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Genere, differenze, convivenza

Genere, differenze, convivenza

Articolo inserito nel dossier del n. 11 della rivista
Tolleranza e intolleranza. Stranieri e diversi nel mondo contemporaneo

Abstract

In questo articolo l’autrice riflette sul concetto di “Genere” e su come esso si riferisca a un dato prettamente culturale e non biologico. Il sistema della differenza di genere è infatti determinato dalle costruzioni culturali che definiscono i modelli sessuali nelle diverse società e in diversi momenti storici. A queste definizioni concorrono diversi fattori, dalla cultura alla politica, dalla società alla religione. Anche nella ricerca, la categoria “genere” ha avuto un’ampia e diversificata articolazione ed ha innescato un vivace dibattito teorico, oltre che  sociale, che qui si ripercorre.

Il Genere indica la duplice presenza del maschile, del femminile e di altri gruppi gender in determinati contesti storici. Si tratta di una categoria che – come molti studi hanno sottolineato – ha avuto un’ampia e diversificata articolazione nella ricerca ed ha innescato un vivace dibattito teorico. Il Genere si riferisce ad un dato culturale, dunque non biologico, richiama modelli e rappresentazioni: è un sistema che definisce modelli, compiti , funzioni del maschile e del femminile e, in relazione a questi, le aspettative sociali1. In sintesi indica le strutturazioni del femminile e del maschile; si riferisce alle costruzioni culturali che definiscono i modelli sessuali nelle diverse società e in diversi momenti storici. A queste definizioni concorrono costruzioni storico-culturali, le rappresentazioni simboliche, plasmate dalla cultura, dalla politica, dalla religione, ecc. che “assumono significativamente la forma di un’identificazione binaria fissa, che afferma in modo categorico e inequivocabile il significato di maschio e di femmina, di maschile e di femminile”2.

Gerarchie di Genere e stereotipi sulla “inferiorità”

Il sistema produce una rigida gerarchia valoriale con la conseguente oppressione ed esclusione dei “tipi gender” che si discostano dal modello maschile ed offre stereotipi ben definiti da usare in funzione denigratoria. Nel corso del Novecento (e non solo) a questo pozzo si è attinto a piene mani per definire e stigmatizzare il nemico interno o esterno, legittimare o esaltare politiche razziali che si fondano sul principio della “inferiorità” dell’altro. Da qui trae legittimità la soggezione e l’esclusione dalla sfera dei diritti.

Genere, razza, etnia

Anche le politiche coloniali hanno largamente fatto ricorso alle rappresentazioni di genere e si ha a disposizione un’ampia documentazione a riguardo anche di tipo divulgativo: le immagini e le vignette pubblicate dalla stampa ne sono un esempio.

Il colonialismo giustifica il proprio potere sulla inferiorità ed in tal modo legittima su un piano politico la necessità di sottomissione e di disciplinamento degli abitanti dei territori conquistati. Uomini effeminati, deboli, incapaci di esercitare il controllo sulle donne della comunità, di salvaguardare il loro onore garanzia per il mantenimento dei vincoli di sangue, cui fa pendant un’immagine femminile deteriore costruita sulla scostumatezza, la lussuria, l’immoralità. Un esempio in tal senso è dato dalle rappresentazioni pittoriche e letterarie sull’Oriente: veli strappati, corpi femminili esposti agli occhi maschili nelle fiere, promiscuità nel lusso dell’harem. Immagini che costituiscono il corredo dell’abbondante produzione culturale sulla “conquista” quale possesso di territori e di donne che li abitano, come ha ampiamente argomentato Alberto Mario Banti con i suoi studi3.

Il Genere: riconoscere le differenze, praticare la tolleranza

Le pratiche discorsive che ruotano intorno al sistema Gender hanno concorso, e concorrono, alla definizione e alla circolazione di stereotipi atti a svalutare le differenze di genere, ed aggiungerei le differenze interne ai diversi gruppi gender; garantiscono le gerarchie tra i sessi e quelle sociali.

Partire da questo presupposto, ovvero dal principio del prodotto culturale e non eminentemente biologico o anatomico, dunque non naturale ed in quanto tale immutabile, vuole dire, allora, misurarsi con uno dei principi basilari nelle organizzazione della società. Un principio generatore di differenze e gerarchie valoriali e di potere, dunque capace di rompere un presunto neutro, una visione universale fondata sull’essenzialismo. Per questo il Genere può essere considerato un’utile concetto per riflettere sulla tolleranza che, come Salvatore Veca afferma, è stata intesa dai grandi teorici, “come soluzione di uno dei problemi radicali della convivenza” ed impone una riflessione sul “come convivere nella diversità”4. Oggi, le prospettive della tolleranza vanno oltre le ragioni prudenziali, ovvero sul mero calcolo dei costi e dei benefici, ma chiamano in causa “ragioni etiche e morali, in cui il problema diventa quello di mettersi in gioco con la diversità in una interazione che alla fine, nei casi felici, se funziona, cambierà un po’ si lui, o lei, sia me, e i confini del noi (della nostra storia, della nostra tradizione) avranno una certa porosità”5.

Oltre una narrazione neutra, per una storia che contempli le differenze

Il Genere, facendo luce sui i diversi gruppi di genere, le cui definizioni sono tra loro correlate, rendendo possibile la distinzione tra appartenenza di genere e orientamenti sessuali mostra la varietà e le differenze di un sistema rappresentato sempre e solo come omologato e omologante. Omologante e repressivo: in tal senso è utile mettere a fuoco atteggiamenti intolleranti e misure repressive che nella storia sono state esercitate nei confronti dei “diversi” ovvero di coloro che agivano e si autorappresentavano – per riprendere il titolo di un bel libro sull’esperienza lesbica – “fuori dalla norma”6.

