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C’era una volta l’Italsider a Bagnoli

Abstract

La storia della grande acciaieria dell’Italsider di Bagnoli è paradigmatico dell’andamento sussultorio di un secolo – il ‘900 – di siderurgia in Italia e dell’ascesa e declino del capitalismo pubblico. La sua chiusura, avvenuta dopo una pluridecennale attività, rappresenta un caso esemplare dei processi di deindustrializzazione che hanno investito il Mezzogiorno sul finire del ‘900. Il dossier si presta per una lezione frontale documentata, oppure per uno studio di caso, come quello indicato alla fine.

Foto del IV Altoforno dell’Italsider di Bagnoli, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc5

Foto del IV Altoforno dell’Italsider di Bagnoli, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc5

Testo per i docenti

C’era una volta l’Italsider a Bagnoli: dalla crisi alla «dismissione».

Che il titolo non inganni: si parlerà di un caso che ancora si proietta sul presente, come dimostra il commissariamento, deciso dal governo Renzi nel 2014, dell’immensa area dell’ex-fabbrica, circa 2 milioni di mq, in seguito al fallimento di “Bagnolifutura”, il crac da 124 milioni di euro della società incaricata di sovrintendere alla bonifica e alla valorizzazione dei suoli. Si tratta di un caso, quello della chiusura dell’acciaieria meridionale in mano al capitale pubblico, sul quale hanno versato fiumi d’inchiostro giornalisti, sindacalisti, economisti, sociologi, storici, proponendo analisi, ricostruzioni e chiavi di lettura delle sue vicende e delle ragioni che hanno portato allo smantellamento, pressoché per intero, del gigantesco stabilimento.

Dalla crisi dell’acciaio alla chiusura dell’Italsider di Bagnoli.   

Il 20 ottobre 1990, con l’ultima colata, viene spenta l’«area a caldo» del centro siderurgico di Bagnoli, uno dei più grandi d’Europa, la cui costruzione era cominciata 84 anni prima, nel 1906, grazie alla «Legge per il risorgimento economico di Napoli» del 1904, ispirata e fortemente voluta dal meridionalista Francesco Saverio Nitti. Intorno alla metà degli anni ‘90 del secolo da poco trascorso, inizia la dismissione di quello che gli operai partenopei chiamavano «‘O cantiere». Si consuma così il destino della «città del ferro», la cui storia impronta di sé quella della Napoli operaia e produttiva del Novecento, intrecciandosi con la vita di generazioni di lavoratori e con i percorsi dell’Italia industriale [doc. 1]. I processi dell’economia, le guerre mondiali, le lotte sociali e politiche scandiscono le tappe dell’accidentato cammino dell’Ilva-Italsider di Bagnoli, della fabbrica per antonomasia della città di Napoli, che ha rappresentato un luogo emblematico per le sue dimensioni [doc. 2], per la concentrazione di forza-lavoro, per il contributo alla crescita economica, incarnando nel Mezzogiorno le speranze di trasformazione e di riscatto.

La sua lunga agonia, cominciata negli anni ‘70, è stata un capitolo non secondario, un autentico preannuncio del declino del capitalismo pubblico, del ridisegnarsi dell’Italia industriale, della nuova fisionomia che essa ha assunto con la fuoriuscita da settori nevralgici quali la chimica e l’informatica, e con il ridimensionamento della sua presenza in quello siderurgico. L’Italsider di Bagnoli – secondo la denominazione che prende l’impianto nel 1961, quando l’Ilva si fonde con la Cornigliano – si immette in un piano inclinato a partire dalla prima metà degli anni ‘70, allorché scoppia la crisi mondiale dell’acciaio, dovuta a una serie di cause tra loro legate: l’eccesso di capacità produttiva provocata da ambiziosi programmi d’investimento; l’agguerrita concorrenza del Giappone e dei paesi di nuova industrializzazione, tra cui la Corea del Sud e il Brasile; l’assottigliarsi degli spazi nei mercati delle zone economicamente più mature. Lo stabilimento di Napoli finisce per risentire specialmente delle erronee scelte operate dai successori dell’ingegner Oscar Sinigaglia, a lungo massimo esponente della siderurgia pubblica italiana [doc. 1]. Non riuscendo a prevedere l’evolversi effettivo del settore a livello internazionale, essi avevano scommesso sull’incremento quantitativo della produzione, convogliando enormi risorse nella realizzazione e nell’ampliamento del grandissimo complesso di Taranto, mentre condannavano quello di Bagnoli ad un rapido invecchiamento tecnologico.

Le proposte di ristrutturazione, soprattutto quelle basate sull’ipotesi della «progressiva chiusura», avanzate tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio del decennio successivo, incontreranno la ferma opposizione del lavoratori, che si battono anche contro le richieste e le imposizioni della Comunità Economica Europea (Cee) [doc. 7-8]. Dopo un’intensa fase di lotte sindacali, si giunge alla travagliata decisione dell’ammodernamento dell’impianto. Il 10 maggio 1984 viene siglato un accordo tra la Federazione unitaria dei metalmeccanici (FLM) e l’azienda che, di fatto, dimezza la forza-lavoro in cambio di un futuro meno incerto sul terreno produttivo. Ma la promessa non sarà mantenuta.

Un altro passaggio fondamentale si ha nel settembre 1985, con l’irrevocabile rifiuto dei vertici aziendali di procedere alla riparazione, giudicata lunga e costosa, della rottura della gabbia del nuovo e modernissimo treno di laminazione BK. Senza di esso e puntando esclusivamente sui coils e sulla banda stagnata, l’Italsider di Bagnoli sarebbe stata più vulnerabile, perché maggiormente esposta alle oscillazioni del mercato. Ci si avvia così all’epilogo di una storia che ha visto svanire l’opzione, a Napoli e nel Mezzogiorno, di una modernizzazione basata sulla trasformazione industriale. Alto è il prezzo pagato dalla forza-lavoro, che viene man mano espulsa dal circuito produttivo: dal picco massimo di 7.911 unità, toccato nel 1977, essa scende nel 1986 a 4.174, per poi ridursi sempre più drasticamente. Peraltro a Napoli e nella sua conurbazione, tra il 1977 e la prima metà degli anni ‘80, è un susseguirsi di licenziamenti, di ricorsi alla cassa integrazione: accanto all’Italsider vanno ricordati i casi della Snia Viscosa, dell’Indesit, dell’Alfa-Nissan, delle industrie della zona orientale, della Mecfond, senza dimenticare le difficoltà della Selenia, delle fabbriche flegree e la smobilitazione dei cantieri edili (quelli regolari, mentre proliferano quelli abusivi).

