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Le sorti dell’Alto Adige dopo la seconda guerra mondiale e l’Accordo De Gasperi-Gruber

Le sorti dell’Alto Adige dopo la seconda guerra mondiale e l’Accordo De Gasperi-Gruber

La firma dell’accordo tra Gruber (a sinistra) e De Gasperi
Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

Alla fine della Seconda guerra mondiale, a livello internazionale si pose ancora una volta la questione circa il destino dell’Alto Adige. Era già successo al termine della Grande Guerra e, in entrambi i casi, le sorti della provincia di confine vennero stabilite sui tavoli internazionali degli accordi di pace. È in tale contesto che si inserisce l’Accordo De Gasperi-Gruber, firmato dai ministri degli Esteri di Italia e Austria, che gettò le basi per la successiva soluzione autonomista. Intorno a tale accordo, si sono spesso confrontate interpretazioni differenti, che solitamente hanno attribuito un ruolo sproporzionato, positivo o negativo che sia, ai due firmatari. Tutto ciò con riferimenti spesso deboli al contesto più ampio in cui agirono i due uomini politici. In questo contributo si vuole mostrare come a decidere le sorti dell’Alto Adige, più che i meriti o gli errori dei due protagonisti che hanno dato il nome all’accordo, sia stato proprio il quadro internazionale.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, a livello internazionale si pose ancora una volta la questione circa il destino dell’Alto Adige. Era già successo al termine della Grande Guerra e, in entrambi i casi, le sorti della provincia di confine vennero stabilite sui tavoli internazionali degli accordi di pace. È in tale contesto che si inserisce l’Accordo De Gasperi-Gruber, firmato dai ministri degli Esteri di Italia e Austria, che gettò le basi per la successiva soluzione autonomista. Intorno a tale accordo, si sono spesso confrontate interpretazioni differenti, che solitamente hanno attribuito un ruolo sproporzionato, positivo o negativo che sia, ai due firmatari. De Gasperi è stato dipinto talvolta come l’illuminato europeista, animato dal sincero desiderio di favorire la convivenza pacifica dei diversi gruppi linguistici, altre volte come il furbo negoziatore interessato solo a regalare l’autonomia al suo Trentino. Di fronte a lui, Gruber ha fatto spesso la figura del ministro troppo giovane e inesperto, inconsapevole delle conseguenze concrete di un accordo troppo vago e, soprattutto, rinunciatario di fronte a una presunta, concreta prospettiva di riportare il Sudtirolo in Austria. Tutto ciò con riferimenti spesso deboli al contesto più ampio in cui agirono i due uomini politici. In questo contributo si vuole mostrare come a decidere le sorti dell’Alto Adige, più che i meriti o gli errori dei due protagonisti che hanno dato il nome all’accordo, sia stato proprio il quadro internazionale. Al centro del contendere vi era il confine del Brennero, con l’Austria che ne chiedeva la messa in discussione e l’Italia la riconferma. Per le ragioni che mostreremo, i vincitori sostennero la posizione italiana, costringendo però Roma a prendere degli impegni vincolanti con l’Accordo di Parigi, mostrando alla comunità internazionale di voler sanare pacificamente le ferite lasciate dalla dittatura e avendo tutto l’interesse a che i due vicini costruissero un futuro di collaborazione, anche economica, di grande importanza per la pacificazione e la stabilità europea.

 

Immagine tratta da Treccani online

L’Italia alla difesa del Brennero

Nonostante le difficoltà postbelliche, Roma poté giocarsi la partita sulle sorti dell’Alto Adige avendo in mano rispetto a Vienna delle carte migliori, che le consentirono di tenere saldo il confine al Brennero, facendosi in cambio carico di una serie di impegni sanciti dall’accordo firmato a Parigi.

