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Verso una società europea: genere e rivoluzioni 1905-1947

Verso una società europea: genere e rivoluzioni 1905-1947

Immagine di Paul K tratta da https://flic.kr/p/59uSvD

Trascrizione dell’intervento, a cura di Novecento.org

Relazione introduttiva mattutina

Il quadro generale: 1905-1947: i motivi di una insolita periodizzazione

Vorrei dare alcune indicazioni su una periodizzazione, 1905-1947, che a prima vista può sembrare un po’ bizzarra. Perché queste date? Il periodo 1905-1947 è densissimo di eventi e vede ripetuti mutamenti di scenario costellati da guerre, rivoluzioni, violenze. In questi quarantadue anni succedono molte cose e cambiano repentinamente scenari e prospettive. Se noi prendiamo i quarantadue anni successivi, quelli che vanno dal 1947 per arrivare al 1989, possiamo constatare come il quadro generale sia notevolmente più stabile.

1947: il Piano Marshall, l’avvio della Guerra fredda, il discorso di Nehru

Parto dalla fine: perché il 1947? Al di là di ciò che significa sul piano economico, tema su cui esiste una controversia storiografica da tempo, il Piano Marshall costituisce il primo successo degli Stati Uniti nella Guerra fredda, il cui avvio apre una nuova fase chiudendo definitivamente quella precedente. Questa nuova fase vedrà il declino dell’Europa come attore globale capace di autonoma iniziativa.

Il Piano Marshall e l’avvio della Guerra fredda configurarono perciò uno scenario nel quale l’Europa è territorio di contesa tra due grandi potenze, sorte ai suoi lati nel corso di questi 42 anni. Rappresentò un aiuto concreto per l’Europa occidentale e fornì efficaci argomenti di propaganda, mentre ad Est vi furono poco credibili manifestazioni contro di esso. Le opposte manifestazioni che si svolsero nelle due parti di Berlino nel 1947 rappresentarono il punto di avvio di un confronto simbolico che avrebbe accompagnato tutto il corso della Guerra fredda.

Berlino Ovest: cartello in un cantiere inerente alla ricostruzione finanziata dal piano Marshall – Didascalia originale alla pagina Wikimedia

Un altro evento, che mi sembra utile richiamare, è il discorso di Nehru al suo popolo, il 15 agosto 1947, che segna la fine della più grande colonia della storia, l’India britannica. Da questa, dopo l’indipendenza, nacquero due stati, l’India e il Pakistan. Entrava in una fase di dissoluzione l’impero coloniale britannico che, assieme agli altri imperi europei, rappresentò lo strumento istituzionale attraverso il quale si era affermata la supremazia europea. Questo processo, che ha le sue radici nella prima età moderna, entrò in una nuova dimensione nel corso del Settecento e raggiunse l’apice nell’Europa della “belle époque”.

1905: segnali di crisi dell’impero zarista

Uno degli imperi europei territorialmente più estesi era l’impero zarista che dal cuore dell’Europa, a Varsavia, si estendeva verso oriente fino a Vladivostok, ai confini con Cina e Corea. L’impero zarista si confrontava con l’espansionismo nipponico a oriente, con quello tedesco a occidente, mentre a sud doveva confrontarsi con l’impero britannico e con quello Ottomano. Nel 1905, la guerra tra Russia e Giappone ebbe un’importanza simbolica e geo-politica straordinaria. Ne parlò la stampa di tutto il mondo perché per la prima volta un popolo non di “razza bianca” aveva sconfitto un impero europeo, parte, sebbene con peculiarità proprie, della civiltà occidentale.

La crisi del 1905 si manifestò anche con le insurrezioni che scossero l’impero zarista. Quella che ci è più familiare è la “domenica di sangue” del 22 gennaio a San Pietroburgo, ma vi è un un’altra dimensione cruciale nelle rivolte di quell’anno. Il 1905, infatti, è – da un lato – il prodotto di uno scontro sociale interno all’impero zarista; dall’altro, registra una serie di rivolte nelle periferie dell’impero, da Varsavia a Riga, da Baku a Odessa. Un impero così esteso era scosso dalle istanze di autodeterminazione nazionale che si stavano affermando in molte sue parti, e che avevano una capacità di mobilitazione delle masse popolari. Fu in questa fase che i bolscevichi iniziarono a riflettere sul tema della nazionalità in modo nuovo rispetto all’approccio prevalente nella Seconda Internazionale.

