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Resilienza o Slow Violence?

Nuove interpretazioni per leggere l’evoluzione delle aree interne nella storia d’Italia

Abstract

Le riflessioni di questo saggio partono dalle varie forme di degrado ambientale e dalle modalità di creazione di squilibri e nuovi equilibri tra comunità e ambiente. La recente storiografia sul tema ha innovato le categorie di disastro ambientale anche prendendo in prestito concetti quali fast violence e slow violence, che afferiscono alla ecologia politica e all’ecocriticismo. Altro concetto introdotto soprattutto nell’ambito dell’intervento pubblico è quello di resilienza.
Tra i territori che oggi vengono classificati come resilienti ci sono le aree interne perché, nonostante nell’ultimo secolo e mezze esse abbiano dovuto fare i conti con la perdita di popolazione e la perdita di dinamicità a livello economico, questi territori oggi mostrano una vitalità fino a pochi decenni fa non immaginabile e che inevitabilmente presenta anche rovesci della medaglia. Questo saggio rilegger il caso delle aree interne italiane a partire dall’Unità attraverso la categoria di resilienza e l’intreccio di questa con le forme di fast e slow violence.

Le forme dello squilibrio ambientale

Il momento che meglio di altri esprime la rottura degli equilibri dinamici tra società e ambiente è il disastro e proprio per questo motivo i disastri “naturali” sono stati e sono ad ora uno dei maggiori interessi per storici e storiche dell’ambiente. La storiografia ha contribuito in primo luogo alla de-naturalizzazione dei disastri, a spiegare cioè quanto poco di naturale e molto di umano ci sia in un evento estremo, inclusi terremoti ed eruzioni vulcaniche. A questa categoria di disastri di origine naturale sono stati recentemente dedicati studi che li hanno intrecciati con la storia d’Italia. Proprio passando in rassegna una serie di contributi[1], Giacomo Parrinello mostra come lo studio del disastro non possa limitarsi a osservazioni quantitative legate a variabili scientifiche, bensì deve includere una riflessione sul ruolo giocato

dalla mancanza di adeguati piani di gestione dell’emergenza, dall’impreparazione e dalle carenze strutturali dell’apparato istituzionale, che emersero tanto nella fase di allerta, quanto nella gestione dei soccorsi, con esiti paradossali e drammatici[2].

Inoltre, anche limitando l’analisi al momento in cui un disastro si rivela, il modo in cui tale momento è stato interpretato in prospettiva storica si basa sull’idea che società e agenti distruttivi si costituiscano insieme e che, quindi, quando un disastro avviene, il sistema naturale non è più divisibile dal sistema sociale[3]. L’evento disastroso è la conseguenza di processi politici, economici e/o sociali: chiederci perché avviene è una domanda politica e comprenderne le radici richiede una analisi sociologica e/o storica[4]. Come tutti i momenti di crisi, il disastro ambientale può rappresentare un passaggio trasformativo e offrire l’opportunità di ribilanciare o tentare di trovare un nuovo equilibrio tra socio-sistemi ed ecosistemi[5].

Ancora in anni più recenti, l’analisi di lungo periodo del disastro non ha significato più solamente la considerazione delle pre-condizioni, dei soccorsi e della ricostruzione, ma è andata a riguardare il disastro in sé. Esso ha perso i connotati evenemenziali e si è ridefinito come processo, soprattutto con riferimento a fenomeni di contaminazione. A livello internazionale, questo è l’approccio della studiosa Kate Brown nel rileggere il disastro nucleare di Chernobyl: l’incidente che avvenne il 26 aprile del 1986 fu solo l’ultimo episodio e quello con magnitudo maggiore di una lunga storia di contaminazione radioattiva delle paludi Pripyrat e di incidenti all’interno dei reattori nucleali a partire dal 1969; e fu anche l’episodio che diede nuovo impulso ai livelli di contaminazione che ad oggi rendono alcune aree della foresta attorno alla centrale interdette e monitorate[6]. In Italia, Giulia Malavasi ha utilizzato in maniera esplicita questo nuovo modello interpretativo per ricostruire la storia della contaminazione della città di Manfredonia a causa delle attività del petrolchimico. La vicenda a cui venne esposta la comunità dal 1971 al 1994 diventa, nelle parole dell’autrice, una «catastrofe continuata». La contaminazione di aria e acqua acquisì i caratteri di un’attività normalizzata, in gran parte legale, quantitativamente incalcolabile, puntellata da incidenti eclatanti, come la fuoriuscita di arsenico il 26 settembre 1976, che rese il caso noto a livello nazionale come disastro[7].

Questi studi, seppure riguardanti categorie diverse, mostrano una tendenza a considerare la complessità di questioni a lungo confinate in ambiti ben precisi, temporali e interpretativi. L’attenzione a fenomeni di rottura dell’equilibrio dicono molto del tipo di società in cui viviamo e non è un caso che l’interesse degli ultimi due decenni rifletta la maggiore frequenza e intensità di eventi estremi, espressione del cambiamento climatico. La crisi ecologica ha aggiunto un nuovo livello semantico alla società globale del rischio, teorizzata da Ulrich Beck[8]. L’incorporazione, infatti, degli eventi estremi nelle strutture politiche, nel sistema economico e nell’ordine sociale mostra le forme di adattamento di una società sottoposta a minaccia costante, e gli studiosi hanno chiamato questi adattamenti «culture del disastro»[9]. La crescente esposizione e vulnerabilità di tutte le aree geografiche ai rischi ambientali e agli effetti delle crisi climatiche ha allargato il numero di società e di istituzioni che hanno tematizzato questi rischi includendoli nei frame di governance e negli iter che presiedono alla elaborazione delle forme più diverse di azione collettiva. Tale tematizzazione e reazione all’esposizione a un rischio sempre più concreto viene spesso definita come resilienza[10], quasi a segnare una normalizzazione di soggetti che fino a pochi decenni fa erano visti come eccezionali.

