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Intervista a Antonio Gibelli sul centenario della Prima guerra mondiale

Intervista a Antonio Gibelli sul centenario della Prima guerra mondiale

Antonio Gibelli è nato a Genova nel 1942. Già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Genova, è tra i maggiori studiosi della Prima guerra mondiale e della scrittura come pratica sociale. Il suo volume L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale (Torino, Bollati Boringhieri, 1991) ha innovato l’orientamento degli studi, attingendo a fonti come le relazioni degli psichiatri sui disturbi mentali dei soldati e le lettere dei fanti. Tra le altre sue opere segnaliamo La Grande Guerra degli italiani (Milano, Sansoni, 1998), vincitore del premio Acqui Storia nel 1999, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò (Torino, Einaudi, 2005), Berlusconi passato alla storia. L’Italia ai tempi della democrazia autoritaria (Roma, Donzelli, 2010) e La guerra grande. Storie di gente comune (Roma-Bari, Laterza, 2014). Per la casa editrice Einaudi ha curato l’edizione italiana dell’Encyclopedie de la Grande Guerre (Torino, 2007).
Nella seconda metà degli anni Ottanta ha fondato, presso il Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea dell’Università di Genova, l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare che raccoglie testimonianze epistolari, diaristiche e memorialistiche della gente comune.
Fa parte del Comitato scientifico dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne (Somme), dell’Advisor Board di “1914-1918 online. International Encyclopedia of the First World War” e del Comitato scientifico per il Memoriale della Grande Guerra istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.


1) Ricordare il centenario della Prima guerra mondiale significa rammentare il sacrificio di centinaia di migliaia di soldati italiani morti per la Patria ma, al tempo stesso, le pesanti responsabilità di una classe politica e militare che volle a tutti i costi l’entrata in guerra del Paese. Come si sono articolati questi due aspetti nelle recenti commemorazioni pubbliche e nello spazio dedicato dai media all’anniversario?

Sono lontani i tempi in cui il ricordo della prima guerra mondiale era occasione per il riaccendersi di echi nazionalpatriottici unanimistici che mettevano tra parentesi le responsabilità della classe dirigente politica e militare nella scelta e nella condotta della guerra. Anche chi ci tiene a rivendicare l’orgoglio per la vittoria non ignora e non nasconde che l’entrata nel conflitto fu, in Italia assai più che nel resto delle grandi potenze europee, frutto di una decisione a lungo meditata e infine imposta dall’alto a un Paese riluttante. Che poi la guerra, per quanto vittoriosa, sia stata una tragedia, sia costata prezzi elevatissimi e abbia prodotto la crisi definitiva e il crollo dello stato liberale, anche questo fa parte di un discorso abbastanza consolidato che mi pare abbia dato l’impronta o almeno abbia fatto da sottofondo a quanto è circolato nei media, sia nei programmi storici della TV sia nel cinema. Si pensi agli accenti di denuncia sull’insensatezza della guerra presenti nel bel film di Ermanno Olmi Torneranno i prati. Il suo titolo esprime una speranza, che un giorno la ferita sarebbe stata rimarginata, ma indirettamente ci ricorda che in realtà non lo fu e che i segni della guerra rimasero per certi versi indelebili. Questa coscienza è ormai un dato europeo condiviso da gran parte degli storici: c’è un nesso molto stretto tra la guerra totale e i totalitarismi, tra i quali il fascismo italiano.

2) A causa del retaggio del fascismo, per molto tempo in Italia il concetto di Patria è stato guardato con estremo sospetto e utilizzato con parsimonia e imbarazzo. La memoria della Grande guerra si intreccia strettamente con il concetto di Patria: come declinare questo termine così pregnante nell’odierna Unione europea, frutto di un lento e faticoso cammino verso il superamento dei nazionalismi e particolarismi locali?

Stiamo vivendo una fase di tumultuosa trasformazione globale in cui molte idee forza del passato tramontano o cambiano segno. Purtroppo i nazionalismi, pur logorati nella loro veste classica, ottocentesca, e lasciate alle spalle le versioni aggressive improntate alla conquista, riemergono in Italia e in Europa in varianti etnocentriche generalmente improntate alla paura e all’odio dell’altro, dello straniero, del miserabile senza dimora, alla difesa di illusorie identità tradizionali e di presunti interessi minacciati. Le pratiche dell’esclusione prevalgono sulle spinte all’inclusione. Fa paura questa involuzione, in cui valori e diritti universali che sembravano per sempre affermati dopo le tragedie della seconda guerra mondiale non sono più indiscussi. Purtroppo l’Unione europea si sta dimostrando una costruzione economicamente rigida e insieme politicamente fragile, poco incline a veri e propri processi di cessione di sovranità, poco lungimirante, incapace di visioni autenticamente solidaristiche transazionali e transcontinentali, percorsa dalla tentazione di costruire nuovi recinti e nuovi muri. La memoria pur così potente del primo evento catastrofico del nostro tempo non risulta in questo senso dotata di sufficiente capacità e forza di orientamento sui dilemmi del presente. Spesso ci si commuove delle tragedie del passato ma si guarda con indifferenza e passività a quelle che sono in corso o che si annunciano.