Tenuto presente che ogni periodizzazione è sempre comunque una interpretazione, vi propongo quattro piani di analisi del periodo 1905-1947.

Piano di analisi geopolitico

Il primo concerne il piano geopolitico di cui ho parlato sinora e che ha a che fare con la disgregazione e la frammentazione del sistema degli stati in Europa. Dopo la Prima guerra mondiale cadono gli imperi prussiano, asburgico, ottomano, zarista e gli stati nazionali crescono di dodici unità rispetto all’anteguerra. Fuori dall’Europa si affermano Stati Uniti e Unione sovietica, che si impongono con modalità diverse e con proposte concorrenti di modernità, trovando riscontro ben al di fuori dei loro rispettivi territori e configurandosi come forze imperiali. Della crisi coloniale e della Guerra fredda abbiamo appena parlato.

Piano di analisi economico-tecnologico

Il secondo piano di analisi riguarda la sfera economico-tecnologica e la connessione tra queste tecnologie e le forme sociali. Prima dello scoppio della Guerra mondiale si verificò una grande fase di globalizzazione dei mercati, contrassegnata dalla mobilitazione delle materie prime, resa possibile dai grandi imperi coloniali e dall’introduzione delle nuove tecnologie produttive, in grado di cambiare le figure del lavoro e di aumentare la capacita produttiva. Il mondo del 1914 era prevalentemente contadino e solo quattro erano i Paesi nei quali gli operai risultavano più numerosi dei contadini: Inghilterra, Belgio, Germania, Svizzera. Persino gli Stati Uniti avevano più contadini che operai.

L’espansione della capacità produttiva si scontrò, nel corso di questi quarant’anni, con la depressione del commercio, le guerre, le tendenze autarchiche, le chiusure dei mercati, così che si venne a determinare una fondamentale contraddizione tra le tendenze espansive e quelle depressive. Il potenziamento della capacità produttiva avvenne in un quadro segnato da profonde disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, sia all’interno degli stati, sia tra gli stati: soprattutto tra quelli del Nord e quelli del Sud del mondo.

Sul piano sociale va visto con attenzione il processo di mobilitazione totale della società, iniziato con la Grande guerra, processo che fece saltare tutta una serie di vincoli, barriere, gerarchie che avevano organizzato la società borghese del lungo Ottocento in Europa: confini, ruoli e identità di genere, classe, generazione, “razza” cominciarono ad essere messi in discussione. Le masse assunsero inoltre un ruolo politico fondamentale, e, dopo la guerra, qualunque movimento politico che volesse avere delle chance di successo avrebbe dovuto fare i conti con i contadini e gli operai, cosa che, prima del 1914, non rivestiva altrettanta rilevanza.

Piano di analisi delle mentalità

Il terzo piano di analisi riguarda la connessione tra queste forme sociali e i cambiamenti della mentalità, delle correnti psichiche e dei modelli di rappresentazione della realtà.

Profonde inquietudini culturali si manifestarono già alla svolta del secolo, basti pensare alla scoperta dell’inconscio, alle trasformazioni nella sfera della sessualità e dei ruoli di genere, alle filosofie vitalistiche. Si trattava di espressioni culturali che si contrapponevano alla cultura positivista che era stata egemone nella seconda metà dell’Ottocento, quando il mito del progresso e la fiducia nello sviluppo tecnologico proiettavano un’immagine decisamente positiva del futuro. Questa concezione cominciò a entrare in crisi alla fine dell’Ottocento e il grande massacro della Prima guerra mondiale cambiò poi completamente scenario.

Anche le modalità di rappresentazione della realtà mutarono profondamente. Si pensi alle tecniche espressive, maturate negli ambienti delle avanguardie artistiche, che non riguardavano soltanto l’arte “alta”, ma coinvolgevano il cinema e la radio, sviluppando tecniche di comunicazione che si rivolgevano alle masse e cercavano di coinvolgerle.

