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Quando la ricerca didattica funziona. Il caso della Germania

Quando la ricerca didattica funziona. Il caso della Germania

immagine : Heidelberger Sachsenspiegel, Cod. Pal. germ. 164, By Eike von Repgow – Public Domain, Link

Duecentocinquanta ricercatori di didattica storica

Chi in Italia si interessa di didattica della storia non è abituato a partecipare ad un’assemblea di circa 250 specialisti della materia. Questo succede in Germania al “congresso” biennale della Konferenz für Geschichtsdidaktik (kgd), ospitato quest’anno a Berlino dal 28 al 30 settembre. Si è trattato del 22° congresso di un’associazione che incomincia ad avere una lunga storia. La kgd pubblica da circa quindici anni una rivista (Zeitschrift für Geschichtsdidaktik), nonché una collana di monografie giunta ormai al 27° volume. In basi ai dati forniti dal sito (www.historicum.net/home/) l’associazione conta attualmente 320 iscritti, in gran parte docenti presso le università e le Pedagogische Hochschulen (istituzioni di istruzione superiore per la formazione degli insegnanti), ma anche insegnanti dei vari ordini di scuole.

Questi dati, sorprendenti per un osservatore italiano, non vogliono dire che l’insegnamento della storia occupi una posizione massiccia nei curricoli scolastici della Repubblica Federale. La sua presenza varia molto da Land a Land in virtù dell’organizzazione federale dell’istruzione. Tuttavia, alla storia sono riservate in genere non più di 1-2 ore settimanali. L’insegnamento della storia non è “quantitativamente” importante, ma è preso molto sul serio, nel senso che molta cura è dedicata alla formazione degli insegnanti, al “come” la storia viene insegnata e non solo al “che cosa” si deve insegnare. Che poi anche in Germania, come ovunque, ci si lamenti dell’ignoranza dei giovani in materia di storia perché non si ricordano, o peggio non sanno, ad esempio, quando è morto Bismark, dipende dal fatto che la storia, anche nelle scuole tedesche, per fortuna, non la si insegna più (quasi sempre) come una volta.

Se si scorrono il programma del congresso recente, gli indici delle annate della rivista e i titoli dei volumi della collana (tutte info che si trovano sul sito) ci si rende conto dell’ampiezza e della varietà dei temi affrontati che, con non molte variazioni, sono quelli che Historia ludens.it propone anche in Italia alla riflessione pubblica.

Seguendo le quattro sezioni in cui sono stati organizzati i lavori (1. chi deve insegnare 2. che cosa 3. a chi e 4. come) cercherò di fare un catalogo dei temi trattati, avvertendo che sui temi e il modo di affrontarli vi sono opinioni diverse, anche spesso distanti tra loro. Insomma, c’è materia di discussione. Inoltre, la distinzione tra queste quattro sezioni è utile e forse anche elegante, ma i temi sono inevitabilmente connessi e potremmo disegnarli su una mappa per evidenziare il reticolo delle connessioni.

  1. Chi deve insegnare storia.

Partendo dall’idea che non basta sapere la storia per saperla anche insegnare, lo storico di professione conosce bene la “sua” storia (antica, medievale, moderna, ecc.) e i metodi per studiarla, ma in genere non conosce la storia di altre epoche e i metodi corrispondenti, inoltre non sempre ha avuto una formazione che tenga conto delle discipline contigue (antropologia, geografia, economia, demografia, sociologia, ecc.). Alle competenze disciplinari allargate bisogna poi aggiungere le competenze psico-socio-pedagogico-didattiche generali e specifiche della disciplina storica. La formazione dell’insegnante di storia non deve essere disgiunta dalla, ma non può corrispondere alla, formazione dello storico di professione. Si può dire che una buona parte delle giornate del convegno è passata a discutere il rapporto tra sapere professionale (Fachwissen) e competenza didattica.

  1. Che cosa insegnare.

Esiste o meno un “canone” dell’insegnamento della storia ? Il problema resta aperto, nel senso che non si sa quale sia un canone, se debba essercene uno e, se sì, quale. Certamente il canone tradizionale centrato sulla successione cronologica dalla preistoria all’età contemporanea e orientato alla costruzione dell’identità nazionale col quale è nato storicamente in Europa l’insegnamento scolastico della storia deve essere ripensato criticamente. In quali direzioni ? Almeno quattro.

Prima direzione: nella scuola primaria e secondaria di primo grado, cioè grosso modo per i primi 8-10 anni scolastici, la storia deve tendenzialmente far parte degli studi sociali (Sozialkunde) e/o della formazione politica (politische Bildung) e solo nel ciclo “ginnasiale” successivo può diventare un insegnamento autonomo. Ovviamente, su questo non c’è consenso, ma il nocciolo del problema resta il rapporto con le discipline affini, un problema che in Italia si pone nella scuola primaria, ma non nella scuola secondaria per la sostanziale assenza degli studi sociali.

Seconda direzione: l’interesse per la storia parte sempre dal presente/futuro. Quindi, piuttosto che sfociare nel presente, bisogna risalire dal presente al passato, anche remoto.