3) La Prima guerra mondiale non è stata solo l’ennesimo conflitto di una lunga serie, ma ha costituito una vera e propria cesura nella storia europea: dopo di essa nulla sarebbe stato come prima. In che misura, a suo avviso, l’opinione pubblica è consapevole di questa radicale frattura tra il “prima” e il “dopo”?

Non conosco abbastanza le nuove generazioni e ho l’impressione che il loro senso del tempo e del passato sia radicalmente mutato. Per questo non so dire con certezza quanto l’idea della frattura del corso storico determinata dalla guerra sia chiara ai loro occhi. Dipende molto dalle letture che si fanno o che mancano: non solo e non tanto i libri di storia, ma la grande letteratura europea (per esempio Thomas Mann, Joseph Roth, Arthur Schnitzler). Nel sentimento delle generazioni più anziane – per intenderci quelle che si sono formate nell’era pre-digitale – credo invece sia rimasta, direttamente o per memoria tramandata, l’orma di un evento smisurato è imprevedibile, del tutto inconcepibile prima che fosse accaduto e quindi tale da segnare un’autentica discontinuità. Basti pensare alla sua forza dirompente nel liquidare l’unica autentica fede che era sembrata subentrare a quella religiosa ed appariva profondamente radicata nella società ottocentesca: la fede nel progresso. In apparenza l’idea di un mondo nuovo possibile, traguardo di un percorso rivoluzionario, sopravvisse negli anni Trenta, ma nella versione reificata, dispotica e improntata al modello militare propria dello stalinismo e della terza internazionale. E anche questo era un frutto avvelenato della guerra.

4) Se la guerra fu la stessa per tutti, profondamente differenti si rivelarono le esperienze di essa vissute e rielaborate dagli ufficiali o dai fanti, dai militari dotati di istruzione o dagli illetterati, da chi proveniva dalle città o dal mondo contadino e così via. Quale consapevolezza vi è di questa “guerra plurale”, non riconducibile ad un unico modello omologante?

In occasione del centenario abbiamo assistito a una produzione saggistica e memorialistica che puntava soprattutto a riproporre l’esperienza di guerra delle classi subalterne, dei contadini e dei montanari, delle grandi masse, uomini e donne, combattenti e civili, che subirono il conflitto senza averlo voluto. Tale recupero è avvenuto facendo ricorso allo sterminato serbatoio delle scritture autobiografiche, epistolari, diaristiche e memorialistiche dei semiletterati, venuto alla luce in maniera particolarmente copiosa negli ultimi trent’anni. Quel “diario di guerra delle classi subalterne” che sembrava del tutto al di fuori della portata degli storici trenta o quaranta anni fa, è invece riemerso copiosamente. Questo grande capitolo della storia della guerra ha ricevuto nuova evidenza e di conseguenza si è rinforzata l’idea della pluralità delle esperienze compiute nel corso di quell’evento, o almeno della profonda lontananza tra le ragioni della refrattarietà contadina e le motivazioni ideali che avevano animato le minoranze interventiste.

5) Guerra “affare” da uomini. In questi ultimi decenni è stato sempre più messo a fuoco il ruolo esercitato dalle donne nel conflitto e il loro coinvolgimento, volontario o subìto, nelle molteplici dinamiche della guerra. Secondo lei la scuola e i mezzi di informazione hanno dedicato una adeguata attenzione a questo tema, in passato negletto?

Non conosco abbastanza il mondo della scuola primaria e secondaria nella sua fisionomia attuale per potermi pronunciare su questo versante. Registro tuttavia un’attenzione crescente dei mezzi di informazione al punto di vista, al posto e al ruolo delle donne nel contesto della prima guerra globale e totale. Inoltre, consultando o osservando sia pure occasionalmente le mille fonti di divulgazione che si sono occupate dell’evento ne ho tratto l’impressione che il tema sia ormai fortemente presente nella narrazione della Grande Guerra. E non potrebbe essere altrimenti: tanto sul piano materiale della produzione bellica, come su quello sociale del tessuto connettivo familiare, infine su quello simbolico dell’antidoto agli orrori del conflitto, quella guerra è semplicemente impensabile senza le donne.