La resilenza è la capacità di un sistema di rigenerarsi e riorganizzarsi in seguito a un evento avverso, che però non dovrebbe portare a una radicale trasformazione dell’ecosistema e a una dissoluzione sociale e territoriale, altrimenti la società stessa non avrebbe modo di adattarsi gradualmente. In altre parole, i sistemi socio-ecologici presentano gradi di resilienza proporzionali alla quantità di perturbazione che il sistema può assorbire, alla sua capacità di auto-organizzarsi e di apprendere nuovi comportamenti. Resilenza e disastro sono uniti nelle politiche di gestione ambientale dal cosiddetto disaster risk management, volto alla riduzione dell’esposizione al disastro attraverso strategie di mitigazione e adattamento[11]. Se da un lato il concetto di resilienza usato come strumento analitico permette di innovare il dibattito storiografico su temi centrali della storia d’Italia – quali, tra gli altri, la storia delle società contadine, dello sviluppo urbano, della migrazione, della infrastrutturizzazione –, dall’altro implica la normalizzazione di uno squilibrio tra umani e ambiente che risulta non distruttivo, o meglio non disastroso, solo se non inserito in un contesto temporale di lungo periodo.

L’interrogativo che questo saggio pone è, appunto, fino a che punto e in quali casi si può parlare di resilienza con accezione pressocchè positiva e non di «catastrofe continuata», per usare l’espressione di Malavasi che ben traduce in italiano il concetto di slow violence, che ha una accezione negativa se prendiamo come standard la difesa degli ecosistemi e delle comunità[12]. La slow violence è stata così teorizzata da Rob Nixon:

Con l’espressione slow violence intendo una forma di violenza che avviene gradualmente e lontano dai riflettori, una violenza che ritarda una destrutturazione che viene diluita nel tempo e nello spazio, una violenza logorante che non viene generalmente riconosciuta come tale. Violenza è tradizionalmente concepita come un evento o un’azione che è immediata nel tempo, esplosiva e spettacolare nello spazio, e genera una sensazionale visibilità. Credo ci sia bisogno di interagire con un diverso tipo di violenza, una violenza che non è né spettacolare né immediata, ma che si manifesta piuttosto a mo’ di climax, le cui disastrose ripercussioni si manifestano attraverso scale temporali diverse[13].

Nonostante le contiguità e somiglianze con la slow violence, a mio avviso la resilienza differisce da questa su un punto fondamentale: essa si focalizza sugli effetti di uno squilibrio – o al massimo cerca di porvi rimedio nel futuro – agendo sulle cause di breve periodo e questo, da una prospettiva storica, richiede delle riflessioni. Il contenuto di questo saggio guarderà al caso delle aree interne italiane: da un lato si proverà a rileggere la loro storia a partire dall’Unità attraverso la categoria di resilienza; dall’altro lato, si intesserà un intreccio tra resilienza e slow violence.

Stresa: casa disabitata, luglio 2022, © David Moloney @dr_academic_nomad Instagram (riproduzione autorizzata dall’autore)

 

Le aree interne nel dibattito pubblico

Tra i territori che oggi vengono classificati come resilienti ci sono le aree interne perché, nonostante nell’ultimo secolo e mezze esse abbiano dovuto fare i conti con la perdita di popolazione e la perdita di dinamicità a livello economico, questi territori oggi mostrano una vitalità fino a pochi decenni fa non immaginabile e che inevitabilmente presenta anche rovesci della medaglia. Per definire le aree interne, si fa riferimento ad alcuni fattori che Matteo Troilo ha delineato. Il primo riguarda «il processo di perdita della popolazione [che] è parallelo a quello di perdita di dinamicità a livello economico». Da un lato, il degrado demografico induce un indebolimento del sistema produttivo, la perdita di servizi pubblici essenziali, la riduzione della capacità di produzione di reddito; dall’altro lato l’impossibilità del sistema montano di sostenere i nuovi modelli di vita emersi con il boom economico ha spinto la popolazione a migrare verso i centri urbani situati in pianura. Altra caratteristica è l’accesso limitato, rispetto alla media nazionale, ai tre servizi pubblici essenziali – sanità, istruzione, trasporti pubblici – e un alto tasso di diversificazione culturale e di risorse. Se sono «le potenzialità ridotte» a caratterizzare i territori marginali, è vero anche che la marginalità è una condizione relativa, legata a determinate coordinate spaziali e temporali e l’influenza dei fattori marginalizzanti può estendersi – come è avvenuto per gran parte della storia d’Italia – ma anche ridursi – come sta avvenendo timidamente negli ultimi anni[14].

Numerose iniziative, il dibattito pubblico e l’intervento statale negli ultimi tre lustri si sono interessati alle «aree interne resilienti» con gli obiettivi di mettere a punto, analizzare e replicare pratiche e modelli di innovazione sociale, economica e ambientale, trasversali ai vari settori socio-economici delle aree periferiche della penisola[15]. Interesse che l’emergenza pandemica ha ulteriormente incentivato. Oppure, un’altra declinazione del nesso resilienza-aree interne è data dalle azioni di adattamento al cambiamento climatico proposte nel 2016 dal Ministero dell’Ambiente, che includono la cura del regime idrico, l’incentivazione della mobilità sostenibile anche dove il trasporto pubblico non arriva, la riduzione della dipendenza economica delle aree montane dagli sport invernali (specialmente sciistici)[16].

Gli anni Dieci del nuovo millennio hanno segnato un momento di cesura per le aree interne grazie: all’elaborazione di strategie di sviluppo nazionale che hanno guardato alla questione della coesione territoriale come rimedio agli squilibri e che si sono ispirate al decentramento; ai moltissimi progetti volti a uno sviluppo economico sostenibile, su piccola scala, basato su economie integrate; a un riconoscimento dei valori della montagna da fette sempre di ampie di popolazione italiana e straniera[17]. Effetto della combinazione di pandemia, innalzamento delle temperature in città e progetti che rendono noti i paesi, è stato un boom turistico che ha aperto nuovi interrogativi su un futuro per le aree interne alternativo rispetto al turismo di massa[18].

 

Le aree interne nella storia d’Italia tra disastri e resilienza

L’insistenza sul termine resilienza presuppone che le aree interne si siano dovute rigenerare e mettere in discussione a seguito di un disastro (lato sensu o stricto sensu). L’attenzione agli spazi marginali – in ordine cronologico delle Alpi, degli Appennini e dell’Italia interna rurale – non è mancata da parte delle istituzioni dell’Italia unita, ma per circa un secolo si è trattato di attenzione legata ai progetti di nazionalizzazione, di integrazione, quindi all’interno del modello di sviluppo delle aree centrali[19].

Più che di violenza evenemenziale per le aree interne italiane si può parlare di slow violence, almeno per tutto il primo secolo di vita unitaria. Il discrimine tra la fine di un’epoca di declino e l’emergere di una nuova prospettiva per le aree interne viene individuato, dagli abitanti delle stesse, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Nel 1971 Armando Spirito, un contadino intervistato da Nuto Revelli, poteva senza alcun dubbio affermare che nulla rimanesse ancora in vita nel proprio paesino collinare del Cuneese, se non la concreta speranza di una inversione di rotta:

Qui va a perdere tutto! […] Va proprio tutto a perdere. […] Se dura poi sempre così per i giovani va bene. Ma non dura. […] Noi non lo vediamo più, ma cambierà. Qui tornerà tutto popolato come una volta[20].

 

Disastri: 1861-1871

Ma quando era iniziato il lento declino delle aree interne italiane? Si può affermare che la questione iniziò con la formazione dello stato-nazione che unì a tendenze di lungo periodo – quali l’aumento della popolazione e la ricerca di nuove terre da mettere a coltura – fattori di ordine congiunturale – quali il cambiamento del regime proprietario e l’idea che la proprietà privata dovesse essere, per sua natura, svincolata dalla protezione del manto boschivo – che accelerarono il fenomeno del diboscamento avviatosi nel corso del secolo XVIII[21]. Nella convinzione che le terre marginali, contraltare della modernità e afflitte dalla malattia della arretratezza, avrebbero raggiunto la dinamicità economica e la redenzione morale solo se inserite nei circuiti del libero mercato e se investite dalla «grande trasformazione», l’intervento – e in un primo momento il non intervento – statale contribuì al cambiamento irreversibile del volto del Regno. Una rivoluzione politica, economica, sociale e giuridica stava rileggendo il territorio in chiave marcatamente liberista: nuovi assetti proprietari, nuove forme di uso e gestione delle risorse, nuovi rapporti sociali, nuova legislazione si imposero nel corso del primo ventennio postunitario[22]. Oltre alle aree in rilievo, gli stessi fenomeni investirono le aree paludose: non a caso l’Ottocento venne definito come «il secolo della bonifica»[23].

Le nuove politiche statali infersero un duro colpo alla diversità delle attività economiche montane, determinarono un clima sociale di diffusa povertà e provocarono la estraneazione dei gruppi rurali dalla gestione autonoma delle risorse[24]. Inoltre, la distruzione di una cospicua parte del patrimonio boschivo, unita all’assenza o alla mancanza di efficacia delle norme preunitarie in vigore, finì con il generare un sostanzioso aumento nel numero delle frane e delle alluvioni in quasi tutte le aree della penisola[25]. Solo nel 1877 si riconobbe ufficialmente la prima funzione pubblica di questa periferia della nazione: ai boschi montani venne affidata la difesa dell’ordine idrogeologico, necessaria soprattutto alla sicurezza delle valli e delle pianure sottostanti. L’articolo 1 della prima legge forestale del Regno, approvata appunto nel 1877, dichiarava vincolati le vette e le pendici dei monti situati sopra la zona del castagno nel caso in cui esse potevano, una volta disboscati o dissodati, «dar luogo a scoscendimenti, smottamenti, interramenti, frane, valanghe, e con danno pubblico, disordinare il corso delle acque, o alterare la consistenza del suolo» (Legge forestale n. 3917 – Serie 2a – del 20 giugno 1877). Le terre più alte del Paese andavano conservate boscate se si volevano evitare frane, alluvioni, erosione e perdita di fertilità[26]. Alle norme varate nel 1877 seguì la legge 1° marzo 1888 n. 5238, con la quale si tentò di promuovere il rimboschimento attraverso la costituzione di consorzi volontari. Nonostante entrambi questi provvedimenti si limitassero alla difesa del manto forestale in quanto «male necessario», per usare una espressione del noto economista agrario Ghino Valenti, i risultati ottenuti furono estremamente deludenti.

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la questione montana assommava disagio socio-economico e degrado ambientale. Le proposte elaborate da tecnici e legislatori non si erano poste come obiettivo il miglioramento della

miserabile condizione sociale dei montanari, cresciuti in numero e con scarsi mezzi di sussistenza, costretti all’emigrazione stagionale e a mettere a coltura anche terreni in pendenza non idonei alla coltivazione. Mancava la coscienza, nei rappresentanti delle élites urbane, di una questione sempre più urgente, che diveniva evidente solo quando i montanari, stremati dalla povertà, emigravano in città, dove spesso accrescevano le schiere dei mendicanti[27].

E anche dal punto di vista ecologico, in senso stretto, la situazione non poteva certo dirsi migliore: studi stimano che il diboscamento riguardò una superficie di circa 30.000 ettari all’anno nel periodo tra il 1874 e il 1906[28] e fra il 1870 e il 1912 la superficie boschiva si ridusse approssimativamente tra il 15 e il 30%[29].

Se il centro della neoistituita nazione era il valore di scambio, il regno del valore d’uso non poteva che trasformarsi in periferia. E poiché periferia, la montagna continuava a essere concepita come zona sacrificabile in funzione dei bisogni del centro della nazione e le sue comunità continuavano a essere comunità sacrificabili, fatta eccezione per le opinioni di Arrigo Serpieri[30]. All’inizio del Novecento, a contribuire all’inversione del trend negativo della superficie forestale italiana contribuì l’attribuzione di una nuova funzione pubblica ad Alpi e Appennini: la produzione di energia idroelettrica. Il rimboschimento diventò un nuovo strumento di sfruttamento[31]. Non sempre la disponibilità di carbone bianco si tradusse in seri e duraturi vantaggi economici per la montagna. Tale fonte di energia si era sviluppata grazie a innovazioni tecnologiche che verso la fine del secolo XIX resero possibile il trasporto dell’energia elettrica a distanza, per cui la facile trasportabilità dell’energia andò a rafforzare dei rapporti di dipendenza economica e ad accentuare il divario tra pianura e alture e anche tra comunità vicinissime le une alle altre, ma con vocazione turistica differente. Alcune indagini relative all’area alpina dimostrano come la speranza che l’elettrificazione potesse offrire nuove opportunità lavorative per le comunità residenti, mutò presto in delusione e evidenziano come questa nuova modernizzazione montana fu una «rivoluzione economica sfavorevole alla montagna stessa»[32].

Diga del lago del Serrù (lago artificiale per la produzione di energia idroelettrica), agosto 2022, © David Moloney @dr_academic_nomad Instagram (riproduzione autorizzata dall’autore)

 

Durante il regime fascista la questione demografica e il rapporto tra montanari e territorio conquistarono gli onori della propaganda[33] e quelli della scienza. Gli effetti della slow violence divennero oggetto di interesse. La prima monumentale indagine scientifica, in otto volumi, sulla montagna italiana vide le stampe tra il 1932 e il 1938, per iniziativa dell’Istituto nazionale di economia agraria e del Consiglio nazionale delle ricerche[34]. La necessità di uno studio sistematico sulla crisi dell’insediamento alpino era stata ufficialmente segnalata dal presidente del Club alpino italiano nell’agosto del 1926, a cui fece seguito il vivo interesse del Comitato nazionale per la geografia del Cnr, il quale, nel 1929, stabilì contatti privilegiati con l’Inea allo scopo di condurre uno studio economico di tutte le montagne italiane. In collaborazione con il comando della Milizia forestale, il Touring club, il Cai e il Segretariato per la montagna, fu approntato un questionario sullo spopolamento e si stabilì un piano organico di ricerche per tutto l’arco alpino[35]. Il risultato superò le aspettative iniziali e allargò il campo di indagine all’Appennino settentrionale e centrale, ma le conclusioni, come si legge dalla introduzione, potevano applicarsi benissimo anche ai rilievi meridionali[36]. Se i numeri evidenziavano fenomeni quantitativi chiave – silvicoltura in decadenza, numero dei capi di bestiame in preoccupante diminuzione, rese agricole misere, primi segni di spopolamento – erano al contempo incapaci di rivelare il «malessere latente» espresso dall’abbassamento del tenore di vita e dalla tendenza a un esodo, seppure frenato. Alle motivazioni economiche si univano quelle psicologiche, le nuove aspirazioni e i nuovi bisogni proiettavano le giovani generazioni verso uno stile di vita urbano e lontano da quelle alture, ormai avvertite come «pericoli, miserie, balzelli». Ma le montagne stesse e l’economia agraria stavano cambiando, si apprestavano a trasformarsi in zone accessorie, in sobborghi dei centri industriali[37].

Il secondo conflitto mondiale congela, se non aggrava, la questione montana. Le testimonianze degli anni Cinquanta mostrano delle somiglianze stridenti con quelle di vent’anni prima. Una pubblicazione a cura del Comitato italiano problemi degli alpigiani ribadiva il ruolo centrale delle «insoddisfazioni psicologiche» nel determinare l’abbandono delle plaghe alpine. Nel 1959 si registravano ancora casi di tifo per la mancanza di acqua potabile nelle abitazioni; l’assistenza medica era sporadica e al più generica; la dieta contemplava il consumo di carne solo in occasioni festive e si basava essenzialmente su cereali, patate, legumi, latticini, castagne e polenta; l’abbigliamento si limitava allo stretto indispensabile; lo svago e l’intrattenimento contavano su pochissimi cinematografi e apparecchi radio e su qualche banda musicale, club sciistico, bocciofila, piccola biblioteca[38]. Chi si sarebbe mai accontentato di una esistenza così grama alla vigilia del decennio d’oro dell’economia italiana? Nell’Italia centrale e settentrionale vi erano «zone veramente arretrate, zone di desolazione e di miseria» dove le condizioni di vita sembravano ferme a quelle di inizio Novecento e dove la civiltà era entrata solo per far nascere desideri e aspirazioni irraggiungibili. La rivista milanese “Omnibus” pubblicò nel 1950 un articolo dal titolo Mezzogiorno del Nord corredato da una serie di fotografie di comuni montani e collinari, tutti rigorosamente silenti, deserti e vuoti[39].

A chiudere questo primo secolo di vita nazionale arrivò nella forma di fast violence, il 9 ottobre 1963, il disastro del Vajont. 300 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dalla montagna e generarono un violento e imponente movimento di acqua nel bacino idrico. La fuoriuscita d’acqua provocò la morte di circa 2.000 persone. Il progetto della diga del Vajont fu un disegno estremamente ambizioso volto alla produzione di energia idroelettrica. Il progetto impiegò diversi decenni per ottenere il via libera ai lavori da parte del governo che arrivò nel 1957. I lavori vennero condotti dalla ditta Sade e durante la costruzione diversi segnali di cedimento e instabilità del versante della valle del Vajont vennero segnalati dalla popolazione, ma silenziati dalle classi dirigenti e dalla Sade stessa. Gli influenti poteri economici non solo non fermarono la costruzione della diga, ma riuscirono a evitare anche le modifiche che avrebbero mitigato i rischi di un potenziale disastro[40].

Il formidabile sviluppo economico che l’Italia sperimentava nell’arco di un quarto di secolo, tra il 1948 e il 1973, non stava solo determinando tassi di crescita del prodotto pro capite superiori al 5% l’anno[41], ma stava anche accentuando e amplificando fragilità e squilibri di lunga durata, tra Nord e Sud e tra pianura e rilievi. L’Italia appariva polarizzata: da un lato, le grandi città, specialmente quelle del Nord, animate da posti di lavoro, servizi, attività edilizia, rendita immobiliare, infrastrutture; dall’altro, le zone rurali interessate da spopolamento, isolamento, marginalità economica e sociale[42].

 

1971-oggi: resilienza

Quando la marginalizzazione territoriale raggiungeva la massima espansione e quando l’intero Paese si apprestava a diventare una vasta area satellite di pochi centri urbani, iniziarono a verificarsi due processi complementari in grado di sconfessare qualsiasi previsione. Per la prima volta dall’Unità si assistette al rallentamento della crescita demografica delle grandi città in favore degli insediamenti circostanti e al freno dell’esodo dalle regioni montane. Nei primi anni Settanta, infatti, si combinarono diversi fattori, quali la diminuita attrattività e capacità di assorbimento delle grandi città e delle aree di emigrazione del dopoguerra, il rientro di una parte degli emigrati, gli effetti delle politiche perequative attuate nel ventennio precedente, un incipiente dinamismo economico distribuito in primis nelle Alpi, poi nell’Appennino settentrionale e infine nell’Appennino meridionale[43].

Il dibattito parlamentare degli anni 1969-1971, che portò alla istituzione delle Comunità montane (legge 3 dicembre 1971, n. 1102), prendeva le mosse dalle ormai conclamate condizioni di sottosviluppo, di abbandono e di impoverimento delle realtà montane, dal rischio tangibile di «svuotamento come entità socio-economiche» che esse correvano[44]. Le montagne smettevano però di essere il luogo depresso desideroso di un intervento assistenziale e si trasformavano in aree suscettibili di sviluppo, nel quadro di una generale programmazione nazionale volta a ridurre gli squilibri[45].

L’attenzione alle comunità locali è la cifra distintiva di quel clima culturale, così come la diffusione di analisi su scala regionale[46] e in alcuni casi provinciale[47]. I decenni Settanta e Ottanta videro un fiorire di ricerche volte alla attivazione economica delle risorse latenti in contesti ben delimitati e alla individuazione di possibili linee di intervento programmato realisticamente ancorate alla dimensione locale. Gli obiettivi ultimi di ogni analisi rimanevano quelli di ridurre il divario esistente, avviare uno stretto coordinamento tra politica economica e politica territoriale. A venire descritte come aree svantaggiate, aree interne, territori periferici non economicamente autosufficienti, zone appena toccate dai processi di sviluppo, emblema della marginalizzazione erano – stando a una valutazione del 1979 – il 65% della penisola distribuito per il 36% nell’Italia settentrionale, per il 18% nell’Italia centrale e per il 46% nell’Italia meridionale[48].

Nel 1973 la Regione Basilicata fu uno dei primi enti a promuovere, almeno sulla carta, progetti per la valorizzazione delle proprie vocazioni naturali incentrati sul rilancio di zootecnia, forestazione, olivicoltura, viticoltura, turismo e artigianato. L’urgenza di tali provvedimenti era dettata dalla consapevolezza che ci si trovasse davanti all’ultima occasione di salvare il patrimonio tradizionale[49]. All’inizio degli anni Ottanta vide la pubblicazione una approfondita analisi, condotta dal Centro di formazione e studi per il Mezzogiorno, in cui due realtà completamente diverse, ma paradigmatiche, venivano messe a confronto. La scelta ricadde su Campania e Calabria, su una regione caratterizzata da una forte armatura urbana e con rilevanti fenomeni di polarizzazione interna e su un’altra regione dove i centri urbani superavano di poco i 100.000 abitanti. L’andamento demografico e il sistema economico-produttivo rappresentavano i due ambiti di ricerca da combinare per individuare soluzioni volte a contenere l’esodo e raggiungere un tenore di vita soddisfacente per le popolazioni locali[50]. Se la destinazione agro-silvo-pastorale rimaneva la prospettiva più indicata per queste terre, meglio ancora se strutturata sotto forma di cooperativa[51], l’entroterra mostrava una qualche originalità di evoluzione. Nelle Marche, ad esempio, si passò nel dopoguerra da una iniziale fase pre-industriale a un modello basato sulla piccola e media impresa in grado di instaurare un rapporto abbastanza equilibrato tra attività primaria e secondaria[52].

Come appare evidente, nei primi tre decenni di vita della Repubblica fu il Sud a essere soggetto e oggetto della questione territoriale, e non perché altrove la situazione fosse diversa, bensì perché era al Sud che in quegli anni si attuava una trasformazione che, nel Settentrione prima e nell’Italia centrale poi, si era già verificata. Contemporaneamente a questo trend nazionale, per via di sovvenzioni pubbliche e/o per resilienza delle comunità, in diverse aree interne meridionali fino agli anni Ottanta si continuavano a incontrare realtà vive e autentiche, ricche di tensioni e fermento culturale; si registrava microimprenditorialità, dinamismo, operosità, livelli di benessere di gran lunga più elevati di quelli consentiti da un contesto economico dominato da una agricoltura improduttiva. Questa contraddizione venne spiegata teorizzando il concetto di «equilibrio del sottosviluppo»: quel faticoso processo di adattamento e di continui aggiustamenti aveva di volta in volta ricreato un tipico, anomalo ma efficiente equilibrio economico, ovviamente destinato a non rimanere stabile[53]. Come già accennato in precedenza e come ha dimostrato lo storico Gauro Coppola, la potenzialità dei fenomeni, piuttosto che la fattualità di essi, deve informare l’analisi delle criticità legate alla montagna e alle aree interne[54].

Alla attenzione, soprattutto teorica, non corrispose una immediata e concreta inversione di tendenza pur riscontrabile in ben delimitati contesti locali. Nuove superfici, soprattutto collinari, furono interessate da estensivazione e abbandono e all’«incolto ecologico» seguiva e si sommava l’«incolto sociale»[55]. Dal Friuli alla Basilicata, gli anni Novanta mostravano una montagna «allo stato terminale». Nelle Alpi Orientali «il degrado colpi[va] senza misericordia» e attaccava pian piano le comunità partendo dai suoi elementi più giovani e attivi, costringendoli a cercare altrove migliori condizioni di vita e lavoro. Un degrado lento e inesorabile aveva ridotto le potenzialità sociali della zona, la sua economia e le sue sorgenti di benessere, ne aveva distrutto le basi culturali e aveva allentato i legami tra comunità e ambiente[56]. La bellezza delle aree interne lucane appariva simile a quelle delle nature morte, un susseguirsi di scheletri di villaggi e rilievi sterili. Anche nei paesini del Mezzogiorno lo stile di vita rurale era ormai al collasso[57]. La geografia della penisola era una «geografia degli squilibri» e tale constatazione emergeva guardando all’evoluzione del caso italiano. Serviva un ripensamento profondo degli indirizzi di politica economica:

Gli automatismi dell’economia non lavoravano a favore della convergenza dei livelli di sviluppo: i fattori di produzione non solo non mostravano una perfetta mobilità territoriale, al contrario la viscosità dello spazio geografico, l’impedenza vera e propria del territorio, contribuivano ad assecondare una naturale tendenza alla loro concentrazione in alcuni siti privilegiati e, in queste località, a dare inizio a forme di crescita cumulativa e autopropulsiva. La costatazione che gli squilibri in atto fra sistemi territoriali arretrati mostravano grande pervicacia ad essere sanati, ha indotto non pochi economisti a rivedere criticamente le proprie posizioni e ad occuparsi più specificatamente della variabile territoriale […][58].

Conclusioni

Tra i tentativi di dare voce alle comunità montane all’interno del disegno istituzionale, la capacità del tessuto economico-sociale di garantire la vitalità di luoghi descritti come «sottosviluppati», le nuove prospettive di futuro che analisi su scala locale avanzavano, la marginalità ha spinto a considerare le interconnessioni nascoste tra la ricchezza materiale e le risorse naturali[59]. Negli ultimi due decenni il patrimonio naturale, il verde, la qualità di vita, la bellezza paesaggistica e monumentale e quanto altro rientra nello sviluppo umano hanno acquisito e affermato il loro valore, anche in termini economici[60]. Recenti iniziative volte alla valorizzazione economica hanno proposto nuove reti territoriali per uno sviluppo sociale, ambientale ed economico che parta dalle specificità dei luoghi e delle comunità[61] e a queste forme di resilenza si è aggiunta la rinnovata sinergia tra attori locali e politiche governative della Strategia nazionale per le aree interne.

Infografica del progetto europeo AlpFoodway. Fonte: https://www.alpfoodway.eu/home/italian

L’Agenzia per la coesione territoriale definisce la propria Strategia nazionale per le aree interne (Snai) «una politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese.» Le aree selezionate dalla Snai sono settantadue; ne fanno parte complessivamente 1077 comuni per circa 2.072.718 abitanti[62].

Da un punto di vista storico, i presupposti di questi fenomeni recenti possono essere compresi solo se collocati in un contesto di slow violence e di tentativi di resistere all’omologazione a un modello di sviluppo economico basato sulla singola attività del turismo o sulla funzionalizzazione di questi territori ai centri urbani. Seppure in una rinnovata attenzione al contesto locale e al rilancio dei paesi delle aree interne, fenomeni di nazionalizzazione continuano e mostrano la resilienza di altri modelli economici e la difficile transizione verso l’integrazione tra esigenze locali ed esigenze nazionali[63].

 


Note:

[1] I testi presi in esame sono: A. Angelini, Il mitico Ponte sullo Stretto di Messina. Da Lucio Cecilio Metello ai giorni nostri: la storia, la cultura, l’ambiente, FrancoAngeli, Milano 2011; E. Guidoboni e Gianluca Valensise, Il peso economico e sociale dei disastri sismici negli ultimi 150 anni, Ingv-Bononia University Press, Bologna 2011; A. Malfitano, Un territorio fragile. Dibattito e intervento pubblico per l’Appennino tra Reno e Adriatico (1840-1970), Bononia University Press, Bologna 2011; P. Sorcinelli e M. Tchaprassian, L’alluvione. Il Polesine e l’Italia nel 1951, Utet, Torino 2011.

[2] G. Parrinello, Disastri, territorio e politiche pubbliche, in “Il mestiere di storico”, IV/2, 2012, pp. 67-68. La rassegna storiografica è accessibile online: https://www.sissco.it/download/pubblicazioni/parrinello.pdf (ultimo accesso 29 luglio 2022).

[3] Per rendere più complesso il quadro del degrado ambientale, vale la pena menzionare che la stessa compenetrazione di sociale e ecologico avviene in quei casi che vengono classificati, in prospettiva giuridica, come ecocidi. Per saperne di più, si consiglia il sito https://ecocidelaw.com/polly-higgins-ecocide-crime/ (ultimo accesso 29 luglio 2022).

[4] D. Hilhorst and G. Bankoff, Introduction: mapping vulnerability, in Bankoff G., Frerks G. e Hilhorst D. (a cura di), Mapping Vulnerability: Disasters, Development and People, Earthscan, London 2004, 3-4.

[5] R. Biasillo e M. Armiero, The transformative potential of a disaster: a contextual analysis of the 1882 flood in Verona, Italy, in “Journal of Historical Geography”, 66, 2019, pp. 69-80. Un altro disastro “trasformativo” fu quello di Seveso, che diede il via a nuove forme di tutela ambientale in Italia.

[6] K. Brown, Manual for Survival: A Chernobyl Guide to the Future, W.W. Norton & Company, New York 2019.

[7] G. Malavasi, Storia di una catastrofe continuata, Jaca Book, Milano 2020. Il disastro di Manfredonia avvenne lo stesso anno del disastro di Seveso.

[8] U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2013. Le traduzioni, qui e in seguito, sono dell’autrice.

[9] G. Bankoff, Cultures of Disaster: Society and Natural Hazard in the Philippines, Routledge Curzon, London–New York 2003, pp. 4, 152-153.

[10] A. Coppola, Cambiamento climatico, resilienza e politiche urbane, in “Italiani Europei”, 4, 2016.

[11] P. Mezzi e P. Pelizzaro, La città resiliente. Strategie e azioni di resilienza urbana in Italia e nel mondo, Altra Economia, Milano 2016; M. Losasso, Progetto, Ambiente, Resilienza, in “Techne”, 15, 2018, pp. 16-18.

[12] Interpretare alcune trasformazioni socio-ecologiche come slow violence non esclude la rimozione della fast violence, cioè dell’effetto di un evento estremo e/o concentrato nel tempo. Si veda: J.M. Christian e L. Dowler, Slow and Fast Violence: A Feminist Critique of Binaries, in “ACME – An International Journal for Critical Geographies”, 18/5, 2019, pp. 1066-1075.

[13] R. Nixon, Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Harvard University Press, Cambridge: MA 2011, p. 2.

[14] M. Troilo, Differenze demografiche ed economiche nei comuni montani dell’Appennino abruzzese nel secondo dopoguerra (1951-2001), in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 17, 2012, pp. 125-127.

[15] Le Comunità Resilienti ai Tempi del Covid-19-COM-RES è un progetto promosso dalla Fondazione Finanza Etica e per cui Bottega del Terzo Settore coordina una rete internazionale di partner, tra i quali anche la Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno e Ashoka Italia. Per maggiori informazioni: https://www.youtube.com/watch?v=SI6aC2bAm58&ab_channel=BottegaTerzoSettore (ultimo accesso 29 luglio 2022).

[16] A. Galderisi, P. Fiore, P. Pontrandolfi, Strategie operative per la valorizzazione e la resilienza delle aree interne: il progetto RI.P.R.O.VA.RE, in “Bollettino Del Centro Calza Bini”, 20(2), 2020, pp. 297-316.

[17] E. Borghi, Piccole Italie. Le aree montane e la questione territoriale, Donzelli, Roma, 2017.

[18] Intervista a Michil Costa, albergatore della Val Badia, in “la Repubblica”, 24 agosto 2021.

[19] Per una panoramica sulla storia delle Alpi, degli Appennini, delle aree interne si consigliano: A. Ciuffetti, Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal Medioevo all’età contemporanea, Carocci, Roma 2019; J. Mathieu, Storia delle Alpi 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società, Casagrande, Bellinzona 2000; A. De Rossi, Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma 2018.

[20] N. Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Einaudi, Torino 1997, p. 138. [ed. orig. 1977].

[21] P. Tino, La montagna meridionale. Boschi, uomini, economie tra Otto e Novecento, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea. Vol. 1: Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1992, p. 685.

[22] O. Gaspari, La montagna alle origini di un problema politico (1902-1919), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1992; P. Tino, Territorio, popolazione, risorse. Sui caratteri originali della storia ambientale italiana, in “I frutti di Demetra. Bollettino di storia e ambiente”, 13, 2007, pp. 16-17. Per una panoramica sulla trasfromazione dei boschi italiani nel secondo Ottocento si rimanda a R. Biasillo e M. Armiero, Seeing the Nation for the Trees: At the Frontier of the Italian Nineteenth Century Modernity, in “Environment and History”, 24/4, 2018, pp. 497-518.

[23] E. Novello and J.C. McCann, The Building of the Terra Firma: The Political Ecology of Land Reclamation in the Veneto from the Sixteenth through the Twenty-first Century, in “Environmental History”, 22/3, 2017, pp. 460-485.

[24] R. Sansa, Il bosco tra difesa degli usi consuetudinari e conflitti di mercato, in “Storia Urbana”, 69, 1994, p. 143.

[25] W. Palmieri, Per una storia del dissesto e delle catastrofi idrogeologiche in Italia dall’Unità ad oggi, in “Quaderno Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo”, 164, 2011, pp. 12-15.

[26] B. Vecchio, La questione forestale in Italia nel secondo Ottocento: le cognizioni dei parlamentari nei dibattiti sulla prima legge forestale unitaria (1869-1877), in Assessorato dei Beni Culturali della

Regione Sicilia (a cura di), La cultura del bosco, Istituto di scienze antropologiche e geografiche, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università, Palermo 1993, pp. 123-153; Idem, Un documento in materia forestale nell’Italia del Secondo Ottocento: i dibattiti parlamentari (1869-1877), in “Storia Urbana”, 18, 1994, pp. 177-204; M. Hall, Restoring the Countryside: George Perkins Marsh and the Italian Land Ethic (1861-1882), in “Environment and History”, 4/1, 1998, pp. 98-99.

[27] A. Malfitano, La difficile gestione della dorsale appenninica in età contemporanea: il caso bolognese, in “Storia e Futuro. Rivista di storia e storiografia on line”, 32, 2013.

[28] M. Agnoletti, Osservazioni sulle dinamiche dei boschi e del paesaggio forestale italiano fra il 1862 e la fine del secolo XX, in “Società e Storia”, 108, 2005, 381.

[29] M. Agnoletti, Le sistemazioni idraulico forestali dei bacini montani dall’Unità alla metà del XX secolo, in

Lazzarini A. (a cura di), Diboscamento montano e politiche territoriali. Alpi e Appennini dal Settecento al Duemila, FrancoAngeli, Milano 2002, p. 396.

[30] O. Gaspari, Il segretariato per la montagna (1919-1965), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1994, pp. 7, 19-34.

[31] A. Malfitano, Un territorio fragile. Dibattito e intervento pubblico per l’Appennino tra Reno e Adriatico (1840-1970), Bononia University Press, Bologna 2011, pp. 92-128.

[32] P.P. Viazzo, Transizioni alla modernità in area alpina: dicotomie, paradossi, questioni aperte, in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 12, 2007, pp. 14-16; L. Mocarelli, Il “miracolo economico” valdostano tra mano pubblica e interventi strutturali: una rincorsa truccata?, in “Histoire des Alpes – Storia delle Alpi – Geschichte der Alpen”, 7, 2012, p. 215.

[33]  M. Armiero, Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX, Einaudi, Torino pp. 130-134.