Con la Prima guerra mondiale, inoltre, si registrò un risveglio religioso, collegato alla necessità di elaborare i terribili lutti collettivi, e il mito assunse nuova centralità nella vita politica e sociale. Anche il ricorso all’individuazione di capri espiatori fu uno dei modi di fare i conti con le tragedie personali e collettive: l’antisemitismo aveva radici lontane nella storia europea, ma a fine Ottocento assunse una dimensione politica che ne modificò le funzioni e che divenne strumento di mobilitazione delle masse in un modo che ebbe sinistri sviluppi negli anni tra le due guerre. E’ utile richiamarsi a Max Weber perché il suo pensiero restituisce due dimensioni specifiche della crisi della modernità: da un lato il potenziamento della tecnica in quanto procedura che risolve i problemi organizzativi-tecnologici e produce la burocratizzazione del mondo; dall’altro, una tecnica che non può più fondarsi su un’immagine positiva di futuro e una società che subisce uno svuotamento simbolico e che deve riempirsi di “qualcosa”, come il capo carismatico, il mito, la mobilitazione di piazza. Questa contraddizione, individuata da Weber, si consuma in modo drammatico in questo quarantennio.

Piano di analisi del “governo delle popolazioni”

Veniamo infine all’ultimo aspetto, quello relativo al “governo delle popolazioni”, per usare una terminologia foucaultiana utilizzata recentemente anche a proposito della storia del comunismo.

Come si declina la questione delle masse in termini di modelli di governo? Due sono le culture politiche nuove, il comunismo e il fascismo: due culture politiche e due movimenti che guardano ai giovani. Il comunismo travolge tutte le istituzioni esistenti, cambia radicalmente l’economia politica, promuove campagne antireligiose e costruisce un nuovo regime burocratico-carismatico: è il paradosso della rivoluzione d’Ottobre, nata per distruggere lo stato, che ha finito per costruire uno degli stati più mostruosi della storia. L’Unione sovietica è in grado negli anni Trenta di varare violente politiche di modernizzazione e di cambiamento economico e sociale, ha in progetto la costruzione di un nuovo tipo umano. Da questo punto di vista il paradigma del totalitarismo, se inteso come semplice svuotamento e atomizzazione della società, non coglie la complessità del processo in corso perché sottovaluta le pratiche di costruzione di una soggettività come quella fondata sull’esame autobiografico.

Il fascismo nasce per risolvere, e risolve, il conflitto di classe nell’Italia del dopoguerra. Ma non si limita a ciò: propone una cultura politica nuova, basata sulla mobilitazione delle masse e sulla restaurazione di quelle gerarchie di genere e razziali che la guerra aveva contribuito a erodere. Il fascismo promuove un suo progetto politico, attraverso la valorizzazione della dimensione estetico-emozionale della politica.

Infine, vanno menzionate anche le nuove forme democratiche che si vanno configurando, molto lontane dal liberalismo ottocentesco, basato su ristrette oligarchie e sul rifiuto dell’intervento pubblico nella sfera economica. Nuove forme di democrazia che si fanno permeare dalla mobilitazione della società in un contesto pluralistico-democratico (ruolo dei sindacati, partiti operai ecc.) e le cui declinazioni possono essere di tipo diverso: nel caso weimariano abbiamo la forma più avanzata di costituzionalizzazione dei diritti sociali, mentre in altri contesti prevalgono forme di negoziazione dei nuovi diritti più legate alle congiunture. Vi è ad ogni modo un mutamento dei profili della cittadinanza che si affermano definitivamente e che costituiscono un importante lascito per il periodo successivo. La tutela dei diritti sociali, la regolazione dei mercati, l’intervento pubblico divengono normali elementi della gestione delle società avanzate pur in presenza di una forma capitalistica dell’economia. Spesso le guerre sono state laboratori attraverso i quali si sono immaginate e costruite le società del dopoguerra: si pensi al piano Beveridge in Inghilterra, redatto nel 1942, e divenuto una piattaforma sulla quale edificare lo stato sociale britannico nel dopoguerra.

Tottenham Maternity and Child Welfare – Mother and Child Clinics a Londra, 1942. Il dott. Broadbent esamina la bambina di 11 anni, Dawn Ashford, mentre si siede sulle ginocchia della madre in una clinica infantile a Tottenham, a Londra. Foto di: Ministry of Information Photo Division Photographer – http://media.iwm.org.uk/iwm/mediaLib//42/media-42668/large.jpg – This is photograph D 11316 from the collections of the Imperial War Museums., Public Domain, Link

Relazione generale pomeridiana

Affronteremo tre nuclei tematici fondamentali, concernenti il rapporto tra guerre e rivoluzioni, il declino dell’Europa e le sfide odierne.

Il rapporto guerre/rivoluzioni

La violenza esplosa durante la prima guerra mondiale ha lasciato tracce profonde anche al di là della durata del conflitto. L’abitudine alla violenza, il suo esercizio quotidiano che gli Stati imposero ai propri combattenti creò una diffusa confidenza con essa che si trasferì anche nella vita civile. Questi sviluppi costituirono le premesse per una brutalizzazione della politica, violenze e massacri divennero mezzi ordinari impiegati per promuovere dei progetti politici. La guerra lasciò inoltre in eredità una questione generazionale: a fare la guerra, infatti, furono prevalentemente i giovani, i quali accrebbero la loro presenza e rilevanza nella società. Nel 1914 e 1915, tra i giovani si riscontrò un acceso interventismo, le cui radici stavano nel rinnovamento culturale di inizio secolo: la guerra venne vista come occasione di riscatto generazionale e contribuì a mettere ai margini una vecchia generazione.

Nel caso italiano tutto ciò è molto evidente: assistiamo all’affermazione di una nuova generazione che veicola modalità di mobilitazione, ideologie e valori completamente diversi da quelli delle generazioni precedenti. La guerra comportò anche un mutamento deciso, e per certi aspetti irreversibile, nei ruoli di genere: le donne, impiegate durante la guerra in attività lavorative ritenute in passato non adatte, si trovarono a svolgere funzioni sociali decisive.

La crisi del 1917

Il 1917 è un anno critico per tutti i paesi belligeranti: la guerra, che doveva durare pochi mesi o addirittura poche settimane, si prolungò come nessuno aveva previsto, provocando una crisi sociale diffusa e la disaffezione della popolazione, che avrebbe voluto uscire dal conflitto. E’ in questo passaggio critico che i bolscevichi giocano due carte decisive per il loro successo: l’uscita dalla guerra e la distribuzione delle terre ai contadini. Questi due elementi del programma bolscevico consentirono a un gruppo di minoranza di agire con efficacia nella crisi del 1917. La popolazione russa, stremata dalla guerra, accolse con grande favore la prospettiva della pace e al contempo la distribuzione delle terre andava incontro a una delle rivendicazioni storiche delle classi contadine. Tuttavia, già nel corso del 1918 iniziarono a profilarsi gli elementi di tensione tra il governo bolscevico e i contadini quando divenne chiaro che non vi era alcuna intenzione di creare una piccola proprietà contadina mentre le requisizioni avvenivano con metodi sempre più violenti.

Rivolte femminili e nuove consapevolezze di genere

Veniamo ai ruoli di genere. La rivoluzione di febbraio comincia con una rivolta di donne per il pane ed esempi analoghi vi furono in tutta Europa. Le donne divengono protagoniste in questa fase storica perché operano sul fronte interno e maturano una crescente consapevolezza delle implicazioni politiche dei compiti di riproduzione della società cui erano state tradizionalmente destinate.  E’ un dibattito storiografico tuttora aperto quello che si chiede se queste rivolte del 1917, avvenute nel pieno della Prima guerra mondiale, possano essere lette sotto il segno dei tradizionali moti per il pane o se, invece, debbano essere interpretate come un fenomeno nuovo. Personalmente propendo per questa seconda lettura perché queste proteste si rivolgevano a uno stato che, attraverso la guerra, aveva cambiato le proprie funzioni entrando con forza nella vita quotidiana dei cittadini; è nel quadro della politica fondata sulla mobilitazione delle masse che si muovevano queste richieste di intervento statale sull’alimentazione.

L’esperienza della guerra, inoltre, lasciò un’eredità rilevante anche nei ruoli di genere. Si pose il problema del destino lavorativo di quelle donne che durante la guerra avevano assunto mansioni che non avevano mai ricoperto in precedenza. In Germania il dibattito fu particolarmente vivace e si coniugò al tentativo di ripristinare le gerarchie di genere all’interno del mercato del lavoro, adottando una serie di misure amministrative tese a riaffermare la prevalenza maschile e una concezione tradizionale del rapporto e della divisione delle attività lavorative tra uomini e donne.

Donne al lavoro durante la prima guerra mondiale (Woolwich, 1918). Un gruppo di operaie impiegate nell’industria delle munizioni usa primitive attrezzature per il controllo a distanza per lavorare con la dinamite all’arsenale di Woolwich. Sono supervisionati dalla signorina Lilian Barker OBE (a sinistra). Foto di Lewis G P – http://media.iwm.org.uk/iwm/mediaLib//36/media-36176/large.jpgThis is photograph Q 27889 from the collections of the Imperial War Museums., Public Domain, Link

Modelli di virilità in crisi

La sconfitta in guerra – e mi riferisco in modo particolare alla Germania – comportò una crisi nell’immagine della virilità: la guerra combattuta è stata infatti una grande esperienza di massa maschile, ma gli uomini che andarono eroicamente a combattere tornarono a casa sconfitti. Quel legame tra l’identità di genere maschile e la guerra, che aveva alimentato la propaganda interventista, si tramutò in una crisi di virilità alla fine della guerra.

Numerosi, in proposito, sono gli esempi letterari che si possono utilizzare per le lezioni e la didattica. Il discorso, naturalmente, si differenzia molto a seconda del contesto di riferimento e sicuramente la vita a Vienna o a Berlino negli anni Venti non corrisponde all’esistenza che si conduceva nelle campagne o nelle città di provincia tedesche e austriache: lo si vedrà bene negli anni Trenta, quando in queste grandi metropoli “rosse” il partito socialista, che godeva di un largo consenso, sarà poi sconfitto dalla reazione formatasi delle piccole città. I romanzi di ambientazione metropolitana, così come il cinema dell’epoca di Weimar, ci restituiscono figure femminili androgine e indipendenti che sfidano la subalternità all’universo maschile. E molti quadri del periodo weimariano rappresentano uomini storpi, invalidi che suonano l’organetto all’angolo delle strade, veri e propri relitti umani. Anche la cultura commerciale e l’industria culturale alimentano la costruzione di una nuova immagine femminile che ha avuto nell’esperienza sociale della guerra una premessa fondamentale.

Dopoguerra e nuove funzioni dello Stato

Ho fatto riferimento al dibattito sulla natura dei moti per il pane, vale a dire se vadano interpretati come riproposizioni di una antica “economia morale”, come l’ha chiamata Edward P. Thompson, in riferimento alle lotte popolari del Settecento inglese, oppure come manifestazioni moderne e novecentesche che rivendicano assistenza e politiche di welfare allo stato.

La guerra costrinse gli stati a modificare profondamente la loro agenda: lo stato liberale ottocentesco non si occupava, infatti, né di economia né di welfare, con qualche limitata eccezione, ma in ogni caso l’idea prevalente era che dovesse minimizzare queste funzioni. Questa concezione venne a mutare totalmente con la guerra, perché un conflitto dal carattere totale richiedeva che lo stato governasse l’economia, le risorse, la moneta, lo scambio commerciale con l’estero e decidesse cosa dovessero mangiare i cittadini e come dovesse essere gestita l’organizzazione degli approvvigionamenti. Le guerre furono grandi laboratori di ricerche nutrizionistiche, in cui anche la popolazione venne segmentata a seconda del lavoro prestato e delle sue esigenze nutrizionali: era lo stato a stabilire quale diritto si avesse a ricevere una determinata provvista alimentare piuttosto che un’altra.

Tutto ciò scompare con la fine della guerra? Certamente no: sebbene parte di queste funzioni vengano restituite al mercato, il livello della spesa pubblica sul prodotto interno lordo dopo il 1918 si posiziona a un livello chiaramente più alto di quello dell’anteguerra. Nel dopoguerra non viene più ripristinata la situazione precedente e gli stati, dopo aver mobilitato le loro popolazioni, devono ora farsi garanti anche del loro benessere: un compito attuato in modi diversi a seconda dei Paesi, delle tradizioni politiche e degli strumenti istituzionali ma che accomuna tutti i governi. Anche il fascismo, con l’utopia corporativa, si pose questo obiettivo, che cercò di raggiungere istituendo le organizzazioni di massa come, per fare un esempio, l’Opera nazionale del dopolavoro; altrove lo si fece con altre modalità, irrobustendo il welfare o mettendo per iscritto, come nel caso della costituzione di Weimar, la tutela dei diritti sociali, ritenuti imprescindibili per poter esercitare pienamente gli altri diritti.

Il caso della Russia

La guerra cambiò profondamente non solo la morfologia e gli strumenti dello stato ma anche la sua stessa immagine agli occhi dei cittadini: lo stato, che in precedenza era sembrato a molti assai lontano, durante la guerra cercò di presentarsi come garante della sicurezza in quanto bisognoso di consenso e legittimazione popolare per riuscire a sostenere lo sforzo bellico.

Esemplare, in tal senso, il caso della Russia: tutta la prima fase della rivoluzione, quella del cosiddetto comunismo di guerra, dal punto di vista della gestione è caratterizzata dall’estremizzazione dell’economia di guerra. L’abolizione del denaro rispondeva certamente alla proiezione utopica di liberazione dal capitalismo e di costruzione immediata del socialismo. Eliminare il denaro e le transazioni mercantili dall’economia, infatti, era un modo per accelerare determinati processi e per imporre la supremazia dello stato sul mercato, nelle decisioni su cosa produrre e cosa consumare. Tuttavia, dal punto di vista tecnico, era come portare l’economia di guerra in tempo di pace perché il denaro in Russia aveva perso di valore già nel 1916 e l’inflazione aveva fatto sì che, in tutti i paesi belligeranti, il baratto cominciasse a divenire, nella quotidianità della popolazione, la modalità principale per ottenere i beni di prima necessità. Successivamente, la NEP ripristinò alcuni elementi dell’economia di mercato, raggiungendo un preciso scopo: in un paese, come la Russia, in cui i contadini costituivano di gran lunga la maggioranza della popolazione, Lenin capì prima di altri che se non si fosse andati incontro alle loro richieste la rivoluzione avrebbe rischiato di essere travolta. La NEP fu quindi un atto di necessità sul piano politico e di incremento della produzione per risolvere il problema della fame sul piano economico: quando terminarono le violente requisizioni dell’Armata rossa e venne introdotta la tassa in natura, i contadini ricominciarono a produrre e nel giro di poco tempo risolsero il problema della fame.

25 Chervontsev 1922. Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Avers. Nota unilaterale Le firme dei membri del consiglio di amministrazione della Banca di Stato della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Contenuto 215 g di oro. Collegamento

Guerra come “laboratorio” di nuove soluzioni politiche

Spesso, in ambito storiografico, lo studio della guerra è divenuto una sorta di specialismo: vi sono gli storici che si occupano delle guerre e gli storici che si occupano della pace. Vi è una motivazione di carattere scientifico perché studiare l’economia e la società durante le due guerre mondiali richiede una conoscenza del contesto molto profonda. Ciò però ha fatto sì che nel comune senso storiografico le guerre siano state spesso viste quasi come delle parentesi, affidate all’opera degli specialisti, quando invece spesso costituiscono dei laboratori che presiedono alla ricostruzione del dopoguerra: i “welfare state” all’europea sono il frutto degli anni Trenta ma anche di alcune decisioni prese durante la guerra per cercare di avere sufficiente consenso e legittimazione.

Uno sguardo decentrato: retoriche imperiali e processi di decolonizzazione

Passiamo al secondo punto, riguardante, per così dire, il decentramento dello sguardo. Riflettiamo sul ruolo che l’Europa ha avuto nella politica mondiale dell’inizio del Novecento: l’impero russo si estendeva su spazi enormi e una piccola isola europea, l’Inghilterra, che secoli prima aveva iniziato a colonizzare la vicina Irlanda, era riuscita a costruire un impero coloniale che comprendeva il subcontinente indiano, il Canada, l’Oceania, gran parte dell’Africa orientale e molti altri possedimenti sparsi per il mondo; il colonialismo francese dominava mezza Africa, l’Indocina e anche l’Italia aveva le sue colonie in Libia, Eritrea, Somalia e Etiopia, quest’ultima conquistata  da Mussolini nel 1936. Il ruolo politico giocato dall’Europa nel regolare i processi economici e sociali a livello globale, attraverso gli attori costituiti dagli imperi coloniali formatisi a partire dalle Compagnie private del Seicento e Settecento, ebbe una accelerazione tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

A mettere in scena in modo esemplare questo planetario dominio europeo furono – ed è materiale didattico molto interessante – le grandi esposizioni universali dal 1851 fino alla Prima guerra mondiale. Cosa veniva esposto? Da un lato il dominio su altri popoli, tramite aree etnologiche ove erano mostrati gli indigeni colonizzati, costruite piccole riproduzioni delle piramidi, villaggi indiani, o portate fisicamente tribù africane: furono i cosiddetti “zoo umani”, uno degli esempi più suggestivi e raccapriccianti di questo sguardo coloniale sull’alterità. Ma vi è anche un altro aspetto. Nelle esposizioni universali vennero presentate tutte le maggiori innovazioni tecnologiche di fine Ottocento: dall’elettricità alle automobili, dagli oggetti di uso quotidiano alla bicicletta e via dicendo. La superiorità della razza e la tecnologia rappresentavano quindi i due pilastri del potere europeo esercitato attraverso gli imperi coloniali.

Questa influenza venne ridimensionata dal punto di vista geopolitico, per le ragioni già viste, e l’idea di una civiltà superiore sarebbe uscita irrimediabilmente distrutta dopo il 1918 perché l’Europa, che si considerava faro di civiltà, aveva provocato il disastro della prima guerra mondiale e tutte le sue conseguenze. Mantenere questa retorica imperiale risultò sempre più difficile, anche se l’eredità dello sfruttamento coloniale sarebbe sopravvissuta alla stessa decolonizzazione poiché anche dopo la fine formale degli imperi coloniali permase un rapporto tra compagnie estrattive o commerciali europee e oligarchie politiche locali che presero il potere nei nuovi stati indipendenti e che usarono la violenza, il terrorismo, la corruzione per spartirsi i proventi della produzione di materie prime.

Eredità coloniali: un dibattito storiografico

Negli anni Settanta si è aperto un dibattito sul colonialismo economico e informale che non riguardava soltanto gli stati ex-coloniali africani ma anche quelli dell’America latina, dove i processi di indipendenza politica si erano realizzati perlopiù già all’inizio dell’Ottocento. Nonostante qualche tentativo, portato avanti con grande difficoltà ad opera dei paesi non allineati, di conquistare l’indipendenza anche nella valorizzazione delle proprie risorse economiche, i rapporti di sfruttamento economico tra nord e sud rimasero sostanzialmente inalterati.

A questo dibattito centrato sulla natura economica del processo di decolonizzazione, ne è seguita, a partire da anni Ottanta e Novanta, un’analisi dell’eredità coloniale sempre più calata nella storia culturale e sociale dell’Europa, proprio a causa della presenza di flussi migratori provenienti dalle ex colonie, favoriti negli anni Sessanta dai paesi ex-colonialisti che avevano un grande bisogno di manodopera e quindi adottavano politiche atte ad attirare l’immigrazione. Questo fenomeno, che ha caratterizzato soprattutto Gran Bretagna, Francia e Olanda (meno gli altri paesi) ha fatto saltare quel rapporto un po’ geometrico tra centro e periferia che è sempre più difficile esprimere in questi termini proprio perché risulta arduo trovare un centro distinto da una periferia coloniale, in quanto anche il centro è il frutto e il risultato di questa storia di relazioni, passata attraverso l’economia coloniale, le migrazioni, i processi culturali.

Un grande tema, in proposito, è quello dell’identità e di una multiculturalità che ha profonde radici storiche. Il complicarsi di questo rapporto centro/periferia, che interessa il colonialismo sin dal suo inizio, implica il transito di popolazioni nei grandi porti e nelle città: la popolazione nera di Lisbona nel Settecento era altissima perché fiorente era il commercio degli schiavi gestito da navi portoghesi; a Nantes esiste un memoriale della storia della schiavitù, commercio che fece la prosperità di quella città. Una iniziativa come questa, molto criticata, ha il compito di preservare la memoria e non deve suscitare un senso di automortificazione, ma restituire piuttosto alla storia le radici di determinati processi, consentirci di comprendere come si siano verificati certi eventi del passato.

Prosperità e successo economico: una “specificità” europea?

Per quanto riguarda la questione della prosperità, del rapporto tra il successo economico dei “trenta gloriosi” e il declino politico dell’Europa non vi è alcuna contraddizione e lo si vede bene nella storiografia: sino al primo Novecento si narrava la spettacolare ascesa dell’uomo bianco e se ne giustificava le mire espansive, il fatto che si fosse spinto ai quattro angoli del globo per civilizzare i popoli considerati arretrati o primitivi. Dopo la Seconda guerra mondiale questo tipo di retorica non era più possibile. L’interrogazione storiografica si spostava sul perché del successo dell’occidente, un’interrogazione depurata da tutti gli aspetti legati alla retorica coloniale sulla superiorità della razza e via dicendo.