6) Nelle giovani generazioni si riscontra un preoccupante deficit di consapevolezza storica e un angusto appiattimento sul presente che rende difficile la percezione del continuum temporale. Da questo punto di vista la Prima guerra mondiale viene spesso colta come un generico fatto del “passato”, indistinta categoria in cui viene stipato ogni evento verificatosi in epoche precedenti. Cosa dovrebbe fare la scuola, a suo avviso, per educare gli studenti al senso della storia e alle precipue contestualizzazioni?

Come dicevo la grande narrativa può restituire quadri potenti del passato, abituando a riconoscere la sua doppia dimensione di distacco profondo e di vicinanza al nostro vivere presente. Ma il mezzo principe resta la lettura delle fonti. Le fonti scritte e quelle iconografiche, per non dire che di due possibilità fondamentali, se esaminate accuratamente ci costringono a misurarci con la persistenza del passato, ossia con la sua sopravvivenza, e contemporaneamente col suo perenne allontanarsi e inabissarsi. In un documento scritto ci sono parole che hanno conservato il proprio significato e altre che lo hanno cambiato radicalmente. Mi è accaduto recentemente di leggere, nella lettera scritta da un contadino ligure nel 1916, la parola “comunista”. Mi sono stupito perché nel significato che gli attribuiamo oggi la parola non aveva certo largo corso prima del 1917. Ho faticato parecchio a capire che nel 1916 e nel linguaggio di quel contadino la parola aveva un significato tutto diverso, ossia indicava le autorità e gli amministratori del suo piccolo comune. Una parola, un dettaglio visivo, un costume, un attrezzo ti trasportano in un tempo altro, ti costringono a sfondare il corso del tempo e a riconoscere la complessità, vorrei dire la pluralità del passato. L’educazione alla lettura delle fonti è parte costitutiva e forse preminente dell’educazione alla storia. Di fronte al diario di un soldato semiletterato, di un prigioniero, di un condannato a morte, di una donna colta, dobbiamo imparare a leggere tra le righe, a capire che il non detto talvolta è più importante di ciò che è detto.

7) Quali caratteristiche dovrebbe avere il museo “ideale” della Prima guerra mondiale?

Dovrebbe trattarsi di un museo totale come totale fu la guerra. Una guerra combattuta non solo nei campi di battaglia ma nelle redazioni dei giornali, nei laboratori fotografici e cinematografici, negli studi dei pittori e nei reparti degli ospedali psichiatrici, nelle scuole, nelle officine e negli Istituti specializzati per la produzione di protesi per mutilati, in terra, in mare e – cosa completamente nuova – in cielo. Una guerra che coinvolse non solo i combattenti, ma le popolazioni civili: i profughi in fuga dalle terre invase, gli internati trasportati con la forza lontano dalle zone del fronte, le donne vittime di stupri nelle terre occupate, le popolazioni deportate e sterminate come gli Armeni vittime del primo genocidio perpetrato nell’Europa moderna, i civili che morirono di fame o i bambini che subirono deformazioni nella crescita a causa della denutrizione in paesi come l’Impero asburgico e la Germania colpiti dal blocco economico. In un simile museo mi piacerebbe che non mancasse una lettera indirizzata da Picasso all’amico Guillaume Apollinaire nel febbraio del 1915, che testimonia la pervasività della guerra, il rapporto tra i linguaggi delle arti figurative e la modernità dei paesaggi visivi disegnati dal primo conflitto mondiale, a cominciare dall’impiego dei pittori cubisti nelle opere di mimetizzazione. Diceva: “Voglio regalarti un’ottima idea per l’artiglieria. L’artiglieria è visibile dagli aeroplani perché i cannoni mantengono la loro forma anche dipinti in grigio. Bisognerebbe dipingerli, imbrattarli, con colori vivi, a sezioni rosse gialle verdi blu bianche come un arlecchino”.

8) Se esiste il pericolo della dimenticanza e del colpevole oblio, in quali circostanze la memoria storica può divenire patologica e controproducente per la società e il suo futuro?