La prima buona carta era rappresentata dalla totale assenza del tema dell’autodeterminazione dei popoli al tavolo della pace. Di fronte all’Austria e ai sudtirolesi che chiedevano che fossero gli abitanti dell’Alto Adige a esprimersi sulla sorte della provincia, nessuno tra i vincitori era interessato a mettere sul tavolo lo scottante argomento del rispetto dei diritti delle nazionalità e tanto meno dell’autodeterminazione dei popoli. Alla fine della Prima guerra mondiale vi erano stati i 14 punti del presidente americano Thomas Woodrow Wilson a mettere al centro il tema della autodeterminazione dei popoli, che si sarebbe però rivelato ben difficile da applicare concretamente in contesti caratterizzati dalla compresenza sugli stessi territori di lingue e popoli diversi. Quel principio si sarebbe anche scontrato con i cosiddetti “diritti della vittoria”, ovvero le pretese territoriali dei paesi vincitori, del tutto disinteressati ai diritti dei popoli qualora si contrapponessero ai loro. Ne è un esempio il Sudtirolo, passato dall’Austria all’Italia nonostante la scarsissima incidenza della popolazione italiana sul suo territorio. Se, nonostante le dichiarazioni di principio, persino il primo dopoguerra non aveva offerto il contesto ideale per l’affermazione dei diritti dei popoli, la situazione determinatasi con la seconda guerra mondiale mostrò immediatamente il totale disinteresse per tale questione da parte dei vincitori e ciò già a partire dalla conferenza di Teheran nel dicembre 1943, per poi passare a quella di Jalta nel febbraio 1945, fino ai trattati di pace. La nuova Europa, che nasceva dalle ceneri di un conflitto spaventoso, venne ridisegnata avendo quale obiettivo l’equilibrio tra le due superpotenze, con un disinteresse assoluto per le sorti di popoli e minoranze linguistiche. Come già alla fine della prima guerra mondiale, l’Europa centro-orientale appariva un puzzle incomponibile di lingue e popoli sotto il controllo politico e militare dell’Unione sovietica, non certo interessata a creare in Alto Adige un precedente basato sulla ricerca di linee di demarcazione etniche o su dichiarazioni di principio impegnative sul fronte del rispetto del diritto delle minoranze. Le politiche di espulsione dei tedescofoni dai territori dell’Europa orientale avrebbero presto mostrato quali fossero i progetti sovietici finalizzati alla “semplificazione” del quadro etnico-linguistico di quelle aree; nulla di più lontano dall’idea di autodeterminazione dei popoli e rispetto delle minoranze. In questo l’Urss incontrò il sostegno occidentale, con la Gran Bretagna che in particolare era convinta che la creazione di stati etnicamente omogenei fosse l’unica via per garantire la futura pace e stabilità. Da parte loro, le potenze occidentali erano preoccupate che eventuali dichiarazioni di principio potessero determinare condizioni destabilizzanti nei loro domini coloniali. In definitiva, nessuno tra i Grandi vincitori della guerra aveva interesse a lasciar decidere alla popolazione residente le sorti di un territorio etnicamente misto come l’Alto Adige, correndo il rischio di scatenare in altre regioni d’Europa e magari anche nelle colonie una corsa a richiedere il ricorso a soluzioni analoghe.

La seconda carta a favore dell’Italia stava nella sua collocazione sullo scenario internazionale, più favorevole rispetto a quella austriaca. Pur essendo indubitabile il suo status di paese sconfitto, aggressore, responsabile insieme alla Germania di aver voluto la guerra per sovvertire l’ordine internazionale, l’Italia poteva vantare alcuni meriti che l’Austria non aveva. In maniera autonoma aveva determinato la caduta e l’arresto di Mussolini nel luglio 1943, a guerra ancora in corso, e aveva poi contribuito all’impegno bellico antinazista attraverso l’esercito del Regno del sud e la lotta partigiana. Ciò aveva messo l’Italia in una situazione particolare, quella di paese cobelligerante, come veniva definito e riconosciuto dagli stessi alleati. Diversa la situazione dell’Austria, le cui sorti restarono legate al Reich nazista fino alla fine della guerra e che non aveva conosciuto un movimento resistenziale paragonabile a quello italiano. Vienna costruì subito e con intelligenza l’immagine dell’Austria quale prima vittima del nazismo, che però convinse e fu riconosciuta solo in parte. Fin dall’ottobre 1944 il governo antifascista di Roma intratteneva regolari rapporti diplomatici con Washington, Londra, Parigi e Mosca, dove aveva propri rappresentanti a difesa degli interessi nazionali, tra cui l’integrità territoriale. Ciò rendeva la posizione italiana incommensurabilmente più solida di quella austriaca sul proscenio internazionale.

Ancor più favorevole all’Italia fu la sua collocazione strategica, il suo ruolo nella nuova geografia disegnata dalla cortina di ferro. Liberata e occupata dagli angloamericani, l’Italia rientrava chiaramente nel blocco occidentale, ma si trovava a diretto contatto con l’est comunista e aveva al suo interno il più forte e temibile partito comunista dell’intero occidente. Era un paese di grandi dimensioni collocato al centro del continente e lungo la faglia che divideva l’est dall’ovest, un paese a rischio, che gli alleati si preoccuparono immediatamente di consolidare attraverso aiuti economici e alimentari e soprattutto attraverso il sostegno politico al baluardo della democrazia occidentale, vale a dire alla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi. La forza del Partito comunista italiano fu allo stesso tempo il problema e la fortuna della Dc. Un problema perché era un competitore difficile, capace, che insieme ai socialisti era in grado di dare vita a un blocco maggioritario in alcune realtà del centro nord del paese. Ma allo stesso tempo si trattava di una fortuna, perché consentiva ai democristiani di utilizzare sapientemente il vero o presunto pericolo comunista per ottenere ampio sostegno, economico e politico, dagli Stati Uniti. Nel corso dei decenni successivi, la Democrazia cristiana e i suoi governi esasperarono di proposito il rischio comunista, per accrescere il proprio ruolo e per profilarsi quale forza d’ordine necessaria e insostituibile.

Un alleato di tale importanza e fragilità non poteva essere indebolito oltre misura dagli alleati. L’amputazione dei territori orientali, la perdita delle colonie e la lunga incertezza circa le sorti della città di Trieste (risolta solo nel 1954 a favore dell’Italia) vennero vissute come umiliazioni da parte dell’opinione pubblica, al cui interno non erano certo scomparsi gli orientamenti più accesamente nazionalisti, ancora legati, più o meno consapevolmente, alle parole d’ordine inculcate nel lungo ventennio mussoliniano, incentrate attorno al mito dei “sacri confini” della patria, delle terre irredente riscattate con il sangue dei 600.000 “martiri” caduti nella prima guerra mondiale. Ulteriori perdite territoriali avrebbero delegittimato oltre il sostenibile De Gasperi e il suo governo, alimentando rigurgiti nazionalisti potenzialmente destabilizzanti. Dal punto di vista degli alleati, dunque, se si voleva garantire la necessaria stabilità interna all’Italia era essenziale lasciare ad essa l’Alto Adige piuttosto che alla piccola e strategicamente meno importante Austria, le cui sorti politiche apparivano ancora incerte, divisa com’era in quattro zone d’occupazione, una delle quali sovietica. Da parte sua, data l’indeterminatezza della collocazione geo-politica austriaca, neppure Mosca era interessata a sostenere oltre misura gli interessi di Vienna.

È dunque in questo contesto complessivo, solo in minima parte determinato dalle due parti in causa, che va letta la vicenda del mantenimento del confine del Brennero. In quel frangente i margini di manovra di Austria e Italia erano inevitabilmente assai ridotti e sarebbe pertanto sbagliato ricondurre l’intera questione alle mosse dei due giocatori, mettendo al centro le figure di De Gasperi e Gruber. Ciò non significa che i due uomini politici e le rispettive delegazioni non giocassero un ruolo attivo nel portare avanti i propri interessi. Tali azioni, però, potevano avere concrete possibilità di successo solo se compatibili con il complesso e ampio quadro generale sopra descritto. De Gasperi, ad esempio, ebbe chiaro fin dall’inizio quali fossero i punti di forza italiani e per questo motivo insistette consapevolmente sull’importanza dell’energia idroelettrica altoatesina per la ripresa produttiva del triangolo industriale. La sua argomentazione era semplice ma efficace: se si voleva un paese politicamente e socialmente stabile, sordo alle sirene del comunismo, era necessario far ripartire in fretta la produzione industriale, riducendo la disoccupazione e distribuendo ricchezza. Per farlo serviva anche l’apporto dell’”oro bianco” altoatesino. Tra gli argomenti messi sul tavolo da De Gasperi vi era anche la ferma obiezione a chi rivendicava all’Austria la provincia di Bolzano in nome del carattere prettamente tedesco del territorio e della sua popolazione. Il ministro degli esteri italiano, nonché presidente del consiglio, affermava che se ciò era stato vero alla fine della prima guerra mondiale non lo era più dopo la seconda. Il fascismo, seppure usando i metodi di un regime autoritario, aveva profondamente modificato le caratteristiche etniche e demografiche dell’Alto Adige, promuovendo una vigorosa immigrazione dalle altre regioni italiane, capace, tra le altre cose, di trasformare il capoluogo Bolzano in una città a maggioranza italiana. A suo dire, poi, non andava neppure scordato il grande sforzo economico-finanziario del paese a favore della provincia di confine, i grossi investimenti compiuti nella zona industriale di Bolzano, nel settore idroelettrico e nelle infrastrutture. Nelle argomentazioni di De Gasperi, gli uomini e i soldi arrivati in Alto Adige dall’Italia, anche se vi erano stati inviati dal fascismo, reclamavano il diritto di Roma al confine del Brennero.

 

L’antigermanesimo e l’eredità delle opzioni

A rendere ancora più debole la posizione austriaca e sudtirolese vi era il diffuso sentimento anti tedesco presente in tutta Europa. Era difficile immaginare che i vincitori facessero delle concessioni importanti a una popolazione di lingua tedesca dopo le devastazioni causate da una guerra voluta da Hitler in nome della superiorità della razza tedesca. Senza dimenticare che era assai viva la memoria del ruolo che le minoranze di lingua tedesca al di fuori del Reich avevano svolto nello scardinare gli equilibri internazionali, facendo sprofondare il continente e il pianeta in un conflitto senza precedenti. Perché mai si sarebbe dovuta premiare una comunità tedesca consentendole di ricongiungersi alla madrepatria, in un momento in cui indistintamente sulle spalle di tutti i tedescofoni veniva fatto gravare il peso della responsabilità della guerra, delle violenze e degli stermini nazisti?

Il sentimento antitedesco si manifestava chiarissimo nel sostanziale disinteresse mostrato dagli alleati occidentali e dalle rispettive opinioni pubbliche nei confronti del dramma dei milioni di tedeschi espulsi con la violenza dagli ex territori orientali del Reich e dagli altri paesi dell’Europa orientale. Alla fine di tale drammatico processo, circa 14 milioni di tedeschi erano stati espulsi, dopo aver subito violenze di ogni genere, stupri, espropri di beni e con un numero di vittime che è stato quantificato tra gli oltre 500.000 e i due milioni di morti. Di fronte a tale catastrofe umanitaria, l’atteggiamento delle cancellerie alleate più che a disinteresse fu improntato alla complicità, nella convinzione che quel brutale intervento di ingegneria etnica fosse inevitabile e anche utile per garantire la futura stabilità europea. Anche le opinioni pubbliche occidentali si mostrarono in larghissima parte indifferenti a questa drammatica vicenda e spesso contrarie a qualsiasi intervento umanitario volto almeno a ridurre le sofferenze delle fasce più deboli delle popolazioni coinvolte.

L’atteggiamento antitedesco era ovviamente presente anche in Italia, nelle istituzioni, nei partiti e nell’opinione pubblica. Era un sentimento forte, diffuso, indefinito perché teneva insieme Germania ed Austria e che aveva radici lontane. In parte si rifaceva all’antico sentimento antiaustriaco risalente all’epoca del Risorgimento, alle guerre d’indipendenza volte alla cacciata dell’austriaco dal suolo della patria. Ma ancor di più si alimentava del fresco ricordo della seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista di parte dell’Italia, delle stragi ai danni delle popolazioni civili. Esso agì inevitabilmente come forza contraria alle ipotesi di concessioni da farsi alla popolazione sudtirolese, viste da molti come ingiustificate e immeritate. A pesare era anche la questione delle opzioni, con la scelta largamente maggioritaria da parte dei sudtirolesi per la Germania di Hitler, presentata nell’Italia del dopoguerra come una pura e semplice, quanto convinta e piena, adesione al nazismo.

Lo stesso De Gasperi usò spesso toni forti riguardo alle responsabilità dei sudtirolesi nei confronti del nazismo. Era un modo per evidenziare le colpe della controparte, per indebolirne la credibilità e per presentare come inaccettabili le richieste di autodeterminazione. Il 21 dicembre 1945, ad esempio, durante la riunione del Consiglio dei ministri, De Gasperi affermò:

Non possiamo ammettere che le questioni della frontiera di uno Stato di 45 milioni di abitanti italiani vengano decise da una piccola frazione che abita nella provincia confinaria, e ciò tanto meno se di questa esigua minoranza buona parte si è distinta, prima e durante la guerra, per la sua cordiale accettazione del nazismo, e per la sua partecipazione alla guerra dalla parte di Hitler[1]

Erano accuse pesanti, indiscriminate e che consentivano al presidente italiano di tacere delle responsabilità del proprio Paese, inventore del fascismo. Ma erano anche accuse che avevano un fondo di verità e che sapevano di poter contare sull’antigermanesimo presente in Europa e in Italia.

Merita di essere sottolineato come sulle stesse corde dell’antigermanesimo suonasse anche il maggiore avversario politico di De Gasperi, Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano. Nelle sue intenzioni, calcare la mano sul mai cessato pericolo tedesco muoveva dal desiderio di distogliere l’attenzione del paese dalle vicende del confine orientale, con i territori già italiani destinati a divenire jugoslavi, dall’esodo e dalle violenze ai danni di italiani. Ecco così il suo invito rivolto all’opinione pubblica nazionale a smettere di concentrare ogni preoccupazione verso oriente e a convincersi del fatto che il problema più grave fosse quello della frontiera del Brennero:

Da nord la minaccia dell’espansionismo teutonico è stata permanente. Ogni volta che i popoli di lingua tedesca si sono sentiti forti e, animati dal barbarico loro spirito di conquista, si sono gettati contro i popoli d’Europa per saccheggiare le terre e soggiogarli, uno dei primi loro obiettivi è stata l’Italia[2].

L’atteggiamento antitedesco della sinistra si rivolgeva anche contro il presidente del Consiglio De Gasperi, cui non si perdonava il suo passato di suddito austro-ungarico. In un manifesto elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948 si può vedere l’effige di Giuseppe Garibaldi, simbolo del Fronte popolare che univa comunisti e socialisti, protendere un braccio a brandire un impaurito presidente del Consiglio, accompagnando il gesto con un inequivocabile avvertimento: «Bada De Gasperi che nessun austriaco me l’ha mai fatta!»

Il tema delle opzioni fu al centro delle accuse e delle minacce rivolte ai sudtirolesi. All’accusa di avere liberamente scelto Hitler e il nazismo si accompagnava la minaccia di portare a compimento le partenze di chi, dopo aver optato per la Germania, non era mai partito. Il tema si intrecciava strettamente con le drammatiche vicende che negli stessi frangenti vivevano i tedeschi dei territori orientali. Il direttore generale degli affari politici del ministero degli Esteri, Vittorio Zoppi, in un appunto dell’agosto 1945 faceva esplicito riferimento all’accordo di Potsdam firmato qualche giorno prima, il quale definiva legittima l’espulsione in massa di popolazione di lingua tedesca ordinate dai governi di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. A suo avviso, il problema delle «minoranze allogene di razza germanica» era comune a più Stati e per questo andava affrontato e risolto coerentemente e in modo analogo ovunque si presentasse. A Potsdam era stata decisa una linea che si sarebbe dovuta applicare anche in Alto Adige.

Posizioni estreme come la presente erano tutt’altro che isolate tra le istituzioni italiane, in cui erano in molti a sostenere la piena validità degli accordi Hitler-Mussolini del 1939 sull’emigrazione dei sudtirolesi[3].

Il tema del trattamento da riservarsi agli optanti venne dunque utilizzato come una spada di Damocle sulla testa dei sudtirolesi, come un’arma da impiegare in maniera spregiudicata per delegittimare le loro richieste davanti agli alleati al tavolo delle trattative. Non a caso De Gasperi volle tenere aperta la questione fino a che non si fosse definitivamente risolta la querelle sul confine. La soluzione venne proprio dall’Accordo di Parigi, che prefigurò la possibilità per gli optanti – sia quelli che avevano abbandonato il Sudtirolo che quelli che non se ne erano mai allontanati – di riacquistare la cittadinanza italiana, di far ritorno ai propri paesi e di ridiventare cittadini a pieno diritto. Si trattò di una soluzione tutt’altro che scontata a un problema di enorme portata, che accresce non poco il valore dell’Accordo De Gasperi-Gruber quale strumento di risoluzione di un conflitto tra Stati e popolazioni.

 

La via verso l’autonomia regionale

Una delle critiche ricorrenti all’accordo italo-austriaco del settembre 1946 sta nel non aver gettato le basi per un’autonomia provinciale per il solo Sudtirolo e di avere invece condotto a un’autonomia regionale insieme al Trentino, con i sudtirolesi ridotti a minoranza e vittime di una Scheinautonomie, un’autonomia solo di facciata. La soluzione alla vertenza bilaterale rappresenterebbe dunque un doppio fallimento: non solo non fu consentito l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, ma non fu concessa neppure una forma accettabile di autonomia. Il maggior responsabile di tutto ciò sarebbe Alcide De Gasperi, accusato di aver agito con subdola furbizia, di aver preso accordi con Gruber per un’autonomia provinciale e di averli poi disattesi al solo scopo di favorire i propri conterranei, regalando loro un’autonomia immeritata e priva di reali giustificazioni. Le ragioni della cornice regionale dell’autonomia sarebbero così da ricercarsi essenzialmente nel legame personale di De Gasperi con il Trentino. Si cercherà di mostrare come i veri motivi vadano invece ricondotti al clima politico e culturale interno, nonché a valutazioni che attengono all’interesse nazionale.

Non si può certo affermare che i partiti e la cultura giuridica e politica del paese fossero orientati in maggioranza verso soluzioni autonomiste. Le voci centraliste erano fortissime nelle istituzioni, nell’Assemblea costituente chiamata a redigere la nuova carta costituzionale, nei ministeri, nel complesso della macchina dello Stato. Le resistenze di fronte a soluzioni autonomiste si espressero anche nei confronti dell’autonomia per l’intera regione Trentino-Alto Adige e i loro toni ci fanno intendere quali difficoltà avrebbe incontrato il tentativo di dar vita a un disegno autonomista da concedersi esclusivamente alla sua parte tedesca. Ne è dimostrazione il dibattito che si tenne all’Assemblea costituente il 29 gennaio 1948 sullo Statuto della regione Trentino Alto Adige, durante il quale De Gasperi fu costretto a sottolineare più volte come non si stesse intaccando la sovranità nazionale, smentendo quanto apparso su organi di stampa secondo cui si stava dando vita a «una serie di repubblichette che disgregherebbero la Repubblica Italiana»[4]. Consapevole dei dubbi e delle diffidenze, il presidente del Consiglio proseguiva rassicurando l’aula, sostenendo da una parte che «lo Stato non resta disarmato» e ribadendo dall’altra il valore del decentramento: «una vera democrazia non accentrata, né guidata dalle direzioni dei partiti, una vera democrazia parlamentare non si può formare senza che ci sia un’esperienza nei Comuni, negli Enti locali, nella Regione»[5]. Il dibattito proseguì acceso e non privo di accenti nazionalistici, provenienti anche dalla stessa Democrazia cristiana di cui De Gasperi era il leader.

Nel corso del dibattito sopra richiamato De Gasperi mostrò piena consapevolezza del difficile contesto politico e culturale nel quale lo Statuto regionale doveva calarsi. Molta storiografia di lingua tedesca e buona parte dell’opinione pubblica sudtirolese hanno visto nel politico trentino il più grande nemico della minoranza a sud del Brennero, il responsabile del fallimento della prima stagione autonomista. In realtà, se allarghiamo lo sguardo e analizziamo il contesto in cui De Gasperi operò, ci rendiamo facilmente conto di quanto egli fosse distante dalle posizioni più rigidamente chiuse alle richieste sudtirolesi e fosse tutt’altro che insensibile a temi quali il decentramento e le autonomie locali. Dietro di lui le posizioni erano orientate in maggioranza su posizioni di netto centralismo, disposte ad accettare un’autonomia per l’intera regione se proprio necessario per conservare il Brennero, ma non certo a regalare una condizione di privilegio a un nucleo tedesco potenzialmente irredentista.

