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La public history. Ovvero della funzione civile della storia

La public history. Ovvero della funzione civile della storia

© AIPH – Immagine di copertina del manifesto della public history elaborato dall’AIPH e scaricabile sul sito dell’associazione alla pagina https://aiph.hypotheses.org/3193

Abstract

A partire dal convegno La public history in Lombardia, nell’articolo si toccano una serie di questioni che riguardano lo studio della storia e che emergono ogni volta che si parla di public history: che rapporto esiste tra la public history e la storia accademica? La public history è solo un belletto utilizzato da “storici della domenica” per scopi cosmetici, per rendere più desiderabile e appetibile la polverosa materia storica? Oppure si tratta di un’operazione alchemica portata avanti dalla industria culturale per trasformare in merce consumabile anche la storia? O forse la public history tocca alcune questioni aperte che riguardano lo studio della storia e la funzione civile che essa dovrebbe ricoprire anche oggi?

La public history, “contenitore trendy”?

L’Istituto nazionale Parri in collaborazione con la Fondazione Isec e l’Associazione Italiana di Public History (AIPH) ha organizzato una giornata di studio dedicata a La public history in Lombardia http://www.italia-resistenza.it/in_evidenza/la-public-history-in-lombardia-2974/

L’incontro – rivolto a tutti gli interessati e in particolare a docenti della scuola e dell’università, archivisti e operatori dei differenti settori della cultura – nasce dall’esigenza di soffermarsi a riflettere sulla locuzione “public history”, un’espressione che è sempre più utilizzata in ambito storico, ma anche in ambito giornalistico e presso il grande pubblico. Che cos’è la public history? Che rapporto esiste tra questo modo di fare storia e la tradizionale disciplina storica, quella che per la scuola e l’università è definibile come la modalità scientifica di conoscere il passato? Che ruolo hanno i musei, gli archivi e la sfera dell’industria culturale nell’ambito della public history?

Uno degli aspetti importanti della giornata di studio è rappresentato dalla presenza di diverse tavole rotonde suddivise per settore in cui il conduttore e i relatori hanno avuto la possibilità di confrontarsi con altri colleghi che operano in ambiti analoghi, avendo così l’occasione di comprendere le proposte pratiche e i filoni operativi con cui si lavora nell’ambito della public history. Oltre a questi tavoli di discussione, la giornata è stata caratterizzata da alcuni momenti di approfondimento teorico che hanno inevitabilmente toccato il rapporto tra la disciplina storica “classica” e la public history, uno dei nodi più interessanti e più complessi che coinvolgono i nostri modi di rapportarci al passato e di comprenderlo con la storia. Qualche anno fa in un suo intervento su “la Repubblica” lo storico Franco Cardini, a proposito della serie tv dedicata alla famiglia dei Medici di Firenze, aveva affermato:

“Un discreto cocktail, adatto a chi ad esempio ama la public history, questo nuovo contenitore trendy che in sostanza indica la storia spiegata a gente che non la sa da parte di altra gente che non la sa nemmeno lei, un po’ l’imparacchia, un po’ l’inventa” E aggiungeva: “D’altronde, questa è evidentemente la storia che piace a un pubblico il quale non vuole né leggere né imparare, eppure sembra assatanato di voglia di fuggire dal proprio tempo. Le aule universitarie sono deserte, ma il Belpaese rigurgita di sagre e di festival nei quali si celebra il Medioevo Immaginario, l’Altrove collettivamente recitato in maschera.”[1]

Al di là del tono polemico di Cardini, in questo articolo si toccano una serie di questioni aperte: che rapporto esiste tra la public history e la storia accademica? La public history è solo un belletto utilizzato da “storici della domenica” per scopi cosmetici, per rendere più desiderabile e appetibile la polverosa materia storica? Oppure si tratta di un’operazione alchemica portata avanti dalla industria culturale per trasformare in merce commestibile per il grande pubblico anche la storia? Le risposte di Cardini in merito sono molto esplicite.