La memoria storica di per sé non è mai controproducente. Lo diventa se viene assunta come alibi e diversivo per non guardare al presente, come un modo per proiettare il male nel passato, nell’altrove e nell’altro da sé. Negli Stati Uniti la memoria della Shoah è fortissima, ma non credo che esista un monumento o un grande museo della schiavitù: questo è un modo per dire che il male è altrove, nella vecchia Europa. In Europa la commemorazione rituale dei misfatti perpetrati nella seconda guerra mondiale dai nazisti è un luogo comune, ma contemporaneamente si è guardato fino a oggi con indifferenza, talvolta con fastidio, alle migliaia di disperati che si inabissano nel Mediterraneo fuggendo dalla povertà e dalle guerre. Solo oggi un sussulto di indignazione sembra aver cominciato a serpeggiare nei confronti di quello che a tutti gli effetti assomiglia a un genocidio, a un delitto di massa contro l’umanità.

9) Quali i principali nodi tematici della Grande guerra ancora da indagare e approfondire?

Negli ultimi trent’anni la storiografia italiana e internazionale ha enormemente allargato il ventaglio delle questioni, dei punti di vista e dei nodi interpretativi in merito alla Grande Guerra, ben al di là della storia militare, politica e diplomatica. Su tutti i temi il lavoro di scavo è sempre aperto e può essere approfondito. Vorrei segnalare alcuni aspetti sui quali a mio parere resta ancora molto da fare. Il primo è quello del coinvolgimento dei civili cui accennavo prima: la condizione di vita materiale delle popolazioni travolte dalla guerra e il loro coinvolgimento diretto come veri e propri bersagli dei belligeranti. Un altro è la gestione delle eredità della guerra in termini di lutto, disabilità, invalidità, mutilazioni, e quindi legislazioni di assistenza, reinserimento, previdenza, sicurezza sociale anche se su questo esistono ormai o si preannunciano alcuni ottimi studi. Ma la gamma dei percorsi di ricerca che varrebbe la pena di seguire è anche più ampia: in Italia manca ad esempio uno studio sistematico sui pittori e disegnatori di guerra, ossia alla interpretazione figurativa dell’evento lasciata da quegli artisti che parteciparono direttamente al conflitto lasciandone impressioni dal vivo.

10) Quali consigli darebbe a un giovane ricercatore che volesse dedicarsi a questo tema storico dai molteplici riflessi e implicazioni?

Gli direi di allargare preliminarmente lo sguardo e il campo visuale servendosi di alcuni saggi non recenti e oggi poco citati risalenti al periodo interbellico o al secondo dopoguerra. Mi riferisco per esempio a Élie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, che si arrovella attorno al tema delle scosse telluriche sottostanti al precipitare della catastrofe; e a Credere o non credere dell’italiano Nicola Chiaromonte, che riflette sulla frattura – cui ho accennato – determinata dal crollo della fede nel progresso, e quindi della democrazia e del socialismo – e più in generale nella possibilità della ragione e della volontà umana di controllare gli eventi – come elemento capitale di discontinuità nella storia europea e mondiale. Da questo punto di vista una delle domande più complesse e angosciose intorno all’esplosione del conflitto rimane quella relativa al perché l’unica forza, di considerevole peso internazionale e di orientamento nettamente antimilitarista, contraria alla guerra, ossia la socialdemocrazia, non volle o non seppe impedirla. E si tratta di una questione che oggi appare decisamente trascurata.

11) Che bilancio trarre del centenario della Grande guerra e relative commemorazioni e iniziative culturali?

Pur con tutto quel che di convenzionale hanno per forza di cose gli anniversari, penso che gli aspetti positivi di questo siano stati per ora superiori ai negativi. Non ho visto novità storiografiche sostanziali ma non ho neppure sentito risuonare con intensità vuoti accenti nazionalpatriottici. Tutt’al più un po’ di facile antiretorica sui poveri fanti, che in qualche caso ha spacciato per appetitose novità temi ormai collaudatissimi. Certo non sono mancate le ricadute nei luoghi comuni (diversi dal passato ma sempre luoghi comuni), né qualche episodio pesantemente propagandistico: cito per tutti l’inserto de “La Stampa” del 19 luglio, dove la rievocazione del contributo dei Carabinieri alla battaglia del Podgora si è trasformata in una oleografia grondante retorica sull’Arma, affidata a toni epici ed enfatici del tutto fuori luogo, simile fin nell’iconografia alle pubblicazioni autocelebrative ad uso interno. Ma nel complesso mi pare si sia capito che non si trattava di “celebrare”, semmai di riflettere ancora una volta su un evento la cui comprensione profonda in parte ancora ci sfugge, ma di cui conosciamo ormai nitidamente il carattere di rivelazione della modernità e di incubazione dei peggiori fantasmi del XX secolo.

Nella foto: Truppe italiane sulle Alpi

Crediti della foto: Particolare d “Italian alpine troops” di Agence Rol – Bibliothèque nationale de France. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons..