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Riconciliazione: un percorso lungo e tortuoso. Spunti di riflessione dal 10° convegno ENRS

Riconciliazione: un percorso lungo e tortuoso. Spunti di riflessione dal 10° convegno ENRS

Belfast (Irlanda del Nord): murale dedicato a Nelson Mandela
By Núria – https://www.flickr.com/photos/elmsn/11381539065/, CC BY-SA 2.0, Link

Abstract

Il significato e il ruolo della riconciliazione nel contesto dei conflitti sia interni (e civili) che internazionali, e il raffronto tra le differenti modalità con cui essa è stata messa in atto nella storia europea del XX e XXI secolo, sono stati gli argomenti del 10th European Remembrance Symposium ENRS.
Al centro della discussione c’è stato ovviamente il periodo del secondo dopoguerra, che ha visto un ampio spettro di iniziative di riconciliazione tese in un primo tempo a sanare i traumi della Seconda guerra mondiale, dell’Olocausto, dei crimini nazisti e di quelli comunisti, e in secondo momento a sciogliere i nodi legati alla decolonizzazione, fino ai tentativi parziali e ancora incompiuti di riconciliazione nell’Europa balcanica dopo le sanguinose guerre connesse alla dissoluzione della Ex Jugoslavia.
Le considerazioni riportate di seguito cercano di fornire spunti per la riflessione dei docenti che devono insegnare questi aspetti della storia recente e che vogliano contribuire con la loro didattica al processo di peace building: programmi di scambio per alunni delle scuole secondarie, progetti culturali, sport di squadra che coinvolgono gli studenti sono strumenti utili ed essenziali per il superamento di divisioni etniche e settarie, che rappresenta un passo indispensabile per la riconciliazione.

ENRS SYMPOSIA

L’ENRS[1]  (European Network for Remembrance and Solidariety) è un’entità internazionale creata il 2 Febbraio 2005 dai Ministri della cultura di Germania, Ungheria, Polonia e Slovacchia ai quali, nel 2014, si è aggiunta la Romania. Al network appartengono anche Austria, Repubblica Ceca, Georgia e Albania in qualità di paesi osservatori.

Il proposito dell’ENRS è documentare e promuovere lo studio della storia del XX secolo, riconducendo le vicende delle singole nazioni all’interno di una storia europea collettiva, che favorisca lo sviluppo di una condivisa cultura della memoria. I principali ambiti di riflessione riguardano i regimi dittatoriali, le guerre, la Resistenza all’oppressione; la finalità è costruire relazioni migliori tra le società europee attraverso la discussione su passato continentale comune.

Fra le principali iniziative volte a ottenere questi obiettivi c’è l’organizzazione annuale degli European Remembrace Symposia.

Sin dalla loro inaugurazione nel 2012, i symposia hanno promosso un approccio multidisciplinare e “cross-culturale” alla storia contemporanea. Tra i loro principali obiettivi c’è quello di facilitare il dialogo sulla storia del XX secolo fra rappresentanti di diverse professioni e nazionalità, uniti tra loro sostanzialmente da tre interessi: la conoscenza di aspetti difficili del passato europeo dell’ultimo secolo; la riflessione sugli ultimi sviluppi della ricerca storica; la messa a punto di una nuova coinvolgente maniera di portare la conoscenza storica all’esterno dello stretto ambito accademico. Ogni anno il simposio è ospitato in una differente città, alternativamente dell’Est e dell’Ovest dell’Europa. Spesso la scelta del luogo è collegata a ricorrenze storiche: la quarta edizione, ad esempio, si è tenuta a Vienna in occasione del centenario del celebre congresso nella capitale austriaca; la quinta è stata organizzata a Budapest nel cinquantesimo anniversario della rivolta antisovietica del 1956; l’ottava è stata ospitata a Parigi per celebrare il centesimo anniversario della firma del trattato di Versailles.

IL DECIMO SYMPOSIUM EUROPEO

Nel 2022 il symposium si è tenuto dall’1 al 3 giugno presso il Trinity College di Dublino. Come negli esempi citati poc’anzi, anche in questo caso la scelta della città è legata a una particolare ricorrenza, ovvero il centesimo anniversario della scissione dell’Irlanda dal Regno Unito, al termine di una sanguinosa guerra di indipendenza.[2]

Titolo della decima edizione del symposium è stato Reconciliation: a long and winding path. Partendo dall’esame degli sforzi per stabilire un riavvicinamento tra paesi o gruppi etnici e religiosi europei storicamente conflittuali, il convegno si è posto l’obiettivo di segnare qualche nuovo passo in avanti nella riflessione sulle buone pratiche necessarie per affrontare il sentiero tortuoso verso la riconciliazione e la pace, traendo lezione dal passato e promuovendo un confronto internazionale.

