appartenenza comune: proprio perché siamo continuamente sottoposti al rapporto con l’altro e con le altre culture, proprio perché la democrazia si è indebolita a livello nazionale e non ha fatto passi avanti a livello internazionale, proprio perché l’interdipendenza rende sempre più angusti gli spazi della politica, una opzione possibile è quella perseguita dalla Commissione: barricarsi entro gli scampoli di una tradizione svuotata e morente, facendola diventare – da orizzonte progressivo che era nel XIX secolo per una comunità nazionale in costruzione – un orizzonte consolatorio e difensivo.

Le discipline scientifiche, compresa la scienza storica, nel XXI secolo sono andate in una direzione opposta. Così come gli esseri umani. Anche gli alunni e le alunne delle scuole del primo ciclo attraverso un semplice smartphone si connettono con il resto del mondo, e quindi con altri valori, altre culture, altri immaginari, con un impatto molto più forte di quanto altre generazioni nel passato abbiano mai sperimentato. Mentre saperi, conoscenze e tecnologie sono cambiati profondamente, quando si varca la soglia della scuola italiana alla maggior parte degli studenti sembra di fare un viaggio fuori dallo spazio-tempo che abitano nella quotidianità. A questa situazione si somma la schizofrenia tra politiche educative europee e nazionali di cui abbiamo parlato sopra. In questo “mare agitato” si potevano fare due scelte per la scuola pubblica e per l’insegnamento della storia in particolare: fornire conoscenze e GPS aggiornati per orientarsi nella navigazione, oppure costruire palafitte e rinchiudersi dentro in attesa del passaggio della bufera. Le Nuove indicazioni fanno l’ultima scelta, adottando un approccio che non comporta particolari innovazioni e investimenti, anzi consente un veloce riciclaggio di materiali a disposizione. È questa un’altra delle ragioni del successo di questa ricetta nel mondo di oggi.

Proporre questa rigida politica identitaria per l’insegnamento della storia – con qualche eroe e qualche mito a presidio di qualche valore – nelle due ore settimanali di insegnamento della materia, rischia di essere infine una scelta perdente rispetto ad altre offerte identitarie, alla potenza dell’industria culturale, o anche solo alla potenza di altri usi pubblici (e politici) del passato, che invadono il digitale e i social abitati dai giovani.

Affinché la scuola superi lo scarto rispetto alla realtà, l’unica via è consegnare ai giovani gli strumenti e le metodologie con cui si costruiscono le conoscenze nelle varie aree disciplinari, affinché siano loro stessi a cercare le risposte alle loro domande. Andrebbe creata una giunzione più forte – e non una cesura – con i risultati della cultura scientifica in tutte le discipline, nella storia a maggior ragione, perché la storia è un punto cruciale di come funziona la scuola italiana: se infatti è vero che mediamente ci sono solo due ore di storia a settimana, è anche vero che si insegnano storia della letteratura, storia dell’arte e storia della filosofia. È cruciale quindi che i giovani imparino ad avere un rapporto consapevole con l’indagine scientifica sul passato, per distinguere le conoscenze storiche dalle varie appropriazioni e usi del passato, per distinguere una narrazione scientifica da una qualsivoglia narrazione romanzata, verosimile, strumentale del passato.

Come hai accennato, queste nuove Indicazioni si presentano come il tentativo di rispondere allo smarrimento identitario diffuso nel sentire comune. Uno smarrimento che spiega in parte il successo elettorale della Destre in tutta Europa e non solo.

In merito alla crisi identitaria – e alla risposta difensiva, che in tanta parte d’Europa ha prodotto una rinazionalizzazione dell’insegnamento della storia –   una cosa che spesso viene occultata è che studenti e studentesse sono ormai abituati a sentirsi non solo cittadini italiani, ma anche cittadini del mondo e dell’Europa. Ma non solo, basterebbe esaminare le ricerche sulle dimensioni multiple dell’identità dei giovani per approfondire il tema. La pandemia stessa ha insegnato più di qualsiasi scuola che alcuni problemi si risolvono in una dimensione di cittadinanza globale più ampia. La loro percezione di sé, però, nella prospettiva delle Nuove indicazioni viene disgiunta dalla ricetta fornita, che concepisce le identità, individuali e collettive, come risultati definitivi, anche in termini di valore morale, piuttosto che come processi culturali continui e aperti. Può una qualsivoglia visione di un’identità collettiva (occidentale, europea, italiana, ecc.) essere considerata una medicina da assumere piuttosto che una costruzione culturale con cui confrontarsi?

