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A Fossoli, vite che (non) sono le nostre. Come insegnare con le storie e nei luoghi

A Fossoli, vite che (non) sono le nostre. Come insegnare con le storie e nei luoghi

Particolare di una valigia durante la visita al campo di Fossoli (Crediti: R. Zampa)

Abstract

Nel quadro del progetto europeo Rememchild sul tema dell’infanzia in guerra e a partire da una concreta esperienza didattica relativa alla lunga storia del campo di Fossoli (Mo) dal 1943 al 1970, in questo contributo si riflette sulle diverse fasi del lungo percorso realizzato con una classe di scuola secondaria, aprendo così molte prospettive di lavoro in aula e sollevando diversi interrogativi didattico-metodologici. Si indagano a fondo le svariate possibilità didattiche offerte da un celebre luogo di memoria che è però anche un luogo-palinsesto in cui gli eventi storici hanno lasciato tracce visibili, che possono a loro volta essere utilizzate come fonti. Oltre al complesso rapporto tra Storia e Memoria, un’ampia riflessione è anche dedicata all’intersecarsi della “grande Storia” del Novecento con le “piccole storie” di sei bambini, oggetto dell’indagine e di cui si ricostruiscono le singole biografie. Ci si sofferma inoltre sui presupposti del laboratorio con le fonti in classe, sulle possibilità  della narrazione storica, sullo spazio e sui modi della socializzazione delle esperienze scolastiche fuori dalla scuola, seguendo le più recenti indicazioni della Public History.

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Within the framework of the European Remechild project on the theme of childhood at war and starting from a concrete didactic experience relating to the long history of the Fossoli camp (Mo) from 1943 to 1970, this contribution reflects on the various phases of the long journey realised with a secondary school class, thus opening up many perspectives for classroom work and raising various didactic-methodological questions. The various didactic possibilities offered by a famous place of memory, which is however also a place-palimpsest in which historical events have left visible traces, which can in turn be used as sources, are thoroughly investigated. In addition to the complex relationship between History and Memory, extensive reflection is also devoted to the intersection of the ‘big History’ of the 20th century with the ‘small stories’ of six children, the subject of the investigation and whose individual biographies are reconstructed. We also dwell on the assumptions of the workshop with sources in the classroom, on the possibilities of historical narration, and on the space and ways of socialising school experiences outside of school, following the most recent directions of Public History.

Una visita fa sempre piacere, se non all’arrivo, quantomeno alla partenza.

Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia

Premessa

Negli ultimi anni, il ricordo della mia lontana vita da studente coniugato alla mia esperienza più recente di ricercatrice e poi di insegnante mi ha reso sempre più consapevole di quanto il modo di fare storia nel primo ciclo di scolarizzazione condizioni in maniera determinante il rapporto successivo con questa disciplina e la concezione stessa della storia che si avrà in età adulta. Con ciò non voglio affermare che, esattamente come nei rapporti interpersonali, a una fase critica non possa seguire un riavvicinamento pacificatore, ma certamente si tratta comunque di rimettersi in gioco da ambo le parti, di fare spazio per volontà e desiderio, in ultima analisi, per concedersi reciproca fiducia. Di frequente invece capita a noi docenti di trovarci nella situazione di dover porre rimedio, da soli e con un brutto nodo, a un filo precocemente spezzato. Sulla storia a scuola gravano infatti pregiudizi e cattive pratiche, che solo le nuove generazioni di docenti-discenti, con il supporto di specialisti e di società deputate, mi pare, stiano in parte tentando di scalfire. E intanto il presente, con le sue urgenze, preme alle pareti dell’aula.

Questo è il macro-problema che sempre appare all’orizzonte nel momento di presentare una nuova proposta alle classi, questi i nodi da sciogliere, come è accaduto tra il Maggio e il Giugno del 2023 ricevendo l’invito di Fondazione Fossoli a partecipare al progetto europeo Rememchild 2023-2024: Remembering childhood in European Wartimes,[1] in particolare alla parte denominata We remember: pedagogical content for the next generations. Workshop Co-creative history drawing. Il progetto, che vedeva in veste di partners diverse istituzioni culturali europee (EUROM-European Observatory on Memories; Maison d’Izieu; Gernika Peace Museum; Fondazione Fossoli; IC-MEMO-International Committee of Memorial Museums in Remembrance of the Victims of Public Crimes; EuroClio), attraverso un serie di attività progettate per diversi target di interlocutori (studenti, giovani, ricercatori, persone migranti e rifugiate, artisti, organizzazioni umanitarie, memoriali, associazioni commemorative, ecc.), si proponeva di recuperare le esperienze e i ricordi dei bambini durante i conflitti bellici europei novecenteschi, in particolare nella Seconda guerra mondiale e nel successivo dopoguerra. Si trattava perciò di dare voce a, più che di ricostruire storicamente, alcune storie di bambini che, passati attraverso Fossoli, sono di qui ripartiti per poi entrare dritti nelle fauci spalancate di Auschwitz oppure, al contrario, si sono lasciati alle spalle le conseguenze della guerra, le discriminazioni e la povertà e sono qui arrivati per ricostruire la loro vita nel secondo dopoguerra, quando il campo era ormai divenuto l’orfanotrofio di Nomadelfia[2] o il villaggio San Marco per i profughi istriani.[3]

Il gradito invito alla collaborazione ha subito destato una serie di interrogativi fondamentali su come affrontare nell’anno scolastico successivo questo percorso di storia novecentesca con una classe seconda di scuola secondaria di I grado, ancora digiuna del contesto cronologico di riferimento. Sin dall’estate, durante una visita a Fossoli quasi in solitaria, cominciai a domandarmi in che modo dare profondità storica agli eventi, dato il disallineamento tra la programmazione già svolta[4] e il contesto storico a cui di necessità avrei dovuto riferirmi, senza però rubare troppo tempo alla metodologia d’indagine e al laboratorio con gli studi di caso,[5] che volevo caratterizzassero il percorso. Mi chiedevo anche come si potesse passare dalle storie individuali al quadro storico generale e viceversa, in un movimento virtuoso, ma spesso già rivelatosi in passato estremamente complicato per i giovani alunni e dispendioso in termini di economia di tempo scolastico.

