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L’emigrazione di massa in Italia e dall’Italia in età contemporanea

Alcune riflessioni su integrazione, religione e cultura nel confronto fra “antica” e “nuova” emigrazione

Migranti nel Mediterraneo. Foto di Vito Manzari from Martina Franca (TA), Italy – Immigrati Lampedusa,, CC BY 2.0, Link

Abstract

Si è spesso tentati di comparare grossolanamente l’ “antica” emigrazione italiana verso l’Europa e le Americhe con la “nuova” immigrazione di stranieri verso il nostro Paese. L’intento è per lo più quello di marcare le differenze, piuttosto che di sottolineare le similitudini. Una prospettiva storica sulla natura e la portata delle migrazioni induce ad affrontare la complessità della tematica con cautela e attenzione. Si cercherà qui di dar conto di alcune evidenze storiche e di suggerire riflessioni in merito ai temi dell’appartenenza religiosa – in ispecie islamica – e dell’integrazione culturale, in un’ottica di possibile  comparazione.

PREMESSA

Da storico dell’emigrazione quale sono, è capitato più volte che mi venisse richiesto di confrontare le due esperienze storiche della “antica” emigrazione italiana e della “nuova” immigrazione straniera in Italia. Riflessioni e osservazioni sull’argomento sono state spesso affidate, negli ultimi trent’anni, a quei peritesti o paratesti dei miei libri di storia dell’emigrazione (prefazioni, introduzioni, postfazioni ecc.) con cui mi pareva giusto dar conto di un personale lavoro d’indagine ma anche, al tempo stesso, delle mie preoccupazioni di studioso e di cittadino. Sforzo virtuoso ancorché piuttosto inutile a giudicare dal mancato riscontro che quei paragoni, come la maggior parte degli scritti “di soglia” degli autori minori o periferici, per dirla con Gérard Genette, facevano (e fanno tuttora) registrare con desolante regolarità. D’altro canto, e con una progressione fattasi vistosa già nei primi anni del nuovo millennio, si è andata affermando in Italia una sempre più vasta produzione specialistica sull’immigrazione di tipo demografico, sociologico e persino letterario, che ha scoraggiato la prosecuzione di ogni tentativo storico comparatistico, almeno da  parte mia.

Trascorsi molti altri anni, a mettere a posto le cose è arrivato il tempo della vera e propria ricostruzione storica d’insieme del fenomeno immigratorio nel nostro paese dalla fine del secondo conflitto mondiale in avanti per merito di Michele Colucci, che tra il 2001 e il 2002 aveva contribuito come segretario di redazione all’uscita – e alla riuscita – di una grande Storia dell’emigrazione italiana edita da Donzelli[1] e che nel 2008 aveva anche pubblicato, presso lo stesso editore, un ottimo profilo della nostra emigrazione postbellica[2]. Dell’ultimo suo libro, che è anche il primo ad affrontare in chiave storica l’intero decorso dell’immigrazione in Italia in età contemporanea – Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2018 – ci si può utilmente servire per mettere a fuoco tutte le tappe di una evoluzione che ha portato allo stabilizzarsi ai giorni nostri nel nostro Paese di una massa considerevole di immigrati (più di 5 milioni[3]), la cui storia e le cui peripezie cominciarono a prender forma in misura sensibile all’incirca 50 anni or sono,  trovando slancio e “conferme” definitive intorno al 1990, l’anno, non a caso, della “Legge Martelli” giunta, anch’essa in modo altrettanto poco casuale, all’indomani della caduta del Muro di Berlino e della uccisione tristemente famosa del rifugiato sudafricano Jerry Essan Masslo nel 1989.

 

DIVERSE FASI MIGRATORIE

I dati dei censimenti realizzati dopo quella data mettono in evidenza un salto di qualità rispetto alle fasi precedenti, ossia quella postbellica compresa tra la metà degli anni quaranta e la fine degli anni sessanta – legata più che altro a movimenti di profughi e di lavoratori domestici provenienti dall’esterno – e l’altra che le aveva tenuto dietro dalla metà degli anni Settanta sino appunto al 1989, con flussi sempre più consistenti di lavoratrici e di lavoratori stranieri (il cui gruppo già nel 1978 assommava  a quasi  mezzo milione di persone). Nel  corso di un ventennio, tra il  1991 e il 2011, si è passati dalle 649.00 unità del 1991, alle 1.334.889 del 2001 e alle 4.029.145 del 2011 con un incremento costante che, sottolinea Colucci, avrebbe rallentato, senza mai fermarsi, solo negli anni seguiti alla crisi economica del 2008. Negli ultimi anni, la questione degli “sbarchi” – fenomeno che ha caratterizzato soprattutto il triennio 2014-2017 – sembra essere l’unico aspetto del fenomeno migratorio interessante i media, mentre agli oltre 5 milioni di stranieri residenti nel nostro Paese nessuno sembra porre attenzione.

La storia dell’immigrazione, suggerisce Colucci, si può leggere però anche attraverso la crescita delle acquisizioni di cittadinanza, «che nonostante le norme restrittive presentano un progressivo aumento: nel 2002 erano 12.267, nel 2016 201.591». Le stesse peculiarità dell’immigrazione in Italia, inoltre, rimandano ad alcune evidenti sue caratteristiche, come l’eccezionale varietà delle provenienze geografiche; l’equilibrio tra donne e uomini (con una costante tendenza, però, a favore delle donne); la distribuzione articolata nel territorio e nei comparti produttivi della  forza lavoro straniera; la tendenza (deprecabile) da parte delle nostre istituzioni a gestire il fenomeno, fino agli anni di crisi più recenti, attraverso periodiche sanatorie; l’incapacità e la difficoltà delle nostre classi dirigenti a governare i flussi dei richiedenti asilo nonché il crescente protagonismo pubblico degli immigrati stranieri in difesa dei propri diritti  e la diffusione,  infine,  di una inevitabile conflittualità generata dallo scontro, tuttora in atto nel nostro paese, tra razzismo e antirazzismo. Di una parte di tali caratteristiche non si troverà traccia nelle annotazioni che seguiranno nelle quali, tuttavia, figurano paragoni e approfondimenti desunti dallo studio dell’emigrazione italiana e dei problemi ai quali essa andò incontro all’estero fra Otto e Novecento[4].

