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Intervista a Simon Levis Sullam

Intervista a Simon Levis Sullam

Simon Levis Sullam è un giovane studioso che si è formato in Italia e all’estero; si occupa di storia d’Italia tra Ottocento e Novecento con particolare attenzione alla storia dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Tra i suoi interessi la storia della storiografia e i problemi di metodo storico. Attualmente è professore associato in Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, ricordiamo qui il suo ultimo lavoro I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei (1943-1945) per Feltrinelli, 2015.


L’intervista si è svolta il 1° settembre nel suo studio, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’università veneziana. Levis Sullam ha rivisto il testo, lo ringraziamo ancora per la sua gentilezza e disponibilità.

D. L’istituzione del Giorno della Memoria risale al 2001, la scuola italiana in questi quindici anni ha lavorato molto su questa ricorrenza del calendario civile. Nei giorni intorno al 27 gennaio si affronta in modo puntuale il tema della Shoah, è consolidata l’esperienza dei “viaggi della memoria”, nelle classi si è lavorato e si lavora sulle storie dei Giusti italiani e, più recentemente, ha un certo “successo” didattico il proporre agli studenti un percorso di ricerca intorno alla posa cittadina delle pietre d’inciampo.

R. Siamo ormai a quindici anni scarsi dall’istituzione del giorno della memoria e questo percorso di istituzionalizzazione della memoria ha mostrato degli aspetti positivi ma anche delle negatività: il passaggio dall’era della memoria all’era della commemorazione porta anche a una fossilizzazione della memoria e fa emergere una serie di difficoltà che sono insite in un percorso di ritualizzazione e di calendarizzazione. La giornata della memoria ha assunto una centralità notevole sia nei programmi scolastici sia, in generale, nel calendario civile a detrimento di altre date importanti come il 25 aprile, il 2 giugno. Forse gli storici, i cittadini si chiedono se non ci sia anche una ipertrofia della memoria, da diversi anni si parla degli abusi della memoria, bisogna invece farne un uso che sia correttamente dosato, evitando gli eccessi. Credo che i percorsi intrapresi dalle scuole siano in genere positivi ma ci sono anche dei momenti di stanchezza, dovuti al fatto che comunque ci stiamo occupando di memorie particolarmente complicate, pesanti, difficili da gestire e da elaborare. Io ho scritto già vari anni fa che l’identificazione con le vittime è un processo virtuoso ma anche difficoltoso e ha degli aspetti spiacevoli, perché alla fine la vittimizzazione è un’esperienza negativa. Identificarsi con le vittime comporta degli aspetti che procurano fatica, dolore, estraneità. Queste vittime non sono tutte uguali, sono delle vittime specifiche, in prevalenza ebrei e questo crea delle resistenze, perché non tutti sono ebrei e non si riesce sempre a trarre un messaggio di ordine generale e universale a partire da un’esperienza specifica. Le vittime principali furono ebrei ma anche omosessuali, testimoni di Geova, antifascisti ecc., e le persecuzioni si inseriscono nel quadro della violenza di Stato dei fascismi. Noi dobbiamo difendere questi gruppi specifici portando un messaggio universale di tolleranza, di rispetto della diversità e della libertà e quindi dobbiamo anche saper attualizzare il Giorno della Memoria. Occuparsene oggi significa rivolgersi ai drammi contemporanei, partendo da quella esperienza specifica della seconda guerra mondiale e della Shoah, per riflettere sul problema dell’altro nelle nostre società, quindi il problema dell’islamofobia, dei migranti e della loro accoglienza, sapendo attualizzare il messaggio che viene dalla storia. Non è facile trovare una buona mediazione tra la memoria storica, in cui ci sia una buona dose di storia e non solo di memoria e spesso le cose non vanno d’accordo, ed equilibrare questo con un messaggio sull’oggi, sull’impegno contemporaneo. Credo che questo passaggio non sia scontato e sia abbastanza difficile da fare, perché è diventata una sorta di religione civile, in cui la memoria sembra mettere tutti d’accordo; invece quando si passa al presente e si affrontano le difficoltà dell’oggi e del tollerare gli altri, il discorso si fa molto complicato e la disponibilità da parte degli studenti, delle famiglie e dei cittadini diminuisce consistentemente. La memoria sembra mettere tutti d’accordo, è giusto ricordare, ma sul cosa fare oggi si è meno d’accordo.