Il fatto stesso che Fossoli non solo costituisca una sorta di luogo-simbolo della memoria emiliana, italiana ed europea legata alla Shoah, ma conservi anche le evidenze di una sua storia molto più lunga, che anticipa la discriminazione e segregazione degli ebrei italiani e la cosiddetta soluzione finale nei campi di sterminio, e che continua molto dopo, fino agli anni Settanta, con le sue fasi successive di riadattamento e riutilizzo, finiva per complicare ulteriormente il compito: la stratigrafia d’uso del campo era complessa (e in gran parte sconosciuta ai più), ma al tempo stesso determinante per costruire le basi operative di un percorso, che avrebbe dovuto prendere le mosse, in maniera abbastanza tradizionale, proprio dalla conoscenza del sito, che è esso stesso una fonte, e dal lavoro sulle altre tipologie di documenti che avrei selezionato e preparato.

Ma se la cronologia storica di Fossoli non si poteva affatto dare per scontata, occorreva tenere ben presente che sullo stesso spazio fisico, nel quale sono avvenuti gli eventi, si sono in seguito sedimentate anche le tracce delle successive politiche di memoria. Se mai ce ne fosse stato bisogno, lo ricordava esplicitamente anche il titolo dell’azione 2 del progetto europeo, Ricordiamo: contenuti pedagogici per le prossime generazioni. L’obiettivo finale del Workshop (i cui risultati sono stati in seguito resi fruibili nella sezione Disegni e memoria della piattaforma digitale del progetto[6]) era proprio la creazione originale di un corpus di riflessione iconografica sul tema delle memorie dei bambini in guerra.

Tra rose e spine: contenuti, obiettivi didattici e problemi metodologici

L’obiettivo, solo in apparenza semplice, di tradurre in immagini la vita e l’esperienza bellica dei bambini poneva sin da subito in realtà problemi di ordine diverso e non poche incertezze metodologiche, criticità che sono divenute in seguito una operosa palestra di riflessione didattica. Questo percorso ha infatti mosso i suoi primi passi incalzato da moltissimi dubbi educativi e didattici, alcune anarchiche ibridazioni e pochi ma solidi presupposti teorici. Tuttavia – poiché ho imparato che nel fare storia le domande sono spesso più utili delle risposte – mi concentrerò soprattutto sui primi, nella speranza che aprirmi a un confronto con altri docenti possa, forse non risolvere, ma almeno confortare[7].

Nella prima fase preparatoria, fra le molte possibilità prese in considerazione, sono stati selezionati i casi di sei bambini le cui esperienze di vita li avevano portati a transitare o a soggiornare a Fossoli tra il 1942 e il 1970, e la cui documentazione fosse sufficientemente accessibile.

Per tre di questi (Emilia Levi, Elena Colombo e Vittorino Modigliani), Fossoli fu l’ultima tappa prima dell’ingresso nel mondo concentrazionario e prima della morte precoce e drammatica nel lager di Auschwitz. La quarta bambina, Oretta Montanari, fece invece l’esperienza di vita e di rinascita a Nomadelfia, concepita come una sorta di “orfanotrofio al contrario” in cui, per volontà del fondatore don Zeno Saltini, erano i piccoli orfani a ospitare, nelle baracche del campo trasformate in case, le loro madri di vocazione. Infine, nella fase in cui il campo mutò ancora forma e finalità e divenne villaggio San Marco, l’emiliana Gabriella Carlini, figlia di una famiglia contadina del luogo, e il profugo istriano Marino Piuca frequentarono qui la stessa scuola, protagonisti essi stessi di una vicenda di iniziale discriminazione e di successiva inclusione.

A ben vedere il recinto di Fossoli conserva evidente nelle sue fattezze materiali questa binarietà di fondo: è stato in qualche caso punto di partenza e in qualche altro punto di arrivo, condanna o risarcimento. Per alcuni di questi bambini la guerra stava tutto intorno e costituiva l’orizzonte nero del loro destino già segnato, per altri invece stava ormai alle spalle pur portandone ancora ben visibili segni e conseguenze. Alcuni di questi bambini sono rimasti bambini per sempre, stroncati dalle atrocità di quel periodo di storia; altri, dopo Fossoli, sono cresciuti e invecchiati, disegnando altre traiettorie esistenziali e facendosi, in qualche caso, testimoni della loro stessa storia.

Raccogliendo le fonti scritte, le immagini e le testimonianze per avviare il Workshop è stato subito chiaro che il materiale a disposizione era molto “caldo” e che, conoscendo gli alunni della classe, già abituati alle pratiche del laboratorio di storia, non sarebbe stato possibile (né io avrei voluto) confinarlo in una raccolta, per quanto ampia, di disegni.

