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Imparare a imparare

Domanda: Nel libro insisti molto sull’importanza dei modelli di design degli ambienti di apprendimento.

Risposta: Tra gli equivoci connessi al digitale c’è anche l’idea di ispirarsi alla cultura visiva dei videogames […]. E poi c’è un altro equivoco didattico estremamente diffuso, che piace molto ai guru e ai ministri, che è quello dell’imparare a imparare. Si tratta di un’idea perversa: non si può imparare a imparare in modo generico. O meglio, se si impara qualcosa (taglio e cucito, programmare in C, trigonometria, storia dell’Armenia, violino o latino) si imparano le strategie che permettono di imparare, ma imparare è sempre e comunque imparare qualcosa. Se tu mi dici: vai in rete e informati sull’osteoporosi o sulla tettonica a placche, in un’ora compongo una bibliografia ragionevole anche se non so nulla di questi temi. Ma noi addetti ai lavori siamo aristocratici della conoscenza perché è una vita che abbiamo imparato a capire quali sono i buoni indici reputazionali: per esempio partiamo da Wikipedia, che ha comunque un buon livello di correttezza, vediamo chi ha scritto sul tema, andiamo sui loro siti e andiamo a vedere le fonti primarie. Per via della nostra professione siamo iperspecializzati e non c’è da sorprendersi che riusciamo poi a trovare informazioni di qualità in rete. Lo possiamo fare perché sappiamo già fare delle cose, che derivano da una formazione precedente: così sappiamo distinguere le fonti e la loro pregnanza, gli articoli ben scritti da quelli poco convincenti. Sappiamo cos’è imparare perché abbiamo imparato delle cose a fondo.

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