D. E i Giusti?

"BudapestMemorialJustes001" di Perline - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.

BudapestMemorialJustes001” di PerlineOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.

R. Una delle vie che è stata presa nella ricerca di modelli positivi è stata quella dei Giusti. Credo che questo sia una scelta indubbiamente virtuosa, nel senso che è una ricerca di persone che fecero delle scelte diverse da quelle della maggioranza, che impegnarono se stessi mettendo a rischio e a repentaglio la propria esistenza, le proprie condizioni di sicurezza. C’è stato anche un eccesso attorno ai Giusti: da un lato questo ha messo in disparte la questione delle responsabilità di quelli che non furono giusti, gli ingiusti, quelli cioè che parteciparono alle persecuzioni, agli arresti e le responsabilità italiane nella Shoah sono stata un po’ oscurate. Dall’altro lato, in questa ricerca affannosa dei Giusti, ci sono stati dei riconoscimenti un po’ precipitosi, l’individuazione di casi che sono stati molto gonfiati e a sproposito, che non sono stati accuratamente indagati sul piano storico e che hanno trasformato queste figure da personaggi storici in icone della memoria, in icone della “banalità del bene”.

D. Mi sembra, ad esempio, che il caso del Giusto Palatucci sia piuttosto controverso.

R. Su Palatucci esiste un dibattito internazionale: è stata creata una commissione storica che non è giunta a delle conclusioni univoche, si è divisa al suo interno e addirittura non ha presentato una relazione finale per la difformità di visioni che c’erano state sull’interpretazione dell’esperienza storica di Palatucci. E’ molto controverso il fatto che questo vice questore di Fiume abbia effettivamente salvato, come si sostiene da parte dei suoi ammiratori, decine se non centinaia di ebrei, forse ne ha salvati un paio. Palatucci è anche stato deportato a sua volta ma questo non ha a che vedere con la sua attività di giusto. Anche il caso di Bartali è molto controverso, da quel che mi risulta non vi sono documenti consistenti sul suo ruolo di salvatore. Non mi sono occupato specificamente della questione, ma mi è stato detto da studiosi autorevoli che dal punto di vista storico il caso è abbastanza controverso e richiede di essere ulteriormente esaminato. In realtà il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano con Michele Sarfatti e soprattutto Liliana Picciotto sta svolgendo ormai da anni una importante ricerca sui salvatori e sui Giusti, stanno scoprendo un sacco di cose sul salvataggio. Il fenomeno fu molto rilevante, questo è sicuro: una parte consistente di ebrei italiani si è salvata grazie a un insieme di aiuti che in alcuni casi furono minimi, in altri importanti e furono per lo più spontanei. In altri casi all’aiuto corrispose una compensazione economica durante la vicenda stessa, alcune persone pagarono per essere salvate, per essere tenute nascoste.

D. Molte storie di coloro che furono salvati raccontano di un ruolo attivo del clero italiano.

R. Un ruolo importante fu svolto dal clero, questo è altrettanto indubbio, soprattutto a Roma si aprirono le porte di decine di conventi. Sembra certo che non ci fu una politica centralizzata, non ci fu un ordine dall’alto. La mia impressione è che furono iniziative che partivano dal basso, altrettanto lodevoli ma che furono al massimo tollerate e non certamente ordinate dalle massime gerarchie ecclesiastiche.