Mi interrogavo anche su quando collocare e quale spazio dare alla visita a Fossoli, come dovessi affrontare la didattica dei e nei luoghi, attivando competenze trasversali, e perfino in che modo i presupposti cardine della Outdoors Education si potessero applicare anche ai luoghi di memoria.[8] Riflettevo su come fosse possibile mantenere vivo l’interesse per la storia proteggendo al contempo la disciplina dalla confusione generata dalle diffuse pratiche di memoria. Pensavo che proprio attraverso la storia si potesse restituire senso e scopo alla memoria, evitando di trasformarla in ritualità vuota o, peggio, in mero “turismo dell’orrore”.[9] E poi, ancora, cosa avrei fatto – questa era per me una domanda cruciale – dell’emozione[10] che queste storie di vita avrebbero sicuramente fatto emergere nei miei studenti? Avrei anche dovuto decidere come, assimilando i presupposti generali della Public History,[11] i ragazzi avrebbero potuto trasmettere ciò che, attraverso il percorso, avrebbero appreso, riuscendo così a rifondare un rapporto nuovo e personale con la disciplina, solitamente trattata in aula con un mero verbalismo a loro generazionalmente non più congeniale.

Cominciavo a chiedermi pure che tipo di immagini e di ricordi avessero in mente i ragazzi della classe, caratterizzata da una forte impronta multiculturale e da storie familiari eterogenee, quando si parla di guerra (o di infanzia). E, ancora, in che modo agli adulti formatori sia concessa la possibilità di accedere a questi contenuti pregressi, con cui dobbiamo per forza confrontarci e, in un certo senso, venire a patti.

Non è senz’altro un caso se, dovendo definire il titolo per questo percorso, ho finito per scegliere di parafrasare (del tutto immodestamente) quello del romanzo familiare di Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia, definito dalla critica il suo libro più empatico e temerario. «C’è un solo modo per ricevere il dolore degli altri» scrive infatti Carrère, «dargli voce, farlo diventare il proprio dolore».[12]

Questi e altri problemi di ordine generale si sono presentati tutti insieme nel corso di quella mia prima visita estiva, molti altri, più specifici ma non meno importanti, sarebbero affiorati come onde crespe sulla superficie piatta della mia consapevolezza di docente, mano a mano che si procedeva con lavoro in aula. Per non farci bloccare prima ancora di cominciare – forse in modo un po’ naïf – è stata presa la decisione di affrontare i singoli problemi in medias res, man mano che si palesavano, o meglio, da un lato ricorrendo al classico metodo per prove ed errori, e dall’altro, in modo forse ancora più operativo, per contiguità. Cosa significa? Provando a portare in questo progetto altre discipline, altre modalità di comunicazione, altri spunti di riflessione, non temendo l’ibridazione e abbattendo gli steccati strettamente disciplinari, una libertà che la lontananza dall’accademia e il segreto dell’aula ormai mi concedono con favore.

La letteratura, gli albi illustrati[13] e la scrittura personale ‘d’immersione’ si sono rivelati un provvidenziale concime per avviare l’ultima fase del lavoro, quella del racconto e della sua condivisione, ma c’era da subito una chiara consapevolezza che avrebbero potuto diventare anche la macchina di decompressione, il contenitore per accogliere quelle emozioni carsiche che ero sicura sarebbero naturalmente esondate dagli studenti affrontando con loro queste tematiche. Sono quei sentimenti che fanno così paura a noi docenti quando emergono con la forza tumultuosa dell’adolescenza ma a cui, a mio parere, era meglio garantire una via d’uscita.[14]

A confronto con un “sito-palinsesto”: le diverse fasi del campo di Fossoli e le riflessioni sulla didattica dei/nei luoghi

Lavorando con una classe che non aveva mai visitato Fossoli c’era la necessità primaria di ricostruire il contesto, da quello ampio della storia mondiale del Novecento (dall’antisemitismo, al sorgere delle dittature, agli eventi della Seconda guerra mondiale e alle sue conseguenze nel secondo dopoguerra) a quello più specifico della storia e delle geografie del campo emiliano, fino a far posto alle singole piccole storie di ‘nostri’ sei bambini.[15] Rivolgendo l’attenzione a un luogo dalla storia così complessa e stratificata, era necessario restituire la specificità di questo sito che potremmo addirittura definire un “luogo-palinsesto” della storia e delle emozioni del Novecento.[16] Oltre a fornire alla classe coordinate utili per orientarsi nelle fasi cronologiche del campo e nelle successive e diverse destinazioni d’uso (per esempio grazie a mappe e fotografie storiche),[17] come detto, risultava fondamentale riflettere e far riflettere gli alunni, nonostante la loro giovane età, su come questo spazio fosse al contempo il contenitore/catalizzatore di eventi della storia e il monumento/monito per le successive pratiche memorialistiche.[18]

La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si applicano a due tipi di rapporto con lo spazio: quello dell’analisi del luogo-fonte e quello della dimensione esperienziale del luogo come contenitore di memorie. All’interno del percorso ciò significava, in ultima analisi, ancora una volta prendere il coraggio di districare il  gomitolo del complesso rapporto tra storia e memoria.[19] Se da un lato il luogo come fonte va sempre sottoposto a critica e de-costruito (nessun luogo è originario e intatto, ma sempre frutto di scelte e mutamenti successivi),  era altrettanto importante insegnare come nei luoghi, e tanto più in questo, si operino sovrapposizioni e incroci di più memorie, a volte anche contraddittorie. Si sarebbe dovuto dunque, seguendo alcune indicazioni di Adachiara Zevi,[20] approfittare del campo di Fossoli e del Museo di Carpi come esempi di memoriale democratico e antigerarchico per permettere alla classe di contribuire alla continuazione e alla co-costruzione di un immaginario, senza cadere nella retorica e nella sacralizzazione, dal momento che fin troppe volte mi è apparso evidente il disagio degli studenti di fronte a certe pratiche commemorative spacciate alle scuole come momento formativo. Fondamentale sarebbe stato contribuire a suscitare il desiderio di andare fisicamente verso un luogo vicino territorialmente, ma che questi studenti avevano conosciuto solo da lontano, sempre tenendo distinto il piano conoscitivo (per sostenere il quale avrei dovuto necessariamente lavorare con le fonti) da quello emotivo e, tuttavia, non trascurando né censurando le loro emozioni spontanee.

Patrizia Violi ci ha mostrato con chiarezza i rischi connessi ai luoghi della storia che sono anche luoghi del trauma e la necessità di preservarne l’autenticità da un certo consumo turistico.[21] Dunque a priori è doveroso chiedersi quale tipo di storia e quale tipo di memoria raccontino luoghi come Fossoli agli adolescenti di oggi e come indurre gli studenti a osservare non solo il luogo, ma anche il modo con cui i visitatori si muovono nello spazio e quale rapporto instaurino con luoghi come questo. Il campo, pur nella sua attualità disadorna, sarebbe stato capace di farsi mediatore tra passato e presente e di mostrare al contempo la complessa stratigrafia della memoria: una volta arrivati sul sito, si sarebbe dovuto indicare agli studenti «un passato ormai quasi invisibile eppure mantenere il contatto visivo con esso», per dirla con le parole di Aleida Assmann.[22]

Il passato, la memoria, il presente e la storia

La sfida del percorso è stata dunque riuscire a insegnare la storia restituendo ai singoli fatti storici la misura della distanza dal presente, della lontananza da noi; porre al passato le domande che da sempre suscita l’urgenza del presente e tuttavia non appiattirsi sulla contemporaneità e sulle sue parole-chiave, ma reinventare il linguaggio per fondare un nuovo patto comunicativo con i discenti. Tenere insieme, insomma, il rigore storiografico/metodologico e il coinvolgimento attivo degli studenti perché arrivassero a mettersi in gioco direttamente e ad assumersi la responsabilità del passato e della sua comunicazione come fine complessivo del percorso: fare di Fossoli un luogo ‘di’ storia e ‘di’ memoria, e non solo ‘per la memoria’,  senza limitarci a singolarizzare le sei biografie, ma inserire l’esperienza individuale (dei sei bambini di ieri, ma in fondo anche dei ventiquattro alunni di oggi) in un contesto più ampio e portatore di nuovi orizzonti di senso.

Andava ovviamente poi contemplato il rischio, più volte evocato da David Bidussa,[23] che una diffusa «coreografia dei giorni del calendario civile» potesse generare fenomeni di partecipazione mancata, ovvero indurre al contrario a perdere di vista la storicità di un evento storico, riducendolo a una mera ripetizione ciclica.[24] Pure a Fossoli sarebbe stato necessario preservare il luogo della storia, anche raccontando in una forma alternativa ciò che vi si sta celebrando, trattando la storia come luogo della complessità in opposizione alle celebrazioni e ai catechismi. Anche perché, nella proliferazione dei mezzi e degli strumenti comunicativi e nell’uso politico (e pubblico) della storia, è venuta meno la condivisione di alcuni elementi del racconto, nella quale invece le generazioni passate di studenti ancora si riconoscevano.[25]

Eppure proprio l’alterità del passato, che è al contempo il più importante stimolo e la principale difficoltà della storia insegnata a scuola, stava per rivelarsi inaspettatamente anche una prospettiva proficua dalla quale, da docente, è stato possibile osservare con più agio gli alunni, i contenuti da loro fruiti o i processi cognitivi attivati, aiutandoli a evitare il rischio del cosiddetto ‘presentismo’ o del mero collasso cronologico.[26]

Partendo dalla documentazione storica gli alunni hanno ricostruito alcuni episodi significativi e hanno composto testi letterari basati su una solida documentazione, in cui “piccola” e “grande” storia, vicende individuali e collettive, si intrecciano nella dimensione di un racconto, che non rinuncia alla sua dimensione interpretativa e creativa, ma che è anche frutto di un’opera di negoziazione, di ipotesi e modalità diverse condivise all’interno del gruppo e di una presa di coscienza più consapevole e critica nel momento confuso della cosiddetta memory boom.[27]

Infatti, cos’è mai la guerra oggi per un ragazzo e una ragazza italiani di dodici anni? Quanto c’è nella loro mente delle immagini appena visualizzate su Instagram e TikTok e quanto di quelle mentali costruite studiando sui libri di storia o immaginate mediante i racconti di altri, altrettanto lontani nello spazio e nel tempo (il bisnonno partigiano, i profughi dei conflitti in ex Jugoslavia o in qualche parte del continente africano, da cui sono fuggiti anche i genitori di un coetaneo… ), e quanto ancora c’è delle paure profonde e tradizionali dell’infanzia (il lupo cattivo, l’orco affamato, le malattie, la carestia…) dentro questo mondo globalizzato in cui le notizie corrono veloci, le bombe si vedono sugli schermi degli smartphone, le cause dei conflitti vanno ricercate anche molto lontano da dove si combatte e si muore.[28]

I luoghi pertanto restano un punto di riferimento importante, a cui si possono ancorare sia le pratiche di memoria sia le ricostruzioni storiche, a patto che si accetti una prospettiva anche semiotica, come quella proposta da Patrizia Violi,[29] che suggerisce di costruire percorsi che possano permettere l’incrocio di sguardi da discipline diverse. È indubbio che lo spazio è oggetto e veicolo di significato, ma significa qualcosa di altro da sé (relazioni sociali e di potere); e che i luoghi sono anche intrisi di memoria, la quale ha sempre a che vedere sia con lo spazio sia con il tempo. Gli eventi storici esistono, ma vi accediamo solo attraverso fonti/monumenti, che sono però anche prodotti semiotici.