La public history come antidoto alle “memorie senza storia”

Nelle pagine del sito dell’Associazione italiana di Public History, nata nel 2016 con il sostegno dell’International Federation for Public History, a proposito di che cosa sia la Public History si legge:

“La Public History (storia pubblica) è un campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici nel settore pubblico come nel privato, con e per diversi pubblici. È anche un’area di ricerca e di insegnamento universitario finalizzata alla formazione dei public historian”.[2]

Possiamo leggere un’ulteriore messa a fuoco della definizione di public History negli “scopi” che la l’AIPH descrive:

“la promozione della conoscenza storica e delle metodologie della ricerca storica presso pubblici diversi favorendo il dialogo multidisciplinare; la valorizzazione di pratiche ed esperienze che puntano sul coinvolgimento attivo di gruppi e comunità anche nel mondo digitale; la promozione e la valorizzazione di ricerche storiche innovative e di qualità i cui risultati sono conseguiti anche grazie a metodologie e pratiche di partecipazione che consentono, talvolta, l’emersione di nuovi documenti; la definizione e la condivisione di buone pratiche professionali e accademiche di public history e di standard per la valutazione della disciplina in Italia; la crescita e la formazione di public historian che operano all’esterno degli ambienti accademici con competenze professionali nelle metodologie della ricerca, nell’insegnamento e nella comunicazione della storia; lo sviluppo della public history come nuova area di ricerca e insegnamento universitario; il contrasto degli ‘abusi della storia”, ovvero le pratiche di mistificazione sul passato finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica; la valorizzazione del patrimonio storico, culturale, materiale e immateriale del paese, in ogni sua forma; l’offerta di competenze professionali laddove la storia come sapere critico e le metodologie della ricerca storica siano necessarie anche per la risoluzione di problemi del presente”.[3]

La storia in pubblico: una disciplina a sé stante?

Per le questioni che pone, la riduzione della public history a mera operazione di maquillage di una disciplina noiosa per inconsapevoli fruitori è del tutto fuorviante. Per le stesse ragioni la public history non può essere ridotta a una dimensione hobbistica della storia. Piuttosto essa va intesa come una serie assai articolata di differenti pratiche volte a rendere attivo lo studio della storia e a diffonderlo fuori dalle mura delle scuole e delle università. Nei suoi obiettivi non è presente una contrapposizione allo studio tradizionale della storia, anzi essa si propone di diventare una nuova area di studio anche all’interno dell’università. Allo stesso tempo uno degli obiettivi prioritari della public history è proprio quello di contrastare gli “abusi della storia”, il suo utilizzo strumentale, finalizzato al mero intrattenimento o alla manipolazione ideologica. L’aspetto critico nei confronti dell’approccio storiografico tradizionale – fondato in modo più o meno esplicito sull’assunto che un pubblico di discenti passivi debba formarsi su contenuti trasferiti attraverso l’ascolto di lezioni di cui i docenti sono gli esclusivi attori – riguarda soprattutto il metodo partecipativo e la multidisciplinarietà. Proprio per questo la public history tende a definirsi più attraverso le pratiche dei modi di fare ricerca storica, che non attraverso l’individuazione della figura del public historian.

Per quanto il dibattito sia vivace e tuttora in corso, una forma di maggiore definizione dovrebbe essere raggiunta, a un anno e mezzo ormai dalla Prima conferenza di public history (svoltasi a Ravenna a giugno del 2017). Anche rispetto a quanto scritto da Flores e Pivato in questa stessa rivista a marzo dello scorso anno[4], la disciplina non può più essere intesa soltanto come semplice comunicazione della storia finalizzata a un allargamento del pubblico di riferimento; né giova continuare a tenere larghe le maglie del suo campo di azione. Qualche paletto deve insomma essere messo. Anche a questo mirano giornate come quella del 20 novembre 2018.

Una possibile definizione di Public History

Il Presidente dell’AIPH Serge Noiret – che ha partecipato alla giornata di studi e ha presieduto la tavola rotonda finale (presso la Stecca 3.0 di Milano) – ha osservato che nonostante vi siano sfumature differenti nella pratica della public history essa ormai si è affermata come:

“disciplina glocale che considera la storia e la presenza del passato nelle nostre società al di fuori del mondo accademico. La pratica della storia è sempre stata ‘pubblica’ in un certo senso. Tuttavia, i ricordi individuali e collettivi hanno invaso la sfera pubblica oggi, offrendo visioni contrastanti del passato schiacciate sul presente con, spesso, una incapacità a dimenticare che sconfina talvolta in una attrazione morbosa per le diverse ‘verità’ proposte da memorie individuali e collettive senza la storia”.[5]

Quindi secondo Noiret tra le funzioni principali che svolge oggi la public history vi è quella di riportare la storia nello spazio pubblico attraverso molteplici forme, anche tentando di contrastare l’interesse diffuso per la costruzione della propria identità attraverso la conoscenza del passato, una conoscenza che però assai spesso tende a risolversi nella diffusione di memorie pubbliche e collettive che con la razionalità storica hanno poco a che fare.