Dismissione economica, fine della centralità operaia

Sul piano generale, l’esplodere e poi la conclusione del caso Bagnoli attestano il tramonto della centralità operaia nell’immaginario della società italiana e nell’orizzonte strategico delle stesse forze della sinistra; certificano l’arretramento del movimento dei lavoratori, già battuto e umiliato alla Fiat nel 1980 con la «marcia dei quarantamila» per le strade di Torino e sottoposto a ripetuti attacchi, tra cui il «decreto di San Valentino» del governo presieduto dal socialista Bettino Craxi, che taglia nel febbraio 1984 alcuni punti della scala mobile e propizia la divisione tra le organizzazioni sindacali.

«Chiudere Bagnoli – afferma in un’intervista del novembre 1989 un sindacalista napoletano della Cisl, Salvatore Maglione – significa cancellare un pezzo di storia industriale … [e] … dopo l’ammodernamento chiudere uno stabilimento all’avanguardia come questo significa compiere un delitto industriale» [doc. 9].

Paradossale ed emblematica, infatti, risulta la decisione, presa nel 1989, di smantellare l’impianto di Bagnoli, che sarà poi svenduto per 20 miliardi di lire alla Cina e all’India, benché fosse stato ammodernato e reso più sostenibile ecologicamente con un investimento, alla metà degli anni ‘80, di circa 1200 miliardi: grave e palese appare lo sperpero di danaro pubblico [doc 10-11]. Molteplici attori e fattori sono stati responsabili della liquidazione del «gigante di fuoco» [doc. 5]: la crisi che ha messo in ginocchio in Europa i bacini siderurgici d’antico insediamento, incapaci di fronteggiare l’emergere di nuovi poli produttivi (come abbiamo accennato sopra), le pressioni della Cee; le scelte della coalizione governativa imperniata sull’asse Dc-Psi; la subalternità dei governi italiani ai partner europei più forti (Francia, Germania) e agli interessi dell’imprenditoria privata; la progressiva riduzione della presenza pubblica nell’economia, cosa che penalizzerà non poco il Mezzogiorno; l’adozione della ricetta «meno Stato più mercato» in ossequio ai dettami ideologici del neoliberismo che, dopo decenni di oscuramento, ha trovato nel premier britannico Margaret Thatcher e nel presidente statunitense Ronald Reagan i suoi principali interpreti politici.

La fine dell’esperienza dell’Italsider di Bagnoli si situa dentro i processi di deindustrializzazione, innescati anche dal fenomeno su larga scala del decentramento produttivo, del trasferimento   delle attività industriali nelle aree dove la manodopera costa molto poco e non è affatto tutelata sul piano sindacale e ambientale. Tutto ciò favorisce l’affermarsi In Italia del «capitalismo molecolare», i distretti delle piccole e medie imprese chiamati ad affrontare le sfide inedite del mercato globale. La destrutturazione delle grandi concentrazioni operaie spiana, peraltro, la strada al diffondersi e moltiplicarsi  delle occupazioni flessibili, mutevoli, precarie, con la riduzione del lavoro a merce e il baratto tra diritti e lavoro. È lo scenario sociale delineatosi con la vittoriosa controffensiva capitalistica degli anni ‘80, allorché i ceti dominanti si prendono una clamorosa rivincita, innovando le tecnologie, scomponendo forme e luoghi della produzione, rivoluzionando le sue stesse strutture. Anche e forse soprattutto questo racconta il caso dell’acciaieria napoletana, dismessa tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.

Con la chiusura dell’Italsider di Bagnoli, che era arrivata ad occupare sino a circa 8.000 addetti (25.000 se si considera l’intero indotto), termina un capitolo importante della storia del movimento dei lavoratori e della città di Napoli, che si avvia a perdere le caratteristiche di centro industriale e a composizione operaia nell’area occidentale e in quella orientale della sua estensione. Si sfalda un pezzo di società strutturato, in grado di costituire un’alternativa al sistema di potere locale imperniato sugli interessi dei gruppi immobiliari e sulla gestione clientelare della spesa pubblica. Con l’estinzione sociale dei «caschi gialli» di Bagnoli, assurti sul finire degli anni ‘60 a punto di riferimento del movimento operaio cittadino, si dilapida un patrimonio di competenze e conoscenze tecniche accumulatosi nel corso dei decenni; si prosciuga un serbatoio di coscienza civile e politica, che aveva pervaso i quartieri limitrofi con la fabbrica e non solo; si sbriciola un presidio democratico, un argine alla diffusione dell’illegalità, delle reti e dei comportamenti criminali.

Al contrario di quanto era stato promesso, i caschi gialli, le tute blu, le officine e i capannoni industriali non saranno sostituiti che, in minima parte, da un nuovo fatto di «terziario avanzato», di automazione e computer, né dal prendere corpo di un’attraente zona turistico-alberghiera. Purtroppo l’affacciarsi alla modernità post-industriale coincide con l’apertura di una lunga ed estenuante partita – tuttora in corso – sulla sorte e l’utilizzo dell’enorme area dell’ex-fabbrica.

Qualche passo indietro e un po’ di storia.