 

“ANTICA” E “NUOVA” EMIGRAZIONE A CONFRONTO

Per quanto schematica e rudimentale sia, la comparazione spontanea fra “antica” emigrazione italiana nel mondo e “nuova” immigrazione straniera in Italia risulta ormai da lungo tempo insediata nell’immaginario nazionale ed è anzi entrata di slancio a far parte dei luoghi comuni discorsivi del nostro Paese. Non senza fondate ragioni, ma con rischi continui di fraintendimento in agguato (e di rado, peraltro, tenuti deliberatamente a bada), essa ha dato luogo, sul filo di un vistoso paragone, a iniziative giornalistiche e pubblicistiche di diseguale valore intorno alla vecchia epopea migratoria italiana. Libri, romanzi e reportages di successo (su tutti quelli di Melania Mazzucco e di Gianantonio Stella) ne parlano da anni con viva partecipazione, mentre varie rivisitazioni dell’argomento sia teatrali che, più spesso, musicali (ma pure cinematografiche: si pensi anche solo a film come Nuovomondo di Emanuele Crialese) si sono venute moltiplicando pressoché in parallelo con l’accrescersi, sulla stampa periodica e quotidiana, di un significativo afflusso di lettere e di testimonianze “di prima mano” della gente comune, per lo più in memoria elogiativa dei “nostri” e “contro” la lamentabile immigrazione altrui. Tutti, stimolati dai media e sollecitati dalle esternazioni dei più diversi esponenti populisti in servizio permanente effettivo sul palcoscenico della politica locale e nazionale, sembrano voler dire la loro e ovviamente rivendicano un primato interpretativo dei fenomeni messi grossolanamente a confronto. Questi ultimi, sottratti così all’analisi storica propriamente intesa o arbitrariamente estrapolati da alcuni dei suoi esiti più ovvi e meglio divulgati, finiscono quindi per configurare un uso pubblico della storia tendenzioso (com’è normale), ma a due uscite.

Nel primo caso, quello dei giornalisti come Stella, sembra abbastanza evidente o appare comunque maggioritaria la virtuosa propensione a ricordare in prevalenza, e in chiave etico-ammonitoria, le similitudini – delle quali vi è una certa abbondanza – tra i comportamenti dei “nostri” emigranti all’estero e le successive reazioni degli immigrati alle sfide poste oggi dal loro bisogno d’integrazione fra noi. Nel secondo, quello delle lettere ai giornali (ma, si potrebbe dire, anche delle conversazioni correnti da bar o da viaggio), pare viceversa più radicata e frequente la tendenza non solo a operare dei distinguo, bensì addirittura a formulare crudeli recriminazioni quasi tutte basate, per dirla sommariamente, sull’idea di una presuntivamente congenita superiorità civile e morale dei “nostri” emigranti (ed emigrati) contrapposta, di solito con furore, ai livelli animaleschi e “predatori” di vita che sarebbero, secondo gli opinanti, appannaggio esclusivo altrui, ovvero frutti del ritardo culturale connaturato all’“indole” degli stranieri giunti in numero eccessivo (o proprio perché “giunti in numero eccessivo”) nel nostro Paese.

È a questo preciso stato di cose che occorre sempre fare riferimento, se si vuol procedere, come tenteremo di fare qui, a una seria disamina dei problemi evocati dal desiderio di conoscere più a fondo la natura e la portata delle migrazioni in prospettiva storica e in rapporto ai temi dell’appartenenza religiosa, della cultura multietnica e dell’integrazione.

 

L’EMIGRAZIONE ITALIANA FRA OTTO E NOVECENTO

L’indagine storica può fornire alcune indicazioni importanti su dimensioni, configurazione e durata dei diversi flussi migratori. Innanzitutto, va ricordato che l’emigrazione italiana di massa, preannunciata lungo tutta l’età moderna (secoli XV-XVIII) da episodi corposi e continuati di mobilità territoriale maschile, soprattutto dalla montagna e dall’arco alpino, cominciò ad assumere visibilità e grande consistenza all’indomani dell’unificazione politica della penisola durante le decadi 1860 e 1870, quando ebbero anche inizio, in Italia, le sue prime misurazioni ad opera della Direzione Generale di Statistica del Regno. Già in quel periodo le partenze (e i rimpatri) da varie parti del paese assommavano a parecchie decine di migliaia all’anno, presentando inoltre, dopo il 1875, la novità, in qualche caso parziale ma per lo più dirompente, di lontane mete extraeuropee e transoceaniche da perseguire: tra il 1876 e il 1885, ad esempio, la media annua degli espatri si attestò sull’ordine delle 130 mila unità (con l’Europa che ancora faceva registrare il doppio, sempre in media annua, delle uscite rispetto alle Americhe: 85 mila contro 42 mila), ma già dal 1886 al 1895 si delineava il profilo del “biblico” esodo transoceanico (la media annua “americana”, 138.000, superava allora per la prima volta quella europea, 97.000,  mentre il totale toccava la cifra ragguardevole dei 239 mila partenti). La grande emigrazione di estrazione rurale per l’America, che era destinata a colpire maggiormente l’opinione pubblica del tempo (e la sua fantasia: velieri, odissee marine, naufragi, vita di stenti in fazenda ecc.), procedeva allora, in netta preponderanza, dalle regioni del nord e si dirigeva a preferenza nel nuovo continente verso i paesi del cono sud di lingua e cultura ispano-portoghese come il Brasile e l’Argentina, dove esistevano opportunità reali di occupazione dei suoli liberi da riscattare e da mettere proficuamente a coltura.

A metà degli anni Novanta, a ridosso della crisi di fine secolo XIX e del fallimento dei disegni crispini di espansione coloniale in Africa, accanto alla tradizionale emigrazione periodica e temporanea verso vecchie e nuove mete nel cuore dell’Europa più avanzata (Germania, Francia, Svizzera, parte dell’Impero asburgico ecc., per medie annue di 189 mila e di 242 mila nelle decadi 1896-1905 e 1906-1915), in buona sintonia con l’estensione presa anche dalle altre correnti emigratorie “mediterranee” contemporanee (quelle della cosiddetta “new emigration” in Usa), si andò affermando la crescente attrazione dei grandi mercati di lavoro nordamericani. L’emigrazione transoceanica – verso gli Stati Uniti e il Canada, ma ancora in qualche misura verso la stessa America Latina – contava, a fronte delle cifre appena riportate per l’emigrazione continentale, tra il 1886 e il 1905 e tra il 1906 e il 1915, rispettivamente 234 mila e 347 mila partenze l’anno.