Credo che sia prevalso nel discorso pubblico del Giorno della Memoria questo doppio polo: da un lato la questione delle vittime, quindi una sorta di autoriconoscimento, di identificazione nelle vittime – e le vittime mettono tutti d’accordo, perché la sofferenza non può trovare persone che non la accettino e non la riconoscano – dall’altro il polo dei Giusti, l’eroizzazione e un’eroizzazione che ha, secondo me, particolare successo perché di nuovo si rivolge alle vittime e di solito non ha una connotazione politica precisa. E’ per lo più apolitica, in alcuni casi antipolitica e quindi nell’era post ideologica questo mette tutti d’accordo. Questo modello, questo paradigma è prevalso rispetto ad altri paradigmi di una memoria militante, ad esempio quella del 25 aprile, che invece è segnata politicamente anche da uno spettro di posizioni politiche diverse, forse con una prevalenza del rosso, ma che certamente ha meno successo nell’era post ideologica. Quindi la vittimizzazione da un lato e l’eroizzazione dei Giusti dall’altro sono costruzioni di tipo apolitico e questo a discapito di una memoria particolarmente dolorosa e complicata: quella che riguarda le responsabilità degli italiani che, in larga parte, sono state oscurate. Ciò è avvenuto sul piano storico in passaggi diversi a cominciare dall’amnistia Togliatti, che certamente ha contribuito a dare il colpo di spugna alle responsabilità in generale della società italiana durante il fascismo e, in particolare, alla fase estrema del fascismo, inclusa la persecuzione delle vite degli ebrei italiani. Di fatto questo complesso momento storico non è mai stata oggetto di giudizio, così come non sono state oggetto di giudizio le spoliazioni economiche. Non faccio rivendicazioni di tipo giustizialista, da storico dico che questo ha creato un vuoto di conoscenza: se si fossero tenuti più processi avremo una visione più chiara dei fenomeni, delle procedure, mentre ciò ha creato vuoto di memoria. Poi ricerche come quella di Filippo Focardi hanno dimostrato come si sia costruito una memoria benevola e positiva del ruolo degli italiani a discapito e contro l’immagine di un “cattivo tedesco”. Questo ha coinvolto il giudizio sul colonialismo italiano, sull’occupazione italiana dei Balcani, sulla presenza e il ruolo degli italiani nella campagna di Russia, di cui si ricorda sempre la ritirata, le sofferenze, ma non si ricorda che l’Italia in Russia ci è andata da alleata dei nazisti per costruire il nuovo ordine europeo, lo spazio vitale ad est. Questa parte viene sempre obliterata con il contributo, anche altissimo, della memoria antifascista dei Rigoni Stern, dei Nuto Revelli. Essi stessi hanno vissuto l’esperienza di quella vicenda, ma ne hanno scritto essenzialmente in chiave vittimistica e non in chiave di assunzione di responsabilità per ciò che stava avvenendo ed era avvenuto nella prima fase della campagna di Russia che, tra l’altro, si svolge in contemporanea con l’operazione Barbarossa, quindi con le fasi iniziali e atroci della Shoah.

D. E Perlasca?

R. Perlasca è un caso abbastanza assodato, egli ha effettivamente dato un contributo importante, credo però che la sua figura non debba essere né mitizzata, né banalizzata. Perlasca è rimasto fascista anche nel dopoguerra, non ha mai messo in discussione le proprie posizioni ideologiche, quindi ricordiamoci che da un lato ci fu il suo impegno per la salvezza di decine, probabilmente centinaia di ebrei, dall’altro Perlasca rimase fermo sulle sue posizioni politiche. Sono stati trovati anche dei suoi scritti degli anni settanta in cui, a ragione o a torto, rivendica che gli ebrei non gli avevano dato un riconoscimento per quello che lui aveva fatto. Ci sono anche delle sue espressioni non particolarmente lusinghiere nei confronti degli ebrei in genere, che sono state pubblicate da Enrico Deaglio, il quale ha avuto un ruolo importante nella riscoperta di questa storia, un ruolo anche non del tutto positivo, perché ha creato questa idea della “banalità del bene”, che ha un po’ annacquato la storicizzazione di questi personaggi, soprattutto ha esteso i meriti di altri, gonfiandoli a dismisura. Gli eredi di Perlasca hanno continuato nella militanza politica del padre, anche se poi il figlio ha avuto un ruolo nella transizione dall’Msi ad Alleanza nazionale, quindi anche nella condanna dell’antisemitismo. C’è stata un po’ la strumentalizzazione di questo caso proprio a partire da una lettura esclusivamente buonista del ruolo degli italiani nella seconda guerra mondiale. Sono state fatte delle serie televisive e nella memoria collettiva si è molto radicato questa immagine benevola, generalizzando e attribuendo l’atteggiamento di alcuni alla maggioranza della popolazione.