La chiusura e lo smantellamento dell’Italsider di Bagnoli sono l’esito di una storia cominciata nel primo decennio del ‘900, quando la fabbrica faceva parte del gruppo Ilva. Inaugurata ufficialmente il 19 giugno 1910 – ma già produceva dal 1909 [doc. 3] – l’acciaieria è lo sbocco più importante di un’iniziativa legislativa promossa dal grande meridionalista Francesco Saverio Nitti, la cui linea industrialista prevale su quella mirante ad esaltare la vocazione turistica della città partenopea («Napoli albergo e museo»). Puntare sulla ghisa, il ferro e l’acciaio in una realtà come quella partenopea, dove la disoccupazione riguardava ampi strati della popolazione, sembra una soluzione ottimale.

Sorta su una superficie di 1.200.000 mq, l’Ilva di Bagnoli è il primo stabilimento siderurgico a ciclo completo: un considerevole livello tecnologico e un’elevata concentrazione operaia connotano quella che è un’industria ad alta intensità di capitale, bisognosa di massicci investimenti. Con la Grande guerra conosce uno sviluppo notevole: le maestranze, assoggettate alla giurisdizione militare, passano dalle 2.000 unità iniziali a 4.000 addetti, provenienti da tutto l’hinterland partenopeo.

Venute meno le commesse statali nel 1919, la crisi di riconversione postbellica, che accende la conflittualità operaia, porta nel 1921 alla prima chiusura dell’impianto di Bagnoli. Rimodernato con un investimento di oltre 20 milioni di lire, dopo essere stato parzialmente riaperto nel 1925, riprende a funzionare nel 1926, mentre anche il vecchio stabilimento di Torre Annunziata viene rinnovato.

Negli anni Trenta l’Ilva, al pari di tutta la siderurgia nazionale, è investita dalle ripercussioni della crisi del 1929. Lo Stato è costretto ad intervenire in soccorso di banche e imprese con la costituzione dell’Imi e dell’Iri. Quest’ultimo assume, peraltro, il controllo dell’Ansaldo e dell’Ilva, che divengono industrie a partecipazione statale. La situazione per l’Ilva di Bagnoli e per tutta l’area partenopea rimane certamente difficile. Neppure la valorizzazione di Napoli come «porto dell’Impero», ossia come snodo fondamentale dei rapporti coi possedimenti d’oltremare, è in grado di risolvere, se non in minima parte, i problemi del popoloso centro urbano. Anzi si accentua il divario tra Nord e Sud, anche se il regime fascista sin dal 1932 si era affrettato ad archiviare la «questione meridionale». Nel 1937 il regime fascista approva il «Piano Sinigaglia», che prevede la riconversione a ciclo integrale degli stabilimenti siderurgici. Quello di Bagnoli è quasi interamente riprogettato e realizzato da tecnici tedeschi. Ancora una volta – si è in tempo di autarchia e di riarmo – ci si affida alle commesse statali, trascurando la necessità di dotarsi di un’effettiva attrezzatura commerciale. Inoltre, la conversione a ciclo integrale è ultimata solo nel 1942, vanificando di fatto l’utilizzazione della sua capacità produttiva a fini bellici.

Uscita pressoché indenne dai bombardamenti anglo-americani, l’Ilva viene, invece, gravemente danneggiata da guastatori della Wehrmacht, che non incontrano difficoltà nel demolirla, in quanto ingegneri tedeschi l’avevano qualche anno prima ideata e costruita. All’arrivo degli anglo-americani sono ancora in piedi gli scheletri delle macchine e delle gru, parte delle costruzioni in muratura ridotte in rovina. Nonostante l’entità delle devastazioni (gli impianti a ciclo integrale erano stati distrutti nella misura del 77%), le proposte per la ripresa non mancano. Tuttavia, gli Alleati si dimostrano sordi a queste richieste, ma tali resistenze sono superate dalle maestranze, che di loro iniziativa recuperano i macchinari rendendo di nuovo operanti alcuni reparti.

Con la ripresa produttiva nell’Italia della ricostruzione postbellica [doc. 4] si varano i programmi di riassetto della siderurgia pubblica, secondo il piano steso da Oscar Sinigaglia [doc. 1]. Industria a partecipazione statale (dal 1933 appartiene al gruppo Iri), l’Ilva di Bagnoli, che nel 1961 prende il nome di Italsider, dipende da decisioni elaborate da vertici societari chiamati a rispondere alle coalizioni governative guidate per un cinquantennio dalla Democrazia Cristiana (Dc). Tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘60 essa contribuisce al «miracolo economico» italiano, producendo acciaio laminato. Negli anni ‘60 e ‘70 la fabbrica, il cui percorso non può essere disgiunto da quello del quartiere circostante, viene vista, sempre più, non solo come mezzo di sostentamento sicuro, ma come occasione di progresso sociale, di politicizzazione e partecipazione democratica.

Tuttavia, il quadro economico è destinato a cambiare per effetto della crisi energetica esplosa nel 1973 e soprattutto per le scelte dei successori di Sinigaglia, che penalizzeranno l’impianto di  Bagnoli. Dopo un vero e proprio braccio di ferro tra azienda, lavoratori e sindacati, si arriva al 3 novembre 1981, «il martedì nero di Bagnoli», quando il ministro Gianni De Michelis, in un’assemblea di oltre 2.000 lavoratori, propone lo spegnimento dell’altoforno e 6 mesi di cassa integrazione [doc. 6]. È trascorso quasi un anno dal terremoto del 23 novembre 1980 a Napoli e in Irpinia e intanto si è acuita la crisi dell’acciaio a livello mondiale. Passa la linea della ristrutturazione basata sulla costruzione di un nuovissimo, avanzato treno di laminazione e 4.000 operai finiscono in cassa integrazione. Il treno rimarrà in funzione per 5 anni, producendo molto al di sotto delle sue potenzialità; poi verrà svenduto per 20 miliardi, quando ormai è in atto la cancellazione dell’industria pubblica.