 

CENTO ANNI, VENTISEI MILIONI

Negli Usa e in Canada presero sistematicamente a portarsi, specie dal Meridione d’Italia e in quantità ogni anno crescente, i protagonisti delle principali ondate che sino alla metà degli anni Venti del Novecento – con l’ovvia eccezione del quinquennio di guerra (1914-1918) –, diedero poi vita ai grandi insediamenti italiani, quasi tutti urbani, del Nord America. Mentre, senza mai escludere tra i meridionali i napoletani o i calabresi, le stesse nuove metropoli sudamericane come San Paolo e Buenos Aires vedevano via via ingigantirsi una popolazione immigrata di origine centro-settentrionale (liguri, lombardi, emiliani, marchigiani, toscani, piemontesi, veneti, friulani), New York e un numero considerevole di città costiere degli Stati Uniti e del Canada conoscevano a loro volta la prodigiosa espansione delle collettività o “comunità” immigratorie italiane “del sud”, addensate in quelle enclaves etniche che presto presero il nome di Little Italies, ma che si sarebbero ben potute definire Little Naples, poiché abitate in netta prevalenza da uomini e da donne provenienti da tutto il Mezzogiorno. Napoletani (e siciliani) a parte, furono queste nuove leve meridionali di calabresi, abruzzesi, pugliesi, lucani e molisani – anche qui senza dimenticare la compresenza minoritaria di gruppi originari di altre regioni – ad animare e a caratterizzare il panorama complessivo di un fatto destinato più tardi a incoraggiare fra gli studiosi l’uso di termini connotativi a tratti forse impropri ma di assoluta eloquenza (diaspora, esilio transnazionale ecc.) anche perché estensibile, frattanto, ai processi che stavano conoscendo anche numerose città europee come, ad esempio in Francia, Marsiglia, Lione o  Parigi.

Al di là dei suoi risvolti quantitativi (solo fra il 1876 e il 1925 in totale più di 15 milioni di emigranti “bilanciati” dal rimpatrio di circa la metà per un saldo di quasi 8 milioni), e prima della  provvisoria chiusura degli sbocchi emigratori fra il 1926-1929 e il 1946, un tale fatto condusse alla disseminazione definitiva nel mondo di altrettanti milioni di italiani e di loro discendenti (sul finire dell’entre-deux-guerres si calcola che potessero essere già una ventina di milioni). Con la ripresa postbellica seguita alla fine del secondo conflitto mondiale[5] e almeno sino allo scadere della decade 1950, con un rafforzamento, se possibile, delle tradizionali destinazioni europee (Belgio, Inghilterra e Svizzera, ma soprattutto Francia, unico Paese raggiunto in massa anche fra le due guerre e, dopo il 1955, Germania Federale), l’emigrazione dall’Italia proseguì per quasi altri trent’anni il suo cammino a ritmo assai sostenuto (circa 6 milioni e mezzo fra il 1946 e il 1973 a fronte di un 60% di rimpatri nel periodo), sino alla svolta – non solo petrolifera dunque – del 1973. Da quella data si andò modificando, senza del tutto estinguersi (si pensi, in prospettiva, alla odierna “fuga dei cervelli”), consegnandosi infine all’esegesi a caldo dei primi commentatori del suo declino e del suo assetto di lunga durata come fenomeno di entità grandiosa sia in sé, che per le proprie conseguenze (o discendenze, come minimo demografiche) nelle diverse parti del globo raggiunte dai nostri connazionali. Nel 1974, non senza ragione, la rivista già di Calamandrei, “Il Ponte”, poteva incentrare uno dei suoi classici contributi monografici proprio su tali circostanze alludendo alla mera contabilità statistica degli espatri e rimarcando l’“enormità” dei numeri in un arco appunto secolare (1873-1973) con un titolo a effetto, ma del tutto appropriato: Emigrazione: cento anni 26 milioni.

 

LA “NUOVA” IMMIGRAZIONE NEL NOSTRO PAESE.

Se ora, per quanto concerne durata, proporzioni e tipologie ci dovessimo trasferire sul versante dell’odierna immigrazione straniera in Italia dovremmo constatare intanto che essa ebbe, sul finire del secolo scorso, un andamento inizialmente lento e contrassegnato, alla nascita, da premesse modeste. Non paragonabili, comunque, con quelle che avevano fatto le loro prove in Italia, anche solo nell’arco alpino, fra Cinque e Settecento. Lasciando, infatti, da parte ogni possibile anticipazione d’insediamenti stranieri nelle città italiane (specie di mare) durante il Medio Evo e lungo tutta l’età moderna con scarse e sporadiche permanenze nel corso dell’Ottocento – che non a caso rimandano a diverse tipologia di presenze ben studiate da Giovanni Pizzorusso[6] e da Andrea Zannini[7] – all’alba della decade 1970, gli immigrati soggiornanti in Italia sono ancora sostanzialmente pochi, oscillando fra le 150 e le 200 mila unità con una incidenza (e una visibilità) maggiormente elevata per quella loro componente più legata al lavoro domestico femminile delle cosiddette colf in arrivo dalle Filippine, dalle Isole di Capoverde, dallo Sri Lanka ecc.

La situazione aurorale è abbastanza lenta a modificarsi e a evolvere se nel corso del decennio successivo produce solo aumenti graduali sull’ordine del 6/7% all’anno consentendo tuttavia, già alla fine del 1987, di far registrare il superamento della soglia critica del mezzo milione di unità: conseguenza evidente di una prima sanatoria o regolarizzazione rispetto agli ingressi illegali spalmata lungo un triennio (1986-1988) in forza di legge[8]. L’incremento vero e proprio dell’immigrazione ha luogo tuttavia durante gli anni Novanta, quando il numero dei soggiornanti stranieri raddoppia (da 649.000 nel 1991 a 1.341.000 nel 2000), e quando diventa compiutamente di massa, manifestando peraltro alcune caratteristiche proprie poco riconducibili a quelle che avevano contraddistinto l’esodo, anche più subitaneo, verso le Americhe nell’Italia di fine Ottocento. Le sconfitte subite dai braccianti padani nelle lotte proto-sindacali della Boje e i dislivelli di classe acuiti dagli interventi repressivi di un regime pur tendenzialmente autoritario com’era quello crispino, non sono ad esempio – come push-factor – nemmeno lontanamente apparentabili ai motivi di espulsione che condussero in Italia, soprattutto nei primi anni Novanta del Novecento, una parte almeno – e spesso la più “tumultuosa” e dolente per chi ricordi Lamerica di Gianni Amelio o, de visu, gli sbarchi degli albanesi a Brindisi e in tutta la Puglia di quella fase – dei nuovi soggiornanti. L’inizio delle guerre etniche e fratricide che segnarono la dissoluzione dell’ex Jugoslavia e che costrinsero al vero  e proprio abbandono coatto dei paesi natali molte persone (in prima istanza da definirsi come profughe), innescò per certo l’avvio di robuste catene migratorie che durano sino ai giorni nostri e tuttavia adombra una situazione un po’ differente da quella che già aveva reso l’Italia, fra il 1946 e il 1956, teatro di un dimenticato rimescolìo di  genti: ossia di esuli e  di rifugiati immessi già allora, da noi, in campi di accoglienza provvisoria (gli stessi, sia detto en passant, ex campi di concentramento italiani del secondo conflitto mondiale…) e che possono misurarsi nell’ordine delle centinaia di migliaia.