Gli studi di Genere hanno prodotto una rottura rispetto a un sistema omologato e uniforme delle narrazioni, presentato come neutro e con pretese universalitiche ed hanno favorito il riconoscimento della e delle differenze. Hanno decostruito stereotipi e messo in evidenza come i rapporti di dominio tra i sessi possano essere considerati elemento fondativo dell’ordine politico. La produzione bibliografica più recente sollecita a considerare le asimmetrie di genere in rapporto alla diverse realtà, a tenere presenti le declinazioni del sistema Genere e le asimmetrie che ne derivano focalizzando l’attenzione sugli intrecci e sulle intersezioni con la classe, la razza, le etnie.

Dalla nozione di “altro” a quella di “differenza”: una nuova prospettiva per la convivenza civile

Studiare questi aspetti e le loro implicazioni politiche, sociali, economiche, aiuta a comprendere come di fatto si sia esercitata intolleranza e pratiche di esclusione.

Riconoscere le differenze – bene lo insegna Elena Pulcini – è il primo passo per una convivenza civile basata sulla democrazia che include la tolleranza:

Lo slittamento della nozione di altro verso quella di differenza – intesa appunto come ciò che non si può né espellere né eliminare, e che agisce dunque come fattore perturbante – apre in altri termini la possibilità di declinare in positivo l’idea di contaminazione, consentendo di pensare un soggetto aperto al rischio dell’incontro con l’altro; e dunque capace di quel riconoscimento solidale (tra diversi) che prevede, insieme alla rottura dei propri confini identitari, la disponibilità alla reciproca alterazione”7.

Perché i movimenti delle donne?

I movimenti delle donne nel corso del Novecento, sebbene segnati da profonde differenze sia per quanto concerne la loro identità sia in relazione alla cornice storica entro la quale si sono manifestati, hanno mosso, con maggiore o minore radicalità, una critica agli stereotipi più consolidati. Questa è una della ragioni per cui, dopo essermi confrontata con le mie principali interlocutrici, Carla Marcellini e Luciana Ziruolo, che ringrazio per la disponibilità, ho optato per questo tema. Ma almeno altre due ragioni hanno motivato la mia scelta.

La prima è che le politiche di genere sono parte integrante dell’attuale dibattito su tolleranza-intolleranza nelle società multietniche e sovente alla questione della emancipazione delle donne alcune forze politiche fanno ricorso, non tanto per sostenerla, quanto per stigmatizzare “lo straniero”, “l’immigrato”, sostenere l’indice di “inciviltà” di popoli e culture.

Conoscere la storia della affermazione dei diritti, i suoi limiti, le sue contraddizioni, può aiutarci a contrastare l’individualismo, l’indifferenza la violenza veri e propri generatori di intolleranza. Può aiutarci a superare stereotipi consolidati, compreso quello sulle femministe. Chi scrive condivide con Chimamanda Ngozi Adichie “l’impressione che la parola ‘femminista’ e l’idea stessa di femminismo, siano altrettanto limitate dagli stereotipi”8.

Educazione di Genere

La consapevolezza sul Genere quale costruzione storico culturale e non eminentemente biologica, dato culturale e non naturale può favorire la propensione almeno ad un primo stadio al rispetto dell’altro, successivamente accogliendo le differenze, può promuovere la relazione: passaggi necessari, anzi imprescindibili, per la convivenza che si fonda – stando alle lezione di molti studiosi – non semplicemente ed esclusivamente sul rispetto ma sull’interazione. Questa nuova consapevolezza può fungere da antidoto a quelle che Elena Pulcini definisce le “passioni negative”, che escludono l’altro, il diverso, per valorizzare “le passioni positive” che convivono in noi e non per banale buonismo. “Lo slittamento della nozione di altro verso quella di differenza – intesa appunto come ciò che non si può né espellere né eliminare, e che agisce dunque come fattore perturbante – apre in altri termini la possibilità di declinare in positivo l’idea di contaminazione, consentendo di pensare un soggetto aperto al rischio dell’incontro con l’altro; e dunque capace di quel riconoscimento solidale (tra diversi) che prevede, insieme alla rottura dei propri confini identitari, la disponibilità alla reciproca alterazione9. Sulla base di queste affermazioni, in relazione al tema proposto dalla Scuola, possiamo considerare l’educazione al Genere una strada che conduce a considerare almeno due delle “parole chiave” della tolleranza: la varietà e le differenze10. Questo il presupposto che può aiutarci a costruire un’ identità aperta alla differenza, a spingerci all’esposizione che si traduce in confronto e contaminazione per rifuggire dalla assolutizzazione dell’identità (questione illustrata da Francesco Remotti nel corso della sua lezione e più articolatamente nella sua produzione scientifica).

Obiettivi

Mi propongo di focalizzare questo intervento sulla scelta dei femminismi di fare “agire” le differenze di genere e di operato direttamente o indirettamente a favore della convivenza. Sottolineo indirettamente, perché per il caso italiano, il termine tolleranza non è particolarmente presente nel vocabolario del “primo femminismo”, ma troviamo negli intenti e nelle pratiche espressioni che intersecano e interagiscono con questa categoria.

In queste esperienze , sebbene vi siano discontinuità e rotture, possiamo cogliere un’apertura progettuale verso le esperienze compiute in altri paesi, la presenza di donne cosmopolite, colte, a contatto con culture diverse, al centro di una rete di scambi internazionali. Aspetti solo in parte indagati dalla ricerca storica, sui quali aprono interessanti prospettive gli studi post coloniali e la Global History.