D. Gestire un debito di gratitudine è difficile in situazioni quotidiane e normali, pensiamo quanto complesso e complicato lo sia nel caso in cui si è avuto salva la vita.

R. Se tu leggi la stampa ebraica degli anni cinquanta e sessanta c’è un partecipare attivo della comunità ebraica al riconoscimento del ruolo dei Giusti, del fatto che gli italiani avevano salvato gli ebrei. Sembra quasi una scelta strategica nell’enfatizzare solo gli aspetti positivi dell’atteggiamento degli italiani, è una strada che dal punto di vista istituzionale è stata percorsa in modo abbastanza consistente; sul piano personale i percorsi individuali di riconoscimento di azioni di salvezza, salvataggio o assistenza è dipeso dalle singole famiglie, in alcuni casi c’è stato, in altri fin da principio c’era stato anche con un riconoscimento economico. Certamente questa riscoperta dei Giusti sul piano collettivo ha portato anche sul piano privato a una riscoperta di queste vicende e all’avvio di moltissime procedure di riconoscimento del titolo di Giusto, titolo riconosciuto da Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme e qui entreremo in un capitolo ancora diverso. Israele gestisce la memoria della Shoah con proprie dinamiche specifiche e il ruolo dei Giusti, un titolo creato da Israele, è importante e controverso. Le procedure che Yad Vascem ha attivato per il riconoscimento dei Giusti, essendo piuttosto sommarie sul piano storico, hanno contribuito alla creazione di alcune forzature. Da parte di Israele esistono certamente delle politiche della memoria attorno alla Shoah che vengono usate anche nella politica quotidiana nella vicenda mediorientale, per oscurare le responsabilità di Israele facendo leva sull’elemento vittimistico, quindi l’ebreo sempre come vittima e non come aggressore.

D. I Giusti sono diventati una sorta di santi moderni.

"Albero dei Giusti" di Gariwo, la foresta dei Giusti - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.

Albero dei Giusti” di Gariwo, la foresta dei GiustiOpera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.

R. Indubbiamente in versione laica e, in parte, religiosa. Invece le pietre d’inciampo sono un’esperienza interessante, da un lato hanno il vantaggio di portare l’attenzione su delle storie specifiche e su delle storie di vita, e questo rende la memoria più gestibile, più comprensibile, più approcciabile, dall’altro è sempre un aspetto del discorso vittimario e vittimistico: mettere al centro le vittime e far leva sull’identificazione che ha aspetti virtuosi. Accanto all’aspetto vittimario potremo chiederci paradossalmente perché non facciamo delle pietre d’inciampo per gli ingiusti. Perché non mettiamo davanti alla porta di casa di chi ha arrestato gli ebrei, di chi li ha perseguitati una pietra d’inciampo e copriamo l’Europa di altrettanti “inciampi” della memoria? E’ facile identificarsi con le vittime, potrebbe essere invece più scioccante e formativo dal punto di vista civile quello di ricordarci dei carnefici. E’ anche vero che raccontare le storie delle vittime getta luce sulla storia dei carnefici, ma non è la stessa cosa. Certamente rimane il problema delle responsabilità che non sono state accertate fino in fondo.