La concessione di un’autonomia speciale al solo Alto Adige in quanto territorio prettamente tedesco sarebbe stata dunque difficile da far accettare all’opinione pubblica e alle forze politiche moderate e conservatrici. Ma non si trattava solo di questo. Per molti – e De Gasperi era tra questi – poteva essere pericoloso per l’integrità nazionale, rappresentando un primo, possibile passo verso il distacco della provincia dall’Italia. Assegnare un ampio pacchetto di competenze da gestire localmente a un territorio dalla forte vocazione irredentista avrebbe rischiato di allontanare progressivamente Bolzano da Roma, rafforzando, invece che moderando, le aspirazioni alla secessione. Molto più sicuro era ancorare indissolubilmente l’Alto Adige al Trentino, che avrebbe esercitato un ruolo di “zavorra”, di collante tra la provincia di confine e il resto del Paese. Del resto, considerazioni del tutto simili erano state fatte dall’Austria-Ungheria di fronte alle ripetute richieste di autonomia separata per il Trentino, avanzate a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino alla vigilia della prima guerra mondiale. In Trentino la lotta nazionale fu condotta sotto il segno della richiesta costante di un’autonomia separata per la parte italiana del Land Tirol, provincia che godeva di ampie competenze amministrative e politico-legislative. L’obiettivo era il ridisegno territoriale dell’autonomia provinciale, erigendo il Trentino a Kronland (terra costituente della corona) dell’Impero o istituendo due subautonomie interne al Tirolo, una per la parte tedesca, l’altra per quella italiana. Tale richiesta fu incessantemente, quanto inutilmente, presentata a Innsbruck come a Vienna, dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla vigilia del conflitto mondiale. La bocciatura viennese nasceva dal timore che la concessione di un’autonomia separata per gli italiani del Tirolo avrebbe potuto innescare pericolose reazioni a catena nelle altre regioni dell’Impero. Nel capoluogo tirolese, invece, prevaleva la convinzione che per i trentini l’obiettivo dell’autonomia separata fosse solo un primo passo verso la separazione territoriale. L’Austria tra i due secoli e l’Italia dopo il 1945 ritennero che dare vita ad un’unità amministrativa autonoma di un territorio d’altra lingua ai confini dello Stato avrebbe aumentato invece che ridotto le spinte secessioniste. In entrambi i casi può essersi trattato di valutazioni infondate o miopi, ma certamente non prive di una certa coerenza e verosimiglianza.

Ultimo elemento da tenere in considerazione era la situazione in Trentino, dove, non molto diversamente dal Sudtirolo, con un vigore preoccupante andava crescendo la richiesta di forme speciali di autogoverno. Non si trattava di una novità, quanto piuttosto della riproposizione di richieste già avanzate ai tempi dell’annessione dopo la prima guerra mondiale. Dopo il 1918 erano stati proprio i popolari, con De Gasperi in testa, a chiedere che fosse assegnato maggiore spazio a organismi in grado di rilanciare forme di autogoverno a livello provinciale, recuperando il più possibile la tradizione asburgica di decentramento. Ora, dopo la seconda guerra mondiale, dal Trentino salivano richieste simili, rese ancora più aggressive a causa del forte risentimento verso l’Italia per l’autonomia mai concessa e anche perché il fascismo, agli occhi dei trentini, era colpevole di aver preferito l’Alto Adige, destinatario di maggiori risorse e investimenti, dalla creazione della provincia di Bolzano staccata da Trento alla realizzazione della zona industriale di Bolzano ecc. Mentre aumentavano i toni razzisti e antimeridionali, preoccupavano i successi di una forza dalle venature separatiste come l’Asar – Associazione studi autonomistici regionali–, fondata nell’agosto 1945 e capace di raccogliere in pochi mesi quasi centomila adesioni, pescando a piene mani nel bacino elettorale della Democrazia cristiana. De Gasperi non poteva non tener conto delle aspirazioni che esprimeva il Trentino: non perché trentino egli stesso, ma in quanto, da Presidente del consiglio e leader della Dc, assisteva con preoccupazione a quanto vi stava avvenendo e anche perché considerava del tutto legittime le aspirazioni autonomiste di quella terra, di cui egli stesso era stato portatore dopo il 1918.

Nessuna furbizia, pertanto, quanto piuttosto la coerenza delle sue posizioni e un’analisi della situazione regionale e nazionale condussero De Gasperi a perseguire la via dell’autonomia regionale. Il giudizio negativo solitamente espresso su tale scelta pare più il frutto di ciò che sarebbe avvenuto dopo, del modo fallimentare con cui sarebbe stata gestita l’autonomia a livello regionale, piuttosto che da un vulnus costitutivo insito nell’impostazione regionale.

 

Conclusioni

Le conseguenze concrete dell’accordo di Parigi furono numerose e di rilievo. Prima di tutto pose le basi per la soluzione della questione degli optanti, che di lì a poco avrebbero avuto la possibilità di riacquistare la cittadinanza italiana e, se trasferitisi oltre Brennero, di tornare in Sudtirolo. Sancì poi il riconoscimento di diritti fondamentali per la minoranza, primo tra tutti quello alla scuola in lingua tedesca. Rappresentò inoltre il primo passo che avrebbe condotto all’approvazione nel gennaio 1948 del primo statuto d’autonomia del Trentino-Alto Adige e delineò forme di collaborazione e di scambio tra due paesi confinanti, anticipando in maniera moderna temi tipici dell’integrazione europea, come il libero movimento di persone e merci e il mutuo riconoscimento di titoli di studio.

Tutti e tre i partner direttamente interessati alla questione – e cioè Italia, Austria e la minoranza sudtirolese – dovettero rinunciare alle loro massime aspirazioni. L’Italia mantenne la regione a sud del Brennero, ma con una sorta di sovranità limitata sulla base degli impegni assunti con l’accordo, l’Austria dovette rinunciare alla sua richiesta di riottenere i territori in discussione e i sudtirolesi non poterono esercitare il diritto di autodeterminazione.

Se consideriamo il quadro generale determinatosi in Europa nel secondo dopoguerra, la considerazione pressoché nulla che si guadagnò la questione del trattamento delle minoranze, il diffuso e radicato sentimento anti tedesco, le spinte centraliste a livello italiano, pare difficile non ravvisare nell’Accordo De Gasperi-Gruber positivi elementi di unicità a livello internazionale. La minoranza sudtirolese fu l’unica, in quel determinato momento storico, a ottenere una forma di garanzia riconosciuta in sede internazionale.

A leggerlo, come è necessario, inquadrandolo in quel preciso momento e non con la mente a quello che sarebbe avvenuto dopo, è difficile non riconoscerne i pregi. Anche la semplicità del testo, la sua genericità e quindi, di conseguenza, la sua flessibilità, hanno offerto la possibilità di farvi riferimento in una fase successiva, in un contesto differente, per trovare soluzioni originali a problemi nuovi e diversi. Senza nasconderne i limiti e soprattutto le difficoltà di applicazione, l’Accordo di Parigi ha rappresentato un oggettivo passo in avanti nella questione sudtirolese, affrontata per la prima volta in una logica di collaborazione e non più di sopraffazione.

 

Bibliografia
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  • M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari 1967

 


Note:

[1] Cit. in D. De Napoli, Altoatesini e Sudtirolesi. Una convivenza difficile (1945-1946), Aspes, Roma 1996, p. 12.

[2] P. Togliatti, Il problema delle frontiere, in «L’Unità», 13.9.1945, cit. in De Napoli, 1999, p. 13.

[3] Ci si riferisce qui all’accordo tra Germania e Italia che pose i sudtirolesi di lingua tedesca davanti alla scelta dell’emigrazione nel Reich o la permanenza in Alto Adige rinunciando però a qualsiasi richiesta di conservazione della propria identità linguistica e culturale. L’accordo nasceva dalla volontà di Hitler e Mussolini di eliminare definitivamente un elemento di divisione che ostacolava l’alleanza politica e militare tra i due Paesi.

[4] Il dibattito si può leggere in Atti dell’Assemblea Costituente. Dibattiti in Aula, Roma 1948, pp. 4144-4202 ed è ampiamente richiamato e analizzato da P. Pombeni, L’autonomia sudtirolese, in G. Bernardini, G. Pallaver (a cura di), Dialogo vince violenza. La questione del Trentino Alto-Adige/Südtirol nel contesto internazionale, il Mulino, Bologna 2015, pp. 83-132, in particolare alle pp. 112-117.

[5] Pombeni, 2105, p. 115.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Le sorti dell’Alto Adige dopo la seconda guerra mondiale e l’Accordo De Gasperi-Gruber
DOI: 10.52056/9791254691090/07
Parole chiave: ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Le sorti dell’Alto Adige dopo la seconda guerra mondiale e l’Accordo De Gasperi-Gruber, Novecento.org, n.17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/07

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