Ciò che ai docenti dovrebbe interessare comunicare a scuola non è tanto o solo il fatto in sé, ma anche il senso che quel fatto ha assunto nella storia successiva. È infatti interessante vedere come una narrazione delimita i bordi temporali di un evento e come tagli la temporalità storica. Ricordiamo a partire dal nostro presente, ma il presente si sposta sempre. E con esso, cambiano le domande da rivolgere al passato. Tutto ciò che avviene si guarda a ritroso e i luoghi di memoria o i musei si offrono come mediatori del significato storico degli eventi, come forme di traduzione dal discorso storico a quello della memoria (e viceversa).

Di qui, la recente tendenza museografica a lasciare nei percorsi alcune sale vuote da riempire in seguito, mano a mano che la storia va avanti. «Scomporre e frazionare la cosiddetta memoria collettiva», ci ricorda Adachiara Zevi (citando Régine Robin)[30] come obiettivo primario anche degli Stolpersteine.

Un bilancio a mo’ di conclusione: che cosa ho insegnato e che cosa ho imparato

Il risultato di queste riflessioni è nato da un’esperienza lunga e variegata, di cui potrete leggere i dettagli nella seconda parte del contributo. Già da ora è però possibile rilevare come i punti di riferimento teorici e metodologici siano moltissimi: la didattica della memoria, la didattica laboratoriale della storia, la didattica dei luoghi e degli oggetti, ma anche una ‘storia esperienziale’ che pone un accento molto forte sulla dimensione del racconto, perché il racconto e la condivisione  sono in fondo l’ultima parte di quel lavoro dello storico che a scuola si cerca sempre di simulare.

Esperienze simili possono però offrire al docente-ricercatore anche un valore aggiunto: la possibilità di affacciarsi a una possibilità di solito assolutamente preclusa e cioè di guardare con chiarezza a che cos’è la storia nella testa degli studenti, di accedere a quei contenuti primigeni, di cui spesso noi insegnanti non siamo consapevoli, ma che preesistono alle nostre lezioni e che sono invece la lingua di sostrato con cui dobbiamo dialogare.

Solo nell’agio dell’osservazione fuori dai banchi, non da sola ma accompagnata da altre figure di educatori e mediatori di sapere, è stato finalmente possibile notare che la storia del Novecento, soprattutto quella bellica, in realtà è già dentro agli alunni, ma sotto forma di uno strano conglomerato di tante guerre precedenti, fatte di grandi cavalli di legno, archi e di frecce, alabarde, cannoni, fucili, trincee, armi chimiche e nucleari,  esperite come “in presa diretta” sugli schermi o nei visori dei loro videogames.[31] Dare per scontato che quando si pronuncia la parola “guerra” tutti accedano a un medesimo significato è un errore metodologico molto grande che è bene imparare a riconoscere. Un’esperienza come questa, così totalizzante da accompagnarci quasi per un anno scolastico intero in un contesto ampio come quello di un progetto europeo, consente di aprire porte e finestre a un’altra idea di storia, ma in fondo anche di scuola, che cerca in sé stessa le risorse per rinnovarsi.

Gli studenti sono di fronte a un mondo in rapido cambiamento che può fare loro molta paura; hanno bisogno di sentire che la storia non è solo una galleria di fatti nefasti, ma che è un’alternanza di pagine chiare e scure; ci chiedono di poter riconoscere nel dramma anche alcune luci di speranza; hanno bisogno di essere confortati, di essere compresi ma anche di avere voce.[32] Questo è stato possibile grazie a una ricchezza di materiali, di approcci e di persone ma anche alla densità del luogo e alla molteplicità culturale insita all’interno del gruppo-classe e nelle vite dei bambini di cui abbiamo raccontato le storie, diversità che non abbiamo cercato di non accantonare bensì di valorizzare, a dispetto di un generale movimento politico che induce e indulge verso la ri-nazionalizzazione dei programmi di storia.[33]

Alla fine del percorso, credo di poter dire che è apparso a noi adulti intuitivamente un po’ più chiaro come tracciare il complesso confine tra storia e memoria, ma penso anche che i ragazzi abbiano fatto esperienza, durante questi mesi appena trascorsi, per avviare riflessioni sull’esistenza e sul loro presente.

Qualcuno, alludendo all’approccio multisensoriale con cui, data la partecipazione di un’alunna con disabilità visiva, sono stati affrontati sia la visita al luogo di memoria, sia il lavoro di elaborazione grafica, e che è diventato il nostro modo inclusivo per avviare ogni attività, mi ha detto: «La storia è adesso una materia che si tocca, si ascolta, si annusa, si guarda».[34] E ancora: «Andare a Fossoli è stato importante perché così abbiamo avuto un luogo per immaginare le storie». E poi: «Non me le scordo più queste sei persone. Ho parlato di loro anche alla mia famiglia». «Credo che Marino fosse come me: stava bene, ma alla fine non era di qui e aveva sempre nostalgia di un altro posto». E, infine, come in un coro greco: «Prof, la guerra e la pace sono questioni che ci riguardano».