D. Se la giustizia militare italiana per quanto riguarda le stragi commesse dall’esercito tedesco ha fatto dei passi in avanti dopo decenni di oblio su questo argomento, non mi sembra che altrettanto si possa dire in merito ai carnefici italiani, forse mancano anche i documenti.

R. Una parte delle carte ci sono, per Roma Osti Guerrazzi ha utilizzato carte di polizia, e le carte sugli arresti ci sono, io l’ho fatto in piccola parte per l’archivio di Stato di Venezia; sui fascicoli si trovano i nomi e cognomi degli ufficiali di polizia che hanno condotto le operazioni e quindi, volendo, queste storie si potrebbero ricostruire provincia per provincia. Il problema non è creare delle liste di proscrizione, secondo me è più interessante capire i meccanismi e la diffusione molecolare delle responsabilità, che non sono solo di chi compie materialmente gli arresti. Il problema è la partecipazione di persone che apparentemente hanno dei ruoli più marginali: quelli che stilano le liste delle persone da arrestare, quelli che fanno gli inventari dei beni, per non parlare di quelli che denunciano o che partecipano alla macchina di propaganda ideologica –l’antisemitismo politico – o quelli che guidano i treni che portano i deportati verso l’Europa dell’est. Ho citato questo episodio in un’occasione recente: Padova ha ricordato dei ferrovieri che nella stazione della città avevano assistito gli ebrei in transito verso i campi, però non si è ricordata di citare quelli che i treni li guidavano. Anche all’interno delle stesse categorie ci sono ruoli e responsabilità diverse. E’ un discorso complicato quello dei diversi livelli di responsabilità e di colpa, ma credo che più in generale non si sia posto a sufficienza il problema delle responsabilità complessiva della società italiana nel fascismo. Il giudizio storico sul fascismo è sempre più spesso formulato solo a partire dal 1938: c’è un vulgata secondo cui il fascismo è stato criminale solo a partire dalle leggi razziali. In realtà sappiamo che c’è stata la dittatura almeno dal 1925, la storia criminale del fascismo comincia a partire dagli anni ’20.

D. Parliamo dei viaggi della memoria.

R. E’ una pratica che si è ormai consolidata e che fa parte delle politiche della memoria con aspetti virtuosi ed altri più controversi. La mia impressione è che non devono essere usati come un modo per mettersi a posto la coscienza: portiamo i ragazzi sul luogo così risolviamo la questione, facciamo che tocchino con mano. Le cose vanno preparate con un percorso introduttivo di conoscenza, di preparazione ai luoghi, ma anche ai loro contesti. C’è indubbiamente il rischio che ci sia una focalizzazione eccessiva su Auschwitz, che per l’Italia è molto importante, perché è stata la destinazione ultima di buona parte delle vittime. D’altra parte Auschwitz è diventata una metafora, si è quasi disincarnata dalla sua storia e sembra orientare in modo esclusivo l’attenzione focalizzando in modo eccessivo l’attenzione su quella esperienza. Per tornare alle responsabilità dell’Italia credo che sarebbe per certi versi sia più istruttivo un viaggio della memoria a Fossoli di Carpi, per scoprire un posto che è diventato un “non-luogo” della memoria: la gente non sa nemmeno che sia esistito, non sa che ruolo abbia avuto, dove si trovi, quindi per certi versi dovremo scoprire Fossoli, o anche la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio in Italia, gestito da tedeschi ma con responsabilità italiane. Forse si potrebbe ricalibrare il discorso dei viaggi, inseguendo meno dei simboli e cercando di appropriarsi di più di storie che sono nazionali, di responsabilità italiane. Lanciamo l’idea dei viaggi a Fossoli, piuttosto che ad Auschwitz.

