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La libertà come motore della storia: l’esempio della Resistenza

La libertà come motore della storia: l’esempio della Resistenza

Colle Fous, 3-4 aprile 1945. Partigiani della Brigata GL Valle Stura “Carlo Rosselli” durante un tentativo di rientro in Italia dalla val Vésubie con la missione Soe comandata da Paul Barton (Paolo Buffa).

Il dossier sulla Summer school 2020
si compone di 5 coppie di parole chiave.
Questo testo afferisce alla coppia di parole chiave

Libertà/Responsabilità

Abstract

Nella seconda giornata della Summer School 2020 abbiamo chiesto a Giovanni De Luna e Laura Boella di riflettere con noi sulle parole chiave Libertà e Responsabilità. La libertà di cui parla De Luna nel suo intervento è essenzialmente un’idea forza, una conqui-sta. È il motore che spinge i giovani della generazione degli anni’30 a rompere le regole, a ri-bellarsi a un regime ormai giunto all’epilogo della sua vicenda.
Diversi sono i percorsi attraverso i quali i giovani di quella generazione approdano all’antifascismo: dalla seduzione che esercita su di loro il mito, tutto letterario, dell’America come “terra di libertà” all’’incontro con il pensiero di Benedetto Croce. Percorsi comuni a mol-ti, cui segue però una divaricazione politica (il PCI da una parte, il Partito d’Azione dall’altra). Ma è a questo punto che si verifica il miracolo della “Resistenza perfetta”, come la chiama De Luna: il desiderio di libertà, la ribellione all’obbedienza cieca e assoluta imposta dal regime si trasformano in una nuova assunzione di responsabilità; il rifiuto delle regole si traduce nella definizione di nuove regole, quelle della nostra Costituzione.

La libertà cui faccio riferimento è essenzialmente l’idea forza di una lotta, una conquista; la libertà come motore, la libertà in senso dinamico; la libertà nella sua capacità di mobilitare le energie più riposte degli uomini e delle donne della nostra contemporaneità.

È questa libertà che seduce i giovani alla fine degli anni ’30; è un’idea di libertà che germoglia in un terreno favorevole, perché era la fase in cui il fascismo era all’epilogo della sua vicenda: un fascismo estenuato, un regime cadaverico, statico.

“Ciascuno al suo posto” era il principio adottato dal fascismo per garantire un generale immobilismo e permettere la perpetuazione della sua egemonia in un sistema politico compatto, rigidamente gerarchizzato. In questa disposizione per compartimenti stagni, soltanto «le idee- e non le idee vive, operanti, che si incarnano in uomini e si trasformano in azioni – ma le idee scritte sui libri, erano la prima e sola bussola per i giovani intellettuali inquieti e insofferenti»[1]. Nelle Università, nelle case editrici, nelle redazioni delle riviste, nelle stesse istituzioni culturali fasciste nasceva e si generalizzava un diffuso desiderio di libertà intellettuale, l’insofferenza per le angustie della “riserva indiana” in cui erano ristretti («lo studente non frequentava che studenti, professionisti, uomini di cultura: non un operaio, un contadino, un artigiano, era per lui uomo, amico, pari»[2]), la delusione profonda per le caratteristiche assunte dal regime (lo staracismo, il caporalismo dei GUF, l’alleanza con Hitler). Malgrado una continua febbre d’azione artatamente mantenuta mediante manifestazioni esteriori (adunate, sfilate, campeggi, gare sportive), la società fascista non era riuscita mai a dare ai giovani la sensazione di un reale movimento, di una possibile avventura. Il fascismo era eminentemente ordine e gerarchia, cioé stasi, inerzia, noia, era il foglio d’ordini che sostituiva l’iniziativa, la ripetizione al posto della fantasia.