Nella consapevolezza dei molti dubbi rimasti irrisolti o che mi si paleseranno in futuro, perché solo lateralmente sfiorati in questa occasione o non ancora neppure da me identificati, e anche delle numerose sfide che il presente pone alla scuola, questi loro pensieri verdi mi sembrano comunque di buon auspicio.

Ringraziamenti

Questo lavoro deve molto al confronto e alla collaborazione con tante persone. Mi limiterò qui a citare soltanto i nomi di coloro senza i quali nulla sarebbe stato fatto.

Gianluca Gabrielli, storico e docente, per avermi parlato del progetto Rememchild, aver fatto il mio nome alla Fondazione Fossoli e poi per non avermi più ‘perso di vista’. Marzia Luppi e Francesca Schintu, nei loro rispettivi ruoli di direttrice e referente delle attività culturali della Fondazione Fossoli, per avermi coinvolto, aiutato nella selezione di fonti e materiali, offerto continuo supporto scientifico, organizzativo e materiale (a Diana, la bimba di Francesca, che è arrivata mentre rivedevo questo testo, dedico il buono che eventualmente ne verrà). Aldo Gianluigi Salassa e Igor Pizzirusso, rispettivamente direttore e caporedattore dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, per l’invito a scrivere di questa esperienza e per lo spazio concesso alle mie parole su questa rivista. Andrea Paolucci e Caterina Bartoletti della Compagnia Teatro dell’Argine per aver trasformato le nostre parole in azione. Marinella Gattei, educatrice sapiente e amica preziosa, ha reso concretamente possibile tradurre le mie proposte nella chiave multisensoriale e inclusiva, che credo ogni percorso didattico dovrebbe porsi come metodo e come obiettivo.  Al gruppo dei colleghi e alla scuola dove insegno da più di un decennio, la secondaria “Guido Guinizelli” di Bologna, va la mia riconoscenza per essere ancora, e ostinatamente, uno spazio libero di sperimentazione del pensiero educativo e didattico. Infine, ma non alla fine, il pensiero va agli alunni e alle alunne della mia classe, con i loro pensieri verdi, e ai loro sei nuovi compagni di banco, con le loro pesanti valigie.

Biblio-sitografia minima di riferimento
  • S. Adorno, L. Ambrosi, M. Angelini (a cura di), Pensare storicamente, FrancoAngeli, Milano 2020;
  • A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002;
  • A. Brusa, Il laboratorio storico, La Nuova Italia, Firenze 1991;
  • L. Cajani, La storia fuori e dentro l’aula scolastica, in Il Bollettino di Clio. giugno 2021, anno XXI, n.s., n. 15, pp. 66-73;
  • M. Demantowsky M. (a cura di), Public History and School. International Perspectives, de Gruyter Oldenbourg, Berlin-Boston 2018;
  • H. Girardet, Vedere, toccare, ascoltare. L’insegnamento della storia attraverso le fonti, Carocci, Roma 2004;
  • C. Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, Roma-Bari 2024;
  • M. Luppi (a cura di), La lezione di Fossoli, Il filo di Arianna, Bergamo 2023;
  • I. Mattozzi, G. Di Tonto, Insegnare storia. Corso ipertestuale per l’aggiornamento in didattica della storia, Miur, Università degli studi di Bologna, Dipartimento di discipline storiche, Bologna-Roma 2000;
  • F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia nella scuola secondaria. Il laboratorio e altre pratiche attive, Utet-De Agostini Scuola, Milano 2023;
  • F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia nella scuola primaria. Il laboratorio e altre pratiche attive, Utet-De Agostini Scuola, Milano 2023;
  • W. Panciera, A. Zannini, Didattica della storia. Manuale per la formazione degli insegnanti, Mondadori Milano 2013;
  • E. Valseriati, Prospettive per la didattica della storia in Italia e in Europa, New Digital frontiers, Palermo 2019;
  • S. Wineburg, Historical Thinking and Other Unnatural Acts. Charting the future of Teaching the Past, Temple University Press, Philadelphia 2001;
Principali associazioni disciplinari italiane e internazionali, portali e riviste
Materiali foto-audio-video delle fasi del progetto

 


Note:

[1] Fondazione Fossoli (Carpi, Mo) https://www.fondazionefossoli.org/ . Per il progetto europeo Rememchild nelle sue diverse azioni e obiettivi https://rememchild.remigraid.org/en/ e https://www.fondazionefossoli.org/attivita/progetti/rememchild-2023-24-remembering-childhood-in-european-wartimes-progetto-europeo/.

[2] La comunità di Nomadelfia nasce negli anni Trenta per volontà di don Zeno Saltini, figlio di agricoltori benestanti di Carpi e ordinato sacerdote nel 1931; raccoglie i primi bambini senza famiglia o comunque abbandonati a San Giacomo Roncole (frazione del comune di Mirandola, in provincia di Modena), parrocchia formata per il 50 per cento da braccianti che hanno un lavoro solo otto mesi l’anno: nel 1941 fu fondata l’Opera Piccoli Apostoli della Parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo apostoli in San Giacomo Roncole, che ebbe come prima sede un immobile antistante alla chiesa denominato “Il casinone”. Nel 1947 don Zeno occupa con loro l’ex campo di concentramento di Fossoli, frazione di Carpi, per costruire la loro nuova città. Lo scopo principale è dare una accoglienza ai tanti orfani di guerra.