D. Ho l’impressione che gli studenti vivano questi viaggi della memoria come delle gite vere e proprie, con tutta la spensieratezza che ne consegue. Non rischiamo, paradossalmente, di favorire un approccio superficiale all’argomento?

R. Credo che i viaggi siano per gli studenti un modo di appropriarsi di quelle storie. Ha suscitato molto scalpore qualche tempo fa gli studenti si scattavano i “selfie” ad Auschwitz o sul memoriale dei deportati a Berlino, però secondo me i ragazzi hanno dei loro modi per includere la memoria nella vita quotidiana, credo sia più rischioso il percorso della sacralizzazione che non, al limite, di qualche banalizzazione. Il problema è inserire questi racconti nella vita quotidiana, in un bagaglio di repertori, di linguaggi, di esperienze che sono quelle dei ragazzi. I ragazzi non potranno mai, per fortuna, venire veramente a contatto con la realtà della seconda guerra mondiale, della Shoah, con quelle dimensioni di violenza; l’importante è che abbiano almeno una traccia di questa esperienza e se la includono all’interno delle loro esperienze e dei loro linguaggi non può essere che un fatto positivo. Sono favorevole anche alla presenza di Auschwitz nella cultura di massa, naturalmente con il rispetto di alcune regole, di alcuni codici. Sono stato sempre favorevole a “La vita è bella”, che molti hanno considerato un oltraggio alla memoria di quella che era stata la violenza dei campi di concentramento e sterminio. Per me sulla Shoah si possono raccontare delle favole, al limite delle commedie, perché ci sono molte forme da dare al racconto, inclusa quella comica. Può essere un modo per avvicinarsi ad alcuni aspetti di quella realtà, anche magari in modo più efficace del registro tragico, che può creare distanza. Trovo che vadano usati tutti i codici e linguaggi della comunicazione di massa, anche l’esperienza del viaggio può essere un’esperienza positiva; poi sappiamo che le dinamiche della gita scolastica hanno anche aspetti goliardici, derisori che possono rendere quella esperienza più superficiale. Tutto sommato, se non è un modo per risolvere la questione più rapidamente delegando alla gita scolastica il lavoro sulla memoria, ritengo che possa essere una esperienza positiva.

D. E come valutare l’intervento frequente dei testimoni all’interno delle celebrazioni per il Giorno della Memoria?

R. C’è stato un uso un po’ sregolato della memoria dei testimoni, l’idea che nel Giorno della Memoria vanno convocati i testimoni: si creano così dei rituali che non favoriscono l’approfondimento e, soprattutto, c’è la delega al testimone che viene sacralizzato. Spesso non c’è nessuna forma di mediazione, in qualche modo il testimone viene dato “in pasto” agli studenti senza che ci sia una preparazione, una contestualizzazione; c’è il totem del testimone e contemporaneamente la scomparsa progressiva dei testimoni crea grande ansia. Sappiamo che la Shoah è uno degli eventi più testimoniati e documentati della storia, abbiamo migliaia, milioni di ore di registrazione di testimonianze dei reduci. La vera sfida è trovare dei linguaggi nuovi: cosa fare, come raccontare in assenza dei testimoni. Io sono molto fiducioso, fino a che esiste il racconto c’è la possibilità di recuperare questa esperienza per coglierne gli aspetti storici, etici, culturali. La storia d’altra parte si fa in buona parte in assenza di testimoni. Credo ci sia una riflessione da fare sulla totemizzazione del testimone e sul fatto che è diventata la fonte esclusiva per conoscere la Shoah e in parte si è deformata la sua attendibilità. Il suo ruolo è in qualche modo salvifico, in parte, c’è anche stata la sua banalizzazione: viene invitato, fa il suo intervento, lo si saluta e il 28 gennaio il discorso è finito.