I movimenti delle donne

Nell’ambito del Novecento, si possono individuare tre fasi periodizzanti la storia dei movimenti e, sebbene si possano individuare somiglianze e punti in comune, si può a ragione parlare, molto grossolanamente e schematicamente, di tre distinte stagioni.

a. Il “primo femminismo” che vede la sua massima espressione in età giolittiana.

b. Le associazioni di massa che nascono tra Resistenza e secondo dopoguerra.

c. I femminismi degli anni Sessanta e Settanta.

Il primo femminismo”: tesi storiografiche

Se le prime elaborazioni sulla “rigenerazione” o sulla “emancipazione” femminile si sviluppano e si diffondono tramite la stampa già nella seconda metà dell’Ottocento, è solo alle soglie del nuovo secolo che il movimento acquista visibilità, si struttura in associazioni diffuse principalmente nelle grandi città e si dota di testate giornalistiche. Per dirla con Sibilla Aleramo, è in età giolittiana che “la lenta ma perseverante fiumana femminile che sale, sale, sale, chiedendo giustizia e verità, verità e giustizia”. Questa seconda “ondata” è stata criticamente analizzata da Franca Pieroni Bortolotti, la quale ha sottolineato una tendenza moderata capace di attrarre “minoranze borghesi”, ma nonostante l’esiguità della rappresentanza, questo movimento “seppellì il patrimonio delle lotte del passato, abbandonò la linea delle rivendicazioni, e spesso si tradusse in una riviviscenza del vecchio, odioso filantropismo, che già era stato a suo tempo battuto e superato”, smarrendo quella “chiarezza ideale dell’impostazione” che aveva connotato la Lega per la tutela degli interessi femminili nata nel 188111. Tra i sintomi di questa inversione di tendenza, la storica fiorentina indica la centralità e l’esaltazione della cultura del materno e delle attitudini femminili che implicano l’abbandono delle lotte per l’uguaglianza.

La tesi è stata discussa in maniera puntuale ed articolata da Annarita Buttafuoco che ha offerto una lettura inedita a riguardo, indicando una diversa interpretazione e periodizzazione. La cesura interna al movimento nel senso definito da Bortolotti matura con la guerra di Libia: questo l’evento che imprime la svolta nel senso moderato o conservatore indicato da Bortolotti, è in questa fase – anche secondo il mio più modesto parere – che il “materno” prende una diversa curvatura e andrà rapidamente identificandosi con un discorso garante dei destini della nazione: tendenza che assume più radicali forme e consensi con la grande guerra.

Di fatto il materno come leva per la conquista dei diritti ha costituito un tassello significativo pure per la “prima ondata”. Nella valorizzazione della maternità, sulla quali il movimento fondò e diede legittimità alla rivendicazione dei diritti femminili, Buttafuoco individua un terreno originale, una sfida per ridefinire il paradigma dell’uguaglianza così come era stato formulato dai teorici del pensiero politico.

Uguaglianza o equivalenza

Il movimento rivendica suffragio, garanzie per la maternità, diritto al lavoro e parità salariale, istruzione, protezione fanciulli, abolizione autorizzazione maritale e una parte sostiene il divorzio, non manca la denuncia delle violenze (si pensi anche solo a Una donna di Sibilla Aleramo e a Avanti il divorzio di Anna Franchi). Le posizioni sono diverse, più moderate o progressiste (tanto per intenderci). Un quadro che Sibilla Aleramo bene descrive ricorrendo alla “babele” di linguaggi, ma è interessante analizzare le categorie che sorreggono tali rivendicazioni e, più complessivamente, il progetto della donna nuova largamente propagandato.

Legittima l’accesso alla cittadinanza non il paradigma dell’uguaglianza (sulla quale donava lucide riflessioni Anna Maria Mozzoni), bensì il materno, anzi si può a ragione affermare che prende corpo una vera e propria retorica del materno: questa la via che le femministe individuano per evitare l’omologazione al modello maschile e soprattutto lo spettro della mascolinizzazione delle donne. Certo, la consapevolezza e la valorizzazione della differenza di genere appartiene ai movimenti nati settant’anni dopo, ed infatti non troviamo negli scritti di Ersilia Majno, Rina Rignano Sullam, Carmela Baricelli, solo per citarne alcune, la radicalità espressa più di mezzo secolo dopo, né la lucidità di analisi critica. Esse non richiamano alla differenza quanto piuttosto all’equivalenza e si impegnano per il conseguimento della piena cittadinanza che si fonda sul binomio diritti-doveri.

Sull’equivalenza più che sulla parità – come Annarita Buttafuoco ha sostenuto – si concentravano le parole d’ordine del movimento, il cui obiettivo andava ben oltre l’integrazione delle donne nella sfera pubblica, si voleva marcare con la propria presenza le relazioni tra gli individui e tra questi e lo stato, ridefinire i rapporti sociali e politici sulla base di valori di libertà e di uguaglianza. Questi obiettivi, oltre a mettere in discussione i privilegi dettati dall’appartenenza di genere, indicavano i criteri sui quali si fondavano le gerarchie sociali: «uguaglianza ed equivalenza tra i due sessi: nel primo termine si appiattiscono quelle differenze che contraddistinguono uomo e donna […] un patrimonio da valorizzare anche nell’impegno sociale»12.

Retorica del materno

Si esaltano le attitudini da sempre attribuite alle donne, quali la dedizione agli altri, mitezza del carattere e, per conseguenza, indole pacifica che risultano essere i presupposti per una pacifica convivenza. Tali virtù da sempre ritenute esclusivamente funzionali alla sfera privata divengono attitudini necessarie per la convivenza civile.