La mia sensazione è che nella scuola di oggi i nostri figli siano sottoposti a pressioni opposte e contraddittorie. Come ho detto sopra, pagano il prezzo di una profonda schizofrenia tra le varie dimensioni delle politiche educative nazionali e internazionali. Da una parte si promuovono politiche proattive di competenze generali per il mercato del lavoro, dall’altra politiche prescrittive su valori generali (attraverso una certa educazione alla memoria e ai diritti umani) e nazionali (come nelle Nuove Indicazioni sull’insegnamento della storia). I giovani sono sottoposti quindi a politiche divergenti: da una parte invitati ad essere flessibili al cambiamento e al passo con il presente (capaci di aggiornarsi just in time), dall’altra invitati ad essere ancorati rigidamente a certi romanzi nazionali, certi miti, certi valori. L’esito di queste opposte tendenze è sotto gli occhi di tutti: l’educazione ai diritti umani (universali e senza confini nazionali, etnici o identitari) finisce per franare ogni giorno davanti agli occhi degli stessi giovani a cui ci rivolgiamo. L’educazione proattiva alla cittadinanza, se ancorata a identità chiuse, produce inevitabilmente divisioni e rilegittima la guerra e la violenza come strumento di risoluzione dei conflitti a tutti i livelli. Insomma, rispondere allo smarrimento identitario con un approccio prescrittivo e rigido rischia di compromettere l’obiettivo minimo delle scuola pubblica, quello di costruire una nuova comunità di destino tra le diversità preesistenti, continuamente sollecitate in un mondo interdipendente e interconnesso, così come rischia di compromettere l’obiettivo fondamentale dell’educazione, cioè quello di utilizzare i saperi come mezzo per “trarre fuori” domande, speranze, visioni, per rendere capaci di costruire conoscenze e scelte autonomamente: nella visione delle nuove indicazioni “ex-ducere” diventa “in-ducere” – condurre dentro un’identità precostituita – o peggio ancora “re-ducere” – portare indietro.

Forse puoi fornirci qualche esempio di pratiche educative virtuose, non prescrittive, capaci di valorizzare le domande che nascono dal vissuto quotidiano degli studenti…

Ne faccio tre, di esempi, puramente indicativi, ma significativi per le questioni che pongono.

Il primo riguarda il laboratorio di Philosophia Ludens, un approccio all’insegnamento della filosofia creato da Annalisa Caputo con un gruppo di docenti e ricercatori. I laboratori filosofici di PL, sperimentati anche nella scuola primaria, sono esperienze estremamente creative e attive che fanno emergere le incredibili potenzialità delle capacità di pensare dei bambini e delle bambine, a partire dalle loro piccole e grandissime domande, che non sfigurano di fronte ai grandi problemi filosofici o agli interrogativi di questo XXI secolo. Ecco, un insegnamento della filosofia in cui l’incontro con i grandi pensatori sia un incontro con le domande, che attivi la capacità di far crescere e maturare la capacità di pensare filosoficamente (secondo i diversi approcci, ecc.) come la capacità di elaborare problemi, sarebbe prezioso in ogni ordine e grado di scuola.

Con una scuola che si orienta secondo politiche prescrittive, dall’alto, invece, proprio le domande dei giovani (di senso, di orientamento, di conoscenza, ecc.) vengono inevitabilmente mortificate. La responsabilità di storici e docenti è far crescere e maturare queste domande sempre meglio, preparando alunni ed alunne a trovare autonomamente le risposte utilizzando la cassetta degli attrezzi specifica che ogni disciplina può fornire. Questo qualifica una società democratica, in cui tutti i cittadini siano messi nelle condizioni di affrontare e rispondere ai problemi del loro tempo. Se invece l’educazione mortifica le domande e non attrezza ad essere autonomi, il risultato è un impoverimento della democrazia o delle capacità democratiche in possesso del cittadino.