È REALMENTE POSSIBILE LA RICONCILIAZIONE?

Ma è veramente possibile la riconciliazione? Ed essa può essere vista come un unico evento politico? Oppure è un processo a lungo termine che richiede sforzi continui? E ancora: quali sono le condizioni alle quali si fanno o si accolgono le “scuse”[3]? Quali i gesti simbolici usati nei percorsi di riconciliazione? Quali le condizioni necessarie per un approccio costruttivo e proficuo fra gli stati e cosa questi ultimi possono imparare dai tentativi falliti di conciliazione? Quale ruolo giocano i progetti scientifici ed educativi, le iniziative comunitarie e quelle politiche, ufficiali e non? Quanto è importante, poi, il contesto internazionale? Quanto è davvero possibile arrivare a riconciliazione e perdono quando i perpetratori sono ancora in vita? E lo stesso concetto di perdono è davvero sinonimo di riconciliazione o si tratta di due risultati differenti? È, infine, realmente possibile arrivare alla riconciliazione pur mantenendo viva e attiva la memoria degli eventi passato o il ricordo porta inevitabilmente con sé (e rinnova) antichi antagonismi?

A queste domande hanno tentato di rispondere i partecipanti al symposium: docenti universitari di storia, diritto, scienze politiche, professionisti legati a centri di ricerca, fondazioni e organizzazioni no profit, curatori di musei, politici, giornalisti, diplomatici. Per farlo, si sono richiamati a diverse esperienze europee di riconciliazione, provando a comparare varie forme di transizione dalla violenza alla pace in differenti paesi, spesso legate alla loro stessa provenienza. L’analisi ha quindi abbracciato Irlanda, Polonia, Romania, Estonia, Ungheria, Germania, Grecia, Belgio, Italia, Slovacchia, Gran Bretagna, Croazia, Bosnia e – non a caso (ma ci torneremo) – Ucraina.

IL CASO DELL’IRLANDA

Dato il luogo dove si è svolto il symposium (Dublino), e tenuto conto della ricorrenza del centenario dell’indipendenza dell’Irlanda dal Regno Unito, è stato logico e inevitabile parlare della Irish War of Independence condotta per due anni dalle forze indipendentiste irlandesi fra gennaio 1919 e dicembre1921. A seguito della guerra, un anno dopo, è stato istituto lo Stato libero di Irlanda, proclamato come dominion indipendente su 26 delle 32 contee dell’isola; le 6 contee della provincia dell’Ulster, a maggioranza protestante, sono rimaste invece sotto la sovranità del Regno Unito e divenute note (e lo sono tuttora) come Irlanda del Nord. Qui, a sua volta, si è scatenato decenni dopo il conflitto nordirlandese, conosciuto in inglese come The Troubles e in irlandese come Na Trioblóidí: una guerra a bassa intensità[4] tra gli Irlandesi cattolici repubblicani e gli Irlandesi protestanti unionisti (con il coinvolgimento esterno della Repubblica di Irlanda e della Gran Bretagna) che ha causato oltre 3500 morti tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, e i cui strascichi sono presenti tutt’oggi.

Il conflitto all’interno dell’Irlanda del Nord ha scosso per decenni non solo il mondo anglosassone e il Nord Europa ma la comunità internazionale tutta e ha per questo spinto e condotto all’attuazione di politiche di riconciliazione in quest’area. Nell’aprile 1998 è stato siglato il Good Friday Agreement, che ha posto fine al violento conflitto, ma le tensioni non si sono sopite del tutto e il tema della riconciliazione rimane rilevante per le sfide presenti e future. A conferma di ciò basta ricordare due eventi. Da un lato l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea nel 2020, che ha reso il confine fra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord una vera zona di frontiera (con all’incirca 275 punti di attraversamento) e che ha nuovamente diviso l’isola in due[5]. Dall’altro i disordini a Belfast scoppiati intorno al ventitreesimo anniversario dell’accordo[6], che sottolineano come la pace non possa essere data né per scontata né per automaticamente acquisita.