 

LA SVOLTA DEGLI ANNI NOVANTA

Dal 1991 in poi, per qualche anno, nel novero dei nuovi arrivati si distaccano, assieme agli albanesi e agli slavi del sud, anche alcune etnie numericamente più forti, ovvero meglio rappresentate, e di provenienza africana e nordafricana: marocchini, maghrebini, tunisini e poi senegalesi, ivoriani, nigeriani, ecc.. Intorno alla metà della decade Novanta, inoltre, e come conseguenza della fine del comunismo di Stato in Russia e nell’Est, appare evidente e si consolida l’aumento, anno dopo anno, degli arrivi di altri gruppi provenienti dall’Europa centro-orientale (rumeni, polacchi, ucraini ecc.), i quali in alcuni casi (polacchi, moldavi, rumeni) si ritagliano, com’è abbastanza noto, nicchie d’impiego del lavoro domestico femminile mai o quasi mai esistite – se si prescinde dal baliatico –  presso l’“antica” immigrazione italiana all’estero. Mi riferisco alla pratica di lavoro subordinato e assistenziale davvero tutta nostra, e postmoderna quanto basta, del “badantato”, più che non alle forme della mendicanza mascherata dei “vecchi” lavatori di vetri polacchi e d’altra etnia  ai semafori, o dei molti minori spinti sulle strade, accanto a sinti e rom, ad elemosinare la giornata.

Nel 1997, ad ogni modo, con il superamento fatidico della soglia d’alto valore simbolico del milione di unità, il fenomeno – oggetto di ormai ricorrenti attacchi e di strumentalizzazioni da parte dei movimenti populisti e xenofobi, ma anche fonte sul piano della criminalità, sia comune che organizzata di problemi di fatto gravi e, talora, gravissimi – si delinea in modo inequivocabile quale effetto d’uno squilibrio strutturale nell’accesso alle risorse nel mondo globalizzato da parte degli abitanti di paesi perennemente in via di sviluppo (o seccamente sottosviluppati) ed anche, beninteso, quale contraccolpo di evidenti divari demografici e di stridenti disponibilità occupazionali di cui si avvantaggia, con molte proprie imprese, il Paese ricevente e nel quale, fra il 2000 e il 2006, si assiste quasi al raddoppio delle cifre d’inizio millennio: dal milione e seicentomila persone stimate allo scadere del 2001 si passa nel 2006 a quasi 3 milioni di unità ufficialmente accertate. Esclusi, quindi, clandestini e illegali.

Molto è stato scritto sul conto del loro insieme, ma qui basterà sottolineare come rispetto all’“antica” emigrazione italiana esso presenti ora, assieme a una certa quantità di analogie motivazionali ed esistenziali, differenze e divergenze piuttosto marcate: il livello di alfabetizzazione e di istruzione dei nuovi migranti è infatti mediamente più elevato; il tasso di femminilizzazione dei flussi superiore (almeno rispetto a quello nostro fra il 1870 e il 1900, anche perché rafforzato da una componente deviante reclutata a forza, o con la forza del ricatto economico, onde alimentare il fiorente mercato prostituzionale italiano); la frammentazione etnica dei gruppi in presenza, non solo nelle città, davvero enorme (dalle 50 alle 60 le etnie rappresentate massime in alcune regioni del Nord, sebbene i primati numerici rimangano costantemente appannaggio di marocchini e nordafricani o, per altri versi, di slavi e bengalesi); gli addensamenti urbani etnicamente assai più compositi e la questione religiosa e culturale, infine, alquanto problematica.

 

LA QUESTIONE RELIGIOSA

La questione religiosa, delicatissima da gestire quasi per definizione, emerge più spesso a contatto con la sovraesposizione della presenza d’immigrati di fede musulmana, soprattutto dopo la radicalizzazione dei conflitti culturali a livello planetario seguita all’attentato di New York dell’11 settembre 2001, all’avvento del terrorismo internazionale di matrice islamica e all’affermarsi in Usa – precedente e non conseguente peraltro – della dottrina neoconservatrice di Samuel P. Huntington (autore, nel 1993, dello iettatorio e prefigurante The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order), di Paul Wolfowitz e, in genere, dei compassionevoli componenti dell’establishment di governo petrolifero nordamericano.

La presenza in Italia, fra gli immigrati, di un numero assai elevato di musulmani, di diversa provenienza geografica (nordafricana e africana, medio-orientale, ma anche balcanica e asiatica) e quindi, spesso, all’interno del gruppo, di differente cultura, non dev’essere sottovalutata, ma nondimeno è stabile, in proporzione. Lo è almeno dal 1992, quando le statistiche già indicavano come consolidata la presenza di alcuni gruppi “storici” (i marocchini delle regioni di Casablanca e di Beni Mellal, quasi centomila, in Italia del Nord; i tunisini, oltre cinquantamila, impiegati nella Sicilia occidentale sia sui pescherecci di Mazara del Vallo sia come braccianti agricoli stagionali; gli albanesi, quasi trentamila, disseminati per tutta la penisola al pari d’altronde dei senegalesi muridi, nerbo di un noto esercito di vu cumprà di pari entità numerica, e via via, a seguire, gli egiziani, i somali, gli iraniani, i pakistani i nigeriani ecc.) che nella seconda decade del nuovo millennio si quantifica in cifre accresciute, ma in proporzione al flusso generale equivalenti, dalle quali si desume con facilità che essa costituisce poi, sul totale, soltanto una robusta minoranza (il 33%, contro il 52,2% di componente cristiana).

Si tratta di gruppi che hanno difficoltà d’integrazione a causa del fatto che molti strumenti di “autodifesa”  (e di ordine organizzativo, ricreativo, scolastico ecc.) da essi adottati, e normali in ogni immigrazione, subiscono, nell’attuale contesto storico e politico, delle forti torsioni fattuali e d’immagine. L’associazionismo immigratorio e le scuole religiose (madrasse), ad esempio, di cui gli stranieri di fede islamica si avvalgono non meno di altri gruppi e che anche nella storia dell’emigrazione italiana all’estero trovano riscontro, pongono senz’altro dei problemi complessi non di rado richiamati con enfasi dalla nostra stampa d’informazione.