Il secondo esempio riguarda la storia delle migrazioni[7]. Per comprendere la storia di un Paese come l’Italia, ad esempio, posso raccontare come abbiamo costruito punti fermi comuni, ma anche come la mobilità, gli spostamenti, gli incroci, ecc. hanno riguardato territori e popolazioni che per brevità chiamiamo “italiani”. L’Italia è un paese affacciato sul Mediterraneo, quindi espressione di sincretismi culturali, di dialogo tra religioni, di migrazioni, che continuano anche nella storia contemporanea. Perché dire di no a questa parte della storia? Persino il Risorgimento – come mostra una intera stagione di studi storici – non è solo una vicenda nazionale, bensì parte di una vicenda di connessioni globali. Lo storico sa che per comprendere una realtà storica c’è bisogno di osservare tutte le connessioni di quella realtà con il contesto generale, altrimenti sarebbe impossibile comprendere ad esempio l’origine della rivoluzione scientifica, dell’Umanesimo, del Rinascimento o di molti altri fenomeni. Di certo non si può comprendere la storia contemporanea senza poter collocare l’Italia nel contesto europeo e mondiale recente e attuale. La mobilità è un punto di partenza altrettanto importante quindi per indagare e raccontare la storia dell’umanità. Come le migrazioni mettono in movimento culture e identità? Ce lo siamo chiesti durante un corso di Storia culturale all’Università di Bari e gli studenti hanno realizzato alla fine una serie di interviste a italiani migranti di prima e seconda generazione, ma anche a migranti non italiani[8]. Mi ha colpito in particolare la storia di due amici che da Gravina sono emigrati in Canada, diventando imprenditori di successo. Quando è stato chiesto loro se si sentissero più italiani o canadesi e quale considerassero la loro Patria, hanno risposto “la mia patria è l’altro”, cioè il rapporto con gli altri. Identità e culture sono processi di trasformazione e resilienza allo stesso tempo, cambiamento e/o rifiuto del cambiamento, ma soprattutto, come tutte queste storie raccontano, non esiste una patria immutabile: chi parte sa cosa lascia e non sa cosa trova, se poi torna dopo qualche tempo non ritrova più quello che la lasciato, tanto da percepire un doppio spaesamento. Dunque, viene da chiedersi: tutti questi italiani in giro per il mondo, cosa sono? O i polignanesi emigrati a fine XIX in Brasile, che conservano gelosamente le loro tradizioni e festività? O le comunità albanesi (arbereshe) nel Sud Italia? E le persone che arrivano in Italia da altri Paesi e vi si stabiliscono?

Tutte queste storie sono storie di smarrimenti identitari? Di identità perse? Oppure di processi culturali di trasformazione in corso? Gli stessi “italiani” sono frutto di altrettanti processi culturali e di trasformazione di lunga, media e breve durata. Perché allora delimitare il recinto valoriale e identitario entro cui condurre i nostri studenti come nelle Nuove Indicazioni per l’insegnamento della storia? Basterebbe avere a che fare con gli italiani in carne ed ossa e fare ricerca su chi sono (e sulla loro storia) per capire che questo approccio non funziona.

Il terzo esempio riguarda la storia dell’integrazione europea. Per quanto riguarda la storia e soprattutto la storia contemporanea c’è un lavoro enorme da fare, questo l’abbiamo detto come Rete Parri tante volte. E tuttavia essa rimane un elemento di grande debolezza della scuola italiana. Nonostante le buone intenzioni della riforma Berlinguer, la storia contemporanea resta veramente la meno compresa e quella su cui si riesce meno ad avere un insegnamento efficace. Come cattedra Jean Monnet, all’Università di Bari, da una parte abbiamo indagato la coscienza storica degli studenti, dall’altra abbiamo lavorato ad un insegnamento efficace della storia dell’integrazione europea, uno dei grandi punti deboli del curricolo di storia contemporanea, eppure uno degli aspetti fondamentali della realtà che viviamo.

Di solito la storia dell’integrazione europea viene narrata come una storia di successo, pace e prosperità derivante dalla consapevolezza dei grandi mali della storia del XX secolo. Questa masternarrative non funziona correttamente: è una narrazione lineare, semplicistica e teleologica. Non spiega le incertezze, le opzioni, le crisi e gli stop del processo di integrazione. Innanzitutto bisogna storicizzare questa stessa narrazione e avere un approccio cauto e autoriflessivo alla storia dell’UE (accanto al “romanzo nazionale” esiste insomma un “romanzo dell’integrazione”). In secondo luogo, come abbiamo proposto, occorrerebbe collocare la storia complessa e plurale di una parte del mondo (chiamata Europa) nella storia generale dell’umanità e soprattutto mettere a fuoco aspetti e problemi della costruzione non lineare e tuttora aperta dell’UE. Più la storia è contemporanea, più il lavoro scientifico dello storico si fa complesso e rischioso, poiché aumenta la difficoltà di prendere le distanze criticamente da processi, fenomeni e categorie culturali che lambiscono il presente. Se non si accetta questa sfida, però, e ci si limita ai romanzi nazionali o al romanzo dell’integrazione, si contribuisce ad allargare la sensazione di disconnessione tra passato e presente nei giovani[9].