D. C’è poi il fenomeno dei falsi testimoni.

R. C’è questo nuovo libro, L’impostore di Javier Cercas1, lo scrittore spagnolo che ha raccontato la storia del presidente dell’associazione deportati spagnoli che era un falso deportato e su questa menzogna aveva costruito una carriera. Ci sono stati altri casi, persone che hanno scritto della loro esperienza di reduci e di vittime che non avevano effettivamente vissuta, ad esempio Binjamin Wilkomirski e il suo libro Frantumi2. La diffusione di queste memorie a livello di massa ha fatto sì che nascessero delle memorie sostitutive in persone che non avevano effettivamente vissuto quelle esperienze ma erano in grado di raccontarle. Se quelle testimonianze coglievano comunque alcuni aspetti dell’esperienza storica, una volta riconosciuto il fatto che non si trattava di esperienze vissute, quel racconto può essere a mio avviso nonostante tutto utilizzato per cogliere alcuni aspetti e riflettere sui meccanismi di ipertrofia e deformazione della memoria.

D. Per concludere chiederei dei consigli di lettura per riflettere sulle questioni di cui abbiamo parlato.

R. Una biblioteca adegutata dovrebbe essere fatta di alcuni classici che per la storiografia vanno da Raul Hilberg a Saul Friedlander, ponendo attenzione anche agli scritti teorici sulla memoria di quest’ultimo. Poi tutte le testimonianze: da Primo Levi a Etty Hillesum, a Anna Frank. Ci sono studi recenti su come si è costruito il mito, l’icona di Anna Frank sul piano della memoria popolare – Anne Frank Unbound: Media, Imagination, Memory del 2012 – e studi filologici sul diario e sulle diverse versioni: questo aiuta a storicizzare anche i testimoni. Di recente è uscito in tedesco ed è stato tradotto in inglese il libro di Bettina Stagneth, Eichmann before Jerusalem3. E’ sulla vicenda di Eichmann prima del processo del 1961, attraverso varie testimonianze vengono in qualche modo recuperati gli aspetti demoniaci e non solo banali del gerarca nazista: quindi non solo gli aspetti del burocrate ma anche dell’ideologo antisemita convinto, del nazista ancora fedele a se stesso, che poi cerca di deresponsabilizzarsi e di discolparsi durante il processo, mentre fino a tutti gli anni cinquanta è ancora convinto di quello che aveva fatto. Questo riequilibria, o meglio integra, il ritratto proposto da Hannah Arendt. Tra gli storici che, secondo me, hanno consentito di laicizzare il percorso di interpretazione della Shoah spicca di recente Donald Bloxham che ha scritto questo libro in cui utilizza largamente la categoria di genocidio comparando la Shoah ad altri stermini: Lo sterminio degli ebrei. Un genocidio4. Ma restano fondamentali tutti gli studi di Christopher Browning, a partire da quello sugli “uomini comuni”5, sul fatto che non si trattasse solo di carnefici ideologicamente motivati, ma anche di uomini comuni coinvolti nella macchina della sterminio, a partire dai massacri nella prima fase della Shoah. Sul tema della burocratizzazione il testo classico è Modernità e Olocausto di Zigmunt Baumann6. Per l’Italia sono importanti i libri di Michele Sarfatti, di Liliana Picciotto ma anche le ricerche coordinate da Collotti sulla Toscana in cui sono state scritte le cose più importanti sui carnefici italiani, soprattutto da parte di Marta Baiardi, di Valeria Galimi e altri, oltre agli studi di Amedeo Osti Guerrazzi7 su Roma. Di Valentina Pisanty è interessante la riflessione sugli abusi di memoria da un lato e sul negazionismo dall’altro. Il suo libro più importante si chiama L’irritante questione delle camere a gas8, è uno studio semiotico su come funzionano i meccanismi pseudoconcettuali, narrativi e narratologici dei negazionisti. Molte cose che sono state scritte su Primo Levi consentono di approcciarsi in modo originale ad Auschwitz: ad esempio il lavoro di Robert Gordon, una sorta di lettura letteraria e filosofica su Levi, ma si veda di Gordon anche Scolpitelo nei cuori: l’Olocausto nella cultura italiana9. E’ appena uscito il libro con tutti gli scritti su Levi di Marco Belpoliti, che è il principale curatore delle opere di Primo Levi in Italia. Sono molto importanti sui temi della memoria e molto originali le cose scritte da Alberto Cavaglion: Ebrei senza saperlo10, contro gli abusi, gli eccessi della memoria, e i saggi confluiti ne Il senso dell’arca11. Poi sono importanti i classici sul mito del bravo italiano da David Bidussa12 fino al più recente lavoro di Filippo Focardi13. Ma anche, per altri versi, gli studi di Enzo Traverso: Il passato: istruzioni per l’uso14; Totalitarismo: storia di un dibattito15; La violenza nazista: una genealogia16.