Un ruolo importante nello sforzo per raggiungere una pace stabile tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord nel conflitto decennale lo ha svolto (e lo svolge) sicuramente il Glencree Center for Peace & Reconciliation, un hub internazionale per la risoluzione dei conflitti e la promozione di una pace sostenibile, con sede a Dublino. Esso organizza workshop sul dialogo politico nel processo di pace irlandese, sulle identità musulmano-irlandesi e africano-irlandesi nell’Irlanda di oggi e sulla partecipazione delle donne alla prevenzione del conflitto e alla promozione di pace e sicurezza. Un’ottica quindi inclusiva non soltanto per ciò che concerne le fratture del passato, ma con una grande attenzione a quelle potenziali (o reali) del presente.

LA RICONCILIAZIONE “DALL’ALTO”

Nell’esplorare il tema della riconciliazione, i partecipanti hanno preso in considerazione vari percorsi, meccanismi e strumenti volti al suo conseguimento. Si è inoltre esaminata l’importanza delle iniziative sia laiche che religiose, del coinvolgimento delle istituzioni pubbliche e non governative e, in ultima istanza, della società civile.

La discussione sui processi e sui gesti diplomatici guidati dallo Stato ha offerto ai partecipanti l’opportunità di sottolineare, a volte in modo molto diretto, che gli atti diplomatici e legali formali, compresi i trattati di pace o di amicizia, non sono l’obiettivo finale dei processi di riconciliazione.

Questo aspetto è stato evidenziato in particolare da Monica McWilliams (accademica irlandese, attivista per la pace e per i diritti umani) e Howard Varney (avvocato che ha collaborato con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sud Africa e membro dell’ICTJ, l’International Center for Transitional Justice), che hanno riflettuto sul processo di riparazione all’interno delle società in conflitto dell’Irlanda del Nord e del Sud Africa, mettendo in guardia proprio dai pericoli derivati dal concentrarsi esclusivamente sugli aspetti politici e legali  e sugli accordi formali. Secondo McWilliams e Varney, questi sono solo un punto di partenza per programmi a lungo termine che intendano raggiungere una profonda riconciliazione sociale e definiscano una chiara strategia per raggiungere la riconciliazione nella società.

PACE E GIUSTIZIA

La costruzione della pace, come hanno ripetutamente discusso i partecipanti al simposio, riguarda in gran parte la creazione della fiducia. Si tratta di un processo assai delicato, che può arrestarsi o addirittura spezzarsi in molti modi: l’assenza di processi volti all’accertamento di crimini di guerra o contro l’umanità, la mancata consegna da parte di certi governi dei criminali condannati, l’aver fatto promesse di giustizia poi non mantenute o comunque l’assenza di un’onesta ricostruzione storica… Tutto ciò può avere conseguenze terribili e portare a un contraccolpo emotivo e a un ulteriore trauma per gli individui e le comunità colpite.

Ecco perché durante il simposio è emersa l’indiscussa importanza del nesso tra ricostruzione storica dei crimini e giustizia nei processi di riconciliazione e di riparazione dei torti subiti dalle vittime: contestare il silenzio e le menzogne sulla violenza avvenuta, ricostruire la verità storica – e dunque oggettiva – sugli stermini e ascoltare anche la verità personale delle vittime sono infatti il primo passo da compiere per arrivare a un riconoscimento pubblico delle colpe dei perpetratori e quindi per poter infine giungere alla riconciliazione. Questo si è verificato indubbiamente nei confronti delle vittime ebraiche della Shoah, meno per altri gruppi etnici, come i Sinti e i Rom (basti pensare, ad esempio, che non furono neppure chiamati a testimoniare a Norimberga).

Un percorso prima di testimonianza e poi di riconciliazione che intenda conseguire il risultato di una memoria se non condivisa, perlomeno fondata su elementi comuni e sul riconoscimento della verità storica, può tuttavia avvenire solamente quando il perpetratore riconosce che un crimine è stato commesso, prima ancora di assumersene la responsabilità. Ciò è reso molto difficoltoso se il contesto socio-politico che segue l’ondata di violenze collettive perpetua i silenzi e le menzogne che le hanno precedute e accompagnate, attuando un meccanismo di negazione atto a sostenere che i crimini non siano mai accaduti, che non esistano e che non siano veri.

Caso emblematico è quello della Bosnia, dibattuto da Emir Suljagić, sopravvissuto al genocidio di Srebrenica e presidente del Memoriale e cimitero di Srebrenica-Potočari per le Vittime del Genocidio del 1995. Srebrenica si trova ancora nell’entità della Republika Srpska[7], dove – nonostante l’importante lavoro svolto dall’ International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY) –

non è possibile rompere il silenzio e contrastare omissioni e menzogne sulla violenza avvenuta, ricostruendo i contorni storici dello sterminio e ascoltando le testimonianze delle vittime, cosa che – come già sottolineato – rappresenta il primo passo da compiere per arrivare ad un riconoscimento pubblico delle colpe dei perpetratori.