Tuttavia permane la tendenza a individuare i fattori “speciali” dell’espansione europea, come l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, le attitudini alla operosità insite nel calvinismo, il precoce sviluppo del mercato, la concezione individualistica della libertà e via dicendo, tutti fattori che avrebbero creato condizioni storico-sociali e storico-culturali adatte allo sviluppo del capitalismo, dell’economia di mercato, dello sviluppo industriale ecc. Queste narrazioni, che ricercano i fattori endogeni dello sviluppo, riportano di nuovo l’Europa dentro una storia separata dal resto del mondo, per cui se il capitalismo si sviluppa “da noi”, se la prosperità economica si afferma in una certa area geografica questo avverrebbe perché solo in Europa e nel mondo occidentale sono presenti specifici fattori e attitudini. In realtà ci sono ragioni che vanno ricercate non solo all’interno della storia europea ma in un contesto ben più ampio.

L’idea di una superiorità determinata non da un supposto primato razziale ma da ragioni fattuali e precise circostanze storiche ha avuto effetti devastanti nelle cosiddette politiche di modernizzazione fuori dall’Europa, quando ci si è convinti che, poiché un’idea ha funzionato “qua”, sarebbe stato sufficiente trasferire altrove questo modello per innescare lo sviluppo: questa idea è fallita, comportando spesso un notevole tasso di violenza. Spesso lo sviluppo di un’area ha comportato il sottosviluppo di un’altra e non risulta facile invertire questo rapporto di gerarchia.

L’Europa e le sfide del post-1989

La prima generazione di europeisti aveva sull’Europa un grande investimento ideale e puntava a superare la fase drammatica di cui ci siamo occupati oggi, a creare condizioni stabili affinché non ci fossero mai più guerre. La pace ha tenuto e non è cosa da poco. Al contempo questa fase storica si è attuata nel quadro della Guerra fredda, in cui ogni possibilità di manovra era molto limitato. Il progetto europeo è nato e si è sviluppato in questo contesto, con dei margini di autonomia ben delimitati. Oggi siamo arrivati anche alla moneta unica, ed è un passo certamente importante e forse un po’ spericolato, ma non c’è una politica estera e militare comune, quei presupposti, cioè, che nelle forme classiche della sovranità definiscono il potere di uno stato.

Se di ciò non vi era bisogno durante la Guerra fredda, dopo il 1989 sarebbe stato invece necessario occuparsi della sfida posta dalla fine del comunismo e di una iniziativa paragonabile al piano Marshall, giacché ciò che fecero gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale non lo fecero gli europei dopo la fine della Guerra fredda. Se possiamo avere legittimi dubbi sul fatto che il piano Marshall abbia davvero rappresentato un volano di sviluppo, esso ha indubbiamente creato determinate condizioni utili al decollo e alla ricostruzione economica; il piano americano poté funzionare perché c’era un ordine internazionale definito, un quadro preciso entro cui venivano collocate le risorse, condizione non verificatasi invece dopo il 1989, quando la fine del pericolo comunista indusse molti a pensare che le cose si sarebbero sistemate da sole. Non è andato così e gli anni Novanta sono stati contrassegnati da un quadro internazionale sempre più complicato.

Novecento e capitalismo mutante

Bisogna tener sempre presente che nel Novecento è cambiata la morfologia del capitalismo internazionale. La fase precedente la prima guerra mondiale fu di intensa globalizzazione, invece la fase di cui abbiamo parlato oggi è di de-globalizzazione, segnata dalla regressione del commercio estero e dalla frammentazione dei mercati a causa della guerra e delle tendenze autarchiche degli anni Trenta. I livelli di integrazione globale di inizio Novecento non vennero recuperati neppure nei “trenta gloriosi” ma solo alla fine del Novecento; si è passati da una fase di globalizzazione, quella di fine Ottocento e inizio Novecento, più simile a quella attuale, a una fase di chiusura delle economie, di capitalismo regolato, controllato, per poi giungere, negli anni Novanta del XX secolo, a una fase di deregolamentazione, in cui riuscire a realizzare un novello piano Marshall, in assenza di una regolazione dei mercati, era diventato assai improbabile.

 

Dati articolo

Autore:
Titolo: Verso una società europea: genere e rivoluzioni 1905-1947
DOI: 10.12977/nov222
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Numero della rivista: n.9, febbraio 2018
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Verso una società europea: genere e rivoluzioni 1905-1947, Novecento.org, n. 9, febbraio 2018. DOI: 10.12977/nov222

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