Dimenticata la mobilitazione degli esordi, gerarchi e semplici gregari si erano progressivamente adagiati nella ripetitività di una stanca routine burocratica: la mortificazione della politica come libero confronto si risolveva inevitabilmente nell’impossibilità per la stessa classe dirigente che monopolizzava il potere di fare vera politica. Il fascismo bloccava, cioè, ogni dinamica interna autopropulsiva, negandosi la possibilità di un rinnovo fisiologico dei propri quadri; costringeva ai margini dei meccanismi decisionali il suo potenziale personale politico di ricambio, favorendo di fatto l’apporto di energie giovanili e fermenti attivistici all’opposizione antifascista.

In questo contesto di asfissia la libertà si presenta come una miscela esplosiva di umori, di comportamenti, di scelte; nella libertà precipita proprio questa ansia di rottura con quel mondo e con quelle regole.

Sono tanti i percorsi all’interno dei quali la libertà viene scoperta da quella generazione.

C’è un percorso letterario molto interessante legato all’antologia curata da Vittorini, Americana, pubblicata da Bompiani nel 1941 e subito censurata dal regime.

Sembra che i Padri Pellegrini fossero venuti dall’Europa pieni di delusioni e stanchezza: per finire, non per cominciare. Delusi del mondo non volevano più il mondo; solo astratti furori li agitavano, l’idea della grazia, l’idea del peccato, i pregiudizi feroci del dualismo calvinista. E non avevano più la forza di affermarli nelle vecchie città delle lotte religiose; fuggivano come se non vi credessero, come se vi rinunciassero. Ma lì, su quelle coste coperte di alberi dal legno duro, era di nuovo il mondo: lo videro e furono di nuovo nel mondo…[3]

Questo passaggio dall’intolleranza e dal fanatismo religioso alla laica laboriosità dei pionieri per Elio Vittorini e per quelli della sua generazione era l’America, il mito di un mondo sfrenato, «dove anche i vizi dell’uomo diventavano la virtù dell’autodeterminazione, un mondo dove non solo gli spazi geografici ma anche quelli ideali dei rapporti fra uomini e classi non soffrivano di limiti e di rigidità»[4], la leggenda di un paese dove tutto era possibile perché tutto era libero.

In chiave più filosofica e più politica, è di grande rilevanza l’incontro con Benedetto Croce. Bobbio l’ha detto molto bene:

l’iniziazione a Croce offriva un criterio indiscutibile per distinguere in modo alquanto settario gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati…Più che una dottrina- l’unica teoria crociana allora a noi nota era quella dell’arte come intuizione- il crocianesimo era un metodo nel senso pregnante di via regia alla vera conoscenza…Uno strumento che ci serviva a sgombrare il terreno di molto ciarpame, ma che aveva l’incoveniente di lasciarci troppo spesso a mani vuote.[5]

Nel 1932 era apparsa la Storia d’Europa del secolo XIX; nel 1938, la Storia come pensiero e azione. In quegli stessi anni Croce discuteva di liberismo e liberalismo con Einaudi, in una serie di saggi che costituirono uno dei momenti più alti del dibattito teorico negli anni del fascismo morente. La rottura del nesso tra la libertà e un sistema economico particolare come il capitalismo, rivendicata da Croce contro l’einaudiana identificazione tra liberismo e liberalismo, parve a molti giovani l’inizio della ricerca di un’iniziativa in grado di confrontarsi con il fascismo immediatamente sul terreno dell’azione. Nella crociana concezione della storia come storia della libertà restava, però, un fondo di attesa deterministica, quasi si trattasse soltanto di aspettare che le forze profonde che avevano indirizzato il cammino dell’uomo sulla strada di un sempre più accentuato inveramento della libertà, potessero riprendere impetuosamente il loro corso dopo la parentesi fascista. Quella certezza non poteva appagare la sete d’azione dei giovani del “lungo viaggio”. Così, proprio tra il 1938 e il 1939, quella che era stata una verità assiomatica per gran parte degli intellettuali italiani cominciò ad incrinarsi: compiuto, con l’adesione a Croce, «il naturale e quasi obbligatorio primo passo verso il pensiero libero»[6], si innescava un processo di rapida attivizzazione che, una volta indirizzato verso la militanza politica, difficilmente poteva essere costretto nella formula della libertà come valore assoluto, nel richiamo ossessivo alla democrazia prefascista, in quelle insomma che erano le coordinate essenziali del crocianesimo politico. Lo schema crociano della religione della libertà appariva ai giovani politicamente inadeguato e restrittivo; bisognava passare dalla libertà al contenuto della libertà, ai limiti della libertà, alla dialettica della libertà.