Soltanto una società in grado di farsi carico di un’assunzione di responsabilità collettiva per la violenza commessa potrà arrivare ad elaborare una memoria collettiva del trauma che le permetterà di ricostruire una nuova identità di gruppo.

L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA NEL PROCESSO DI RICONCILIAZIONE

I traumi e un passato doloroso sono aspetti estremamente importanti delle identità nazionali e delle memorie collettive, e per questo richiedono un’adeguata commemorazione e riconoscimenti, sia materiali che morali, alle vittime. Piotr Cywiński, direttore del Museo statale di Auschwitz-Birkenau sin dal 2006, ha puntualizzato che gli Stati talvolta eccellono nel creare simboli e memorie narrative easy-to-use ma “mono dimensionali”, mentre la riconciliazione richiede una polifonia di voci che catturi le diverse esperienze della passata violenza. Valérie Rosoux, docente presso la Facoltà di scienze economiche, sociali e politiche e della comunicazione dell’Università di Lovanio, ha sottolineato l’importanza di iniziative bottom-up, prese anche da reti di persone comuni oltre che dalle istituzioni. Come ha ammesso Emir Suljagić, l’esperienza dell’Europa orientale mostra che lo Stato stesso può essere in gran parte visto come un autore delle violenze passate: quindi se la politica della memoria non è accompagnata da abili atti di riconciliazione, le esperienze di violenza legate a un passato drammatico possono avere un impatto distruttivo sui rapporti non solo tra paesi e nazioni in conflitto ma anche all’interno di uno stesso Stato.

Molti hanno sottolineato che la riconciliazione non solo rende tutte le parti di eventi traumatici capaci di commemorarli insieme, ma apre anche la strada a relazioni armoniose ed empatiche nel futuro: una conclusione che personalmente ritengo sottovaluti la lunga durata delle conseguenze di fratture traumatiche nel corpo della cittadinanza.

RICONCILIAZIONE, RESTITUZIONE, RIPARAZIONE

Accanto alle questioni della colpa, della responsabilità e della punizione dei colpevoli, bisogna affrontare quelle relative ai riconoscimenti dei crimini commessi con dichiarazioni pubbliche di scuse da parte delle autorità[8] e quelle relative alle varie forme di riparazione come prerequisiti alla riconciliazione.

Il symposium ha discusso quindi anche degli aspetti materiali di questo processo, come la restituzione[9] dell’arte saccheggiata, le riparazioni di guerra.

Un caso interessante in tema di riparazioni di guerra riguarda proprio l’Italia. Si tratta della complessa e non conclusa vicenda del contenzioso giudiziario che ruota attorno alla possibilità da parte delle vittime italiane dei crimini di guerra tedeschi durante la Seconda guerra mondiale di citare in giudizio la Repubblica federale tedesca.[10]

Ripercorrendo le tappe della vicenda, va in primis sottolineato che la Germania aveva già provveduto a compensare l’Italia e altri stati dal 1945 in poi, in particolare (per quel che concerne il nostro paese) con l’accordo bilaterale italo-tedesco del 2 giugno del 1961, che ha portato lo Stato tedesco a mettere a disposizione di quello italiano una somma di 40 milioni di marchi (circa 6 miliardi di lire all’epoca) per risarcire le vittime italiane della persecuzione nazionalsocialista. A seguito della nuova stagione di procedimenti giudiziari (apertasi nel 2001 dopo il ritrovamento del cosiddetto “armadio della vergogna” avvenuto nel 1994) contro gli autori tedeschi di stragi, alcuni Tribunali hanno comunque deciso di condannare la Germania a pagare risarcimenti a superstiti o familiari delle vittime.