Essi riguardano gli scopi che il vincolo associativo presuppone e che sono diversamente declinati a seconda delle differenti aggregazioni che ne promuovono l’attività (al gruppo moderato e conciliativo sorto a ridosso della Moschea di Roma e meglio noto come “Islam moderato” si contrappone, ad esempio, la infaustamente celebre “Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia”, in sigla UCOII, antisionista e politicamente alquanto radicale), ma non possono essere affrontati ove si prescinda da una corretta analisi delle loro principali finalità e dei loro modi di funzionamento[9]. Di nuovo, allora, vale la pena di gettare uno sguardo sugli scenari che in simile materia prospettò, fin che visse, l’immigrazione italiana in seguito al proprio radicamento, in America, in Australia e in Europa, fra Little Italies e Petites Italies, fra quartieri etnici e grandi collettività urbane, fra borghi coloniali/rurali e cittadine operaie o minerarie ecc… del vecchio e del nuovo mondo di cui i piccoli ghetti di San Salvario a Torino (o di Via Anelli a Padova, di Piazza Vittorio a Roma ecc.) costituiscono solo una pallidissima copia.  Quanto peso ebbero al loro interno, potremmo domandarci, le appartenenze di tipo religioso e le necessità d’ordine associativo e assistenziale sorte per soddisfare bisogni elementari e del tutto intuitivi, ma anche con il duplice scopo di contrastare da un lato le tentazioni xenofobe dei “veri nativi” o “figli del paese” e di promuovere, da un altro, forme organizzate di negoziazione e di mediazione con la società (a buon punto persino politica) ospitante?

 

I PREGIUDIZI DEL PASSATO

La storia dell’emigrazione italiana, da tale punto di vista, non è avara d’insegnamenti e parla, attraverso la voce di coloro che hanno cercato di ricostruirne le tappe, di una realtà molto più frammentata, irrequieta e litigiosa di quanto comunemente si pensi. L’assenza, anche in Italia, tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo di un sentimento diffuso e condiviso di appartenenza nazionale si riflette all’estero nel fiorire, ad ogni livello e per lunghissimo corso d’anni, di diatribe campanilistiche e di contrasti regionali fra i protagonisti della nostra immigrazione che non si sentono granché italiani e che sovente, in nome di forti identità paesane e provinciali, si fronteggiano in cagnesco contrapponendosi gli uni agli altri. Settentrionali e meridionali, ma anche abitanti originari di questo piuttosto che di quel villaggio del Bel Paese modulano sulla base di tradizioni e di subculture locali il proprio dinamismo associativo e “patriottico”. La lingua stessa non soccorre sin tanto che prosperano e prevalgono parlate e dialetti poco comunicanti fra loro. A unificare i contendenti, pur preferendo quasi ovunque, fra essi, i settentrionali (più graditi perché ritenuti più vicini o più simili alle popolazioni di ceppo nordeuropeo), saranno paradossalmente, con i loro pregiudizi e con le loro offese indiscriminate, i nativi e le autorità dei paesi di accoglienza che equiparano a lungo, per la loro estrazione latina e mediterranea (quand’anche fossero piovuti da impervie zone alpine o dalla stessa Valle del Po) tutti gli italiani, sommariamente considerati, al tipo degli “uomini del sud”, dalla pelle scura e d’incerta identità razziale, nonché dalle barbare e primitive culture del sangue e del coltello.

Già qui si potrebbero intravedere alcuni punti di contatto, all’interno di una nota polemica contro gli stranieri, fra le situazioni di un tempo e quelle odierne, specie se si accetti il parere di quegli studiosi che non senza ragione segnalano, e non solo per gli Stati Uniti d’inizio Novecento, la ciclica ricomparsa nelle opinioni pubbliche locali dei vecchi residenti di giudizi visibilmente sommari sull’atavicità dei costumi e degli atteggiamenti di molti immigrati italiani sfumando rovinosamente in condanne razziste e senza appello per quelli di loro (o, meglio, a causa di quelli di loro) che in percentuale discreta si trovano ad affollare, fra Mano Nera e gangsterismi in sorte, le aule e le cronache giudiziarie come le pagine di libri e di giornali. La Mafia italo-nordamericana, da tale punto di vista, appare emblematica di una condizione ben nota, ma analizzata con lucidità solo da pochi interpreti convincenti ed efficaci (come lo storico Salvatore Lupo) anche se poi risulta curiosamente assente, per quel che se ne sa, nelle grandi metropoli del subcontinente americano, da Buenos Aires a San Paolo, dove pure gli immigrati siciliani e meridionali non mancavano di certo, ma dove si sarebbero imposte organizzazioni criminali analoghe e però di assai diversa estrazione (a San Paolo, ad esempio, quelle giapponesi per il controllo dei mercati ortofrutticoli dopo il 1908, a Buenos Aires quelle ebraiche polacche per la gestione fra il 1860 e il 1930 della tratta delle bianche ecc.). Il senso di alterità percepito dai nativi e quindi la loro frequente sfiducia nelle possibilità di pronta o piena assimilazione degli immigrati italiani che spesso ritardano e rendono dolorosi i processi d’integrazione dei nuovi venuti, s’imperniano su vedute e su preconcetti a cui potremmo facilmente accostare quelli oggi vigenti in Italia nei confronti in particolare di alcuni gruppi (gli slavi, i marocchini, gli albanesi, i rumeni, i bengalesi, ecc…).

 

DUE PIANI DI COMPARAZIONE POSSIBILE

È tuttavia da un altro punto di vista che la comparazione storica può aiutarci a dipanare la trama degli equivoci e delle stesse logiche che presiedono alla genesi del pregiudizio e altresì alla nascita, in sede normativa e legislativa, di misure di contenimento o di contrasto da parte delle autorità dei Paesi di accoglimento. Su due terreni, infatti, la comparazione può aver luogo con esiti significativi, sempre tenendo conto delle diverse cornici storiche e ambientali: l’educazione e la scuola da un lato, la religione e le pratiche di culto da un altro.

L’emigrazione italiana, per quanto gracili e modeste fossero e a lungo rimanessero le sue strutture di supporto pubbliche e statali, fu sempre accompagnata da iniziative in campo scolastico d’emanazione “nazionale” tanto governativa quanto ecclesiastica. A coordinare le molte scuole italiane all’estero, sorte magari per impulso dei maggiorenti stessi delle “colonie” e dei loro giornali, già sul finire del secolo XIX provvedevano sia alcuni uffici ministeriali competenti e sia potenti associazioni come la laica “Dante Alighieri” (1889) e le filogovernative, ma cattoliche, “Associazione nazionale per soccorrere i missionari cattolici italiani”  (1886), “Opera Bonomelli” (1900) e “Italica Gens” (1907); assieme alla serie, se possibile anche più robusta, degli organismi religiosi strettamente intesi (salesiani, scalabriniani, pallottini, gesuiti ecc.) che facevano capo ai rispettivi ordini o congregazioni e, in ultima istanza, al Vaticano. L’intreccio di religione e politica – che, in seno agli istituti da essi creati, diretti e fatti, bene o male funzionare – era evidente e del tutto squilibrato in direzione d’una visione nettamente nazionalistica, anche se, a dire il vero, i problemi dell’adattamento all’estero erano facilitati, per gli italiani, dal fatto di appartenere a una confessione cristiana minoritaria solo nei paesi protestanti. Come gli Stati Uniti che peraltro, anche in forza dell’immigrazione proprio degli italiani (e, beninteso, degli irlandesi) avrebbero visto passare la Chiesa cattolica dal rango di Chiesa di minoranza – com’era stata all’inizio del secolo XIX con meno di 200 mila fedeli – a Chiesa di primaria importanza, con 20 milioni di adepti nel 1920 e 80 milioni nella seconda metà del Novecento.