[34] C. Lorenzin e A. Fornasin (a cura di), Via dalla montagna. ‘Lo spopolamento montano in Italia’ (1932-1938) e la ricerca sull’area friulana di Michele Gortani e Giacomo Pittoni, Forum, Udine 2018; G. Macchi Jànica e A. Palumbo (a cura di), Territori spezzati. Spopolamento e abbandono nelle aree interne dell’Italia contemporanea, CISGE – Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, Roma 2019.

[35] R.T. Toniolo, Per uno studio sistematico sullo spopolamento delle vallate alpine italiane, Napoli 1930, p. 11.

[36] U. Giusti, Lo spopolamento montano in Italia. Indagine geografico-economico-agraria. Relazione generale, Istituto Nazionale di Economia Agraria, Roma 1938, pp. xxi-xxiii.

[37] Giusti, 1938, pp. 144, 148, 155.

[38] Comitato Italiano Problemi degli Alpigiani (C.I.P.D.A. – Bergamo ) e Direzione Generale per l’Economia Montana e per le Foreste (Roma), Monografia sulle condizioni economico-sociali delle popolazioni dell’arco alpino italiano, Roma 1959, pp. 29-30.

[39] R. Lucifredi, Per la rinascita della montagna, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1950 pp. 8-12.

[40] M. Armiero, A Rugged nation: Mountains and the making of modern Italy: Nineteenth and twentieth centuries, White Horse Press, Cambridge, pp. 174-194; W. Graf von Hardenberg, Expecting Disaster: The 1963 Landslide of the Vajont Dam, in “Environment & Society Portal, Arcadia”, 8, 2011 (disponibile online: https://doi.org/10.5282/rcc/3401 ultimo accesso 28 luglio 2022); G. Di Baldassarre, J.S. Kemerink, M. Kooy, e L. Brandimarte, Floods and societies: the spatial distribution of water-related disaster risk and its dynamics, in “WIREs Water”, 1, 2014, pp. 133-139; A.P. Dykes e E.N. Bromhead, Hazard from lakes and reservoirs: new interpretations of the Vaiont disaster, in “Journal of Mountain Science”, 19, 2022, pp. 1717-1737.

[41] P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia. 1. Interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 1998, p. XII.

[42] G. Dematteis, Le trasformazioni territoriali e ambientali, in Storia dell’Italia repubblicana. Vol. II: La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Tomo I, Einaudi, Torino 1995, pp. 662-665.

[43] L. Piccioni, Visioni e politiche della montagna nell’Italia repubblicana, in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 44, 2002, pp. 146-149.

[44] G. Piazzoni, Economia montana. La nuova legislazione statale e regionale, Pàtron, Bologna 1974, pp. 137, 155.

[45] Piazzoni, 1974, p. IX.

[46] Si citano tra gli altri: G. Dematteis, Gli squilibri territoriali in Piemonte in una prospettiva geografica, Unioncamere del Piemonte, Torino 1967; A. Filangieri, La Campania interna: squilibri territoriali e direzioni d’intervento, Franco Angeli, Milano 1975; G. Santeusanio, Analisi degli squilibri territoriali in Abruzzo, C.R.E.S.A, L’Aquila 1975.

[47] A.K. Vlora, Gli squilibri territoriali nel costituendo comprensorio del Nord Barese, Adriatica, Bari 1972.

[48] S. Di Salvo, Sviluppo delle aree interne del territorio nazionale, Federazione Nazionale della Cooperazione Agricola, Roma 1979, p. 7.

[49] Regione Basilicata, Quattro proposte di progetti speciali, 1973.

[50] Formez, Progetto aree interne. Elementi generali e introduttivi, Formez, Napoli 1981, pp. XI-XIII, 173.

[51] L. Filippis e C. Nardone, Origini, sviluppo e caratteristiche della cooperazione agricola in quattro aree interne del Mezzogiorno, Formez, Napoli 1985, p. 97.

[52] F. Bronzini e P. Jacobelli, Sviluppo industriale in aree interne e processi di trasformazione del modello insediativo, Franco Angeli, Milano 1983, pp. 17-19.

[53] G. D’Angelo (a cura di), Gli squilibri nelle aree interne del Mezzogiorno, la regione dei Nebrodi. Appunti per una ipotesi di progetto integrato di sviluppo, Giuffré, Milano 1983, pp. 5-7.

[54] G. Coppola, La montagna alpina. Vocazioni originarie e trasformazioni funzionali, in Bevilacqua P. (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea. Vol. 1: Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 529-530.

[55] B. Vecchio, Geografia degli abbandoni rurali, in Bevilacqua, 1989, p. 348.

[56] C. Barazzuti, Irresistibilmente attratti dalla pianura. Il degrado dell’economia e della società del Friuli, IRES F-Vg, Udine, pp. 65-67.

[57] J.R. McNeill, The Mountains of the Mediterranean World. An Environmental History, Cambridge University Press, Cambridge,1992, pp.  1-2.

[58] A. Celant, Geografia degli squilibri. I fattori economici e territoriali nella formazione e nell’andamento dei divari regionali in Italia, Kappa, Roma, 1994, pp. 10-11.

[59] P. Bevilacqua, L’«osso», in “Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali”, 44, 2002, pp. 8-9.

[60] P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. pp. 165-167.

[61] Alcuni esempi sono la rete Sweet Mountains, nata a Torino nell’autunno 2014 su iniziativa dell’Associazione Dislivelli, e il progetto di collaborazione interregionale promossa dall’Unione Europea AlpFoodway.

[62] Agenzia per la coesione territoriale, Strategia Nazionale Aree Interne, https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/ (ultimo accesso 29 luglio 2022).

[63] R. Biasillo, TAV. Storia e mito della “grande opera”, in “Il lavoro culturale”, 12 marzo 2019, https://www.lavoroculturale.org/tav/roberta-biasillo/2019/ (ultimo accesso 29 luglio 2022).

Dati articolo

Autore:
Titolo: Resilienza o Slow Violence?
DOI: 10.52056/9791254693162/03
Parole chiave: , , ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Resilienza o Slow Violence?, Novecento.org, n.18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/03

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