Lo Stato tedesco, tuttavia, dopo aver costituito con finanziamenti del Ministero degli esteri un “fondo italo-tedesco per il futuro”[11] atto a finanziare iniziative di ricerca scientifica[12] di politica della memoria riferite ai crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale., si è sempre rifiutato di riconoscere il diritto ai risarcimenti ed è ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (ICJ). Quest’ultima, con sentenza del 3 febbraio 2012[13], ha ritenuto che l’Italia avesse violato l’immunità giurisdizionale degli stati. Tuttavia una successiva sentenza della Corte Costituzionale italiana, la numero 238 del 22 ottobre del 2014[14], ha dichiarato incostituzionali le norme della legge italiana che davano esecuzione a quella pronuncia dalla ICJ. Di conseguenza in Italia si è rafforzata la pressione di associazioni di familiari di vittime per ottenere risarcimenti economici come forma di elementare, sia pure tardiva, giustizia per le sofferenze patite, e sono ripresi procedimenti giudiziari presso alcuni tribunali, che si sono conclusi spesso con sentenze di condanna della Repubblica federale tedesca. Dunque il contenzioso giudiziario tra Germania e Italia è ancora aperto.

D’altro canto, come ha fatto notare al symposium un giovane ricercatore greco intervenuto nel dibattito, l’Italia si trova parte in causa anche in senso opposto. Considerando che nel corso della Seconda guerra mondiale non è stata solo paese occupato ma anche forza occupante, benché non abbia mai avviato una riflessione sulle sue responsabilità per i crimini di guerra commessi nei territori conquistati.[15]

L’APERTURA DEGLI ARCHIVI: UN PASSO VERSO LA RICONCILIAZIONE

Tra gli aspetti materiali capaci di condurre alla riconciliazione, nel corso del symposium è stata rivolta particolare attenzione al tema dell’apertura degli archivi. Nello specifico si è molto discusso di quelli sovietici, parzialmente disponibili dopo il 1991, la cui consultazione ha permesso di costruire una nuova immagine e di fornire nuove chiavi interpretative della storia degli ex paesi sovietici, facendole guadagnare nitidezza e precisione, e dissolvendo narrazioni a lungo spacciate come veritiere. L’esempio più celebre fra quelli citati è indubbiamente l’eccidio di circa 4500 ufficiali polacchi a Katyn, un crimine che i dirigenti comunisti hanno sempre addossato ai tedeschi, almeno fino al crollo dell’Unione Sovietica. Dopo la fine del regime, dagli archivi segreti sovietici è però emersa una serie di documenti che ha provato senza ombra di dubbio come quella strage facesse parte di un progetto più vasto, che provocò la morte di ben 25 000 polacchi (intellettuali, ufficiali, docenti universitari, imprenditori, poliziotti, preti…).[16].

In tema di archivi dell’ex Unione Sovietica, il caso più notevole è comunque rappresentato dall’Ucraina. La legge «sull’accesso agli archivi degli organi repressivi del regime totalitario comunista dal 1917 al 1991», approvata dal Parlamento il 18 aprile 2015, ha permesso l’accesso alle carte ucraine del KGB e ha reso il paese quello con l’accesso più agevole ai documenti della polizia segreta sovietica di tutto il mondo ex comunista[17]. Nella legge è particolarmente significativo l’utilizzo della formula: “tutto è aperto per tutti”, a sottolineare come non vi sia differenza di accessibilità alle carte, sia che si tratti di un cittadino ucraino, di uno straniero, o di un membro della famiglia di qualcuno menzionato direttamente nei documenti.

Ciò ha aperto la strada a quello che è stato definito «pacchetto di decomunistizzazione» del paese, la cui prima legge (la n° 2538-1) è stata proposta da Yuriy-Bohdan Romanovych Shukhevych, deputato radicale, il 7 Aprile 2015 e approvata pochi giorni dopo, grazie al voto favorevole di 271 parlamentari.

Il pacchetto di «leggi sulla decomunistizzazione», entrato in vigore il 21 maggio 2015, è comprensivo dei seguenti provvedimenti: «Sul ricordo della vittoria sul nazismo nella seconda guerra mondiale nel 1939-1945», «Sullo status legale e sulla commemorazione della memoria dei partecipanti alla lotta per l’indipendenza dell’Ucraina nel XX secolo», «Sull’accesso agli archivi degli organi di repressione del regime comunista totalitario degli anni 1917-1991» e «Sulla condanna dei regimi totalitari comunisti e nazionalsocialisti e sul divieto di propaganda dei loro simboli». Inoltre con la succitata legge il Parlamento ha istituito una nuova festività: la “Giornata della memoria e della riconciliazione”, che cade l’8 maggio, con lo scopo di onorare tutte le vittime della Seconda Guerra Mondiale. Pur non annullando la Giornata della Vittoriadell’Armata Rossa sulle forze nazi-fasciste, festeggiata il 9 maggio, l’istituzione della nuova festività l’8 maggio ha creato in pratica due feste parallele in onore del secondo conflitto mondiale.