La locandina con il programma della giornata di studi

Lo storico “non è un carrozziere”

Proprio le pratiche del fare storia con e nella public history sono state al centro delle due comunicazioni iniziali, tenutesi alla Casa della Memoria. La prima relazione di David Bidussa (Fondazione Feltrinelli) si è aperta con l’affermazione secondo cui la public history non è una disciplina ma appunto “una pratica”. Molto presente ancora oggi nella cultura contemporanea è l’idea che “se racconto la storia, racconto il vero”. Gli storici – ha affermato Bidussa – non sono studiosi che “rimettono a posto le cose, gli storici non sono carrozzieri”. Compito dello storico dovrebbe essere quello di produrre discorsi sulla storia che si aprano al confronto dialettico e alla condivisione, fare discorsi che possano essere confrontabili pubblicamente: ecco il senso della presenza dell’aggettivo public nella locuzione public history.

Il valore civile del “fare storia”

La lontananza della valutazione di Bidussa della public history rispetto all’atteggiamento di chiusura di Cardini è emersa anche nelle sue considerazioni sulle accuse che Galli Della Loggia muove alle numerose sviste presenti nel romanzo M di Antonio Scurati. Nei articoli pubblicati sulle pagine del “Corriere della sera” Galli Della Loggia osserva che gli errori che si trovano nel romanzo di Scurati non sono “errori qualunque”. Anzi: “Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali”.[6]

Fissare l’attenzione solo su alcuni errori, sviste o problemi di carattere redazionale secondo Bidussa è “un autogol” per la storia, perché si evita di toccare la questione essenziale: come si parla di fascismo in quel romanzo? Come sono utilizzati i materiali storici relativi alla vita di Mussolini e alla società italiana fascista? In che modo in quel libro si apre un dialogo vivo tra gli italiani del XXI secolo e il fascismo? In che senso in quel libro si fa storia con un valore civile?

Come Bidussa ha osservato in Dopo l’ultimo testimone, “la storiografia quando ha un valore civile non consola, bensì pone domande, e probabilmente è anche per questo che nonostante tutti dichiarino di amare la storia, di provare per essa un interesse quasi morboso, poi tengono la storiografia a distanza”[7].

Distanza e co-appartenza

Ci sono molteplici esempi estremamente positivi che colgono il senso più profondo della public history; tra questi Bidussa ne ha ricordati due.

Innanzitutto, la mostra dedicata al Sessantotto realizzata dalla Fondazione Isec[8]. Il principio secondo cui questa mostra è stata pensata è di mettere a confronto diversi percorsi di testi e immagini, lasciando che sia poi il visitatore a operare attivamente una ricostruzione del passato cogliendo, attraverso la procedura comparativa, ciò che di quegli ideali e di quelle aspirazioni è ancora vivo.

Altro esempio virtuoso è il tipo di lavoro che la Associazione Deina[9] ha concepito e messo in pratica per i suoi viaggi della Memoria: partire dall’emozione e attraverso un viaggio arrivare alla comprensione della storia. In sintesi, per Bidussa sono dunque in gioco due movimenti nella comprensione storica: un movimento di tipo archeologico attraverso cui misurare la distanza rispetto a eventi del passato e un movimento genealogico mediante cui valutare la co-appartenza a ciò che è cronologicamente lontano nel tempo, ma ancora vivo nel presente. Proprio l’intreccio di questi due fili è ciò che la public history cerca di attuare nel suo porsi in relazione alla storia, in un rapporto dialettico fra questa, il pubblico e i linguaggi comunicativi usati.

La domanda sociale di storia, ovvero pratiche e rischi del public historian

Anche la relazione di Mirco Carrattieri (Istituto nazionale Ferruccio Parri) si è concentrata sulla public history in quanto pratica. Infatti, proprio osservando il tipo di pratiche che la caratterizzano, possiamo riconoscere differenti declinazioni della public history, tutte però contraddistinte da un’idea di storia che si configura come punto di incontro di pubblico e privato, di ipotesi di lavoro e strategia narrativa. È proprio osservando attentamente queste differenti declinazioni della public history che si possono riconoscere i pericoli che ciascun public historian dovrà cercare di evitare. Il primo e forse più superficiale modo di fare public history è quello di incarnare la popular history, ovvero intenderla come divulgazione storica. Il rischio cui si va incontro è la banalizzazione. Un secondo modo di intendere la public history è come “storia applicata”, cioè cercare di leggere la storia tentando di rispondere a una domanda, che è quella proveniente del pubblico. In questo caso, il rischio cui si va incontro è la strumentalizzazione. Una terza declinazione della public history è infine fare la storia con il pubblico, con quest’ultimo ad accompagnare l’operazione di costruzione della storia. Il rischio, in questo caso, potrebbe essere quello di una deriva relativistica.

Occorre comunque sottolineare che la public history intende la storia come costruzione di competenze e non come trasferimento di contenuti. Partendo dall’assunto che la domanda di contenuti storici oggi sia in aumento e che ignorare il passato porta inevitabilmente con sé la creazione di un passato immaginario, la public history può rappresentare proprio in questo senso il futuro della disciplina storica; la sfida della public history sembra quindi quella di intrecciare lo studio della storia con la domanda sociale di storia e con i processi sociali in atto.

Un pubblico che fruisce e agisce

Nella tavola rotonda finale si sono confrontati tutti i portavoce dei diversi tavoli che hanno condotto la discussione, tentando di affrontare in che modo la public history è praticata e declinata – e con quali prospettive future – all’interno di ciascun ambito: biblioteche e archivi, università, scuola, industria culturale, imprese, musei e luoghi. Nel corso del confronto tra i diversi portavoce è emerso come la public history sia sempre da intendersi come un dialogo tra la conoscenza storica e un pubblico che tende a diventare sempre più agente attivo e non fruitore passivo della disciplina. Per questo la public history punta a radicare la conoscenza storica nella società, in particolare a farne emergere la funzione civile. In questo senso uno dei compiti principali che la public history impone agli storici è quello di far posto alla storia nello spazio pubblico e farla agire anche per costruire senso, socialità, cittadinanza.

Bibliografia e sitografia

Note:

[1] F. Cardini, In tv vince la fiction, ma i Medici dove sono finiti?, in “La Repubblica” online del 20 ottobre 2016 [https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/20/in-tv-vince-la-fiction-ma-i-medici-dove-sono-finiti38.html], url consultata il 17 dicembre 2018.

[2] Manifesto della Public History italiana [https://aiph.hypotheses.org/3193], url consultata il 17 dicembre 2018

[3] Ibidem

[4] M. Flores e S. Pivato, A proposito di Public History, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov208 [https://www.novecento.org/uso-pubblico-della-storia/a-proposito-di-public-history-2152/] url consultata il 17 dicembre 2018

[5] S. Noiret, Introduzione, in P. Bertella Farneti, L. Bertuccelli, A. Botti, Public History. Discussioni e pratiche, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 18.

[6] E. Galli della Loggia, «M» di Antonio Scurati, il romanzo che ritocca la storia, in “Il Corriere della sera” versione online, 13 ottobre 2018 (modifica il 14 ottobre 2018 | 22:00) [https://www.corriere.it/cultura/18_ottobre_13/m-antonio-scurati-romanzo-che-ritocca-la-storia-1055c170-cf09-11e8-a416-b8065213a278.shtml], url consultata il 17 dicembre 2018

[7] D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009, p. 13.

[8] [https://www.fondazioneisec.it/news/mostra-un-grande-numero] Url consultata il 17 dicembre 2018

[9] https://www.deina.it/, url consultata il 17 dicembre 2018

Dati articolo

Autore:
Titolo: La public history. Ovvero della funzione civile della storia
DOI: 10.12977/nov277
Parole chiave:
Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, La public history. Ovvero della funzione civile della storia, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov277

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