 

RELIGIOSITÁ E AZIONE PASTORALE DEL CLERO

Le maggiori difficoltà incontrate dai nostri immigrati nell’esercizio delle loro pratiche devozionali – e dando luogo anche qui a una secca distinzione tra le forme di religiosità del sud e quelle invece più raccolte dei settentrionali – riguardarono sempre il vivace folklore delle cerimonie e dei riti spesso teatralizzanti che si ripetevano in seno alle grandi comunità (nelle Little Italies del Nord America, ma anche a Buenos Aires o a San Paolo) sotto gli sguardi allibiti, in Usa e in Canada, dei nativi cui era consueto ben altro genere di esternazione della propria fede. Accusati di superstizione e di primitivismo in occasione di tante feste patronali rivitalizzate all’estero – dalle processioni in onore di San Gennaro e d’altri santi, magari con effusione di sangue e grida acute d’invocazione, alle corse dei ceri di Gubbio riprodotte in Francia e nel New Jersey – gli italiani apparivano agli occhi scandalizzati dei nordeuropei “civilizzati” e dei bianchi wasp poco più che dei selvaggi, e come tali venivano trattati.

In concreto, però, sia sotto un profilo pastorale che da un punto vista formativo, l’azione dispiegata nei confronti dei connazionali emigrati dal clero tanto missionario quanto secolare, reclutato sovente in Italia, sfociò ben presto, in America, ma anche in Francia e in varie zone dell’Europa protestante, nella creazione di istituti volti senz’altro a fronteggiare il pericolo del proselitismo delle altre confessioni cristiane e riformate, e, però, anche indirizzati, con l’insegnamento e mercé le più varie pratiche assistenziali, a rafforzare il senso di appartenenza nazional-religiosa degli immigrati.

La “Chiesa etnica”, come momento di mediazione fra i nuovi arrivati e la società ospite, in altri termini, funzionò spesso positivamente, abbreviando i tempi dell’integrazione. Ma, dal momento che il “canale privilegiato” attraverso cui essa scelse di operare divenne di fatto la «parrocchia nazionale costituita dalla chiesa  [fisicamente intesa e cioè come luogo di culto] e, accanto ad essa, dalla scuola parrocchiale» , il problema  dell’azione svolta da entrambe non poteva che porsi anche in termini politici, come si vide abbastanza spesso nelle congiunture belliche (dalla Guerra di Libia a quella d’Abissinia).

In ogni caso, per attenersi al giudizio di uno storico equilibrato e di parte ecclesiastica come il compianto padre scalabriniano Gianfausto Rosoli[10], la parrocchia nazionale si trasformava a un tempo nel «punto focale della vita degli immigrati» che la frequentavano o la costituivano e nel centro non soltanto della loro vita religiosa, ma anche di quella sociale, «in uno stretto rapporto tra nazionalità e religione» fortemente rinsaldato dall’uso, nella liturgia e nei contatti interpersonali, dell’italiano. Per i gruppi non anglofoni, anzi, proprio la lingua finì per rappresentare «il principale fattore di identificazione religiosa e sociale» della comunità immigrata nella quale la parrocchia nazionale assolse vari compiti e, fra essi, quello di enclave «in grado di trasmettere la fede dei migranti», ma anche di “fornire la base” per la preservazione della loro identità italiana.

 

LE SCUOLE ITALIANE

La tutela dei tratti identitari di un “popolo” già in partenza composito – e per molti versi già transnazionale – come il nostro, entro una prospettiva nazionale, non coincide necessariamente e sempre con la sua evoluzione in una prospettiva nazionalista di stampo politico, ma il più delle volte vi prelude e ne prepara anzi il terreno e quindi l’avvento (soprattutto quando, per dovere d’ufficio, essa cerchi di esplicarsi sul piano educativo e scolastico). Non a caso nella stessa attività delle scuole italiane tenute in vita all’estero da preti, monache ed altri religiosi sarebbe difficile riscontrare, dai primi del Novecento in avanti, sensibili differenze con quanto si insegnava, in chiave appunto nazionalistica, nelle scuole della Dante Alighieri e negli altri istituti scolastici riconosciuti (e modestamente finanziati) attraverso il Ministero degli Esteri dal governo di Roma (dove, sia detto, proprio un fratello di Mons. Scalabrini, Angelo, ebbe durevole influenza dalla fine del secolo XIX all’età giolittiana).

Tutto ciò, unitamente alle campagne giornalistiche di varie testate della stampa in lingua italiana, creava di tempo in tempo tensioni e contrasti con le autorità dei Paesi ospiti che ovviamente potevano (o preferivano) mantenere buoni rapporti con i sacerdoti e con i missionari quali, ad esempio, la dinamicissima madre Francesca Saverio Cabrini, e tuttavia non sfuggivano loro le “intemperanze” e le vere e proprie ingerenze del nazionalismo cattolico: un fenomeno, questo, noto da oltre cinquant’anni grazie agli studi seminali di Luigi Ganapini e incarnato – al  tempo in cui spiccavano nel campo nazionalista le opere e le figure di Enrico Corradini in Italia e di Luigi Villari o di Amy Allemand Bernardy all’estero – da vessilliferi itineranti e, in tale veste, sin troppo dimenticati, come l’avellinese don  Giovanni Preziosi. Futuro giornalista di regime ed esponente di spicco del peggiore razzismo antisemita sin dentro Salò, Preziosi era stato in gioventù sacerdote, visitatore degli Usa nel 1906 e missionario dell’Opera Bonomelli a Bochum, in Germania, prima della Grande Guerra. Anche a uomini del suo stampo occorre guardare ove si voglia estendere il ragionamento (e, per chi può, l’indagine) alla complessa realtà delle scuole italiane assoggettate in giro per il mondo, fra le due guerre, al controllo sempre più stretto degli apparati consolari da un lato e alla rigida direzione ideologica dei Fasci italiani all’estero da un altro.

Oggetto di ricostruzioni e di studi cui non è stato estraneo chi scrive, ma soprattutto, per quello che qui ci interessa, di stimolanti analisi comparative proprio con le ricordate “madrasse” d’oggidì, i Fasci esteri e le scuole che ne ripetevano e ne riprendevano le scoperte finalità politiche (o, in campo cattolico, politico-religiose) propongono un tema di riflessione e di paragone non peregrino e degno comunque d’essere meditato.

 

UNA COMPARAZIONE STORICAMENTE “INTRIGANTE”

Benché risalente a qualche anno fa, mi pare utile tornare a un saggio che il giovane ricercatore Matteo Petrelli pubblicava, nel 2007, sulla rivista “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, col titolo di Indottrinare la gioventù immigrata. Scuole islamiche in Italia oggi – scuole italiane negli Stati Uniti fra le due guerre mondiali: un confronto. Nel saggio egli prendeva le mosse dal peso che hanno ormai assunto i figli degli stranieri regolarizzati e soggiornanti (oltre 400 mila allora, oggi, nel 2020, pressoché raddoppiati ma sempre in attesa, se nati in Italia, di ottenere la cittadinanza) nella scuola pubblica italiana dei giorni nostri trasformatasi, a suo parere, in una vera e propria istituzione multietnica sulle cui difficoltà, in rapporto all’obiettivo dell’integrazione delle seconde generazioni d’immigrati, sia la stampa che la saggistica hanno svolto varie indagini socio-culturali, specialmente per quanto riguarda  i musulmani:

Con l’intensificarsi della percezione della minaccia del terrorismo internazionale la stampa italiana ha dato sempre più spazio all’analisi delle cosiddette madrasse. Si tratta di istituzioni scolastiche tradizionali dei paesi islamici in cui i bambini musulmani studiano la lingua araba, imparano a memoria le ripartizioni testuali (sure) del Corano, apprendono le regole del rito dell’abluzione (lavaggio rituale a scopo di purificazione spirituale) e la vita di Maometto e dei profeti. La stampa si è interessata al proliferare di questa tipologia di scuole in Europa e in Italia negli ambienti delle comunità islamiche immigrate. Dopo l’11 settembre 2001 il termine è uscito da circoli accademici per entrare nell’agenda politica dei paesi minacciati dal terrorismo internazionale e nella percezione dell’opinione pubblica. Nel settembre del 2005 “Repubblica” ha stimato in circa centocinquanta le scuole coraniche presenti in Italia e legate a moschee e centri culturali islamici, coinvolgendo 7.000 bambini figli di immigrati dai cinque ai tredici anni. La percezione dell’esistenza di “istituzioni parallele” potenzialmente radicali e concorrenti al ruolo educativo delle scuole pubbliche italiane ha messo in allerta il Viminale il cui monito è stato ripreso prevalentemente dalla stampa più moderata e conservatrice. Tuttavia, anche un giornale notoriamente legato al centro-sinistra, e di larga tiratura, come “Repubblica” ha denunciato forme di estremismo islamico presenti in alcune madrasse in Italia. […] Su questa linea di pensiero si è espresso anche il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, contrario a forme di educazione “parallela” che rischiassero di ghettizzare i giovani musulmani, preferibilmente da istruire nelle scuole italiane al fine di favorirne l’integrazione. Nello schieramento di centrodestra la chiusura dell’istituto è stata particolarmente applaudita dalla Lega Nord, che è giunta persino a chiedere l’introduzione di test di lingua e cultura per l’ammissione degli immigrati nelle scuole italiane e a parlare delle scuole islamiche come “fabbriche di terroristi” […] In particolare, Magdi Allam[11] […] ha sottolineato l’esistenza di un Islam radicale, seppur minoritario, organizzato nelle moschee in Occidente e capace di sfruttare le tutele e le libertà offerte dalla democrazia per perseguire la realizzazione di uno stato teocratico.

Per chi conosca lo scalpore suscitato negli anni Trenta del secolo scorso negli Stati Uniti, ma anche altrove, dall’attivismo scolastico dei Fasci italiani all’estero, le denunce ricorrenti e sempre più preoccupate dei nazionalisti e dei populisti rappresentano oggi una cartina di tornasole piuttosto intrigante. Le inchieste giornalistiche e gli attacchi sferrati non solo dai benpensanti wasp, ma da fior di politici e d’intellettuali talora persino “progressisti” nei confronti dei luoghi, in terra americana, d’indottrinamento fascista (e clerico-fascista per riprendere un sintagma desueto e tuttavia pertinente) non possono non colpire e attirare in qualche misura la nostra attenzione. Entrambe, fatte salve tutte le differenze che si possano immaginare, si rifanno a uno schema comune che ha alla propria base, assieme a preoccupazioni reali e non facilmente accantonabili, una dose sicura di allarmismo e, in qualche caso, la deliberata intenzione di alimentarlo e di potenziarlo a dismisura. In altre parole, ancora di Pretelli:

La situazione della madrasse in Italia richiama, paradossalmente, quella delle scuole italiane negli Stati Uniti fra le due guerre mondiali. Ovviamente le due vicende sono molto diverse fra loro e vanno storicizzate; tuttavia è interessante porre in evidenza delle analogie. Come nel caso dei musulmani che vivono in Italia nell’era del terrorismo internazionale, gli italiani negli Stati Uniti vissero fra le due guerre un clima di crescente sospetto a causa dell’aggressività della politica estera del regime fascista dalla metà degli anni Trenta. Già in precedenza, con l’esplodere dell’emigrazione di massa dall’Italia verso gli Stati Uniti (1880-1914), gli immigrati italiani vennero percepiti dall’opinione pubblica statunitense come una fonte di pericolo, a causa della presunta propensione alla criminalità e dell’incapacità (nonché volontà) di accettare i principi della vita democratica statunitense. Negli anni fra le due guerre mondiali, nonostante il generale apprezzamento negli Stati Uniti per il regime di Benito Mussolini, la presenza di militanti fascisti oltre oceano contribuì a una ulteriore stereotipizzazione dell’italiano. Lo scrittore italo-americano Gay Talese, nato negli Stati Uniti e cresciuto negli anni della seconda guerra mondiale, ha parlato di un’epoca in cui gli immigrati italiani erano visti come “scavatori di trincee, gangster o fascisti”. Già negli anni Venti settori della stampa statunitense avevano puntato l’indice contro i militanti fascisti attivi nelle Little Italies. Venne messa in evidenza l’assenza di ogni loro legame con le istituzioni americane e un’attività volta a favorire esclusivamente la madrepatria fascista. Tale attività passava per la strenua opposizione alla naturalizzazione americana degli immigrati e per la preservazione della loro cittadinanza italiana. Inoltre si riteneva si inculcassero nei giovani italo-americani forme di patriottismo fascista attraverso le scuole italiane, agli studenti delle quali sarebbe stata imposta la frequenza. Fu, però, soprattutto il giornalista Marcus Duffield che, alla fine del 1929, con un articolo dal titolo emblematico The fascist invasion of the United States mosse su “Harper’s Magazine” le critiche più pesanti al movimento fascista italiano negli Stati Uniti, contribuendo alla decisione di Mussolini di sopprimere la Fascist League of North America, cioè l’associazione che coordinava i fasci italiani negli Stati Uniti.