Si tratta di un complesso legislativo che come scrive Bordarenko, rischia di dividere ulteriormente il paese[18].

RICONCILIAZIONE E GESTI SIMBOLICI

Nel processo di riconciliazione è potente l’effetto che hanno i gesti compiuti dai capi di stato. Durante il symposium è stato ricordato ad esempio Willy Brandt, cancelliere tedesco ideatore dell’Ostpolitik, la cui immagine simbolo è quella del 7 dicembre 1970, quando si inginocchiò davanti al monumento in ricordo della rivolta del ghetto ebraico a Varsavia, chiedendo così perdono per i crimini commessi dai nazisti nei confronti della comunità ebraica polacca. Il suo atto simbolico non ha rappresentato soltanto un tentativo dall’alto valore morale di elaborare in maniera critica un passato scomodo che per molti tedeschi era diventato tabù, ma anche di guardare alla riconciliazione futura con l’Est. Non a caso l’anno dopo fu concluso l’accordo di «transito» tra le due Berlino che permetteva ai cittadini della parte occidentale di visitare l’altra metà della Germania, cosa che non avveniva facilmente dal 1945.

«La riconciliazione con la Polonia – ha sottolineato Valérie Rosoux – era considerata l’architrave della nuova politica di distensione da parte di Brandt».

Potente è anche il gesto di Nelson Mandela, per la riconciliazione post-Apartheid in Sud Africa: nel maggio 1994 egli indisse un ricevimento per le vedove dei politici che lo avevano imprigionato e pranzò con il magistrato che voleva la sua impiccagione. Il gesto simboleggiò la volontà di porsi come presidente di tutti i cittadini sudafricani, bianchi o neri che fossero, lontano da ogni rivalsa e vendetta.

LO SPORT NEI PROCESSI DI RICONCILIAZIONE

Anche lo sport gioca un ruolo rilevante nel processo di riconciliazione. Ancora una volta Mandela costituisce un esempio emblematico, come ha suggerito Howard Varney dell’International Center for Transitional Justice. Il 24 giugno 1995, a Johannesburg, Mandela non solo consegnò personalmente il Webb Ellis Trophy (la coppa del mondo di rugby) al capitano della nazionale sudafricana Francois Pienaar, ma si presentò in campo prima della finale con indosso la maglia del suo paese, che recava ancora (anche questo per volere dello stesso Mandela) i colori giudicati dai neri un segno distintivo della minoranza bianca. Il successo della nazionale è diventato dunque simbolo del riavvicinamento, della fiducia nella rinascita di un paese unificato e del progredire del processo di integrazione.[19]

RICONCLIAZIONE E SOCIAL MEDIA

Le possibilità di comunicazione aperte da Internet e dai social media hanno cambiato radicalmente il modo in cui affrontare la riconciliazione, come ha puntualizzato uno membro dell’audience del symposium, a seguito dell’intervento di Sinéad McCoole, storica del Department of Tourism, Culture, Arts Gaeltacht, Sports and Media dell’University College di Dublino.

I social media hanno lanciato diverse sfide, tra le quali la più difficile pare essere quella della disintermediazione[20], che può giungere persino a minare le autorità tradizionali – siano esse statali o accademiche – e provocare una crescente frammentazione delle società e delle memorie. Allo stesso tempo, la pluralizzazione delle narrazioni disponibili sul web permette visioni più polifoniche rispetto al passato, mentre la digitalizzazione dei materiali d’archivio consente un maggiore accesso democratico al materiale storico. Tuttavia non va sottovalutato il pericolo che i social media si facciano portatori di visioni riduzioniste o addirittura negazioniste dei crimini commessi, amplificando fake news e informazioni senza una solida base storica. Facendo un esempio italiano, si pensi all’amplificazione delle cifre degli infoibati presente in molti siti[21].

Sebbene il ruolo dello storico possa cambiare, dovremmo continuare a lottare per l’importanza della pluralità e la libertà della ricerca storica e non abbandonare i metodi tradizionali.

LA GUERRA IN UCRAINA

Parlando del tema della riconciliazione, infine, era difficile non porre lo sguardo al presente. Il symposium si è infatti tenuto con lo sfondo della guerra in Ucraina. Anche la più cocente attualità è dunque entrata nel dibattito, attraverso le parole del Professor Yaroslav Hrytsak, della Ukrainian Catholic University, collegatosi on line da Lviv (Leopoli) colpita da missili e ordigni la settimana precedente.