La rivendicazione dei diritti su queste fondamenta incrina una concezione del diritto di cittadinanza quale territorio maschile fondato su un concetto di uguaglianza improntata sull’omologazione» e si sottolinea, per molti versi, che l’universalismo è un principio astratto che nasconde una connotazione di genere. Si metteva in discussione il fondamento del contratto sociale che – come è stato messo in luce – è un patto fraterno, nonostante sia presentato quale neutro e desessualizzato13. L’uguaglianza esaltata dalla ragione dei Lumi conteneva una contraddizione: l’ineguaglianza dei sessi in nome della differenza sessuale. Non vi era rottura, “rivoluzione”, rispetto alla tradizione. Le donne restavano ancora relegate nella sfera privata, nella dimensione dell’oikos, della casa, della famiglia.

Un patto attraverso il quale si stabiliscono i compiti e le funzioni proprie degli uomini e delle donne, secondo una partizione gerarchica, si definiscono i diritti e i doveri che regolano il rapporto degli individui con la società e lo Stato, dunque, i modelli di cittadinanza. Sulla base di questo approccio teorico, le donne devono essere madri e adempiere alle funzioni che da ciò derivano, al contempo si edifica un appropriato apparato retorico volto ad esaltare le virtù domestiche. La famiglia diviene allora il posto giusto per le donne, mentre l’arena pubblica è definita rigorosamente al maschile. Si ristabiliva la netta divisione tra sfere di competenza maschili e femminili con la loro conseguente esclusione delle donne dalla sfera pubblica, secondo il principio del loro “naturale” compito di mogli e di madri e, in quanto tali, affidate alla dimensione privata. Una distinzione e gerarchia– come ha indicato Hanna Arendt in Vita Activa – che si fonda su una sfera pubblica dotata di significato, che garantisce l’identità soggettiva, teatro della storia e della vita collettiva, l’agorà, e una sfera privata irrilevante e anonima. Un privato, come osservava Anna Maria Mozzoni, che umiliava e mortificava: “Nell’ordinamento domestico la donna rappresenta il parassitismo e la servitù. L’autorità materna è la virtualità senz’atto. La condizione della sposa è la servitù sotto l’insegna dell’eguaglianza”14.

Quelle attitudini che, stando ai teorici del pensiero illuminista e ai padri del liberalismo, rendendo le donne particolarmente “adatte” all’ambito domestico le escludevano dalla cittadinanza, divenivano ora punto di forza per la sua conquista e per una sua nuova declinazione.

Le pratiche solidali

La ricerca di una realizzazione pratica delle proposte politiche avanzate fu una caratteristica peculiare del movimento di primo novecento. Una caratteristica da cui è maturata la definizione di “femminismo pratico”. Singole donne e associazioni promossero una vasta attività assistenziale volta al rinnovamento, oltreché allo sviluppo, delle “capacità femminili” (Fate agli altri quel che vorreste fosse fatto a voi era il motto del Consiglio Nazionale delle Donna Italiana).

I numerosi comitati, centri, asili, ambulatori, biblioteche e scuole fondate nei primi anni del secolo, sono contemporaneamente centri di assistenza e luoghi di diffusione del messaggio politico. La “elevazione della donna” si traduceva nell’istruzione, in una formazione coerente con i nuovi doveri e compiti che la modernizzazione richiedeva. In questo quadro si colloca la costante e tenace opera di esaltazione delle capacità femminili assunti a valori guida della convivenza civile e dei rapporti tra gli individui, uomini, donne, bambini. Si legge sul programma de L’Alleanza, fondata nel 1906 da Carmela Baricelli: “L’Italia deve farsi iniziatrice energica di ogni azione propugnante il rispetto alle nazionalità e alla vita umana”15. Posizioni espresse da altre esponenti di questo femminismo che a lungo rimase fedele al principio dell’autoderteminazione dei popoli e dei singoli e su tale principio molte fondarono il discorso sull’emancipazione femminile e l’anticolonialismo, perché “tutte le libertà e tutti i diritti si danno fraternamente la mano”16, affermava Mozzoni e, in un’altra occasione scriveva:

“no havvi differenza fra noi che d’espressione, come v’ha molteplicità di linguaggi, varietà di costumi, individualismo di caratteri, diversi gradi d’intelligenza, molte fasi di civiltà, mille e mille combinazioni di luogo, di tempo, di persona, di circostanze, che mutuano, alternano, modificano o determinano in mille sensi diversi l’espressione dell’unico, universale, innato sentimento dell’umana natura”17.

Le “altre”

La pratica politica quotidiana, la parola diretta e l’esempio sollecitarono pratiche fondate sulla cura e solidarietà verso le “sorelle più deboli”.

Colpisce la scelta dell’Associazione per la donna a Roma che, in collaborazione con la Giunta Nathan, inaugura un dormitorio per le immigrate, provenienti dal basso Lazio e dalle regioni confinanti, alla Stazione Termini, un primo centro di accoglienza dotato di servizi e letti che videro avvicendarsi molte giovani.

Una particolare attenzione, non senza una vena moralizzatrice e uno sguardo commiserevole, furono rivolte alle prostitute sulle quali si concentrava l’intervento del movimento internazionale contro “la tratta delle bianche”. Un esempio a riguardo è dato da L’Asilo Mariuccia, istituito a Milano nel 1902 da Ersilia Majno, fondatrice e presidente dell’Unione Femminile Nazionale, attiva nel movimento sopra citato.