Gli sviluppi della vicenda nel corso degli anni che immediatamente precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale e il disporsi in due campi opposti degli USA e dell’Italia dopo il 1941, per ragioni di palmare evidenza portarono a un terribile inasprimento della situazione,  tanto più che diversamente da quanto era successo nel 1915 – quando da molti Paesi d’immigrazione d’oltreoceano non pochi italiani erano volontariamente rimpatriati per arruolarsi suggerendo sul tema delle lealtà nazionali, agli storici dell’avvenire, parecchi interrogativi ai quali non è ancora stata trovata una risposta – il destino degli immigrati italiani, inizialmente tacciati tutti di “quintocolonnismo”, rimase appeso per qualche tempo ai calcoli e alle alchimie della politica elettorale di Roosevelt scampando solo in tal modo ai rigori ben più gravi toccati in sorte ai discendenti dei tedeschi o dei giapponesi.

 

CONCLUSIONI

I due casi da noi appena accennati qui, ma ben descritti in dettaglio da Pretelli, nascono dunque, com’egli dice e come ci sembra giusto in definitiva ribadire a nostra volta, in situazioni storico-sociali molto diverse fra loro. Appare evidente come le Little Italies negli Stati Uniti fra le due guerre mondiali e le odierne comunità musulmane in Italia abbiano tratti socio-culturali profondamente differenti. Tuttavia entrambe le esperienze si collocano in contesti di forte tensione internazionale che non favoriscono una percezione positiva di certi gruppi immigrati. In particolare appaiono simili i toni delle accuse riguardo presunte forme di indottrinamento anti-democratico dei giovani immigrati attraverso le scuole etniche. Denunce da parte della stampa di forme di radicalismo all’interno di comunità immigrate sono assolutamente legittime quando basate su riscontri concreti. Tuttavia, non è secondario sottolineare come queste possano condizionare non poco la percezione pubblica dell’immigrato. Il rischio è cadere nella facile retorica dell’“invasione” straniera, oggi presente negli slogan anti-islamici di alcune forze politiche, che richiamano i toni dei tanti appelli anti-italiani promossi negli Stati Uniti dal periodo dell’emigrazione di massa in poi. Se lo studio della storia offre spunti concreti per affrontare il presente, la vicenda degli italiani negli Stati Uniti può aiutare, oggi, in Italia, a impostare forme di dialogo con l’“altro”, nonché forme di “incontro”, piuttosto che di “scontro”, di civiltà. Allo stesso tempo, tale dialogo deve coniugarsi con un’aspra lotta (cui gli stessi immigrati debbono necessariamente prendere parte) contro i radicalismi etnici che tentino di minare le basi stesse della democrazia.

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Note:

[1] P. Bevilacqua, A. De Clementi e E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Donzelli, Roma 2001-2002.

[2] M. Colucci, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa, 1945-1957, Donzelli, Roma 2008.

[3] Al 2018 risultavano residenti in Italia 5.255.503 stranieri; vd. Dossier statistico immigrazione 2019, Centro Studi e ricerche Idos, Roma 2019, p. 457.

[4] Riprenderò, in questa sede, alcune delle ancor valide osservazioni scritte nel mio saggio, L’emigrazione di massa in Italia e dall’Italia in età contemporanea: integrazione, religione  e cultura, in D. Verrastro (a cura di), Sulle rotte della storia. Migranti e migrazioni alla luce dei nuovi orientamenti storiografici, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2007, pp. 11-31.

[5] Non più sulle rotte degli Stati Uniti, ma su quelle, ancora attive, del Canada e dell’Australia e su quelle sudamericane verso Brasile, Argentina e Venezuela.

[6] G. Pizzorusso, I fenomeni migratori in Italia nel Medioevo e nell’età moderna: un percorso storiografico, in “Bollettino di demografia storica”, 1990; G. Pizzorusso, M. Sanfilippo, Dalle frontiere dell’Europa cattolica alla Città Eterna: chiese nazionali e comunità straniere in età moderna, in A. Molnàr, G. Pizzirusso, M. Sanfilippo (a cura di), Chiese e nationes a Roma: dalla Scandinavia ai Balcani Secoli XV-XVIII, Viella – Istituto Balassi Accademia d’Ungheria, Roma 2017, pp. 225-241.

[7] A. Zannini, Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima  XIV-XVIII sec., Marcianum Press, Venezia 2009.

[8] Si tratta della prima sanatoria – altre ne sarebbero seguite nel 1990, 1995, 1998, 2002 (la “grande regolarizzazione” della legge Bossi-Fini), 2009 e 2012 – attuata con la cosiddetta legge Foschi (n. 943/1986); vd. F. Pittau, Immigrazione in Italia: dagli anni Settanta alla crisi del 2008 fino all’attualità, in Dossier statistico immigrazione 2019 cit., p. 100.

[9] Una recente indagine sociologica ha cercato di indagare il ruolo degli imam nelle comunità islamiche italiane: M. Ambrosini, P. Naso, C. Paravati (a cura di), Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione, Il Mulino, Bologna 2019. Qualche considerazione di sintesi è in P. Naso, Gli imam, una risorsa per l’integrazione, in Dossier statistico immigrazione 2019, cit., pp. 212-215.

[10] G. Rosoli, Insieme oltre le frontiere. Momenti e figure dell’azione della Chiesa tra gli emigrati italiani nei secoli XIX e XX, Caltanissetta-Roma, Sciascia Editore, 1996; vd. anche M. Sanfilippo, G. Maffioletti (a cura di), Un grande viaggio. Oltre … un secolo di emigrazione italiana. Saggi e testimonianze in memoria di Gianfausto Rosoli, Roma, Centro Studi Emigrazione, 2001.

[11] Magdi Cristiano Allam è un giornalista, saggista e politico egiziano naturalizzato italiano, che nei primi anni del nuovo millennio scrisse articoli fortemente critici verso l’islamismo, suscitando ampi dibattiti pubblici. Aggiunse il nome di Cristiano all’originale Magdi a seguito della sua conversione al cattolicesimo, avvenuta pubblicamente durante la veglia pasquale del 2008, quando ricevette battesimo, comunione c cresima in San Pietro per mano del papa Benedetto XVI.

Dati articolo

Autore:
Titolo: L’emigrazione di massa in Italia e dall’Italia in età contemporanea
DOI: 10.12977/nov385
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Numero della rivista: n.15, febbraio 2021
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, L’emigrazione di massa in Italia e dall’Italia in età contemporanea, Novecento.org, n. 15, febbraio 2021. DOI: 10.12977/nov385

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