Come fondatore ed editore capo del giornale di approfondimento storico Ukraina Moderna, Hrytsak ha aperto un dibattito critico sulle relazioni fra Ucraina e Polonia (Lviv dopo la Grande guerra era entrata nel perimetro della “nuova Polonia” indipendente) e fra Ucraina ed ebrei, sullo sfondo della storia violenta del XX secolo, fornendo un contrappunto agli approcci storici nazionalistici.

La discussione si è orientata anche alla ricerca delle radici storiche della guerra della Russia contro l’Ucraina. Nel dibattito si è sollevata la questione dei crimini contro l’umanità in relazione alla ricerca di una fattispecie giuridica che possa inchiodare Putin in nome di una dimensione internazionale della giustizia figlia delle tragedie del Novecento.

CONCLUSIONI

Quel che è certo – ed è anche emerso dai lavori presentati nel convegno – è che non esiste un solo sentiero verso la riconciliazione e che per raggiungerla devono essere coinvolti molteplici attori: dai ministeri ai musei locali, dai teatri alle case editrici, dai programmi di scambio studentesco alle congregazioni religiose. Tutti hanno la capacità di costruire ponti tra diverse comunità in grado di condurre alla riconciliazione. La necessità di una ampia rete di molteplici attori nel dialogo di pace parla veramente degli sforzi necessari per sanare le ferite di una storia travagliata. La maggior parte dei partecipanti ha convenuto che il presupposto fondamentale della riconciliazione è la volontà di entrambe le parti del conflitto di lavorare come partner e che ha osservato che lo sviluppo dell’integrazione europea è strettamente intrecciato con le riconciliazioni storiche, facilitandole.

Lo svolgimento del processo di riconciliazione dipende fortemente dal contesto in cui la violenza è stata agita e dai suoi attori: conflitti internazionali, guerre civili, violenze coloniali o genocidi e necessita di tempo e pazienza.


Note:

[1] Cfr. www.enrs.eu

[2] In realtà nel 1922 nasce lo stato libero di Irlanda. Il Republic of Ireland Act risale al 1949.

[3] G. Lingua, Scuse di stato e altre richieste di perdono storico. Problemi e promesse della riconciliazione delle memorie, in «Lessico di etica pubblica», 2 (2018), pp. 13-25.

[4] Per conflitto a bassa intensità (conosciuto anche con l’acronimo inglese LIC, ovvero low intensity conflict) s’intendono l’uso di forza militare applicata selettivamente e in modo limitato ed il dispiegamento e l’uso di truppe e/o risorse in situazioni diverse dalla guerra.

[5] Sin dal 2017, il Parlamento europeo ha chiede che si facciano tutti gli sforzi possibili affinché le due parti dell’isola non sentano troppo l’impatto di Brexit e ha preparato mitigare le conseguenze per entrambe le parti dell’isola. https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/eu-affairs/20170925STO84610/brexit-conseguenze-per-l-irlanda (consultato l’11/8/22); https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20180112IPR91628/taoiseach-irlandese-l-ideale-di-un-futuro-migliore-ispira-ancora-l-ue (consultato il 12/8/22); https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/eu-affairs/20190313STO31215/brexit-un-piano-per-limitare-gli-effetti-di-un-uscita-senza-accordo (consultato il 12/8/22).

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Disordini_in_Irlanda_del_Nord_del_2021 (consultato il 5/8/22); https://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/irlanda-del-nord-proteste/  (consultato il 3/8/22); https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ispitel-le-notti-di-belfast-29988 (consultato il 2/8/22);  https://ilbolive.unipd.it/it/news/violenza-irlanda-nord-belfast-scontri (consultato il 4/8/22); https://espresso.repubblica.it/idee/2021/04/07/news/lealisti_scontri_irlanda_del_nord-295434664/ (consultato il 5/8/22); https://www.linkiesta.it/2021/04/irlanda-nord-brexit-polizia/ (consultato il 10/8/22).

[7] Sulla base dell’Accordo di Dayton (più precisamente l’Accordo Quadro Generale Per la Pace in Bosnia ed Erzegovina, General Framework Agreement for Peace, stipulato tra il 1° ed il 21 novembre 1995, con il quale ebbe termine la guerra in Bosnia-Erzegovina è stata prevista la creazione di due entità interne allo Stato di Bosnia Erzegovina: la Federazione croato-musulmana, che detiene il 51% del Territorio bosniaco (con 92 municipalità) e la Repubblica Srpska (49% con 64 municipalità).