Le giovani prostitute, simbolo oppressione maschile, per alcune anche di classe, erano accolte ed “educate” secondo i valori dell’emancipazione nell’intento di formare la donna nuova, “un’identità femminile nuova, più consapevole, più disponibile a nuovi rapporto sociali improntati allo sviluppo dei valori femminili”18. Su questo punto si misurano i limiti delle femministe e la difficoltà a misurarsi con esigenze e culture tanto diverse dalle loro, così come si coglie l’intento disciplinante che merita di essere considerato nelle sue diverse implicazioni anche rispetto al discorso sulla tolleranza e sulla convivenza. Schede biografiche, giudizi e annotazioni redatte dalle dirigenti dell’Asilo Mariuccia costituiscono una fonte primaria per esaminare le caratteristiche di due mondi che risultano essere distinti e lontani, come testimonia il severo giudizio di alcune dirigenti “persino rigide nella loro compostezza”, prigioniere di una morale sessuale discriminante:

“Un tanfo che ammorba – scriveva Emma Muggiani – ci vien gettato in faccia dalle rivelazioni di queste nostre sorelle che un caso fortuito, una razzia poliziesca ha tratto alla nostra presenza. Il problema della vita sessuale si affaccia minaccioso e tormentoso alle nostre menti – e le nostre coscienze sono profondamente turbate da un senso di negletta responsabilità e di complicità in una grande delitto collettivo”19.

Nel “primo femminismo” erano diffuse contraddizioni, atteggiamenti di superiorità che si manifestavano con la chiara e inneggiata volontà di “redenzione” delle prostitute come delle donne di altre culture e paesi. Sentimenti contrastanti, solidarietà e volontà di redimere che attraversano la cultura politica tra otto e novecento e non rappresentano certo un argine a possibili derive intolleranti e razziste. Ma su questo punto ritengo sia necessario riflettere ancora tenendo ben saldi attrezzi e metodologie proprie del metodo storico, primi tra tutti: contestualizzazione e varietà di fonti.

Il secondo dopoguerra

Le principali associazioni femminili, Unione donne italiane e Centro italiano femminile, legate ai partiti politici, e quelle autonome AFI, ANDE, CNDI (ancora poco studiate), così come le 21 elette all’Assemblea Costituente, parteciparono alla definizione di un modello di cittadinanza capace di includere le differenze. Come lo spiega bene, sinteticamente ma efficacemente, Maria Federici, presidente del CIF, eletta alla Costituente nelle liste della Democrazia Cristiana: attraverso il materno le donne rimescolarono «le carte della politica» indirizzando così il discorso sui diritti sociali che potevano tradursi in garanzie per la maternità e l’infanzia, in un alleggerimento del lavoro domestico e, dunque, in una porzione di tempo a disposizione da poter dedicare alla sfera pubblica. Questa impostazione, con i suoi sbocchi nelle pratiche assistenziali, favorì l’accesso graduale alla sfera pubblica, fu confacente alle esigenze di coloro che si sentivano competenti e pronte su questo terreno meno su altri, favorì lo sviluppo di una cultura solidale e prefigurò – come la storiografia ha ampiamente dimostrato – le moderne politiche di welfare.

Ancora il materno

La valorizzazione delle specifiche capacità femminili non restava esclusivamente inserita nella cornice della tradizione, le risorse delle donne andavano oltre il sentimentalismo o l’oblatività. Ada Gobetti sembrava anticipare alcuni studi di sociologia del lavoro domestico quando dal palco della prima Conferenza nazionale dell’Udi – che si svolse al teatro Eliseo di Roma dal 6 all’8 settembre del 1946 – affermava:

Le donne sono per natura loro organiche ed ordinate; quando la donna esce a fare la spesa non esce così a caso: essa sa che cosa ha nella borsetta, sa quello che deve comperare e naturalmente si organizza, così come organizza tutto il lavoro della giornata: a tale ora devo fare questo a tale altra quell’altro.

E come organizza il piano della giornata così organizza il lavoro di tutta la settimana: un giorno lavo, un giorno stiro ecc. così organizza il suo piano per la sua vita, la donna pensa all’estate metterà da parte le cose necessarie per l’inverno e pensa l’inverno a mettere da parte i soldi per mandare i bambini al mare l’estate. La donna è sempre previdente ed ordinata.

Perché è previdente e ordinata? Perché sa dove arrivare, perché ha un piano. Ora noi sentiamo questo bisogno di un piano. Noi dobbiamo vedere dove dobbiamo arrivare, noi dobbiamo avere un piano: non dobbiamo subire alla giornata.

Le donne potevano allora mettere a disposizione del governo della cosa pubblica qualità specifiche e concrete e su queste convinzioni si fondò l’attività sociale e il lavoro politico nelle istituzioni, con l’obiettivo di realizzare la democrazia e di inaugurare un nuovo costume politico. In quegli anni si delinea un modello di cittadinanza societaria e operosa fondata sulla responsabilità individuale e si prospettano diritti che impegnano lo Stato in un ruolo attivo.

L’articolo 3

Se nella Costituzione è l’articolo 2 a garantire “i diritti inviolabili dell’uomo” ma un passaggio fondamentale rispetto alle discriminazioni di sesso è dato dall’Articolo 3 che certo non è solo opera delle donne. Insigni costituzionalisti avevano chiara la complessità del discorso sull’uguaglianza formale e sostanziale: i diritti sociali – osservava Piero Calamandrei – «costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche»20, il secondo comma stabilisce – per stare alla definizione di Pietro Scoppola – un “ruolo fattivo” dello Stato. ma ai fini del nostro tema è utile ricordare che su questo articolo, come su altri volti a inscrivere l’“equivalenza” nella Costituzione, parteciparono le deputate che si dimostrano pure pronte a cogliere le derive di quel discorso sul materno: “L’onorevole Molè – affermava Maria Maddalena Rossi -, giorni fa, ha parlato in termini molto elevati della donna, della madre; l’ha posta così in alto che ad un certo punto ho avuto quasi il timore che la donna, la madre di cui egli parlava si perdesse tra le nubi, lasciando nella realtà mogli e madri italiane nello stato di inferiorità, cui le costringe l’attuale legislazione italiana”.

La esplicitazione del termine “sesso” nel primo comma dell’articolo 3, sebbene vada ricondotta al dibattito internazionale sulla Carta universale dei diritti umani che vede la decisa e consapevole partecipazione di diverse donne, prime tra tutte Eleonore Roosvelt21, possa, quindi, per molti versi dirsi scontata, a ben guardare, in Italia qualche resistenza la incontrò. Un deputato obiettò che la dicitura “tutti i cittadini” comprendeva già le donne, la deputata, assai poco convinta dell’uso neutro di quel temine, prontamente replicava: «Onorevoli colleghi, molti di voi sono insigni giuristi e io no, però conosco la storia. Nel 1789 furono solennemente proclamati in Francia i diritti dell’uomo e del cittadino, e le costituzioni degli altri paesi si uniformarono a quella proclamazione che, in pratica, fu solamente platonica, perché cittadino è considerato solo l’uomo con i calzoni, e non le donne, anche se oggi la moda consente loro di portare i calzoni. Insisto sul mio emendamento anche in vista degli sviluppi d’ordine legislativo che ne seguiranno».

Per “un’etica della cura”

Dal 1944, anno della loro fondazione, Udi e Cif, talvolta in collaborazione, lanciano una larga mobilitazione popolare a favore dei bambini colpiti dalla guerra. Denutrizione, malattie, abbondoni scolastici richiedevano un intervento. Nel corso del 1945 da Milano, Torino, Roma, Cassino -per citare soltanto alcune città- partono migliaia di bambini per l’Emilia, dove sono accolti presso le famiglie. E’ l’inizio di una campagna di solidarietà e la solidarietà sappiamo segnare il passaggio da un concetto limitativo di tolleranza (tolleranza passiva) alla partecipazione affettiva che si nutre dei valori connessi alla cura dell’altro.

La “responsabilità della cura” – sulla quale molto è stato scritto a cominciare dal discusso, talvolta contestato, libro di Carol Gilligan, Con voce di donna22 – offre molti spunti e riflessioni per interpretare la storia dei movimenti delle donne e può offrire un corredo di idee che fungono da antidoto all’intolleranza. Una prospettiva lucidamente indicata da Elena Pulcini, la quale ha dedicato approfonditi e innovativi studi al tema. In questa prospettiva e di fronte ai grandi mutamenti dell’era globale, l’”etica della cura” va oltre la dimensione del privato per aprirsi alla “cura del mondo” intesa come riconoscimento e relazione (contaminazione) sia con l’altro “per la creazione di un mondo plurale” sia con l’ambiente che ci accoglie per “prendere in cura il mondo” nella consapevolezza arendtiana della sua estrema “fragilità” 23.

In questa cornice allora, le capacità di cura e di dedizione non rientrano nelle “naturali” vocazioni femminili, ma sono piuttosto il prodotto di esperienze svolte dalle donne, le sole possibili, le sole che sono state loro consentite per secoli, che possono essere socializzate al di là delle appartenenze di genere e rappresentare una risorsa per la convivenza civile.

I rischi della Politica totalizzante

Negli anni Cinquanta, quel clima di “guerra civile dell’anima” – stando all’efficace definizione che Remo Bodei dà della guerra fredda – toccò pesantemente le politiche delle donne e compromise una loro possibile collaborazione. In quell’ atmosfera di “emergenza psicologica” tutto sembra essere fagocitato dalla necessità di difendere la pace, indiscutibilmente all’interno del proprio schieramento politico nazionale e internazionale. Da questa cornice certo non si può prescindere per interpretare il clima di aperta ostilità pure in seno ai movimenti delle donne (sebbene non manchino momenti di forte collaborazione e riconoscimento reciproco, come conferma la Legge sulla tutela della lavoratrice madre del 1950). Leggendo memorie, lettere, autobiografie, ricostruendo le biografie delle protagoniste, il limite è per molti versi “interno” alle culture politiche del secondo dopoguerra, mi riferisco ad una sorta di insufficienza culturale proprio per quanto concerne il riconoscimento del valore delle singole individualità. Prevale una visione comunitaria, certamente solidale (che non è poco nel senso che può aprire la strada ad una cultura della convivenza e dell’accoglienza), ma insufficiente a prospettare e coniugare riconoscimento del singolo e comunitarismo. Limiti e insufficienze derivano, a mio parere, dalla debole attenzione di queste culture, e nel campo comunista quella comunista alla dimensione privata dei soggetti – come ho avuto modo di dire in altre occasioni, questa carenza si è tradotta specialmente per le donne in una terribile prigione -. Questo limite ha inibito l’elaborazione su questi temi, sui diritti della persona, sulle libertà individuali che sono parte integrante del discorso sulla tolleranza.

Oltre la polarizzazione dello scontro

Ma sarebbe un grossolano errore leggere gli anni più duri della guerra fredda solo nel quadro dell’omologazione e dell’intolleranza. Dai dati che emergono dalle prime ricerche svolte nell’ambito del liberal socialismo come del mondo cattolico, affiorano dati interessanti, singole personalità che rompono l’antinomia amico nemico per muoversi in un più ampio palcoscenico: penso alla liberale Teresita Sandesky Scelba; alla cattolica Angela Zucconi (l’amica con le “scarpe rotte” di Natalia Ginzburg); alle azioniste Maria Comandini Calogero e Anna Lorenzetto entrambe attive nel Movimento di Collaborazione Civica (MCC). Entrambe pedagogiste vicine a Margherita Zoebeli: tutte impegnate a “costruire ponti, abbattere steccati”. Dovremmo forse tornare a studiare quei progetti pedagogici, proprio come qualche anno fa suggeriva Goffredo Fofi. Sono donne inserite in una rete internazionale, nella quale un’altra importante figura di quegli anni, la giornalista e scrittrice Anna Garofalo, un “vero potenziale di tolleranza e di civismo”. E’ chiaro – osservava Garofalo a proposito del lavoro svolto presso le Commissioni Onu – che “queste donne e tutte le altre che lavorano nello stesso ambiente e con gli stessi fini possono avere una determinata influenza nella difesa di quei principi di tolleranza e di civismo che sono alla base di una politica di pace, mentre le “italiane risultano totalmente assenti da quell’agone internazionale ove si covano le sorti del mondo futuro”.

Gli anni Sessanta-Settanta: contro l’omologazione.

I movimenti che si affermano negli anni a cavallo tra il Sessanta e il Settanta nascono e si sviluppano in uno scenario profondamente mutato rispetto a quello che vede protagoniste l’Udi e il Cif e ben diverse sono le protagoniste. Per ragioni di sintesi non mi soffermo su questi aspetti, né sulle differenti posizioni interne al femminismi, mi limito, invece, solo a mettere a fuoco alcuni punti salienti della elaborazione di quegli anni.

Il movimento critica la linea dell’emancipazione per assumere invece una nuova prospettiva, la liberazione della donna, da qui la critica alla omologazione al modello maschile (di cui sono considerati “colpevoli” i precedenti movimenti) e la valorizzazione, o meglio la scoperta, della soggettività femminile. L’omologazione, sottolinea DEMAU (Gruppo antiautoritarismo e Demistificazione, Milano 1966), si traduce in condivisione e validazione dei modelli attuali. Queste posizioni, enunciate intorno alla metà degli anni Sessanta, sono una costante, pur con delle differenze, in altri documenti, veri e propri manifesti del nuovo femminismo (v. Piattaforma politica di un gruppo di studentesse dell’Università “La Sapienza” 1969, Manifesto di Rivolta femminile di Elvira Banotti di Roma e Carla Lonzi di Milano, 1970). In Rivolta femminile del 1970 si legge “La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà”. Bastano queste affermazioni per cogliere la radicalità del movimento e la scelta di “decostruire” il modello femminile così come storicamente era stato definito, di mettere a nudo La mistica della femminilità, come recita il titolo del volume uscito in Italia nel 1964 di Betty Friedan – diffuso, letto e discusso in quegli anni.

Nel perseguimento di questo obiettivo politico, per una parte del movimento, l’autocoscienza e il separatismo sono strumenti previlegiati. Questi orientamenti caratterizzano la prima fase che – per riprendere il filo dei temi sui quali mi avete sollecitata a riflettere – è stata anche di chiusura e di intolleranza, come processo di affermazione di un’identità che rivendica la propria legittima presenza contro oppressione, emarginazione, esclusione24. Scelte rafforzate dalla ricerca di inedite forme di autorappresentazione (abiti, colori, simboli) proprio a sottolineare un’identità forte e “altra”.

Del resto, il movimento nasce e si sviluppa in un quadro che rifiuta questa categoria – si pensi a Marcuse – considerata parte di un apparato concettuale proprio delle società borghesi e maschiliste. Si sostiene, in sintesi, che le donne sono state sottomesse nei secoli ad una condizione di tolleranza perpetua riguardo ai costumi sociali, alle culture, alle leggi fondate sul maschile.

Vale la pena sottolineare che l’accento sulla solidarieta’ (sorellanza) ha inibito a lungo il riconoscimento delle differenze tra donne e si può individuare in questo anche un ostacolo al confronto tra diverse posizioni, nonché l’affermarsi di strappi laceranti: una pagina del movimento sulla quale ha richiamato l’attenzione Anna Bravo25.

Il movimento delle lesbiche nasce in seno al femminismo ma non c’è condivisione, incontro, contaminazione, forse sopportazione, nel senso più limitato del significati attribuiti alla tolleranza, come sembra suggerire Elena Biagini in un volume in uscita sul movimento lesbico negli anni Settanta-Ottanta.

Da qui ha inizio, a mio avviso, lentamente, una messa in discussione di alcune posizioni del movimento che investono anche la elaborazione teorica sul Gender.

Ma il disagio si manifestava in seno al movimento. Nel giugno 1977, “Effe” pubblicava un articolo dal titolo impariamo la tolleranza. Di fronte a un conflitto maturato in Francia tra il movimento delle prostitute e il movimento, la rivista del movimento femminista romano, il movimento si interrogava usi rapporti interni e sulla tolleranza: “Se da un lato è essenziale che molte di noi rimangano completamente autonome, dall’altro dobbiamo essere tolleranti nei confronti di quelle compagne che decidono di impegnarsi all’interno delle strutture e non dimentichiamo che la solidarietà tra donne è, sulle questioni di fondo, molto più grande di quello che può dare la sola ideologia, perché più grande è la loro diversità ed estraneità al sistema e perché il sistema stesso si incarica di ricordarlo ogni giorno a tutte le donne, anche le più «riformiste».

Vale la pena ricordare che questa è una pagina non trascurabile del femminismo che non è stato solo questo, anche se questo non va omesso nella ricostruzione della sua storia.

Nel manifesto programmatico del DEMAU si legge:

“4° Emancipazione dell’uomo; in quanto il maschio è a sua volta privato di vaste possibilità umane.

Come la donna non ha raggiunto la propria maturità senza conquistare a sé valori finora negatile, così l’uomo non possiederà sufficienti strumenti di giudizio e comprensione se non conquisterà quelli da lui finora disprezzati, o invidiati, come « femminili ».

Anche l’uomo, inoltre, di fronte all’emancipazione femminile, si potrà trovare in situazioni di sfruttamento e squilibrio.”

A me pare si prospetti un’identità negoziata a partire dalla differenza e questo mi sembra un buon principio orientato verso la tolleranza. Ma in questi anni, il quadro si va sensibilmente ampliando grazie alla messa in discussione di alcune posizioni del movimento che investono anche la elaborazione teorica sul Genere.