Da questo punto di vista, il percorso nutrito di questo tipo di fermenti culturali sfociava però in una rivolta che era essenzialmente di tipo generazionale: era molto facile, allora, approdare all’antifascismo, perché ti seduceva proprio per la sua semplicità. Bastava capovolgere i capisaldi del regime e trovavi la soluzione di tutti i mali: alla gerarchia contrapponevi l’egualitarismo, al nazionalismo l’internazionalismo, alla dittatura la democrazia, al totalitarismo la libertà: ecco la ricetta per diventare antifascista. È il percorso da Aldo Garosci sintetizzato nella formula “dalla libertà alle libertà”:

contro la intrinseca illibertà del fascismo, la libertà prende quindi la forma di ogni rivendicazione di idee, così che di volta in volta contro il fascismo si affermano le libertà parziali e antiquate che siano dei cattolici o dei comunisti…Di fronte allo Stato paterno, lo stato come organo delle libertà politiche, garanzia delle libertà civili e individuali; di fronte allo Stato etico, l’autogoverno. Di fronte all’Impero, il Comune; di fronte allo Stato sindacale, i liberi sindacati; allo stato educatore, la libera scuola; allo Stato negatore delle classi, lo stato come risulta dialetticamente dalla lotta di classe...[7]

Le libertà rivendicate erano quelle concrete, vicine ai bisogni spirituali e materiali degli uomini, quelle che assumevano al loro interno il riferimento pregnante alla giustizia

Questo ribaltamento molto semplice diventava un elemento di mobilitazione all’interno del quale la libertà si configurava esattamente come una potente molla per rompere un involucro divenuto davvero pesante per una generazione che aveva conosciuto il fascismo. Penso a una biografia come quella di Ruggero Zangrandi (il rimando è al suo Lungo viaggio attraverso il fascismo[8]), che aveva partecipato ai Littoriali, era stata forse anche sedotta da Bottai e dal mito della corporazione proprietaria[9] di Ugo Spirito; una generazione che aveva ricevuto molte sollecitazioni, ma che aveva visto poi, però, che il fascismo non riusciva più a soddisfarle. Il momento di rottura è il 1938-39, dopo la guerra di Spagna, dopo l’Abissinia, quando il regime sembrava essersi afflosciato su se stesso.

In questo percorso c’è una divaricazione interessante: il binomio fondamentale, in quella fase, non è libertà/responsabilità – i membri di quella generazione erano tutti degli “irresponsabili marci”, l’8 settembre è una gigantesca prova di disobbedienza da parte di chi va in montagna – il vero binomio è libertà/giustizia: è lì che maturano delle scelte politiche che poi si divaricano in maniera molto netta.

Ancora una volta, da quel punto di vista, il problema è Croce: per lui, libertà/giustizia era un ircocervo, qualcosa di inconcepibile proprio perché, secondo lui, libertà e giustizia non erano due termini che si possano mettere sullo stesso piano. La libertà era un valore assoluto. La giustizia poteva essere una costellazione minore in questa dimensione: si poteva anche perseguire, ma senza toccare la libertà come dogma. Non si poteva accettare che la giustizia venisse alla pari, o addirittura anteposta, alla libertà.

Nell’articolo Precisazioni pubblicato sul numero dell’aprile 1943 dell’Italia Libera, organo del partito d’azione, alle osservazioni critiche di Croce al programma azionista dei sette punti varato nel luglio 1942[10] si rispondeva: «alla libertà di parola e di voto non vogliamo che si accoppi la libertà di morire di fame»[11].

Questa discussione provoca una divaricazione tra due percorsi. Da un lato, molti di questi giovani vanno nel PCI, nell’orbita del comunismo. Se ci pensate, in questa scelta c’è molta più continuità rispetto al magistero di Croce che nell’altra scelta, che poi vedremo, perché in fondo, in questa scelta, c’è una sorta di affidamento all’idea di progresso, che deve essere soltanto libera di potersi determinare. C’è una sorta di determinismo che ripropone quello dell’impostazione crociana, all’interno della quale la libertà era un valore assoluto, che andava soltanto lasciato libero di spiegarsi completamente. C’erano degli incidenti di percorso, come quello della parentesi del fascismo, ma poi la libertà avrebbe ricominciato a inverarsi. Tutta la storia umana poteva essere letta come un progressivo ampliamento degli spazi di libertà. Se alla libertà sostituiamo il progresso, abbiamo lo stesso meccanismo di tipo deterministico: anche nel PCI la retorica «veniamo da lontano, andiamo lontano»[12] era una sorta di fede, un affidamento finalistico a una realizzazione in cui il progresso avrebbe portato a un regime all’interno del quale ci sarebbe stato il paradiso in terra.

Dall’altra parte -penso a Giustizia e Libertà, al Partito d’Azione- non c’è questo percorso, c’è il rifiuto di questo tipo di determinismo. C’è una forte accentuazione dell’elemento attivistico-individualistico, dell’elemento personalistico, della mobilitazione individuale (i fatti accadono perché noi ci impegniamo per farli accadere, non c’è alcun determinismo nelle situazioni). Se si vuole, è una sorta di “delirio di onnipotenza” tipicamente novecentesco.

Altro elemento di differenziazione tra i due percorsi è il ruolo del partito. In questa esasperata ricerca delle energie individuali, in una resa dei conti con se stessi e con la propria coscienza, non c’è spazio per la forma partito. Il partito veniva accusato di essere intrinsecamente illiberale, in particolare il partito di massa, le cui esperienze concrete novecentesche, sia sul versante bolscevico, sia sul versante fascista, riproponevano valori come la gerarchia, la disciplina, l’obbedienza ecc. che andavano completamente cancellati.

Qui c’è un passaggio decisivo, perché dal punto di vista teorico è relativamente facile rompere con quello che c’è; la cosa difficile è sostituire a quello che c’è qualcosa di diverso. In questo caso, il passaggio erano le regole obsolete di cui dicevo prima, che si trattava di sostituire con regole nuove. È qui il miracolo di quella che io chiamo La Resistenza perfetta: quella generazione ci riesce, perché gran parte di questa rottura, gran parte di questo sconfinato desiderio di libertà, intesa come scelta individuale che ti restituisce la piena sovranità su te stesso, vengono trasferiti, sia dal punto di vista soggettivo sia dal punto di vista concreto, nella nostra Carta costituzionale, nelle regole della nostra Costituzione.

C’è nella Resistenza la nascita di una nuova «pianta uomo»[13], come diceva Guido Quazza. C’è una frase di Carlo Levi, nell’Orologio, che vale la pena di ricordare:

Guardate le facce delle persone, i loro gesti la loro attività, non hanno perso quello che avevano trovato allora, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo, della falsa santità, degli stati e delle leggi, e di tutte le menzogne e le atrocità degli anni passati.[14]

Quelli che hanno fatto la Resistenza hanno dentro di sé una molla incomprimibile, una voglia di lasciarsi alle spalle vent’anni di dittatura, di obbedienza, di rispetto delle regole. Scriveva Giaime Pintor:

La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento…Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari…Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo.[15]