[3] Il Villaggio San Marco, allestito nel 1954 all’interno del campo di Fossoli di Carpi, ospitò famiglie italiane provenienti da Istria e Dalmazia; alcune di queste vi rimasero per 16 anni. Furono quasi 1.500 i profughi, appartenenti alla comunità italiana, ospitati nel Villaggio San Marco a Carpi, dopo aver abbandonato le proprie case e tutti i propri beni in Istria e Dalmazia a seguito degli accordi internazionali che, ridefinendo il confine orientale italiano, assegnarono quei territori all’allora Jugoslavia. Le famiglie arrivate nel modenese furono una parte delle circa 250 mila persone, il 90 per cento degli italiani che vivevano in Istria e Dalmazia, che partirono tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, dirette in 130 luoghi tra caserme, scuole come quella in via Caselle a Modena che ospitò diverse famiglie, conventi, ex campi di concentramento come quello di Fossoli o la risiera di San Saba a Trieste, ma anche oltreoceano, dal Canada al Venezuela. Un esodo di massa per sfuggire a persecuzioni e alla tragedia delle foibe. Il Villaggio San Marco fu aperto il 7 giugno del 1954 e chiuso dopo 16 anni il 7 marzo del 1970. All’interno della struttura furono aperti spazi commerciali, centri di aggregazione, uno studio medico, attività artigianali come la falegnameria e la tipografia gestiti dagli esuli stessi, poi la scuola, l’asilo e la chiesetta. Gli esuli, insomma, anche se sostenuti dallo Stato con apposite leggi, si organizzano in modo indipendente, allacciando stretti rapporti con la comunità di Fossoli e di Carpi, nonostante, l’iniziale clima di diffidenza e le tensioni politiche del dopoguerra.

[4] Indicazioni nazionali per il curricolo al termine del I ciclo d’Istruzione https://www.mim.gov.it/documents/20182/51310/DM+254_2012.pdf e Indicazioni nazionali e nuovi scenari https://www.mim.gov.it/documents/20182/0/Indicazioni+nazionali+e+nuovi+scenari/

[5] A. Brusa, Gli studi di caso. Insegnare storia in modo partecipato e facile, in “Novecento.org”, n. 3, 2014. DOI: 10.12977/nov39

[6] https://rememchild.remigraid.org/en/workshop-co-creative-drawn-story/

[7] S. Guarracino, Le questioni dell’insegnare storia, in F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia alla secondaria. Il laboratorio e altre pratiche attive, Utet-De Agostini Scuola, Milano 2023, pp. 5-16.

[8] Per le tipologie di possibili attività didattiche sulla Shoah: L. Zironi, Metodologie applicate alla didattica della shoah, in “Novecento.org”, n. 22, dicembre 2024, https://www.novecento.org/pensare-la-didattica/metodologie-applicate-alla-didattica-della-shoah-8222/

[9] E. Traverso (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[10] A. Chiappano (a cura di), Conoscere la Shoah in Italia e in Europa. Seminario di formazione, ITCG L. Pacioli, Crema 2006, p. 183: «La didattica della Shoah dovrebbe ruotare intorno a due cardini imprescindibili, se si desidera davvero produrre negli studenti un apprendimento duraturo e profondo: emozione e conoscenza».

[11] Per il rapporto  tra insegnamento della storia e Public History: si rimanda a  P. Ceccoli, Public History and School, International Perspectives, in “Novecento.org”, n. 14, agosto 2020, DOI: 10.12977/nov362; M. Guerri, La public history. Ovvero della funzione civile della storia, in “Novecento.org”, n. 11, febbraio 2019, DOI: 10.12977/nov277; A. Portincasa, Cinque domande sulla didattica della storia, in “Novecento.org”, n. 11, febbraio 2019, DOI: 10.12977/nov275; C. Villani, Insegnamento della storia e usi del passato: come educare alla conoscenza storica degli studenti, in F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia nella scuola secondaria. Il laboratorio e altre pratiche attive, Utet-De Agostini Scuola, Milano 2023, p. 149 e sgg. Sito della Associazione italiana Public History: https://aiph.hypotheses.org/.

[12] E. Carrère, D’autres vies que la mienne, P.O.L., Paris 2009, trad. it. di M. Balmelli, Einaudi, Torino 2011.

[13] S. Lotti, Equilibri di storie. Albi illustrati per il calendario civile, in “Novecento.org”, n. 21, giugno 2024, DOI: 10.52056/9791254696965/16.

[14] Il rimando, a latere, ma in profonda consonanza, è all’esperienza di C. Melazzini, Insegnare al re di Danimarca, Sellerio editore, Palermo 2011, nuova edizione accresciuta 2023, da cui si cita alle pp. 112-129. «Si aprirebbe qui un discorso sull’uomo, le sue angosce, le sue difese che, per quanto difficile e doloroso, avrebbe un duplice vantaggio: di attribuire ai sentimenti dell’adolescente – invece che una condanna sommaria – la drammatica dignità di un problema umano universale; e di offrire qualche spiraglio per una effettiva “assimilazione della tragedia” che è ben altra cosa da quella operazione intellettualistica, per non dire scolastica, che viene predicata sotto il tutolo di “memoria storica”. I fatti, quelli di allora come questi che scorrono oggi sui teleschermi davanti agli occhi dei giovani, non possono essere assimilati: nemmeno un adulto formato riesce ad accettare fino in fondo l’impotenza dell’uomo di fronte a se stesso (…) Ciò che possiamo fare è elaborare e integrare nel nostro io una parte almeno del significato di questi fatti, come ci hanno insegnato uomini coraggiosi come Bruno Bettelheim e Vasilij Grossman».