Se da un lato il concetto di differenza sessuale ha discusso le pretese di neutralità che si annidano dietro la categoria di uguaglianza così come è stata elaborata e declinata dalla tradizione liberale, mettendo a nudo la sua fondazione sulla gerarchia tra i sessi e sul dominio del modello maschile patriarcale, dall’altro ha rischiato di assolutizzare questa categoria. Altri soggetti rivendicano la necessità di fare interagire questa differenza con quella di classe, razza, etnia.

La storica norvegese Ida Blom ha affermato, la categoria di genere mostrando l’inconsistenza dell’idea di femminile come dato universale, con la medesima valenza in ogni contesto, ha consentito l’espandersi della narrazione storica oltre i confini occidentali, facilitando la proiezione della storia delle donne in una dimensione globale e consentendole di aprire un dialogo con i già affermati studi degli world history. Come ha osservato Francoise Thébaud, sembra oramai superata la focalizzazione sul dualismo maschile-femminile e ci si interroga “sulla complessità delle relazioni tra dominio maschile e capacità di azione delle donne” attraverso lo studio di altri soggetti, delle identità LGBQT e quelle nate dalle migrazioni e dai processi della globalizzazione26.


Note:

1**Molte parti di questo articolo sono tratte da miei precedenti lavori: Alle origini dei movimenti politici delle donne in Italia e Donne nella Repubblica, in Donne, Politica e Istituzioni. Percorsi formativi per la promozione delle pari opportunità nei centri decisionali della politica, a cura di S. Dell’Avanzato e L. Gigli, Graphicomp, Arezzo, 2006, rispettivamente alle pp. 20-30, 57-69; Programmi, passioni, ritratti singoli e di gruppo. Il movimento politico delle donne negli studi di Annarita Buttafuoco, in “Italia Contemporanea”, n° 220-221, 2000, pp. 431-462 rivisto e ampliato in Questioni di femminismo e di cittadinanza. Leggere Annarita Buttafuoco, Quaderni di studi sulle donne, Università di Siena, n.2, 2001, Arezzo, Graphicomp, 2001; terzo capitolo di Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista, Roma, Carocci, 1999; Il primo voto: elettrici ed elette, Roma, Castelvecchi, 2016.

 Per una sintetica ma utile trattazione anche a fini didattici E. Ruspini, Le identità di genere, Roma, Carocci, 2009.

2 Si veda Joan. W. Scott, Genere, politica, storia, a cura di Ida Fazio, Postfazione di Paola Di Cori, Roma, Viella, 2013.

3 Alberto M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2001.

4 S. Veca, Tolleranza, Bentivoglio (Bologna), ASMEPA, 2012, p. 17. Utile, anche a fini didattici, per un quadro sul dibattito M. L. Lanzillo, Tolleranza, Bologna, il Mulino, 001.

5 S.. Veca, Tolleranza, , p. 27.

6 N. Milletti, L. Passerini ( cura di), Fuori dalla norma. Storie lesbiche nell’Italia della prima metà del Novecento, Torino, Rosenberg& Sellier, 2007,

7 E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 17.

8 Ch. Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, Torino, Einaudi, 2015, p. V.

9 E. Pulcini, La cura del mondo, cit.,p. 22.

10 S. Veca, Tolleranza, cit., p. 15.

11 F. Pieroni Bortolotti, Introduzione, in A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, a cura di F. Pieroni Bortolotti, Milano, Mazzotta, 1975, p. 23.

12 A. Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica: l’Asilo Mariuccia, Angeli, Milano, 1985, p. 186; Ead., Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, Protagon, Siena, 1997.

13 C. Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997.

14 A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, cit., p. 49.

15 C. Baricelli, Dichiarazione e programma femminista, 16 giugno 1906.

16 A. M. Mozzoni, La liberazione della donna, cit., p.192.

17 Ivi, pp. 93-94.

18 A. Buttafuoco, L’Asilo Mariuccia, cit., p.49.

19 Ivi, p. 186.

20 Cit. in N. Bobbio, Sui diritti sociali, in G. Neppi Modona, Cinquant’anni di Repubblica italiana, Einaudi, Torino, 1997, pp. 115-123.

21 Sul tema si sofferma M. Flores, Storia dei diritti umani, il Mulino, 2008.

22 C. Gillighan, Con voce di donnaEtica e formazione della personalità, Milano, Feltrinelli, 1987.

23 E. Pulcini, La cura del mondo, cit,.

24 Sulle diverse tesi e questioni che ruotano intorno alla costruzione delle identità e a “i guasti dell’identità” si veda F. Remotti, Identità o convivenza? in T. Mazzarese ( cura di), diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti multiculturali, Torino, Giappichelli editore,2013, p.57 “Che l’identità abbia dunque i suoi “pregi” viene confermato da una ulteriore osservazione di Holzner, quella secondo cui l’identità diviene una rivendicazione strategica anche per quei movimenti – come per esempio il black power negli Stati Uniti – che mirano a cambiare le relazioni di potere dal punto di vista di gruppi svantaggiati”.

25 A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008.

26 Pauline Schmitt Pantel e Françoise Thébaud, Le nuove frontiere della Storia di genere dall’Antichità all’Età contemporanea, in Laura Guidi e Maria Rosaria Pelizzari (a cura di), Nuove frontiere per la Storia di genere, Vol.I, Università di Salerno, Salerno, 2013, pp. 53-68.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Genere, differenze, convivenza
DOI: 10.12977/nov270
Parole chiave: , , , ,
Numero della rivista: n.11, febbraio 2019
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Genere, differenze, convivenza, Novecento.org, n. 11, febbraio 2019. DOI: 10.12977/nov270

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