Esaminiamo ancora un altro aspetto. La tesi delle Indicazioni sembra essere che insegnare la storia sia soprattutto usare il manuale. Ne è una conferma il fatto che nelle Indicazioni emerga una sorta di idiosincrasia, di astio, nei confronti del laboratorio con le fonti. Cito un passo particolarmente significativo: «Anziché mirare l’obiettivo del tutto irrealistico di formare ragazzi (o persino bambini) capaci di leggere e interpretare le fonti per poi valutarle criticamente, magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile un insegnamento-apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane del tempo». Perché a tuo avviso tanta avversione verso le didattiche orientate sul leggere e interpretare le fonti?

In effetti si percepisce un’aperta ostilità, rimarcata più volte nelle Indicazioni, nei confronti della didattica laboratoriale in senso più largo. Pare esserci l’idea che la didattica laboratoriale sia l’origine dei problemi relativi alla mancanza di conoscenza della storia da parte degli studenti e delle studentesse. E invece è vero il contrario, perché la didattica laboratoriale è ancora poco diffusa. Analizzando dati ed esperienze, si rileva come la lezione frontale abbia tuttora una larghissima prevalenza nell’insegnamento della storia. L’insegnante, che quasi sempre proviene da altri studi e non è adeguatamente formato sulla disciplina e sulla didattica della storia, si affida al manuale, un testo che narra la storia, o alla lezione frontale. Il laboratorio è invece il cuore della didattica attiva, ma anche della didattica costruttiva e costruttivista. In particolare, il laboratorio con le fonti è insostituibile per attrezzare gli studenti al metodo storico. Il rapporto con le fonti di diverse tipologie (comprese quelle digitali) e la capacità di validarle e interrogarle è parte costitutiva di ogni indagine scientifica sul passato.

Dietro al laboratorio con le fonti ci sono dunque tutte le operazioni che uno storico generalmente fa: l’individuazione del problema, la selezione delle fonti, l’accortezza nel capire e validare le stesse, nel determinare se sono affidabili o no, nel decostruire gli aspetti meno affidabili. L’equivoco nasce forse dall’aver visto il laboratorio con le fonti come un tentativo di far diventare storici professionisti gli studenti, ma nella scuola pubblica – e nella scuola dell’obbligo – anche coloro che più di altri hanno sostenuto e sostengono le didattiche attive non hanno mai avuto l’ambizione di creare piccoli storici. Semmai hanno avuto (e hanno ancora) la speranza e il proposito di far capire come si costruisce la conoscenza del passato; e questo lo si può fare sin dalle classi elementari, elaborando la domanda, misurandosi con un numero di fonti proporzionato all’età dei discenti, confrontandole e assumendosi poi la responsabilità di come raccontare gli esiti dell’analisi, che sicuramente è anche (ma non solo) narrazione. Tutte le dimensioni del lavoro dello storico compaiono – secondo priorità e accenti diversi – in ogni laboratorio di storia, che diventa quindi una palestra essenziale per maturare una buona consapevolezza su come si interroga e narra scientificamente il passato.

Queste capacità, questa cassetta degli attrezzi ha delle ricadute enormi in tanti ambiti, soprattutto in una società dove ci sono tanti usi del passato. Essa ha a che fare poi, nell’ultimo suo step, anche con la consapevolezza nell’uso del media, perché anche il medium condiziona il modo con cui viene comunicata la conoscenza, inclusa quella storica.

Affermare dunque che il digitale e il metodo laboratoriale sono adatti all’insegnamento della matematica, ma non a quello della storia, come suggerito dalle Nuove indicazioni, crea un danno enorme alla capacità di costruire e comunicare la conoscenza scientifica del passato attraverso linguaggi e media del tempo in cui viviamo.

In ultima istanza, visto che le hai evocate diverse volte, pare necessario fare qualche riflessione sulle tecnologie e i nuovi media. Nelle indicazioni questo è un altro punto su cui pare esserci un’aperta ostilità…

L’ostilità non è tanto nei confronti delle nuove tecnologie, quanto nei confronti della storia (e del suo insegnamento) nelle (e con le) nuove tecnologie. La stessa ostilità non c’è infatti quando si parla di STEM.

Ciò nonostante, anche i commenti degli insegnanti e degli esperti di didattica della matematica e delle discipline scientifiche esprimono un giudizio complessivo molto negativo sull’impostazione di queste indicazioni.