Terza direzione: il canone “nazionale” non è da archiviare, ma deve esso stesso essere collocato storicamente. E’ auspicabile un continuo passaggio in entrambe le direzioni dal familiare, al locale, al nazionale, al continentale, senza arrestarsi di fronte alla prospettiva della storia globale (Weltgeschichte).

Quarta direzione: l’approfondimento di alcuni casi storici esemplari può contribuire alla costruzione della consapevolezza del tempo storico assai meglio di una carrellata superficiale da Babilonia alla caduta del muro di Berlino.

  1. A chi insegnare storia.

Non c’è solo il problema ovvio dell’organizzazione verticale: pochi, forse nessuno, sostengono che dai 6 ai 16 anni si possa rifare la storia due o tre volte salendo a spirale dal semplice al complesso. Bisogna quindi calibrare l’insegnamento a seconda delle cd. età evolutive. Ma la popolazione studentesca non è omogenea non solo per la diversità di età, ma anche per provenienza e per destinazione. Le scuole tedesche sono piene di bambini e giovani immigrati, recenti e di vecchia data, provenienti da tutta Europa, dal Medio Oriente e ora anche dall’Africa. E’ giusto che studino solo la storia della Germania, o dell’Europa ? La loro integrazione avviene per omologazione alla cultura locale o in prospettiva multiculturale? Problema noto che richiama tutte le questioni teoriche e pratiche legate alle migrazioni. Ma bisogna pur dare agli insegnanti degli strumenti, anche solo di buon senso, per sapere come comportarsi in una classe dove i processi di ibridazione culturale sono già di fatto all’opera. Non ci sono però solo gli immigrati. Sono anni che si discute in Germania sulla storia da insegnare nell’ambito del sistema duale, cioè in quell’ampio e nutrito settore della formazione professionale gestita insieme alle aziende e ai sindacati. Il settore recluta una fetta consistente della popolazione giovanile, anche se cresce la tendenza alla licealizzazione. Entra in gioco, ad evidenza, la variabile classe sociale: l’insegnamento della storia, con la S maiuscola, è stato tradizionalmente pensato per i licei, quindi per le classi medio alte. E gli altri?

  1. Come si insegna storia.

Su un punto sono tutti d’accordo. Che non si può insegnare/studiare “tutta” la storia. Bisogna fare delle selezioni. Anche sulla critica del nozionismo c’è largo consenso: è inutile (qualcuno sostiene che sia uno spreco) memorizzare date, luoghi, fatti che con pochi click dello smartphone tutti i giovani sono capaci di recuperare in tempo reale. Le enciclopedie sono finite perché ognuno se le porta in tasca. L’accesso all’informazione non è un problema, è un problema la sua eccedenza e la sua affidabilità. Si apre qui il grande e dibattutissimo capitolo di che cosa vuol dire insegnare storia nell’era della cultura digitale. Bisogna trovare criteri per selezionare le informazioni, quali domande fare a un archivio che contiene di tutto. Oltre alla rilevanza per il presente e per il futuro, alla quale ho già accennato, alcuni (che hanno probabilmente letto Luhman) suggeriscono di fare ricorso ai concetti di sistema e di processo, in modo da mettere in luce i nessi, le interdipendenze, sincroniche e diacroniche.

Sul “come” c’è poi la grande questione che i temi selezionati come rilevanti sono quasi sempre oggetto di controversie interpretative. Non solo, dello stesso “fatto” (supposto che si possa parlare di fatti) si possono dare narrazioni diverse, tutte in qualche modo autentiche, perché frutto della posizione dell’osservatore. Si è discusso molto anche in questa occasione della Multiperspektivität, della necessità di confrontare diversi punti di vista, della formazione di una competenza critica, della funzione anti-dogmatica dell’insegnamento della storia.

Non si sono trascurati neppure i temi legati alla valutazione degli apprendimenti e delle competenze acquisite dagli studenti: che uso fare dei test, come costruire i questionari, come valutare le ricerche. Temi quindi più specificatamente didattici ma non privi di rilevanza, perché se si fissano degli obiettivi in termini di competenze, bisogna poi trovare gli strumenti per capire se sono stati raggiunti o meno. Se si facessero delle indagini, a diverse distanze temporali dall’uscita dalla scuola, su che cosa è rimasto nella mente di coloro che hanno seguito un dato insegnamento, si potrebbero ricavare utili indicazioni su successi e insuccessi e quindi capire, eventualmente, in quale direzione aggiustare il tiro. Perché, conviene sottolinearlo, coloro che si occupano di didattica della storia in Germania, danno peso e ascolto ai risultati della ricerca educativa e, affermano, che non se ne fa abbastanza.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Quando la ricerca didattica funziona. Il caso della Germania
DOI: 10.12977/nov231
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.9, febbraio 2018
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Quando la ricerca didattica funziona. Il caso della Germania, Novecento.org, n. 9, febbraio 2018. DOI: 10.12977/nov231

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