[8] Esistono diversi tipi di riparazione nella transitional justice: e riparazioni simboliche, che consistono in riconoscimenti o scuse pubbliche, che mirano a identificare le sofferenze che le vittime delle violazioni dei diritti umani hanno patito; e le riparazioni materiali che mirano ad attribuire benefici materiali alle vittime di passate violazioni dei diritti umani al fine di risarcirle per gli abusi subiti e possono consistere in una somma forfettaria, nella restituzione di beni precedentemente confiscati o nella prestazione di cure mediche o di pensioni.

[9] In ambito giuridico, il termine restituzione designa il ripristino di un diritto (in questo caso quello di proprietà) che è stato violato dal mancato rispetto delle convenzioni internazionali. Nello specifico, si allude al tentativo di ritrovare le opere d’arte depredate dai nazisti e restituirle. Ciò fa parte della politica tedesca di riparazione per i crimini del regime nazionalsocialista sin dalla Dichiarazione di Washington del 1998.

[10] Ne ha parlato proprio l’autrice dell’articolo, in qualità di collaboratrice della Rete italiana degli Istituti storici della Resistenza e dell’Età contemporanea.

[11] L’istituzione del fondo è stata vivacemente contestata da alcuni familiari di vittime, perché considerata una umiliante compensazione rispetto al rifiuto della Germania di pagare i risarcimenti. Per altro a quel fondo hanno attinto per propri progetti associazioni come ANRP, ANEI e molti dei comuni vittime di stragi, come Stazzema e Marzabotto.

[12] Come l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, promosso dall’ANPI e dall’Istituto Nazionale Ferrucio Parri.

[13] Jurisdictional Immunities of the State (Germany v. Italy: Greece intervening), ICJ Reports, 3 febbraio 2012 (http://www.icj-cij.org/en) (consultato il 13/8/2022).

[14] https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=238 (consultato il 13/8/2022). Cfr. D. Russo, “La sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 2014: la Consulta attiva i “controlimiti” all’ingresso delle norme internazionali lesive del diritto alla tutela giurisdizionale” (https://www.osservatoriosullefonti.it/archivio-rubriche-2014/fonti-dellunione-europea-e-internazionali/1124-la-sentenza-della-corte-costituzionale-n-238-del-2014-la-consulta-attiva-i-qcontrolimitiq-allingresso-delle-norme-internazionali-lesive-del-diritto-alla-tutela-giurisdizionale) (consultato il 13/8/2022).

[15] http://www.criminidiguerra.it/ (consultato l’11/8/2022). Si veda anche F. Focardi, I crimini impuniti dei «bravi italiani», “Contemporanea”, 8 (2), 2005, pp. 329–335.

[16] Uno dei documenti più interessanti è una lettera scritta da Laurentij Berija (responsabile della polizia politica) il 5 marzo 1940, indirizzata a Stalin. Lo stesso giorno, il Politburo approvò tutte le proposte di Berija, compresa la fucilazione degli ufficiali. (in V. Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 37-39). Cfr. G. Sanford, Katyn e l’eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria, Torino, Utet, pp. 13-321 (ed. or. London, 2005) 2007.

[17]Come si evince dal rapporto analitico intitolato “Le pratiche legislative europee di decomunistizzazione: le conclusioni per l’Ucraina” https://cdvr.org.ua/ (consultato il 13/8/2022).

[18] O. Bondarenko, Ucraina: le nuove leggi sulla memoria rischiano di dividere ulteriormente il paese, in https://www.eastjournal.net/archives/57843 (consultato il 13/8/2022).

[19] A questo episodio è dedicato il film Invictus – L’invincibile del 2009, diretto da Clint Eastwood. Il film è un adattamento cinematografico del romanzo Ama il tuo nemico (Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game that Made a Nation) di John Carlin, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti.

[20] https://it.wikipedia.org/wiki/Disintermediazione (consultato il 28/8/22).

[21] Cfr. E. Gobetti, E allora le foibe?, Laterza, Bari-Roma 2021, https://left.it/2018/02/18/foibe-tra-mito-e-fake-news-neofasciste/ (consultato il 28/8/22).

 

Dati articolo

Autore:
Titolo: Riconciliazione: un percorso lungo e tortuoso. Spunti di riflessione dal 10° convegno ENRS
DOI: 10.52056/9791254693162/15
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Riconciliazione: un percorso lungo e tortuoso. Spunti di riflessione dal 10° convegno ENRS, Novecento.org, n.18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/15

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