Le tecnologie sono uno strumento, quindi possono essere uno strumento del pensare scientificamente nelle matematiche, nelle scienze biologiche e naturali, ma possono anche essere uno strumento del pensare scientificamente nelle discipline umanistiche, quindi pure nel lavoro dello storico, come del resto avviene già nell’esperienza quotidiana degli storici di professione. Guardiamo solo a cosa consente di fare il digitale in relazione alla selezione e alla ricerca delle fonti. Perché queste parti, questi strumenti, devono essere affiancati solo alle discipline scientifiche e non alle discipline umanistiche? C’è una visione molto vecchia del rapporto tra scienze umane e scienze naturali, mentre ormai l’epistemologia di entrambe ha dei punti di contatto fortissimi, in connessione con il pensiero della complessità, l’intersoggettività e la consapevolezza che non esiste scienza senza soggetti.

Proprio la cultura italiana potrebbe costituire un grande punto di riferimento per tornare al significato profondo dell’Umanesimo e della cultura umanista. Per brevità pensiamo ad una figura simbolo, quella di Leonardo da Vinci, che teneva insieme la ricerca attraverso l’arte, il linguaggio, la tecnologia, lo studio scientifico della natura. Appare paradossale che proprio in Italia ci discostiamo dall’ispirazione creativa e scientifica della cultura umanistica, che potrebbe costituire la premessa per rispondere alle grandi sfide del XXI secolo e ad una nuova comunità di destino democratica, aperta e plurale. Nelle Nuove indicazioni fa specie che il matematico sia quello che lavora solo sul metodo induttivo attraverso il laboratorio e le tecnologie, mentre lo storico sia invitato a narrare empaticamente e ad impartire una lezione morale ex-cathedra. Questa visione dell’educazione, della cultura e del rapporto tra saperi umanistici e scientifici è sembrata ad alcuni proprio il contrario stesso della stessa cultura europea e occidentale e dei suoi fondamenti. Il pensiero creativo, critico, scientifico è cresciuto grazie alla maggiore invenzione europea e occidentale: quella di rendere la conoscenza una grande impresa sociale e collettiva, che ha bisogno in ogni ambito di comunità tra pari, di controlli intersoggettivi, di una continua revisione di problemi, strumenti e tecnologie. Per continuare a rendere viva quest’impresa collettiva i giovani dovrebbero imparare a navigare, non, al contrario, essere semplicemente caricati sulle navi. Per questo dovrebbero padroneggiare metodi oltre che contenuti, così come tecnologie e media, altrimenti non potranno essere pronti per quando il timone passerà nelle loro mani.

 


Note:

[1] Ripensare l’educazione: verso un bene comune globale? https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000368124

[2] https://www.mim.gov.it/documents/20182/0/Nuove+indicazioni+2025.pdf/cebce5de-1e1d-12de-8252-79758c00a50b?version=1.0&t=1741684578272  .

[3] A. Brusa, Le Nuove Indicazioni, ovvero come si costruisce un mito, in M. Baldacci (a cura di), Nazione, identità e scuola, ed. Conoscenza, Roma, in corso di stampa.

[4] R. Maragliano, Educazione, in I grandi temi del secolo, a cura di A. Abruzzese, Grande Dizionario Enciclopedico, Supplemento Utet, 2015

[5] Numerosi studi ripercorrono questa vicenda, mi permetto qui di rinviare per una sintesi a C. Villani, Politiche educative, educazione alla memoria ed educazione alla cittadinanza nel contesto europeo e internazionale in Ambrosi L., Angelini M., Miccichè A. (a cura di), A scuola di cittadinanza. Educazione civica e didattica della storia, Editpress, Firenze, 2024

[6] C. Villani, La storia come powerful knowledge. Per uscire dal dibattito fra competenze e conoscenze, in “Historia Ludens”, 2021, http://www.historialudens.it/didattica-della-storia/436-la-storia-come-powerful-knowledge-per-uscire-dal-dibattito-fra-competenze-e-conoscenze.html#Nota0 

[7] nota al dossier sulla summer 2024

[8] Lo spunto è stato fornito dall’analisi di un bellissimo video-documentario sulla migrazione di una famiglia salentina in Francia nel secondo dopoguerra (Ritals, 2010, regia di Sophie e Annalisa Chiarello), che mostra alcune di queste dinamiche culturali e identitarie e ci ha consentito di formulare le domande e le ipotesi di ricerca.

[9] E’ uno degli esiti del questionario sulla coscienza storica somministrato per quattro anni agli studenti universitari del corso di storia contemporanea nell’ambito del progetto della cattedra. Su questo e sui materiali didattici (con un ebook in corso di pubblicazione): http://jmc.uniba.it/.