D. E in Italia quali sono i più importanti centri studi che si sono occupati di questi temi?

R. Il Centro documentazione ebraica contemporanea di Milano ha un archivio importante, ma tutta la rete degli istituti per la storia della Resistenza sono dei punti di riferimento per conoscere la documentazione che esiste sul ’43-’45. Tutti gli istituti della rete INSMLI ormai hanno fatto delle ricerche sulle persecuzioni antiebraiche, perché con il nuovo interesse sulle persecuzioni degli ebrei ci si è molto attrezzati per studiare le dinamiche locali delle persecuzioni. Inoltre c’è la Fondazione Museo della Shoah di Roma, che pure ha avuto e sta avendo un ruolo abbastanza importante, con l’organizzazione di mostre tra cui quella sul 16 ottobre, settant’anni dopo. C’è un nascente museo della Shoah e dell’ebraismo italiano a Ferrara, il MEIS, che ha un archivio e una biblioteca in costruzione e organizza un festival annuale di cultura ebraica. Alcuni Istituti hanno avuto un ruolo di ricerca specifico, se pensi a Trieste per la Risiera di San Sabba, oppure ai gruppi di lavoro sulle stragi in Toscana. Probabilmente si potrebbe fare di più, la Casa della Memoria che sta nascendo a Milano potrà forse avere un ruolo di coordinamento. E poi ricordo a livello europeo il Memorial della Shoah di Parigi, e il ruolo di mediatrice svolto da Laura Fontana per l’Italia. Speriamo che nel tempo questi sforzi di ricerca e di didattica possano trasformarsi in conoscenza e senso comune: in parte questo sta già avvenendo presso i più giovani.

Crediti della foto in copertina:

PikiWiki Israel 12495 hall of names in yad vashem” di צילום:ד”ר אבישי טייכר. Con licenza CC BY 2.5 tramite Wikimedia Commons.


Note

1 J. Cercas, L’impostore, Guanda, Milano 2015

2 B. Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia 1939-1948, Mondadori, Milano 1996

3 B. Stagneth, Eichmann before Jerusalem. The unexamined life of a mass murderer, Paperback 2015

4 D. Bloxam, Lo sterminio degli ebrei: un genocidio, Einaudi, Torino 2010

5 C. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e <soluzione finale> in Polonia, Einaudi, Torino 2004

6 Z. Baumann, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna 2010

7 A. Osti Guerrazzi, Caino a Roma: i complici romani della Shoah, Cooper, Roma 2005

8 V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano 2014

9 R. Gordon, Scolpitelo nei cuori: l’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino 2013

10 A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Ancora del Mediterraneo, Napoli 2002

11 A. Cavaglion, Il senso dell’arca, Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006

12 D. Bidussa, Il “mito del bravo italiano”, Il Saggiatore, Milano 1994

13 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013

14 E. Traverso, Il passato istruzioni per l’uso: storia, memoria, politica, Ombre corte, Verona 2006

15 E. Traverso, Totalitarismo: storia di un dibattito, Ombre corte, Verona 2015

16 E. Traverso, La violenza nazista: una genealogia, Il Mulino, Bologna 2008