Bibliografia
  • Mirella Albrizio e Maria Antonietta Selvaggio (a cura di), Vivevamo con le sirene. Bagnoli tra memoria e progetto, La Città del Sole, Napoli 2001.  
  • Bagnoli. Lo smantellamento dell’Italsider. Fotografie di Vera Maone. Testi di Rossana Rossanda e Fabrizia Raimondino, Mazzotta, Milano 2000.  
  • Circolo Ilva di Bagnoli. Cento anni. Bagnoli tra passato e futuro, Liguori, Napoli 2009.
  • Giuseppe Dall’Occhio (a cura di), Bagnoli. Storia fotografica dell’Ilva-Italsider … dalla nascita allo smantellamento … alla bagnoli futura, La Città del Sole, Napoli 2009.
  • Aurelia Del Vecchio, Un luogo preciso, esistito per davvero. L’Italsider di Bagnoli Prefazione di Francesco Soverina, Polidoro, Napoli 2014.
  • Italsider. Una fabbrica, una città, numero monografico del Bollettino dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, maggio 1983, a. 6, n. 1.
  • Floriana Mazzuca, Il mare e la fornace. L’Ilva Italsider sulla spiaggia dei Bagnoli a Napoli, prefazione di Maurizio Valenzi, Ediesse, Roma 1983.
  • Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002.    
  • Francesco Soverina (a cura di), La memoria d’acciaio. Una fabbrica, un quartiere, una città, ICSR 2010.

Dvd e sitografia

  • Aldo Zappalà, Mario Leombruno, Luca Romano Il cuore e l’acciaio, www.lastoriasiamonoi.rai.puntate.it    
  • Francesco Soverina e Marco Spatuzza, La memoria d’acciaio. Una fabbrica, un quartiere, una città, ICSR 2010. (Durata 20 minuti).

Il dossier

Il documento 1 presenta una breve ma incisiva riflessione di Vittorio Foa (1910-2008), antifascista che per anni ha languito nelle carceri di Mussolini, poi dirigente sindacale della Cgil, esponente del Psi, del Psiup  e, nel 1972, tra i fondatori del Pdup.

La visione della vastissima area, dove per decenni le ciminiere avevano emesso fumi e gas, lo induce a rievocare il ruolo ricoperto dalla siderurgia nell’Italia del ‘900, a richiamare le trasformazioni innescate dalle grandi acciaierie, tra cui quella di Bagnoli, simbolo al tempo stesso di innovazione e progresso, ma anche del repentino passaggio dalla modernità all’archeologia industriale, dal rumore assordante dei macchinari, dal pulsare delle lotte dei lavoratori a uno spettrale silenzio.

C’è da osservare come la fiducia riposta, dal protagonista e testimone di tante battaglie sindacali e politiche, nel tentativo di riqualificazione dell’area sia stata successivamente smentita dalla fallimentare gestione della bonifica e valorizzazione dei suoli.

Infine, il documento 1 consente di approssimarsi alla comprensione del grumo di speranze ed illusioni suscitate dalla presenza e dall’attività di una fabbrica siderurgica, come quella di Bagnoli, nella storia del Mezzogiorno e dell’Italia novecentesca.

I documenti 2-3-4-5 sono foto che ritraggono lo stabilimento di Bagnoli nel suo insieme o parti importanti di esso. Scattate in periodi diversi (1909, 1955, anni ‘60), attestano tutte le dimensioni gigantesche della fabbrica, simbolo dell’industria pesante e di un modo di produrre e lavorare ben distante da quelli prevalenti nell’attuale fase storica. Dovute a prestigiosi fotografi italiani, mostrano anche operai intenti ad assolvere compiti duri e rischiosi, alle prese con il fuoco e le scintille della colata degli altiforni.

I documenti 6-7 consistono in foto che rimandano a due momenti significativi della lunga e complessa partita giocata da numerosi attori sulla ristrutturazione dell’acciaieria di Bagnoli. La prima mostra il ministro del Psi Gianni De Michelis sonoramente fischiato, il 3 novembre 1981, dai lavoratori, dopo aver proposto lo spegnimento dell’«area a caldo», di fatto la chiusura dell’impianto. Qualche anno più tardi, cambierà posizione e, con lui, il suo partito. Il destino d’«‘O cantiere» rimarrà, però, nelle mani dei vertici politici nazionali, nonché della Commissione europea. I lavoratori, non a caso, individueranno proprio in essa un ostico avversario ed organizzeranno una trasferta a Bruxelles, per portare – come mostra la seconda foto – la loro protesta dinanzi alla sede degli organismi comunitari. Solo che lo faranno il 23 luglio 1983, giorno della festa nazionale belga, in una città semivuota e con le saracinesche dei negozi abbassate.  

Il documento 8 riproduce un comunicato stampa emesso dalla Federazione napoletana del Partito Comunista Italiano, il 24 luglio 1987, in cui si denunciano gli orientamenti ostili della Cee a discapito della siderurgia nazionale; l’incapacità del governo italiano a tutelarne gli interessi in ambito comunitario; nonché l’operazione, caldeggiata dal deputato europeo craxiano Enzo Mattina e da settori dell’imprenditoria, volta a trasformare Bagnoli in una zona turistico-alberghiera. Inoltre, si individua la principale questione da risolvere nella ridefinizione del rapporto tra gruppi privati e aziende pubbliche.

Il Pci napoletano – si legge nel documento – si dichiara contrario alla linea del ridimensionamento dei livelli produttivi e occupazionali e favorevole, invece, a far leva sulle potenzialità dell’impianto di Bagnoli, divenuto – dopo la ristrutturazione della metà degli anni ‘80 – uno «tra i più moderni ed avanzati d’Europa». Il Pci si schiera, dunque, a difesa dello stabilimento e dei suoi lavoratori, molti dei quali si riconoscono o addirittura militano nel Partito comunista, che ha una delle sue roccaforti in città proprio nell’Italsider e nel quartiere di Bagnoli.

Occorre tener presente che nel gruppo dirigente del Pci napoletano non tutti sono propensi ad impegnarsi in una battaglia che rischia di essere persa. Si fa sentire la sindrome da sconfitta, che aveva preso piede in seguito al ribaltamento dei rapporti di forza tra movimento sindacale e padronato, ribaltamento sancito prima dall’epilogo del braccio di ferro alla Fiat di Torino nel 1980 e poi dall’insuccesso, nel 1985, del referendum promosso dalla maggioranza della Cgil e dal Pci per abrogare il «decreto di san Valentino» del febbraio 1984.

Il documento 9 propone un’interessante intervista rilasciata, nel novembre 1989, da Salvatore Maglione, un sindacalista napoletano della Csil che, dopo aver lavorato dal 1956 al 1982 nel centro siderurgico di Bagnoli, si è battuto per la sopravvivenza dello stabilimento, per la difesa di un polo occupazionale di notevoli dimensioni e di una fucina di conoscenze e competenze tecniche.

Dalle sue risposte vien fuori, innanzitutto, che quello che a lungo è stato il maggiore impianto industriale del Mezzogiorno era un «luogo infernale», caratterizzato da dure condizioni di lavoro, con escursioni termiche fortissime, turni molto pesanti e disparità di trattamento economico fra gli operai, svantaggiati inoltre dal persistere sino al 1967 delle «gabbie salariali», ossia del regime di retribuzioni inferiore rispetto a quello del Nord. Tuttavia, emerge pure che l’entrare a far parte di un «colosso della siderurgia», come quello di Bagnoli, da un lato rappresentava una meta ambita, specialmente in un contesto sociale in cui negli anni ‘50 prevalevano le occupazioni al nero, dall’altro dava la possibilità di crescere sul piano professionale e di formarsi una coscienza sindacale.

Nelle domande e repliche finali viene posta al centro dell’attenzione la sorte dell’acciaieria e dei suoi lavoratori. L’eventualità della sua chiusura, dopo essere stata resa alla metà degli anni ‘80 una fabbrica «all’avanguardia», anche in termini di impatto ambientale, è considerata dal sindacalista una prospettiva catastrofica, un «delitto industriale», in grado di azzerare un pezzo di storia e di relazioni umane e sociali.

I documenti 10-11 rinviano, attraverso alcuni scatti fotografici, all’atto conclusivo della storia dell’Ilva-Italsider di Bagnoli: la demolizione e lo smontaggio dei suoi impianti, una parte dei quali verrà comprata e portata via da acquirenti cinesi. La «dismissione» lascerà in eredità alla città il nodo della riqualificazione dell’intera area su cui si estendeva la grande fabbrica siderurgica.

Glossario

Capitalismo pubblico

Il termine fa riferimento ai settori della vita economica direttamente o indirettamente controllati dallo Stato e dai suoi apparati. In Italia, dal 1933 e sino alla fine del secolo ventesimo, ha occupato un ruolo, a dir poco, rilevante l’Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale a partecipazione statale, nato per superare le dirompenti conseguenze della crisi degli anni ‘30 e divenuto, nel secondo dopoguerra, il maggior perno dell’economia nazionale.

Colata (colata continua) 

Processo di produzione industriale nel corso del quale un materiale liquido (metallo) attraversa, per forza gravitazionale, una forma permanente ad alta conducibilità termica a fondo aperto, detta lingottiera, ricavata in rame e raffreddata esternamente con acqua e lubrificata per impedire l’usura a freddo.

Coils o nastri

Fogli sottili d’acciaio. Sono prodotti piatti laminati che, subito dopo la laminazione, vengono  avvolti in rotoli. A seconda della larghezza si distinguono in nastri stretti e medi.

Dismissione

Il termine è stato utilizzato qui non in senso tecnico, ma rifacendosi al titolo di un famoso libro di Ermanno Rea (2002), che racconta la storia dello smantellamento dell’acciaieria di Bagnoli, simbolo di una città che ha visto evaporarsi la speranza della modernizzazione basata sulla trasformazione industriale.

Indotto

È l’insieme di piccole e medie imprese o esercizi artigianali che forniscono all’industria principale «parti elementari necessarie alla realizzazione dei prodotti finiti».

Neoliberismo

Affermatasi su scala planetaria tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 del ‘900, è una corrente politico-economica che si propone di ridurre al minimo l’intervento dello Stato, affidando l’economia unicamente alle leggi del mercato, considerato lo strumento ottimale per l’incremento e la redistribuzione delle risorse.

Scala Mobile

Strumento volto a ritoccare automaticamente i salari in funzione degli aumenti dei prezzi, al fine di contrastare la diminuzione del potere d’acquisto dovuto all’aumento del costo della vita, secondo quanto valutato con un apposito indice dei prezzi. Applicata su scala generale dal 1975, nel 1992 viene definitivamente soppressa.

Centri siderurgici a ciclo integrale

Negli stabilimenti a ciclo integrale si parte dalle materie prime per ottenere, attraverso una serie di lavorazioni, un prodotto intermedio, la ghisa greggia, e come prodotti finiti gli acciai. Mediante l’impiego di altiforni, funzionanti giorno e notte, si realizza un ciclo produttivo continuo, che non si fermerà prima che sia trascorso un periodo molto lungo.

Testo per gli allievi

La «dismissione»: ragioni e significato della chiusura di una grande fabbrica.

Il 20 ottobre 1990, dopo l’ultima colata, viene spenta l’area a caldo del centro siderurgico di Bagnoli, uno dei più grandi d’Europa. La sua attività era cominciata 84 anni prima, nel 1906, grazie alla «Legge per il risorgimento economico di Napoli» del 1904, ispirata e fortemente voluta dal meridionalista Francesco Saverio Nitti. Intorno alla metà degli anni ‘90 del secolo scorso, inizia la «dismissione» di quello che gli operai chiamavano «‘O cantiere». Si consuma così il destino della «città del ferro», la cui vicenda ha una valenza che trascende l’ambito locale, in quanto si intreccia strettamente con il cammino dell’Italia industriale, con il Novecento e i suoi aspetti fondamentali, con le esperienze e l’esistenza di intere generazioni di lavoratori.

Paradossale ed emblematica al tempo stesso risulta la decisione presa nel 1989 di smantellare l’impianto di Bagnoli, svenduto per 20 miliardi di lire alla Cina e all’India, benché fosse stato ammodernato e reso più sostenibile ecologicamente con un investimento, alla metà degli anni ‘80, di circa 1200 miliardi.

Molteplici attori e fattori sono stati responsabili della liquidazione del «gigante di fuoco»: la crisi mondiale dell’acciaio, che – a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 – ha colpito i bacini siderurgici d’antico insediamento, alle prese anche con l’aggressiva concorrenza del Giappone e dei paesi di nuova industrializzazione; le pressioni della Cee; la subalternità dei governi italiani ai partner europei più forti (Francia, Germania) e agli interessi dell’imprenditoria privata; la progressiva riduzione della presenza pubblica nell’economia, cosa che penalizzerà non poco il Mezzogiorno; l’adozione della ricetta «meno Stato più mercato» in sintonia con le parole d’ordine del neoliberismo, il cui rilancio dopo mezzo secolo veniva promosso, sulle due sponde dell’Atlantico, dai leader conservatori anglosassoni Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Con la chiusura dell’Ilva-Italsider di Bagnoli, che era arrivata ad occupare sino a circa 8.000 addetti (25.000 se si considera l’intero indotto), si accelera il dissolversi della Napoli operaia e produttiva, di una parte importante e misconosciuta della sua storia. È un momento di svolta per la città, che da quel momento vede accentuarsi il fenomeno della deindustrializzazione nell’area occidentale, nonché in quella orientale. Più in generale, la fine dell’esperienza dell’Ilva-Italsider di Bagnoli si colloca dentro i processi che portano al declino dell’Italia industriale, al suo ridimensionamento in settori produttivi nevralgici, al deperimento delle grandi concentrazioni operaie, al frantumarsi e moltiplicarsi del lavoro nei mille rivoli delle occupazioni flessibili, mutevoli, precarie.

Con l’estinzione sociale dei «caschi gialli» di Bagnoli, assurti sul finire degli anni ‘60 a punto di riferimento del movimento operaio cittadino, viene meno un presidio democratico, un serbatoio generatore di senso civico, un argine alla diffusione dell’illegalità, delle reti e dei comportamenti criminali. Si apre da allora una lunga ed estenuante ‘partita’ sulla sorte e l’utilizzo dell’area dell’ex-fabbrica, circa 2 milioni di mq, il cui ultimo capitolo è stato il fallimento di “Bagnolifutura”, il crac da 124 milioni di euro della società incaricata di attuare la bonifica e la valorizzazione dei suoli.

Documenti

Doc. 1

Vittorio Foa: considerazioni di fronte ad «un blocco di silenzio».

«A Napoli con Sesa e una gentile amica, Titti Marrone del «Mattino». Titti ci porta a vedere Bagnoli dall’alto e dal basso. La grande fabbrica è ormai un blocco di silenzio. Dove per anni avevo incontrato migliaia di operai nel frastuono delle macchine e nella tensione di estenuanti lotte sindacali, c’è adesso un relitto di archeologia industriale che invita al ricordo. Ripenso alla nascita della siderurgia a ciclo integrale che innovò dalle radici la produzione dell’acciaio: il calore dell’altoforno che fondeva la ghisa arrivava a produrre i manufatti meccanici. Negli anni Cinquanta arrivarono i grandi impianti, prima Cornigliano, poi Piombino e Bagnoli, infine Taranto. Dal Nord al Sud tutte le piccole e medie acciaierie scomparvero per dare spazio alla modernità. Animatore di questa grande ristrutturazione era stato il fascistissimo ingegner Oscar Sinigaglia. L’aveva già tentata nel 1912 ma ne era stato impedito dall’Unione Siderurgica coi suoi padroni del vapore, aveva ritentato col suo amico Mussolini ma non era arrivato in tempo. Gli riuscì solo dopo la seconda guerra, con la democrazia. Quelle nuove grandi fabbriche avevano sulla mia mente un impatto forte, esse erano il futuro: il ciclo integrale era il simbolo della nuova Italia industriale, ero convinto che quello sarebbe stato per almeno trecento anni il modello della nostra modernità. E adesso, dopo solo trenta-quaranta è il passato. Dal silenzio di Bagnoli traggo una diversa percezione dei tempi della storia. E non si tratta solo della tecnica. Avevamo tenacemente difeso per anni, come segno di civiltà, una attiva e massiccia presenza operaia nel cuore di Napoli; adesso l’architetto Vezio De Lucia ha progettato il ritorno di Napoli alla dignità della natura e il coraggio del sindaco Bassolino lo ha tradotto nei fatti. E noi abbiamo applaudito. (1997)».

(da Vittorio Foa, Passaggi,Einaudi, Torino 2000, pp. 181-182).

Doc. 2 

Foto dello stabilimento siderurgico di Bagnoli negli anni ‘60 in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, Archivio dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’età Contemporanea [AICSR].

soverina_doc2Doc. 3

Foto del primo altoforno installato nel 1909 in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR .

soverina_doc3Doc. 4 

Foto dell’Officina della Sezione Sau (Servizi automazione) in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc4

Doc. 5

Foto del IV Altoforno dell’Italsider di Bagnoli, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc5

Doc. 6

Foto dell’assemblea del 3 novembre 1981 con il ministro Gianni De Michelis nel magazzino Sbozzati, sez. Laminatoi, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc6

Doc. 7

Foto della manifestazione dei lavoratori a Bruxelles il 23 luglio 1983 dinanzi alla sede della Cee, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc7

Doc. 8

Sulla crisi della siderurgia e dell’Italsider di Bagnoli.

«La Federazione comunista napoletana esprime profonda preoccupazione per gli orientamenti provenienti dalla Cee che puntano ad assestare ulteriori colpi alla siderurgia italiana e determinano una grande incertezza sui programmi produttivi e sui livelli occupazionali dei singoli stabilimenti.

Incredibile è poi l’idea del deputato europeo Enzo Mattina, sostenuta da forti gruppi imprenditoriali, di fare dell’area di Bagnoli un centro turistico-alberghiero. Si tratta, com’è evidente, di una proposta superficiale e stravagante che non coglie i problemi di fondo del settore siderurgico di Bagnoli, da tutti gli esperti riconosciuto come un impianto tra i più moderni ed avanzati d’Europa.

I problemi della siderurgia italiana non si risolvono con i tagli di livelli produttivi e occupazionali. Il nodo più grosso da sciogliere per la riorganizzazione del comparto siderurgico è il rapporto tra pubblici e privati.

Il Pci chiede che venga immediatamente costituito un comitato di garanti per definire in maniera corretta il rapporto tra pubblici e privati nelle singole produzioni e chiede che il governo italiano sia fortemente impegnato a difendere gli interessi della siderurgia italiana in sede di trattativa comunitaria.

Le responsabilità della Finsider e del governo per l’insieme del settore siderurgico e per lo stabilimento di Bagnoli sono gravi. Il PCI ribadisce il proprio impegno a sostegno della lotta dei lavoratori dell’Italsider, affinché l’impianto di Bagnoli mantenga la sua destinazione produttiva e sia rapidamente messo in grado di raggiungere i livelli produttivi, l’assetto impiantistico e i livelli occupazionali previsti dagli accordi sottoscritti dal sindacato».

Comunicato stampa della Federazione napoletana del Pci, 24 luglio 1987. Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.

Doc. 9

Intervista a Salvatore Maglione, prima operaio siderurgico, poi sindacalista Cisl di Napoli, che racconta trent’anni di fabbrica.

[…] Sanguigno e pronto alla battuta, ma anche fiero nei suoi principi, siderurgico doc prima ancora che sindacalista, Salvatore Maglione, 52 anni, componente di segreteria della federazione dei metalmeccanici Cisl di Napoli, è stato alla testa di tutte le lotte per la difesa dello stabilimento flegreo, e non demorde neppure oggi che la proroga Cee per la chiusura dell’altoforno sembra davvero l’ultima e che il destino di Bagnoli a medio termine appare segnato. Maglione ha lavorato nell’Italsider fino al 1982, ma in pratica è come se ci fosse ancora, in costante contatto com’è con il consiglio di fabbrica e i lavoratori. Ha tre figli […] dai quali lo separa la storia. Loro, questo è certo, non conosceranno mai l’inferno. Non rivivranno l’esperienza del padre, approdato a Bagnoli nel 1956, a soli diciott’anni. Un ricordo incancellabile per Maglione, ma per nulla angosciante, tanto che ne parla quasi con compiacimento.

Erano proprio così difficili le condizioni di lavoro all’Italsider?

Altroché. Sembrava di stare in un girone dantesco.

Che lavoro faceva?

Entravo nel convertitore.

Entrava dove?

In quell’affare a forma di pera dove si fonde la ghisa per ricavarne acciaio.

E cosa ci faceva lì dentro?

Dovevo rimuovere il materiale refrattario vecchio e sostituirlo col nuovo. Il tutto per assicurare che le pareti esterne del convertitore non venissero logorate dal fuoco. Il problema erano i tempi di raffreddamento.

In che senso?

Eravamo costretti a ripulire quel coso rapidamente. Non si poteva fermare il ciclo dell’acciaio. Entravamo nel convertitore quando la temperatura era ancora elevatissima. Ne uscivamo ogni paio di minuti con i panni fumanti. Riuscire a resistere per tre minuti era roba da guinness dei primati.

E accettavate tutto questo senza protestare?

Se è per questo il pericolo era per noi pane quotidiano. Pulivamo anche i binari dove passavano i carrelli che raccoglievano l’acciaio dai convertitori. Questi restavano in funzione mentre noi operavamo e tutt’intorno volavano anche scorie e scintille.

Avevate tute d’amianto

Non tutti. C’era chi si arrabbattava alla meno peggio.

Quali erano i vostri turni?

Eravamo divisi in squadre. Per due settimane lavoravamo per otto ore da lunedì a sabato e per dodici la domenica. Nella terza settimana arrivava la vacanza domenicale.

Quanto guadagnava?

Seicento lire al giorno. Per quanto mi riguarda, ero penalizzato due volte. Dalle gabbie salariali, che stabilivano per il Sud retribuzioni inferiori a quelle del Nord, e dalla mia età. I più giovani allora guadagnavano meno, una questione di fasce d’età.          

Certo che lei, come futuro sindacalista …

Ma cosa vuole, a quei tempi queste cose erano all’ordine del giorno. Anzi. Io mi sentivo fiero di lavorare in quello che allora, con i suoi diecimila lavoratori, rappresentava il più grande complesso industriale del Mezzogiorno. E poi, con l’Italsider c’era un rapporto di lavoro legale, sancito da un contratto. Un’anomalia per un’epoca in cui la regola era il lavoro nero.

Vuol dire che si considerava un privilegiato?

In un certo senso sì. D’altra parte, il posto in fabbrica per me significava garantire un appoggio indispensabile alla mia famiglia. Tanto che feci i salti mortali per evitare il servizio militare. Riuscii solo a differirlo fino al 1962.

Quando ha deciso di fare sindacato?

Avevo un diploma di specializzazione in elettrotecnica. Un lusso per le mie mansioni originarie. La mia cultura era comunque di un livello superiore rispetto a quella dei miei compagni di lavoro, che finirono per restarne affascinati. Mi chiedevano spiegazioni tecniche, gli faceva piacere di sentirmi conversare. Diventai un punto di riferimento nella fabbrica, prima ancora di prenderne coscienza.

Ma quando avvenne la svolta? 

All’inizio degli anni Sessanta cambiai funzioni. L’azienda acquistò il treno Loevi, uno strumento sofisticato per quei tempi, che produceva dei nastri stretti, predecessori dei moderni coils. Furono assunti dei giovani in possesso di preparazione specifica. Io, grazie ai miei studi, fui uno dei soli tre interni adibiti al treno. Azionavo le gabbie motrici. Confrontarmi con un gruppo di giovani preparati e culturalmente meno disponibili all’ossequio ed alla sopportazione rispetto ai precedenti compagni fu un’esperienza decisiva. Ad aiutarmi però fu anche un altro elemento.