[15] C. Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, Roma-Bari 2024;  sfortunatamente ho potuto leggere il saggio solo dopo aver già impostato e portato a termine questo progetto, ma è risuscito, post quem, a darmi risposte e a colmare molte mie lacune evidenti nello svolgimento di questo e di altri progetti di storia a scuola.

[16] M. Luppi (a cura di), La lezione di Fossoli, Il filo di Arianna, Bergamo 2023, pp. 7-12.

[17] Per il dettaglio delle otto diverse fasi del sito di Fossoli, oltre alle informazioni presenti sul sito della Fondazione,  si rimanda a E. Biondi, C. Liotti, P. Romagnoli, Il Campo di Fossoli: evoluzione d’uso e trasformazioni, in G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Milano, Electa, 1990, pp. 35-49; A. M. Ori, Il Campo di Fossoli. Da campo di prigionia e deportazione a luogo di memoria 1942-2004, Fondazione Ex Campo Fossoli, Modena 2004.

[18] Resta fondamentale: , J. Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1978, vol. V, pp. 38-43.

[19] M. L. Marescalchi, Didattica con i luoghi di memoria; per il rapporto storia-memoria nell’insegnamento: C. Villani, Insegnamento della storia  e usi del passato, entrambi in F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia nella secondaria, op.cit. pp. 390-406 e pp. 150-153.

[20] A. Zevi, Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, Donzelli, Roma 2014.

[21] P. Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano, 2014.

[22]A. Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, Oscar Beck, München 1999, citato nella ed. it. (con traduzione di S. Paparelli) Ricordare. forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002, p. 368.

[23] D. Bidussa, Educare alla memoria in viaggio. Quale sfida per il futuro? In E. Bissaca, B. Maida (a cura di), Noi non andiamo in massa, andiamo insieme. I treni della memoria nell’esperienza italiana 2000-2015, Mimesis, Milano-Udine, pp. 17-30.

[24] Un approccio invece virtuoso all’uso didattico del calendario civile in G. Gabrielli, Connettere passato e presente: la scuola primaria a confronto con la contemporaneità, In F. Monducci, A. Portincasa (a cura di), Insegnare storia nella scuola primaria. Il laboratorio e altre pratiche attive, Utet-De Agostini Scuola, Milano 2023, pp. 385-407.

[25] Un concetto analogo è stato, tra gli altri, sottolineato da Luca Baldissara nel suo intervento I racconti della verità: storia e memoria, politica e giustizia nelle transizioni di regime  nel corso di formazione Un destino per la memoria organizzato presso l’Istituto Storico Parri di Bologna nella primavera del 2019.

[26] L. Baldissara, P. Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009.

[27] Per la definizione di memory boom: C. Villani, Insegnamento della storia e usi del passato, in Monducci, Portincasa, 2023 (1), p. 140. Per le fonti letterarie e le pratiche di scrittura condivisa: E. Corbino, Le fonti letterarie, in Monducci, Portincasa, 2023 (1), pp. 253-273. Sulla letteratura resistenziale e la funzione del racconto: P. Mencarelli, Sguardi obliqui, antieroi e storie meticce, in Patria indipendente, 2017, https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/sguardi-obliqui-antieroi-storie-meticce/; P. Mencarelli, Narrativa e Resistenza. Due esperienze didattiche, in “Novecento.org”, n. 6 luglio 2016 DOI: 10.12977/nov143

[28]  L’importanza dell’io soggettivo anche nella costruzione del racconto storico è spiegato benissimo da un non storico: A. Leogrande, La nostra terra di mezzo, in G. Fofi (a cura di), Il racconto onesto. 60 scrittori, 60 risposte, Contrasto, Roma 2015, p. 188: «se dico molte volte “io” nei miei reportage non è solo perché quell’io è al centro del racconto, va in giro, riflette, ricorda, analizza, incontra altri io (…) C’è anche un altro motivo: quell’io è attraversato dalle storie che racconta».

[29] Violi, 2014.

[30] Zevi, 2014, p. 171; R. Robin, La mémoire  saturée (Stock,  Paris 2003) in trad. it. I fantasmi della storia: il passato europeo e le trappole della memoria, Ombre Corte, Verona 2005, p. 92.

[31] I.Pizzirusso, Videogiocare la storia tra Public History, usi pubblici e didattica. Introduzione al dossier, in “Novecento.org”, n. 20, dicembre 2023, DOI: 10.52056/9791254695371/06.

[32] Per l’emergenza e le dimensioni del disagio giovanile si rimanda ai dati Unicef, OMS e al progetto Mi vedete?, per il quale si veda https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/medicina-e-ricerca/2024-05-29/disagio-giovanile-494percento-adolescenti-soffre-ansia-o-depressione-risultati-progetto-mi-vedete-094216.php?uuid=AFcRr3hB.

[33] Per un’ampia discussione su questo tema si rimanda al seminario organizzato dal SiDidaSt Insegnare storia al tempo della razionalizzazione dei programmi (12 luglio 2024) e relativi materiali: https://www.sididast.it/2024/07/07/seminario-estivo-sididast/.

[34] La citazione (ovviamente inconsapevole) è a H. Girardet, Vedere, toccare, ascoltare. L’insegnamento della storia attraverso le fonti, Carocci, Roma 2004.

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