Quello di Pintor era un esempio sofferto di morale eroica; ma concetti non molto diversi ritornavano anche in chi con le categorie alfierane aveva pochissima dimestichezza. Scriveva Cesare Pavese nel suo Diario, alla data dell’8 gennaio 1940:

La prova del tuo disinteresse per la politica è che credendo al liberismo (= la possibilità di ignorare la vita politica) vorresti applicarlo tirannicamente. Senti cioè la vita politica soltanto in tempi di crisi totalitaria, e allora t’infiammi e contraddici al tuo stesso liberismo pur di realizzare presto le condizioni liberali in cui potrai vivere ignorando la politica.[16]

È una sensazione diffusissima, questa di vivere un momento costituente della nostra storia, un momento in cui viene a esprimersi una soggettività dispiegata che non rimane fine a se stessa, non rimane un desiderio narcisistico di auto affermazione, ma si trasforma in idee forza collettive.

La Costituzione nasce esattamente da questo: gli ultimi studi di Giuseppe Filippetta[17] hanno molto sottolineato questo nesso tra Costituzione e Resistenza, anche dal punto di vista degli individui, che dopo l’8 settembre si sono riappropriati della propria sovranità individuale, della propria autonomia, disobbedendo ai bandi della repubblica di Salò e obbedendo soltanto alla propria coscienza e a un imperativo categorico – come lo chiamavano gli Azionisti – che ti portava alla scelta di andare in montagna.

Questa scelta è quella che soffia il diavolo in corpo alla nostra società, quella che ci voleva per scuotere una società da vent’anni di obbedienza, di conformismo. C’è una frase nel diario di Iris Origo che dice che

la Liberazione fu veramente come la crisi acuta di un morbo che finalmente si spezzava dentro il nostro petto, come lo strappo risoluto con cui il popolo italiano riuscì con le sue stesse mani a svellere dal suo cuore un groviglio di serpi che per venti anni lo aveva soffocato. Con la Resistenza ci siamo strappate delle serpi che si annidavano nel nostro petto.[18]

Questa sensazione di libertà, di fine di un soffocamento, è fondamentale per capire come nasce la nostra Costituzione.  Questa capacità della Resistenza, di quell’idea di libertà che abbiamo attraversato, di trasformarsi in nuove regole, è veramente un qualcosa che assorbe tutta la nostra ammirazione.

Anche qui il meccanismo è semplice: che cosa era stato il fascismo dal punto di vista costituzionale? Bisognava fare assolutamente il contrario. Dal punto di vista elettorale, contro la deriva plebiscitaria, il proporzionale, la garanzia delle opposizioni, la restituzione anche ai singoli individui della capacità di incidere sugli eventi (i due articoli della Costituzione che prevedono il referendum come forma di consultazione popolare sono il retaggio di questa mobilitazione individuale). Tutto questo armamentario di regole non sarebbe stato possibile senza lo scuotimento complessivo che la Resistenza aveva provocato. Così come anche quello che viene spesso definito il compromesso costituzionale, o meglio la fusione armonica delle tre grandi famiglie politico culturali della nostra storia (il solidarismo cattolico, il filone liberale dei diritti civili e di libertà, il filone della giustizia sociale del movimento operaio) trovano la loro compiuta sintesi all’interno della nostra Carta. La mia generazione, invece, ha pagato un prezzo altissimo all’incapacità di costruire, sulla distruzione delle vecchie regole, delle nuove regole.

Anche noi abbiamo conosciuto la libertà come pulsione irrefrenabile alla rottura delle regole e alla disobbedienza; anche noi abbiamo scoperto la libertà come pulsione irrefrenabile alla disobbedienza e contro ogni tipo di assunzione di responsabilità. Le regole che noi ereditavamo erano anche quelle obsolete, frutto di una società patriarcale, contadina, rurale; noi – parlo della generazione del ’68 – eravamo i figli del boom economico, dell’Italia divenuta la quinta potenza economica mondiale; era logico che il rituale accademico della toga, la famiglia patriarcale con tutta la sua oppressività non avessero, in quel contesto, più alcun senso. Per fare un esempio: con che cosa abbiamo sostituito la famiglia? Con le comuni, che sono state degli esperimenti fallimentari.