Quale?

Vede far parte dell’Italsider, di un colosso della siderurgia, significa aver cavalcato prima degli altri tutte le battaglie sindacali di rilievo degli anni Sessanta. Dalla lotta per l’inquadramento a quella per ottenere dignitose condizioni operative, alla battaglia contro i ricatti del lavoro a cottimo.

Vuol dire che l’Italsider è stata anche una scuola sindacale?

Certo. Non a caso da Bagnoli sono usciti tanti quadri del movimento da Gabriele Rescigno, a Rosario Oliverio, Giovanni Agrillo, Vittorio Di Capua, Antonio Esposito, Catello Cangiano, Vittorio Ciccarelli, Mariano Autiero. E potrei continuare.

Pensa che lo stabilimento di Bagnoli abbia un futuro?

È difficile. Oggi comunque abbiamo una scadenza per la chiusura dell’altoforno, quella del 31 dicembre 1990, ed è su quella che dobbiamo confrontarci con i vertici dell’Ilva. Vogliamo la definizione di un assetto impiantistico e industriale dell’Italsider che tenga conto del diktat imposto dalla Cee. Precisando gli investimenti necessari, sia che si debbano utilizzare forni elettrici sia che si debba arricchire la gamma dei prodotti.

Come mai, se è ancora deciso a dare battaglia per Bagnoli, è pessimista sul suo futuro?

Ho la sensazione che il governo questa fabbrica l’abbia già svenduta. A cominciare dalle scelte fatte per il piano di risanamento della siderurgia. È in qual contesto che è stato deciso il sacrificio di Bagnoli. Oggi i rappresentanti governativi dicono che lo stabilimento flegreo è strategico, ripetono formule adottate da noi tempo addietro, quando non erano state ancora poste le pesanti ipoteche che gravano oggi sull’Italsider. Così, quello dei politici sembra un atteggiamento strumentale.

Ma perché allora prodigarsi ancora per l’Italsider?  

Chiudere Bagnoli significa cancellare un pezzo di storia industriale. L’Italsider non è solo una fabbrica. Sono tante le iniziative che lo attestano. Dal centro Vitas con i suoi 5.500 donatori di sangue alla struttura Giffas che assiste più di settanta bambini subnormali, alle attività sportive. Tra calcio, tennis, pallacanestro e canottaggio, sono 856 i giovani che praticano discipline sportive grazie alle strutture interne o annesse allo stabilimento. Le varie attività sono aperte a tutti, non solo ai lavoratori ed ai loro parenti.

Sono solo queste le ragioni per salvare Bagnoli?

Naturalmente no. Il motivo più importante è che, dopo l’ammodernamento, chiudere uno stabilimento all’avanguardia come questo significa compiere un delitto industriale. Con i benefici della ristrutturazione organizzativa, l’Italsider può presentare bilanci in nero.

È cambiata molto l’Italsider dal 1956?

C’è una differenza abissale. Attualmente si lavora con due calcolatori centrali, 23 computer periferici di processo, 54 personal. Per non parlare dei centomila metri quadrati di verde attrezzato, degli impianti ecologici che hanno sostituito le ciminiere. Questo patrimonio, frutto anche delle nostre battaglie, merita di essere conservato.

Cosa pensa della reindustrializzazione? Un suo collega, Aldo Velo, sostiene che i lavoratori siderurgici non possono fare i commessi dei supermercati.

Questa è una sua opinione. Sono comunque d’accordo che si debba evitare di disperdere un bagaglio di conoscenze tipico della cultura industriale. In questo senso per un casco giallo può essere preferibile trasferirsi all’Aeritalia piuttosto che lavorare ai Gs o alla Standa.  

Salvatore Maglione, L’Italsider era un inferno. Non voglio che chiuda ora che è quasi un paradiso, «Napoli oggi» 22-29 novembre 1989. Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.

Doc. 10

Foto relativa alla demolizione degli impianti negli anni ‘90, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc10

Doc. 11

Foto relativa alla demolizione degli impianti negli anni ‘90, in Fondo Lavoratori Ilva-Italsider, AICSR.soverina_doc11

 

Attività didattica

1. Rapporto tra tema e contesto

2. Lavoro sui documenti

  • Trova nei documenti 1-8-9 termini e parole chiave che rimandano alla specificità dell’industria siderurgica, in particolare dell’Italsider di Bagnoli. Aiutandoti con il lessico messo a tua disposizione, chiariscine il significato.
  • Dopo aver esaminato le foto, in particolare i documenti 6-7, 10-11, prova a rintracciare nei documenti 1-8-9 aspetti ed elementi riferibili al declino del capitalismo pubblico in Italia.
  • Quale immagine di Napoli e del Mezzogiorno emerge dai documenti 1-2-8-9? Prova a raffrontarle con quelle tuttora prevalenti in un certo senso comune.
  • Servendoti della documentazione fotografica e delle notazioni contenute nei documenti 1 e 9, delinea alcune caratteristiche essenziali della grande industria novecentesca.

3. Integrazione del testo

  • Dopo aver letto attentamente i documenti 8-9 e averli confrontati con il testo, esponi in un breve paragrafo i principali motivi che hanno portato alla chiusura della grande acciaieria meridionale.
  • Servendoti del testo e dei documenti 1-8-9, 10-11 proponi le tue considerazioni sul significato dello smantellamento del gigantesco impianto di Bagnoli.
  • Arricchisci il testo con elementi d’analisi e le osservazioni più importanti, che avrai desunto dalla lettura della documentazione contenuta nel dossier. Tieni presente anche la documentazione fotografica, che è in stretto rapporto con quella scritta.

 

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Dati articolo

Autore:
Titolo: C’era una volta l’Italsider a Bagnoli
DOI: 10.12977/nov186
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.8, agosto 2017
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, C’era una volta l’Italsider a Bagnoli, Novecento.org, n. 8, agosto 2017. DOI: 10.12977/nov186

Dossier n. 8, agosto 2017

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