Questo passaggio dalla libertà alle regole della libertà è cruciale in tutte le grandi rotture storiche; in quel decennio dal ’38 al ’48, così tragico per tanti motivi, quel passaggio funzionò e funzionò molto bene.


Note

[1] L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo. Appunti e ricordi 1935-1945, Einaudi, 1946

[2] Lombardo Radice, 1946

[3] E. Vittorini, Americana, Bompiani, Milano 1941.

[4] Vittorini, 1941.

[5] N. Bobbio, Introduzione, a L. Ginzburg, Scritti, Einaudi, Torino 2000

[6] Bobbio, 2000

[7] A. Garosci, L’era di Carlo Levi, in Carlo Levi. Disegni dal carcere. Materiali per una storia, Archivio centrale dello stato, Roma 1983

[8] R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano 1963

[9] U. Spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, p. 190

[10] «dire che la libertà deve essere in funzione di una riforma economica è ripiombare nel materialismo storico e dare ragione al comunismo marxistico, che fa dipendere la morale e la politica dall’economia e vilipende la libertà come un prodotto della borghesia e del capitalismo. Bel liberalismo!», citato in G. De Luna, Storia del partito d’azione, Feltrinelli, Milano 1982

[11] Precisazioni, in Italia libera, n. ????, aprile 1943  vedere in http://www.italia-liberazione.it/pubblicazioni/86/L_Italia%20libera.pdf

[12] Dall’incipit della canzone Veniamo da lontano, di Canzoniere delle lame, che a sua volta riprende la frase pronunciata da Togliatti nel discorso per la sfiducia al IV Governo De Gasperi, Assemblea Costituente, 26 settembre 1947, contenuti in Discorsi parlamentari: 1946-1951, Camera dei deputati, 1984.

[13] Concetto espresso da G. Quazza in molti suoi scritti, come ad esempio la Prefazione al volume di F. O. Zorini, La formazione del partigiano: politica, cultura, educazione nelle brigate Garibaldi, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli, 1990

[14] C. Levi, L’Orologio, Einaudi, Torino 1950.

[15] G. Pintor, Lettera al fratello (Napoli, 28 novembre 1943) in G. Pintor, II sangue d’Europa, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1965

[16] C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Nuova edizione condotta sull’autografo (con un'”Appendice” con le pagine autobiografiche di “Frammenti della mia vita trascorsa”, “Pensieri cassati”, “In sogno”) a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Einaudi, Torino 1990.

[17] G. Filippetta, L’estate che imparammo a sparare, Feltrinelli, Milano 2018

[18] I. Origo, Guerra in Val d’Orcia. Diario 1943-1944, Le balze, Montepulciano 2000

DELLA STESSA COPPIA DI PAROLE CHIAVE:

Autore:

Giovanni De Luna

Giovanni De Luna (Battipaglia, 9 aprile 1943) è uno storico, accademico e scrittore italiano, specializzato in storia italiana contemporanea. Autore di trasmissioni radiofoniche e televisive, collabora con La Stampa, Tuttolibri e il programma di Rai Storia Italia in 4D. È stato membro del comitato scientifico del programma televisivo Rai 3 Il tempo e la storia dal 2013 al 2017 e in seguito in quello di Passato e presente, programma della stessa rete con replica su Rai Storia.

Dati articolo

Autore:
Titolo: La libertà come motore della storia: l’esempio della Resistenza
DOI: 10.12977/nov368
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Numero della rivista: n.15, febbraio 2021
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La libertà come motore della storia: l’esempio della Resistenza, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021. DOI: 10.12977/nov368

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